La pena che uccide la speranza: cerchiamo di non dimenticarcene mai Il Mattino di Padova, 27 giugno 2016 A parlare di ergastolo, fra le persone "che contano", praticamente c’è solo il Papa, e a lui pensano gli ergastolani come all’ultimo barlume di speranza. Noi continuiamo però, come diceva Fabrizio De Andrè, ad andare "in direzione ostinata e contraria", non smettendo mai di raccontare una pena così disumana, con l’illusione che qualcuno, se non ascolta noi, ascolti almeno le parole di Papa Francesco. L’ergastolo ti ruba tutto ciò che ti ruba la morte Il mio nome è Giuseppe Zagari. Sono ergastolano e porto questa pena sulle spalle, giustamente, dal 1992. Dico "giustamente" perché sono consapevole del mio passato. Confesso che non so da dove iniziare per definire quella cosa chiamata ergastolo. È talmente complicato narrare i suoi effetti che mi viene da domandarmi: cosa può dire un morto della propria morte? certamente nulla. La morte è così brutta e spaventosa che solo il pensiero ci ammutolisce. Ci spaventa perché sappiamo che è l’opposto della vita, cioè la cancellazione di tutto ciò che è sensoriale: i colori, il viso di una persona cara, il calore di un abbraccio nel momento del bisogno, la tenerezza di una carezza, il pianto sulla spalla di chi sai che ti vuole bene. Si, la morte è l’essenza di tutto ma ha un vantaggio che l’ergastolo non ha, e qui voglio citare un piccolo passaggio di Ignazio Silone ne "Il segreto di Luca": "Si racconta di uomini che hanno accettato la morte per il proprio amore, ma Luca per me, cioè per il suo amore, ha fatto assai di più. Ha accettato l’ergastolo che è più della morte: la morte dura un attimo e richiede un coraggio momentaneo. L’ergastolo è un’esistenza". L’ergastolo ti ruba tutto ciò che ti ruba la morte, ma ti lascia la vita per morire ogni giorno. Potrei raccontarvi come trascorro il tempo, ma credo vi annoierei come mi annoio io nel vivere appunto questo tempo; per questo ritengo inutile entrare nei particolari. Ma per rendere un po’ il concetto di tempo per l’ergastolano, vi faccio un piccolo esempio dove vi chiedo di immedesimarvi per soli 5 minuti: fatevi chiudere nella vostra cameretta più bella dove avete tutti i confort tranne di poter uscire da lì dentro quando vorreste farvi due passi sotto il cielo. Se questi 5 minuti diventano ore, poi giorni, poi anni 20-30 e più, cosa pensate rimarrà di voi rispetto al momento dell’ingresso? Io vi dico che non resterà più nulla di ciò che eravate e ciò che siete adesso. La vostra personalità viene annullata. Si diventa come degli automi che mangiano per vivere e vivono con la speranza di morire una sera, andando a letto dopo aver guardato per l’ennesima volta le foto di chi si ama. Io non voglio criticare nessuno, anche perché non sono nella posizione di poterlo fare. So soltanto che sono un ergastolano e lo merito tutto. Perciò non è questo il punto, il punto è che io voglio pagare i miei errori, ma non posso farlo se il debito mi è lasciato per tutta la vita. Cosa pago se non finisco mai di pagare? Pagare vuol dire estinguere un debito, non estinguere l’uomo del debito. Non è con il male che si vince. Sono certo che neppure il più cattivo dei cattivi saprà rispondere ad una carezza con una sberla, anche lui risponderà con un gesto affettuoso e troverà in quel momento un po’ di pace nel suo cuore triste. L’ergastolo merita di essere cancellato definitivamente per la sua crudeltà. Lo Stato non può e non deve comportarsi come me: io sbagliando ho risposto a un delitto con un altro delitto e giustamente sono stato condannato. Chi sbaglia deve pagare, ma non essere dannato per tutta la vita. Ritengo che l’ergastolo senza speranza sia un delitto come lo è una vendetta che esclude categoricamente l’altro. Per questo vorrei che la parola "speranza" fosse anche nella mente dei più cattivi, solo cosi li farebbe diventare un po’ più buoni e magari li inchioderebbe alla propria responsabilità rendendoli più consapevoli dei propri errori. Ritengo che gli uomini che hanno sbagliato, me incluso, non potranno mai riflettere seriamente se vengono buttati in cella come carne marcia e di tanto in tanto magari sballottati da un carcere all’altro, come si usa fare. Capisco che molte volte ci sono esigenze particolari, ma bisogna sempre comunque guardare il lato umano dei reclusi. Con questo so bene che non bisogna mai dimenticare le vittime. Loro sono e devono essere il punto cardine delle nostre riflessioni. Giuseppe Zagari Papa Francesco: un uomo solo contro la "Pena di Morte Viva" Papa Francesco continua instancabile a ispirare i legislatori italiani a ridare speranza a coloro che ora sono condannati all’ergastolo, perché sa che senza speranza non si può vivere. E nell’Anno Santo della Misericordia, continua a lottare, quasi in solitudine, contro l’esistenza in Italia della condanna di morte mascherata o nascosta, come chiama lui la pena dell’ergastolo. Durante un incontro organizzato dalla Pontificia Accademica delle Scienze Sociali, Francesco riafferma il suo "no" alla pena di morte e all’ergastolo. Il Pontefice ha chiesto di "comminare pene che siano per la rieducazione dei responsabili e cercare il loro reinserimento nella società" sottolineando che "fare giustizia non è la pena in se stessa. Non c’è pena valida, senza la speranza. Una pena chiusa in se stessa, che non dà possibilità alla speranza, è una tortura non è una pena." (Fonte: rainews.it, 4 giugno 2016) Caro Francesco, la vita con una pena senza fine è una non vita. E assomiglia a una morte al rallentatore, perché veniamo ammazzati un po’ tutti i giorni e tutte le notti, e perché ormai dentro di noi non esistono più futuro e speranza. Questa terribile pena ci spoglia di ogni cosa. Ci rimane solo l’amore, ma alla lunga ci levano anche questo. Vivi, o sopravvivi, fra sbarre e cemento e con un paio di ore d’aria all’aperto in un cortile, a volte con una grata sopra la testa, a fare avanti e indietro, da un muro all’altro, discutendo di nulla con altre anime perse senza alcun pensiero e futuro per decenni e decenni. Pensa che moltissimi ergastolani hanno passato più anni della loro vita in carcere che fuori. Caro Francesco, un mio compagno, un ergastolano che conosco solo per lettera, che ha visto alla televisione il servizio di Lino Lombardi del TG2 quando mi ha intervistato a Roma durante il permesso per partecipare a una tua udienza generale a piazza San Pietro, mi ha scritto: Sono 16 anni che ci scriviamo, la prima foto tua e tu quella mia risale al tempo… del calendario degli ergastolani… Però non ti ho visto mai parlare, perciò ieri ho conosciuto un altro aspetto, l’accento un po’ toscano che si percepisce dalle tue parole. Le immagini mi hanno commosso…. Quando guardavi la vetrina di un negozio da fuori…. Io ho pensato a quell’enorme spazio fisico in cui eri, dopo 25 anni vissuti in un piccolissimo spazio, ero nella tua testa ero nel tuo cuore, so cosa provavi perché entrambi siamo ergastolani, poi mi sono emozionato quando hai comprato un gelato, non quelli confezionati ma prodotti artigianalmente, un senso di libertà…. Ero, ripeto, emozionato nel vederti…. Vedevo te ma è come se ci fossi io lì, so quello che può provare un essere umano dopo una enorme porzione di vita passata li dentro. Francesco, grazie per quello che continui a dire, ma sembra che proprio che i politici che si considerano "cristiani" non sentano, non vedano e non parlino, forse perché non sanno che la più efficace delle pene è il perdono che ti fa venir fuori il senso di colpa. Se solo sapessero che il senso di colpa è molto più duro da sopportare di una condanna a vita, forse, probabilmente per farci soffrire di più, avrebbero già abolito la pena dell’ergastolo. Un abbraccio fra le sbarre. Carmelo Musumeci In pericolo l’informazione dalle carceri italiane di Bianca Ferrigni myreviews.it, 27 giugno 2016 Dopo vent’anni di attività il quotidiano della casa di reclusione di Padova rischia di chiudere. Togliendo agli italiani la possibilità di conoscere cosa succede dentro alle mura degli istituti di pena. Sono passati poco più di dieci anni da quando ha preso vita e mosso i suoi primi passi la "Federazione dell’Informazione dal carcere e sul carcere". Un’aggregazione di cui molti ignorano l’esistenza, come poco si sa dell’importanza della libertà di stampa nel luogo più lontano dalla luce dei riflettori o semplicemente dalla trasparenza dell’informazione. Portare fuori dalle mura degli istituti di pena quanto vi succede all’interno è una missione determinante per il raggiungimento di una civiltà degna di tale nome. I giornali delle carceri italiane, non ancora abbastanza numerosi sia per le ovvie difficoltà di tipo logistico sia per la resistenza ottusa di molti direttori degli istituti di pena, hanno sempre avuto un capofila: la testata "Ristretti Orizzonti", il notiziario quotidiano del carcere di Padova che da più di vent’anni ha avuto un ruolo determinante in tanti fatti e misfatti di cui l’opinione pubblica non era a conoscenza. Pensiamo alla morte di Stefano Cucchi e a quella di tanti altri, sulle quali ancora si aspetta chiarezza. Pensiamo alla necessità di riconoscere che la tortura è una realtà anche italiana, e che aspetta ancora il riconoscimento di reato. O ai mille e mille episodi di autolesionismo che hanno per protagonisti i detenuti più fragili. Ecco, dopo tutto questo, dopo l’importanza che "Ristretti Orizzonti" ha rivestito nella crescita del Paese, il quotidiano di Padova rischia di chiudere e scomparire alla vigilia del suo ventesimo compleanno. Una possibilità concreta alla quale ogni italiano degno di tale nome non può assistere in silenzio. Dice Ornella Favero, direttrice di "Ristretti Orizzonti: "Quando con i detenuti della mia redazione mi batto per una assunzione di responsabilità da parte loro rispetto ai reati che hanno commesso, e alle persone che hanno offeso, mi trovo poi in grande difficoltà se a non rispettare la legge, e a non assumersi la responsabilità delle illegalità commesse, sono proprio le istituzioni". Mentre si preferisce parlare di sicurezza finanziando l’acquisto di telecamere invece del reinserimento delle persone detenute, il quotidiano rischia di morire per difficoltà finanziarie. "La sicurezza si costruisce investendo sui percorsi di responsabilizzazione - continua la direttrice -, non sulle città blindate e le carceri abbandonate. Anche perché, come ha detto il ministro della Giustizia alla conclusione degli Stati Generali sull’esecuzione penale, le persone che sono state "a marcire in galera fino all’ultimo giorno", quando poi escono dal carcere per il 70% tornano a commettere reati. Oggi nessuno investe più sui "soggetti difficili", si preferisce fingere che i "buoni" siano tranquillamente e sicuramente buoni e possano fregarsene dei "cattivi", e così noi, che come dice Agnese Moro, la figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse, non vogliamo buttare via nessuno". Le persone che operano nelle carceri italiane si battono ogni giorno per una assunzione di responsabilità da parte dei detenuti rispetto ai reati che hanno commesso, e alle persone che hanno offeso. "E io mi provo rabbia - conclude la direttrice del giornale - quando per esempio questi comportamenti sono messi in atto dagli Enti locali o dai Ministeri. Eppure, qualche giorno fa ho dovuto provare a chiedere a una Banca un prestito non perché abbiamo gestito male le risorse di cui disponevamo, ma perché avanziamo pagamenti di soldi anticipati da noi da anni". In Italia sempre meno omicidi di Maurizio Barbagli lavoce.info, 27 giugno 2016 La percezione di una società dominata dalla violenza è falsa. Il tasso di omicidi è il più basso degli ultimi sei secoli È appena arrivata una notizia buona, anzi ottima, che nessuno poteva prevedere e neppure sperare. Si aggiunge ad altre ventitré dello stesso stampo, note da tempo, ma che pochi osservatori hanno preso sul serio. La notizia è che, nel 2015, il numero di omicidi commessi nel nostro paese è diminuito ancora, passando dai 475 dell’anno precedente a 468. E d’altra parte è dal 1992, ovvero da ventitré anni, che il tasso di questo reato ha conosciuto una continua e apparentemente inarrestabile flessione, arrivando ora a 0,80 per 100mila abitanti. Il calo ha riguardato tutte le forme di omicidio: di criminalità organizzata, legato a furti e rapine, commesso per liti, risse e futili motivi o per passioni e conflitti fra familiari. Così oggi l’Italia ha il tasso più basso di questo reato della sua storia recente e passata. Il più basso dell’ultimo secolo e mezzo, perché, subito dopo l’Unità, era di 6,8 per 100mila abitanti, otto volte e mezzo maggiore di quello attuale. E a ben vedere anche il più basso degli ultimi sei secoli, perché nella prima metà del Quattrocento era di 62 per 100mila abitanti, secondo una stima fatta da storici seri e rigorosi in base a una buona documentazione. Si tratta di uno straordinario cambiamento che dovrebbe rimettere in discussione tre idee molto diffuse nell’opinione pubblica e tra buona parte degli studiosi. La prima è che la società italiana è dominata dalla violenza e che anzi non vi è mai stato un periodo in cui questa malattia sociale abbia colpito tante persone. È un’idea alimentata anche dai mezzi di comunicazione di massa, che continuano a rifarsi al principio che "if it bleeds, it leads", ovvero "se c’è sangue, suscita interesse, fa notizia". Ed è un’idea talmente radicata che chi la condivide accoglie con scetticismo, se non con una punta di irritazione, ogni notizia che tenda a smentirla. Ovviamente, vi sono forme diverse di violenza, verbale e fisica, rivolta contro gli animali e gli esseri umani, contro gli amici, i familiari o gli estranei, i nostri pari o gli inferiori. Ma è indubbio che, da tempo immemorabile, quella omicida è la forma più grave di violenza e che in Italia non è mai stata così poco frequente come oggi. La seconda idea riguarda le conseguenze della grande crisi economica degli ultimi anni. La lunga recessione che ha colpito il nostro paese ha avuto sicuramente effetti su molti aspetti della società italiana, sullo stile di vita, le scelte familiari, lo stato di salute e l’umore delle persone. Ma, a differenza che in altri paesi (ad esempio in Grecia), non ne ha avuti sulla frequenza della violenza omicida. La flessione del tasso di omicidi registrata a partire dal 1992 non ha subito un’inversione di tendenza e non si è arrestata nel 2008 né negli anni successivi, ma è continuata durante tutto il periodo della crisi. La terza idea ha a che fare con le differenze e le diseguaglianze territoriali. Il dualismo Nord-Sud, lo sappiamo bene, è una caratteristica strutturale dell’economia e della società italiana. Considerato nell’arco di un lungo periodo di tempo, il divario fra le regioni centro settentrionali e quelle meridionali e insulari è diminuito per certi aspetti (la salute e la speranza di vita, l’istruzione), aumentato per altri (il Pil pro capite). Dal 2008 a oggi, durante gli anni della crisi, le differenze sono ulteriormente cresciute per quanto riguarda il tasso di occupazione delle donne, quello dei giovani diplomati e laureati, la percentuale di famiglie in povertà assoluta. Non altrettanto si può invece dire per l’andamento del tasso di omicidi: nell’ultimo quarto di secolo, è diminuito in tutte le regioni italiane, salvo che nel Molise dove è sempre stato particolarmente basso. La flessione è stata molto forte anche nelle regioni settentrionali più avanzate - in Piemonte, in Lombardia, in Liguria, nel Veneto, in Emilia Romagna - dove si è ridotto di due terzi. Ma ancora più forte è stata la riduzione in quelle meridionali. In Campania, oggi, il tasso di omicidi è quasi un quarto rispetto al 1991, in Calabria un settimo, in Sicilia addirittura un decimo. Il divario fra il Sud e il Nord è dunque diminuito, in modo considerevole. Se nel 1991 nel Mezzogiorno ci si uccideva 5,4 volte più che nel Settentrione, oggi lo si fa 2,2 volte di più. La letteratura scientifica internazionale è sostanzialmente d’accordo nell’attribuire diminuzioni così forti della violenza omicida all’affermazione dello Stato, della sua capacità di detenere il monopolio della violenza legale, della sua legittimità e all’interiorizzazione, da parte dei cittadini, dell’imperativo che non ci si può fare giustizia da soli. Questa ipotesi può aiutarci a capire cosa è successo, e sta succedendo, nel nostro paese. "Imposicion de tormentos", siamo il paradiso di Patrizio Gonnella (presidente di Antigone) Il Manifesto, 27 giugno 2016 L’Italia è ancora senza una legge contro la tortura. Sorbolo è un piccolo paese in provincia di Parma con meno di 10 mila abitanti. Vicino a Sorbolo c’è Enzano di Sorbolo. In Strada del Fienile c’è la Parrocchia di sant’Andrea Apostolo. Gli abitanti di Enzano di Sorbolo sono circa trecento. A Sant’Andrea dice messa don Franco Reverberi, ottuagenario sacerdote parmigiano. Uno dei prigionieri politici arbitrariamente portati nel centro di detenzione di Mendoza in Argentina nel 1976 racconta di un cappellano italiano vestito da militare. Un altro prigioniero ricorda anche lui come insieme ai militari c’era un prete che lo interrogava in italiano. Ogni tanto quel cappellano pare indossasse la divisa militare. Dunque quel sacerdote pare fosse qualcosa di più, secondo i testimoni di quei tormenti, che non un semplice prete che diceva messa. Pare non fosse interessato a salvare le anime, ma a loro dire, era complice nel far soffrire i corpi. La guerra sudicia di Videla si avvaleva di tutto l’armamentario più truce dei fascismi: sparizioni forzate, torture, morte. Quel cappellano pare fosse don Franco Reverberi, che tornata la democrazia decise di ristabilirsi nella sua Sorbolo. Le vittime di tortura hanno bisogno di tempo perché sia assicurata loro giustizia. "Imposicion de tormentos" è l’accusa alla base della richiesta di arresto delle autorità argentine. Don Franco Reverberi è "wanted" per l’Interpol. Imporre tormenti significa torturare. La richiesta di estradizione risalente al 2012 è stata giudicata prima dalla Corte d’Appello di Bologna e poi dalla Corte di Cassazione. La magistratura italiana ha alzato le braccia e ha messo nero su bianco che in assenza del crimine di tortura nel codice penale italiano non avrebbe potuto estradare il sacerdote oltre oceano. La tortura è un crimine contro la dignità umana. In Italia non è reato nonostante un trattato internazionale ratificato nel 1988 ci vincoli in modo cogente alla sua codificazione. Matteo Renzi, presidente del Consiglio, 7 aprile 2015: "Quello che dobbiamo dire lo dobbiamo dire in parlamento con il reato di tortura". Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia, 16 giugno 2016: "A nome del governo affermo che una legge che punisca la tortura sia approvata". Andrea Orlando, ministro della Giustizia, 23 giugno 2016: "Risposta in tempi rapidi". Così dopo avere ricevuto Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo che gli portavano le 240 mila firme raccolte sulla piattaforma Change. L’Italia intanto è il paradiso giudiziario dei torturatori nostrani e internazionali. Puniamo tutto e tutti nel nostro Paese. Ma non i torturatori. Oggi, 26 giugno, è la giornata che le Nazioni Unite dedicano alle vittime della tortura. È obbligo del governo la cooperazione giudiziaria con gli altri paesi nonché il rispetto delle norme internazionali. Il Senato, dove langue la proposta di legge, è negligente e colpevole. Sappiano i senatori che Papa Francesco con motu proprio ha introdotto il delitto di tortura nel codice penale vaticano utilizzando la definizione di reato proprio presente nel Trattato Onu. Sarebbe buona cosa se i cittadini di Enzano di Sorbolo si astenessero questa domenica dall’andare a messa nella parrocchia di sant’Andrea. Non sappiamo se don Franco Reverberi è colpevole o meno. Non è dato saperlo perché nel suo caso, come in tutti i casi di tortura, in Italia, non c’è spazio giudiziario per l’accertamento della verità. Per cui lo sciopero dalla messa dei fedeli di parrocchia di sant’Andrea potrebbe forse essere un risarcimento simbolico alle vittime della tortura, visto che il risarcimento giudiziario non è possibile in Italia. Rafforzare il divieto di tortura, contro l’alibi della "sicurezza" di Acat Italia Ristretti Orizzonti, 27 giugno 2016 Rifugiati "parcheggiati" nei Centri di detenzione in condizioni disumane, detenuti che vivono nelle carceri sovraffollate e generalmente malsane, oppositori politici e attivisti dei diritti umani minacciati dai governi: nel 2016 una parte significativa della popolazione mondiale ha subìto atti di tortura o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Acat Italia, la Fiacat (Federazione Internazionale delle Acat) e tutte le altre Acat, nel loro lavoro quotidiano sul campo e con le istituzioni regionali e internazionali a difesa dei diritti umani, rilevano che con la motivazione della sicurezza vengono facilitate le violazioni dei diritti umani e soprattutto promosse l’accettazione e legittimazione della tortura da parte della società civile. Per questo, in occasione della Giornata internazionale a sostegno delle vittime della tortura, desiderano congiuntamente ribadire la necessità di un rispetto reale delle norme degli strumenti giuridici internazionali vigenti. Nel corso dei decenni innumerevoli testi internazionali e regionali hanno menzionato il divieto assoluto di tortura in qualsiasi circostanza e si sono appellati chiedendo di lottare contro l’impunità. Inoltre di recente nuovi strumenti internazionali e regionali hanno rafforzato la struttura legale per la lotta contro la tortura. In questo scenario l’Italia mantiene la sua inaccettabile situazione di totale carenza legislativa: la tortura per il codice italiano non esiste, non è un reato sancito dal nostro Codice Penale. Da anni vari DL entrano ed escono da Camera e Senato, le bozze che si susseguono sono sempre diverse e molto criticabili. La situazione è decisamente inaccettabile anche perché, ratificando i vari trattati internazionali, l’Italia da oltre 20 anni ha preso formali impegni con l’Onu. "La legge è molto chiara: la tortura non dovrebbe mai essere usata, qualunque siano il momento o le circostanze, anche durante i conflitti o quando la sicurezza nazionale è minacciata. In questa Giornata Internazionale esprimiamo la nostra solidarietà alle centinaia di migliaia di vittime di tortura e alle loro famiglie in tutto il mondo e a loro testimoniamo il nostro sostegno "(Ban Ki-moon, Segretario generale delle Nazioni Unite, Giugno 2016). Acat Italia si unisce quindi all’appello della Fiacat e invita il Governo italiano a: • varare una legge che definisca la tortura come reato nel nostro Codice Penale; • garantire l’attuazione di meccanismi di controllo come il Protocollo Opzionale alla Convenzione contro la tortura (Opcat), che ha celebrato il suo 10 ° anniversario il 22 Giugno 2016; • lottare contro l’impunità e garantire il diritto di ricorso per le vittime di tortura. Come ogni anno, Fiacat e Acat invitano i credenti in tutto il mondo a sostenere con la preghiera e l’azione coloro che soffrono per mano dei torturatori. Dove si prega non conta, l’importante è che tutti assieme sosteniamo le vittime dalla tortura. Penati: "Lo strapotere dei pm? Colpa della sinistra" di Erico Novi Il Dubbio, 27 giugno 2016 Parla l’ex leader del Pd lombardo. Vasco Errani suo malgrado è già un simbolo: personifica il Pd che ha perso la sintonia con le Procure. L’ex governatore dell’Emilia, assolto definitivamente dopo 7 anni, non rappresenta un caso isolato. Rispetto alla sua vicenda giudiziaria, quella dell’ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati si distingue solo perché l’assoluzione, nel caso di quest’ultimo, non è ancora definitiva. I pm dell’inchiesta sul presunto "sistema Sesto" non si sono rassegnati e hanno fatto appello. Onorevole Penati, qualcosa è cambiato per sempre, tra il Pd e i pm? Non vedo cambi di passo, a dire la verità. Bisognerebbe mettere mano a una riforma complessiva del sistema giudiziario, ma non mi pare in vista. Le inchieste su alcune personalità politiche si sono risolte in assoluzioni, questo dovrebbe porre il tema del rapporto tra politica e Procure. Tra le personalità in questione c’è anche lei. Non è un fatto personale, il problema è complessivo e va risolto innanzitutto con il superamento di una distorsione: quella che induce a confondere i pm con i giudici, la magistratura inquirente con la magistratura giudicante. Le indagini dei pubblici ministeri vengono prese per sentenze inappellabili: sono solo ipotesi che vanno provate nel processo. Chi è che fa confusione? Tutti, anche la sinistra. Se non si è ancora trovato l’equilibrio tra la politica e le magistratura la maggiore responsabilità è della sinistra. Spieghi perché. Perché non poteva essere certo Berlusconi a riformare il sistema, lui che era un super indagato e per questo il meno credibile di tutti. La condizione di Berlusconi non può però nascondere il fatto che il sistema vada riformato. Dove si deve intervenire? Su tempi delle indagini e del processo, responsabilità dei magistrati, separazione delle carriere. Una riforma di questo tipo richiede una condizione precisa: deve essere chiaro che chi spera di lucrare sulle vicende giudiziarie altrui è solo un illuso. A turno tocca a tutti. Anche ai Cinque Stelle? Anche a loro. E intanto la sinistra dovrebbe aver avuto sufficienti lezioni per aprire gli occhi. I Ds sembrava fossero i soli eredi legittimi del sistema crollato con la fine della Prima Repubblica, poi si è visto che le inchieste hanno riguardato tutto lo spettro delle forze in campo. Lei dice: la giustizia deve avere tempi più rapidi. Pensi a Errani: la sua vicenda è iniziata del 2009, è finita nel 2016. La mia parte nel 2010, sono passati 6 anni e abbiamo fatto solo il primo grado. I pm hanno impugnato la sua assoluzione? Certo. Nonostante la sentenza che mi ha riconosciuto innocente contenga un duro attacco al modo in cui sono state condotte le indagini. Nonostante quel giudizio severo, uno dei pm che hanno sostenuto l’accusa contro di me, Walter Macchi, è stato appena promosso dal Csm. Procuratore della Repubblica di Bergamo. Tra i temi di una riforma dovrebbe esserci anche il criterio di valutazione delle performances dei giudici. Criterio che potrebbe essere più scientifico. Perché possiamo conoscere in tempo reale le statistiche sulla prestazione di un calciatore e non è possibile raccogliere con tutta calma quelle relative al lavoro dei magistrati? Di recente il guardasigilli Orlando ha ipotizzato una riforma del Csm che limiti le correnti: dal Csm è arrivato un parere che fa a pezzi la proposta. La politica è debole e c’è il dilagare incontrollato di uno strapotere giudiziario: ma io non credo che la questione si possa risolvere con l’azione di un governo risoluto: ci vuole un patto più largo che coinvolga tutte le forze politiche. Si deve consentire e favorire l’azione tempestiva dei magistrati contro la corruzione, ma la politica non deve restare prigioniera. Mettono in mezzo la Raggi per una consulenza da 5mila euro all’Asl: cos’altro ci vuole per aprire gli occhi? I magistrati fanno fronte comune, i partiti no. E con la magistratura diventano normali prassi inconcepibili: penso al fatto che per nominare un magistrato della competenza indiscutibile come Francesco Greco alla Procura di Milano, ci sia voluto un accordo tra le correnti. Ma scherziamo? Lei davvero esclude di tornare alla politica attiva? Due giorni fa, per la prima volta dopo tanto tempo, ho partecipato a un dibattito pubblico a Milano, con i radicali. Se ci saranno delle proposte le valuterò ma le lancette non si spostano indietro. Un ritorno a ruoli come quelli avuti in passato non sta nei miei progetti. E poi in questo momento sono politicamente un homeless. Che intende? Il Pd mi ha espulso nel 2011, dopo che sono stato assolto nessuno si è preso il disturbo di chiamarmi e dire ?senti, ti andrebbe di rientrare? ‘. Non lo dico perché sicuramente sarei tornato a far politica ma perché una telefonata mi avrebbe fatto piacere, non posso negarlo. Se resta fuori riconosce un potere enorme ai pm. Io ho subito una cura che poteva uccidere un cavallo, è già tanto che sono ancora in piedi. Come voterà al referendum? Non ho ancora un’opinione chiara, ma il combinato disposto tra riforma costituzionale e italicum rischia di creare istituzioni senza contrappesi. Certo c’era da superare un blocco, ma non vorrei che pur di fare una riforma che fosse una ci si trovi con una cattiva riforma. D’Alema ha duramente attaccato Renzi, su referendum e italicum, e lo ha invitato ad affidare ad altri la segreteria del Pd. Renzi è il primo a doversi preoccupare del conformismo che spinge tanti a trasformarsi da bersaniani a renziani. Un consenso apparente dietro cui, sul territorio, nascono nicchie di potere personale. Il partito è balcanizzato, Renzi finisce per essere come Tito ed è il primo che ha bisogno di uscire da questa situazione. Nel suo interesse di presidente del Consiglio. Orfini: "C’è chi rimpiange il Pd di Mafia Capitale" di Giovanna Casadio La Repubblica, 27 giugno 2016 Parla il presidente Dem: "Rimango commissario a Roma". "Il Pd in molte parti sembra non essere all’altezza della sfida: sono rimaste le correnti senza il partito". Detto dal presidente dem, Matteo Orfini, è una sferzata. Orfini va al contrattacco, dopo che nella Direzione del Pd, slittata per Brexit, già alcuni compagni si preparavano a chiederne le dimissioni da commissario romano del partito, addossandogli la responsabilità della sconfitta che ha portato la grillina Virginia Raggi in Campidoglio. "Chi ci critica preferiva il Pd di Mafia Capitale. Io lascio a ottobre quando scade il mio mandato", risponde. Orfini, nell’onda montante dei populismi - Brexit, Spagna spaccata, Grillo vittorioso alle amministrative in Italia - al Pd sta arrivando l’avviso di sfratto dai 5Stelle? "Credo proprio di no. Ma non dobbiamo sottovalutare il clima che si respira in tutta Europa. Non si può non tenere conto della rabbia che cresce e che oggi viene intercettata solo dal populismo. Con la conseguenza che i costi del populismo li scopri il giorno dopo, come sta succedendo con Brexit, e li paghi per anni". Dicevamo, il Pd renziano è alle corde? "Dobbiamo fare tesoro del messaggio che ci hanno mandato gli elettori. Ho visto le analisi più disparate: Bersani invoca il profumo di Ulivo, chi chiede più cambiamento, chi parla di legge elettorale, come se la risposta alle periferie rabbiose possa essere un emendamento sul premio di coalizione. Ma la questione è un po’ più profonda. Ovvero che l’enorme crescita delle diseguaglianze rende necessario per la sinistra, ancora prima di assumere le misure necessarie, radicarsi in quel disagio". Invece Renzi, segretario-premier, racconta un’altra storia, quella dell’Italia felice che riparte. "Non c’è dubbio che l’Italia stia ripartendo ma la ripresa non si percepisce nei grandi quartieri delle periferie metropolitane, perché non è ancora arrivata. O noi capiamo che c’è un disagio con cui parlare e una grande forza i quei luoghi da coinvolgere nel nostro progetto di cambiamento del paese, oppure lì ci starà solo il populismo". Ma per paura dell’onda populista, farete slittare il referendum costituzionale? "No, dirigenti che avessero paura degli elettori sarebbero inadeguati". Quindi, come correte ai ripari, dopo avere perso anche Roma e Torino? Ci vuole una svolta? "Premesso che a Tor Bella Monaca a Roma, per fare un esempio, i voti non li abbiamo presi ora e nemmeno alle politiche. Abbiamo recuperato tra i ceti più deboli solo alle europee, quelle del 40%. Lì il nostro messaggio non era di neutro cambiamento, che non vuole dire niente, ma aveva una grande forza sociale, figlia degli 80 euro e della promessa di inclusione nel cambiamento di intere generazioni che vivevano ai margini. Quel messaggio si è perso. Più che discutere di quanto ci dobbiamo spostare al centro o a sinistra, dovremmo essere più popolari... nel senso non televisivo del termine". Presenta le dimissioni da commissario del Pd romano dopo la sconfitta? "No, il mio lavoro di commissario scade a ottobre, a me resta da fare il referendum e di avviare il congresso romano, è quello che farò". Non si rimprovera nulla? "Ho preso in mano un partito sotto processo, con suoi esponenti in manette e l’ho riportato a testa alta nelle strade della città. Mi pare semplicistico che si attribuisca al lavoro di bonifica la responsabilità del risultato su Roma, perché vorrebbe dire che si stava meglio quando c’era il Pd di Mafia Capitale". Amareggiato per la richiesta di sue dimissioni fatta dalla ministra Marianna Madia? E per D’Alema, di cui lei è stato allievo, e che ora dice: l’ho allevato male? "Tutte le opinioni sono legittime, anche quella di Madia... a me fa riflettere vedere Massimo D’Alema annunciare girotondi per il No al referendum costituzionale". Lei è sempre renziano? "Non lo sono mai stato, sono presidente del Pd. E vorrei che discutessimo senza lacerazioni quotidiane". Mattarella: basta opacità sulla strage di Ustica La Repubblica, 27 giugno 2016 "Su Ustica possono essere ancora compiuti passi avanti, e auspico che si riescano a rimuovere le opacità purtroppo persistenti". Così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in un telegramma inviato a Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione parenti delle vittime. "È una domanda di giustizia quella che le famiglie rappresentano", rileva Mattarella, che esprime loro "vicinanza e sostegno". Ma intanto sia da destra che da sinistra si moltiplicano gli appelli a favore della rimozione del segreto di Stato sulla vicenda. Oggi è il trentaseiesimo anniversario della strage in cui morirono gli 81 passeggeri del Dc9 Itavia in volo da Bologna a Palermo. Stamattina Bologna ricorda quel giorno con un incontro in consiglio comunale al quale parteciperà il sindaco Virginio Merola e Bonfietti. Nel Giardino della Memoria, dove è presente l’installazione di Christian Boltanski con i resti del relitto, parte la rassegna "Dei Teatri, della Memoria": fino al 10 agosto sono in programma iniziative di teatro, musica, danza e poesia. Si inizia oggi con l’opera musicale "De Facto" di Fiorenza Menni. L’assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna ha prodotto uno spettacolo teatrale, "È ora. È adesso", per chiedere tutta la verità. Non mancano le polemiche: l’opera è stata contestata dalla figlia di una vittima di Ustica, Giuliana Cavazza, la quale ha invitato gli autori a "non spacciare come verità storico-giudiziaria l’atto di un procedimento sconfessato", cioè quello che vede in un missile o in una battaglia aerea le cause dell’abbattimento. Le parole del presidente Mattarella hanno suscitato la reazione del senatore Carlo Giovanardi. "Il Capo dello Stato auspica ancora una volta passi avanti nella ricerca della verità, silenzio pressoché totale invece sul fatto che dopo 36 anni, carte fondamentali per capire l’accaduto non sono ancora divulgabili in quanto coperte dalla denominazione "segretissimo". Gli fa eco il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri: "Visto che Mattarella parla di opacità, solleciti anche lui la desecretazione che abbiamo chiesto in Parlamento di molti atti relativi a quel tragico 1980. Noi abbiamo letto quelle carte con il vincolo del segreto. E da lì si sa molto sui veri autori di stragi che caratterizzarono quella drammatica stagione". Un appello condiviso anche dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando: "Mantenere ancora il segreto di Stato su una delle pagine più buie della nostra storia è la prova del fatto che qualcuno, dentro lo Stato, ha molto da vergognarsi e molto da nascondere per quanto avvenne quella notte di giugno del 1980 nei cieli italiani". Moro, l’ultima verità di Cutolo "potevo salvarlo, Gava ci fermò" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 27 giugno 2016 Il boss camorrista ai pm: "Era pronta un’irruzione con uomini armati poi da Roma arrivò un contrordine. La verità su Moro non si saprà mai". "Non per fare il buffone, ma Aldo Moro lo potevo veramente salvare. Allora, con la mia organizzazione, eravamo fortissimi, anche su Roma". Poi però, proprio da Roma, arrivò il contrordine, recapitatogli da Enzo Casillo, il "braccio destro" latitante che circolava con una tessera dei servizi segreti in tasca: "Mi disse che i suoi amici avevano detto di farci i fatti nostri, di non interessarci di Moro... Erano politici di alto grado... La Democrazia cristiana, comunque...". Ma chi, in particolare? "Mi sembra di parlare male, adesso che è morto. Gava, comunque". La mancata liberazione - Il salto all’indietro di Raffaele Cutolo, settantacinquenne boss della Nuova camorra organizzata detenuto dal 1979, si arricchisce di nuovi particolari. E nell’ultimo interrogatorio, reso tre mesi fa ai pubblici ministeri di Roma, sostiene che a bloccare l’intervento per liberare il presidente della Dc sequestrato dalle Brigate rosse, nella primavera del 1978, fu nientemeno che Antonio Gava, leader democristiano di sangue partenopeo e futuro ministro dell’Interno. Glielo rivelò Casillo in persona, "che a me mi doveva dire tutto, ogni virgola". Il piano - A seguito di quell’avvertimento, il progetto messo a punto dal capo camorrista si bloccò: "Era un piano semplice, uomini dell’organizzazione si sarebbero portati, armati, presso l’appartamento, visto che solo 4-5 persone vigilavano sul covo di Moro". Un’irruzione "di forza... stavano al pianterreno", afferma Cutolo. La strategia l’aveva studiata insieme a Nicolino Selis, un malavitoso della banda della Magliana conosciuto in carcere e in seguito promosso a suo capozona su Roma. Era stato proprio lui a fornirgli le prime informazioni sulla prigione del presidente democristiano: "È venuto a trovarmi ad Albanella (paese in provincia di Salerno dove Cutolo s’era rifugiato e fu arrestato nel 1979 ndr), e mi disse se mi interessavo a Moro perché lui, non volendo, stava proprio latitante, con la sua fidanzata, dove stava Moro. Nello stesso palazzo". In carcere - È una storia già raccontata oltre vent’anni fa, sulla quale non sono mai stati trovati riscontri attendibili, che il boss ribadisce dopo che nel settembre scorso un paio di collaboratori della nuova commissione d’inchiesta sul caso Moro sono andati a trovarlo in carcere. In quell’occasione Cutolo avrebbe aggiunto di poter chiarire altri misteri sul sequestro e l’omicidio del presidente dc, e così il procuratore aggiunto di Roma Michele Prestipino e il sostituito Eugenio Albamonte sono andati a sentirlo nel carcere di Parma, il 25 marzo scorso. Ne è venuto fuori un verbale, ora a disposizione dei commissari, nel quale il boss ripete la stessa versione, comprensiva del fatto che poco dopo la notizia avuta da Selis, il suo avvocato Francesco Gangemi (democristiano) gli chiese di acquisire notizie sulla prigione di Moro. Cutolo replicò di voler incontrare l’allora ministro dell’Interno Cossiga, che declinò l’invito: "Fu l’unico a comportarsi bene, nel senso che disse "io non lo posso incontrare perché sennò lo devo fare arrestare, però se si interessa vediamo quello che si può fare"". Poi arrivò Casillo a fermare tutto, e Cutolo dovette spiegarlo a Gangemi: "Piangeva, diceva se potevo fare qualcosa, ma io non ho fatto più niente. Questa è tutta la situazione". Un copione che più o meno coincide con ciò che hanno raccontato i pentiti di mafia, da Tommaso Buscetta in giù, sull’intervento di Cosa nostra: richiesta di liberare Moro fermata da un successivo ripensamento in casa democristiana. Il sequestro Cirillo - Tre anni più tardi, durante il sequestro dell’assessore campano della Dc Ciro Cirillo, con Cutolo già in carcere, le cose andarono diversamente: trattativa e rilascio dell’ostaggio, senza blitz ma grazie a un sostanzioso riscatto. "L’ho salvato, e per premio mi mandarono all’Asinara", si rammarica ora Cutolo. Secondo il quale per liberare Cirillo andò a trovarlo in galera anche Adalberto Titta, un misterioso ufficiale dell’Aeronautica, ex repubblichino, considerato il capo di un servizio segreto parallelo e clandestino: "Mi disse anche il fatto dell’aereo di Ustica... "Lì, dice, è successa una guerra stellare"... Ma più che altro veniva per Cirillo, a implorarmi, perché dice che Cirillo, se stava ancora prigioniero, parlassedi tante cose della Dc". I contatti br-ndrangheta - Gli emissari della commissione Moro l’avevano sollecitato su altri particolari, ma il boss risponde solo con qualche "sentito dire", ad esempio sui contatti tra brigatisti e ‘ndranghetisti "per avere armi". Di ulteriori segreti non c’è traccia, Cutolo non ne ricorda: sebbene "allora io ero all’apice, mi dicevano tutto, ogni cosa che succedeva... Se sapessi altre cose le direi, perché non ho niente da perdere né da guadagnare. Anzi, da guadagnare per aiutare la famiglia Moro a scoprire la verità, ma penso che non si scoprirà mai... Perché, come si dice, quando ci sono implicate persone molto in alto... la puzza più in alto è e più si sente. Non l’hanno voluto salvare, questo ve lo posso dire". Rischio recidiva: per applicare la misura cautelare il pericolo deve essere concreto e attuale di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 13 giugno 2016 n. 24476. In materia di misure cautelari personali, ai fini dell’esigenza cautelare di cui all’articolo 274, comma 1, lettera c) del Cpp, nel testo introdotto dalla legge 16 aprile 2015 n. 47, l’espressa previsione dell’attualità del pericolo di reiterazione non è da intendersi come una mera endiadi rispetto alla previsione della concretezza di tale pericolo. Così si sono espressi i giudici della Suprema corte con la sentenza n. 24476 del 13 giugno scorso, chiarendo inoltre che, mentre la concretezza del pericolo richiama la necessaria esistenza di elementi reali dai quali si possa dedurre il pericolo, l’attualità del pericolo involge la valutazione di un pericolo prossimo all’epoca in cui viene applicata la misura ovvero di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati, non meramente ipotetiche e astratte, ma probabili nel loro vicino verificarsi: ricostruzione che è del resto coerente con la comune nozione di attualità che indica l’essere in atto, ovvero l’essere sentito come vivo e presente. Il significato del pericolo di recidiva - La Cassazione ricostruisce il significato del pericolo di recidiva (articolo 274, comma 1, lettera c, del Cpp), alla luce del novum normativo di cui alla legge 16 aprile 2015 n. 47, laddove si richiede che il pericolo che l’imputato commetta altri delitti deve essere non solo concreto, ma anche attuale. In effetti, secondo la lettura più corretta, l’attualità dell’esigenza cautelare, richiesta dall’articolo 274, comma 1, lettera c, del Cpp,non costituisce un predicato della sua concretezza. Si tratta, infatti, di concetti distinti, legati l’uno (la concretezza) alla capacità a delinquere del reo, l’altro (l’attualità) alla presenza di occasioni prossime al reato, la cui sussistenza, anche se desumibile dai medesimi indici rivelatori (specifiche modalità e circostanze del fatto e personalità dell’indagato o imputato), deve essere autonomamente e separatamente valutata, non risolvendosi il giudizio di concretezza in quella di attualità e viceversa (efficacemente, sezione III, 18 dicembre 2015, Gattuso; nonché, autorevolmente, sezioni Unite, 28 aprile 2016, Lovisi). In questa prospettiva, precisa qui la Cassazione, per ritenere attuale il pericolo concreto di reiterazione del reato, non è più sufficiente ipotizzare che la persona sottoposta alle indagini/imputata, presentandosene l’occasione, sicuramente (o con elevato grado di probabilità) continuerà a delinquere e/o a commettere i gravi reati indicati nello stesso articolo 274, comma 1, lettera c, del Cpp (in ciò consistendo la concretezza del rischio di recidiva), ma è necessario ipotizzare anche la certezza o comunque l’elevata probabilità che l’occasione del delitto si verificherà. Pertanto, il giudizio prognostico non può più fondarsi sul seguente schema logico: "se si presenta l’occasione sicuramente o molto probabilmente, la persona sottoposta alle indagini/imputata reitererà il delitto", ma dovrà seguire la seguente, diversa impostazione: "siccome è certo o comunque altamente probabile che si presenterà l’occasione del delitto, altrettanto certamente o comunque con elevato grado di probabilità la persona sottoposta alle indagini/imputata tornerà a delinquere". La conseguenza di questo ragionamento si ravvisa nel fatto che è ormai senz’altro imposto al giudice un maggiore e più compiuto sforzo motivazionale in materia di misure cautelari personali e di loro graduazione: onere che, in ossequio al disposto dell’articolo 292, comma 2, lettera c), del codice di procedura penale, assume rilievo ancora maggiore quanto più ampio sia lo spettro cronologico che divide i fatti contestati dal momento dell’adozione dell’ordinanza cautelare (sezione III, 18 dicembre 2015, Gattuso, secondo cui la distanza temporale tra i fatti e il momento della decisione cautelare, comporta un rigoroso obbligo di motivazione sia in relazione a detta attualità sia in relazione alla scelta della misura, giacché il lungo tempo trascorso dalla commissione del reato depone a favore della mancanza di occasioni prossime favorevoli alla sua reiterazione che non può essere superata da considerazioni astratte e generiche). Reati contro la persona: l’omicidio del consenziente Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2016 Reati contro la persona - Omicidio del consenziente - Consenso - Errore sulla sussistenza del consenso - Rilevanza per la punibilità del reato di omicidio - Applicazione dell’art. 47 cod. pen. Il consenso è elemento costitutivo del reato di omicidio del consenziente, pertanto qualora il reo erri sulla sussistenza del consenso trova applicazione la previsione dell’art.47 cod.pen.,in base al quale l’errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 31 marzo 2016 n. 12928. Reati contro la persona - Reato di omicidio del consenziente - Volontà della vittima di morire - Prova univoca - Necessità - Mancanza - Configurabilità del reato di omicidio volontario. Si configura l’omicidio volontario e non l’omicidio del consenziente, nel caso in cui manchi una prova univoca, chiara e convincente della volontà di morire manifestata dalla vittima, dovendo in tal caso riconoscersi assoluta prevalenza al diritto alla vita, quale diritto personalissimo che non attribuisce a terzi il potere di disporre, anche in base alla propria percezione della qualità della vita, dell’integrità fisica altrui. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 14 dicembre 2010 n. 43954. Reati contro la persona - Omicidio del consenziente - Elemento costitutivo del reato - Imprescindibile necessità del consenso della vita- Caratteri del consenso. L’omicidio del consenziente presuppone un consenso non solo serio, esplicito e non equivoco, ma perdurante anche sino al momento in cui il colpevole commette il fatto. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 5 agosto 2008 n. 32851. Reati contro la persona - Omicidio del consenziente - Istigazione o aiuto al suicidio - Elemento di distinzione - Indicazione. Il discrimine tra il reato di omicidio del consenziente e quello di istigazione o aiuto al suicidio risiede nel modo in cui viene ad atteggiarsi la condotta e la volontà della vittima in rapporto alla condotta dell’agente: si avrà omicidio del consenziente nel caso in cui colui che provoca la morte si sostituisca in pratica all’aspirante suicida, pur se con il consenso di questi, assumendone in proprio l’iniziativa, oltre che sul piano della causazione materiale, anche su quello della generica determinazione volitiva; mentre si avrà istigazione o agevolazione al suicidio tutte le volte in cui la vittima abbia conservato il dominio della propria azione, nonostante la presenza di una condotta estranea di determinazione o di aiuto alla realizzazione del suo proposito, e lo abbia realizzato, anche materialmente, di mano propria. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 12 marzo 1998 n. 3147. Quando può essere proposta l’eccezione di incompetenza territoriale Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2016 Competenza per territorio - Eccezione di incompetenza territoriale - Indicazione di fori alternativi - Accoglimento con riferimento al foro indicato in via subordinata - Impugnazione per far valere il foro indicato in via principale - Esclusione. L’eccezione di incompetenza territoriale prospettata con l’indicazione di fori alternativi e accolta dal giudice in relazione al foro indicato in via subordinata, non può essere riproposta con i motivi di impugnazione per far valere il foro indicato in via principale, essendo possibile subordinare una richiesta a un’altra esclusivamente nel caso in cui la decisione sia rimessa alla discrezionalità del giudice in ordine a un provvedimento più o meno favorevole nei confronti della parte e non anche allorquando si tratti di procedere alla corretta applicazione di una norma. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 11 marzo 2016 n. 10126. Competenza per territorio - Eccezione di incompetenza territoriale - Mancata indicazione del giudice ritenuto competente - Conseguenze. È inammissibile per genericità l’eccezione di incompetenza territoriale, che non contenga l’indicazione del diverso giudice che si prospetta essere competente. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 23 marzo 2015 n. 12071. Competenza per territorio - Eccezione di incompetenza territoriale ritualmente proposta e respinta - Riproponibilità con i motivi di impugnazione - Condizioni. L’eccezione di incompetenza territoriale, ritualmente prospettata nel termine di cui all’art. 491 cod. proc. pen. e respinta dal giudice, può essere riproposta con i motivi di impugnazione senza, però, poter introdurre argomentazioni ulteriori rispetto a quelle originarie, anche se queste ultime potrebbero giustificare uno spostamento della competenza. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 15 gennaio 2014 n. 1415. Competenza per territorio - Eccezione di incompetenza territoriale - Eccepibilità - Limite - Termine preclusivo dall’accertamento per la prima volta della costituzione delle parti. L’incompetenza per territorio non può essere eccepita né rilevata dopo il termine preclusivo costituito dall’accertamento per la prima volta della costituzione delle parti: e ciò anche se la possibilità concreta di proporla sia sorta successivamente nel corso del dibattimento. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 26 maggio 1999 n. 6559. Trento: il carcere di scoppia, quasi il 70% dei detenuti sono stranieri lavocedeltrentino.it, 27 giugno 2016 Sono stati resi noti dal consigliere provinciale Claudio Cia (Agire per il Trentino) i dati aggiornati sul carcere di Trento a Spini di Gardolo. In risposta ad una sua interrogazione presentata nei primi giorni di maggio risponde direttamente il Direttore della Casa Circondariale Valerio Pappalardo con i numeri aggiornati al 21 giugno 2016. Sono 311 i detenuti presenti nel carcere di Trento (299 uomini e 12 donne), questo nonostante con l’intesa di programma tra il Governo e Provincia si fosse statuito che il carcere ha una capienza di 240 detenuti. Giudicati definitivamente risultano 217 soggetti, mentre sono 36 gli indagati in attesa di primo giudizio. Gli italiani detenuti nel carcere di Trento sono 98 (91 uomini e 7 donne), portando la percentuale di detenuti stranieri comunitari ed extracomunitari al 68,5%, dato in aumento rispetto alle rilevazioni precedenti. La maggior parte è costituita da nordafricani, 52 tunisini, 34 marocchini e 8 algerini. Altre presenze numerose sono quelle dei 29 cittadini romeni e di 17 albanesi. Altri 68 sono cittadini suddivisi in gruppi di poche unità per altre nazionalità (Afghanistan, Costa d’Avorio, Liberia). Cia chiedeva conto anche del numero di aggressioni agli agenti di polizia penitenziaria, e solo nel corso del 2016 risultano registrati 8 episodi. Il contingente di polizia penitenziaria previsto sarebbe di 214 unità, mentre quelle effettivamente presenti si attestano a sole 136 unità. Il numero maggiore di detenuti, 117 persone, è ristretto in violazione delle leggi sugli stupefacenti, mentre altri 78 per rapina, 66 per tentato delitto, 54 per furto, 19 per omicidio. Il consigliere chiedeva conto dei detenuti tossicodipendenti, che risultano pari a 46 soggetti e dei soggetti con malattie infettive. Dal quesito emerge che sono 6 i soggetti con HIV, 14 quelli con Epatite B, 35 quelli con Epatite C (di cui 22 italiani), un caso di tubercolosi per un cittadino tunisino e uno di scabbia per un cittadino marocchino. Solo alcuni giorni fa era arrivata anche la visita a sorpresa del Sottosegretario alla Giustizia Ferri, dopo che il primario del pronto soccorso e responsabile dell’infermeria della Casa circondariale Claudio Ramponi aveva dichiarato che fra detenuti e le guardie giurate esistono gravi problemi di coesistenza e che fra gli immigrati ci sono spesso risse, violenze e faide senza fine. La visita del sottosegretario annuncia un’indagine interna nella struttura. In carcere il Sottosegretario avrebbe sentilo dalla viva voce di un detenuto il racconto di una situazione di presunti maltrattamenti. "Ho trovato una situazione positiva, una grande efficienza dal punto di vista dell’area trattamentale e delle attività - ripete a chi gli chieda lumi. Ho parlato con gli operatori e con i detenuti ed è chiaro che sono accuse pesanti che vanno verificate, sia a tutela della polizia penitenziaria, sia dei detenuti. Vanno segnalate all’autorità giudiziaria e la cosa va verificata da parte nostra, dall’amministrazione interna" - ha spiegato Ferri. Parma: operazione antiterrorismo, prelevato il dna di detenuti parmaquotidiano.info, 27 giugno 2016 Per la prima volta, nel carcere di Parma è stato prelevato il dna di detenuti, un’operazione che rientra in un’indagine internazionale, resa possibile da un trattato per contrastare terrorismo, criminalità transfrontaliera e migrazione illegale. Il prelievo del campione biologico è stato effettuato nel laboratorio annesso agli istituti penitenziari di Parma da parte di personale specificamente formato. Il prelievo è stato fatto il 10 giugno 2016, il giorno stesso dell’entrata in vigore del regolamento attuativo di una legge che ha istituito la Banca dati nazionale del dna. La legge è del 2009, ma per renderla efficace sono occorsi quasi sette anni. La Banca dati del dna ha ora sede presso il dipartimento della Pubblica sicurezza. "Il personale del comando di polizia penitenziaria di Parma ha svolto le operazioni di prelievo con professionalità ed accuratezza e hanno portato a compimento l’intera procedura con esito positivo. Come in altri Paesi, anche l’Italia dispone quindi di un unico database nazionale del dna a carattere interforze, finalizzato a facilitare l’identificazione degli autori dei delitti e delle persone scomparse. Un ulteriore contributo alla lotta alla criminalità da parte del corpo di polizia penitenziaria", commenta il vice segretario regionale Sappe Maiorisi Errico. S.M. Capua Vetere (Ce): detenuto finisce in ospedale e muore per forti mal di pancia casertace.net, 27 giugno 2016 Risiedeva in piazza De Simone a Santa Maria Capua Vetere, il detenuto della casa circondariale di Benevento, di circa 52 anni, morto all’ospedale Rummo. Il suo nome Agostino D.M. che doveva scontare una pena di 7 anni di detenzione per violenza carnale subita da una minorenne. Si trovava in carcere già da due anni. A quanto è emerso il detenuto sarebbe stato trasportato al nosocomio sannita con dei dolori all’addome. Alla fine però non ce l’ha fatta. Ora si attende l’esame autoptico per chiarire le cause che hanno portato al decesso. Teramo: infarto in carcere, detenuto salvato con il defibrillatore Il Centro, 27 giugno 2016 Si è accasciato, con un forte dolore al petto. G.M. 56 anni, detenuto nel carcere di Castrogno ha avuto un infarto ieri mattina intorno alle 11,30. È caduto a terra, in stato di semi incoscienza. G.M. è stato soccorso dal personale sanitario della casa di pena circondariale, che per fortuna è dotata di un defibrillatore semiautomatico. Il paziente è dunque stato defibrillato, mentre veniva avvisato il 118. Sul posto è dunque arrivata un’ambulanza medicalizzata: il personale del 118 ha preso in carico il paziente che è stato trattato con farmaci specifici e ha ripreso il normale ritmo cardiaco. Stabilizzato il paziente, è stato portato in ospedale, in emodinamica, dove è stato trattato per l’infarto. Comunque, G.M. ha salva la vita grazie a una stretta sinergia fra il personale dell’infermeria del carcere, che l’ha tempestivamente defibrillato, e quello del 118. Asti: il carcere di Quarto diventerà Casa di reclusione ad Alta sicurezza lanuovaprovincia.it, 27 giugno 2016 Le difficoltà oggettive della trasformazione e le relative problematiche di riorganizzazione vengono acuite da una carenza di personale cui fa da contrappeso un sovraffollamento della struttura. Durante una recente seduta del Consiglio Regionale, il Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, ha presentato all’Aula la relazione delle attività svolte durante l’anno 2015-2016. "In particolare, per ciò che riguarda la città di Asti - spiega il Consigliere Angela Motta - è emerso che si sta completando il difficile processo di trasformazione da Casa circondariale a Casa di reclusione ad Alta Sicurezza". Come già emerso durante la mia visita di ottobre insieme al Garante, le difficoltà oggettive della trasformazione e le relative problematiche di riorganizzazione vengono acuite da una carenza di personale cui fa da contrappeso un sovraffollamento della struttura. Il carcere di Quarto, infatti, risulta il più sovraffollato della nostra Regione, con 286 detenuti a fronte di una capienza di 207 posti, con un tasso di sovraffollamento del 138%. Tra questi, una decina di detenuti sono a lunga o lunghissima detenzione. La situazione astigiana sta però per essere alleggerita, in conseguenza all’imminente apertura del nuovo padiglione della Casa di reclusione di Saluzzo. La nuova ala, infatti, già completata, potrà ospitare fino a 196 reclusi. Non solo, ad Asti proprio nel mese di ottobre, è stata nominata la figura del Garante comunale delle persone private della libertà personale. A ricoprire l’incarico la dottoressa Anna Cellamaro, con l’obiettivo di promuovere l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione di servizi da parte delle persone private o limitate nella libertà personale. "Credo che l’apertura della nuova ala di Saluzzo - conclude Angela Motta - rappresenti un passo importante nella delicata gestione dei detenuti e mi auguro che possa costituire un miglioramento effettivo delle condizioni di vita dei reclusi da un lato, e del personale al lavoro dall’altro. Durante la mia visita ad ottobre presso il carcere di Quarto, ho potuto constatare la grande professionalità e disponibilità da parte della direttrice e di tutto il personale della struttura astigiana, nonostante i grandi problemi. Credo che l’impegno delle istituzioni non debba fermarsi a questo primo risultato". Firenze: dal carcere al teatro, il racconto dei detenuti quinewsfirenze.it, 27 giugno 2016 La Compagnia di Sollicciano rinnova il suo impegno per i detenuti e al teatro della casa circondariale va in scena lo spettacolo "Dal carcere". Giovedì 30 giugno e venerdì 1 luglio 2016 presso il Teatro del Carcere di Sollicciano la Compagnia di Sollicciano, con la regia di Elisa Taddei di Krill Teatro, presenta il suo ultimo lavoro in prima nazionale Dal carcere. Il carcere raccontato con gli occhi di chi lo vive quotidianamente è il tema centrale di questo nuovo lavoro della Compagnia formata da attori detenuti del Carcere di Sollicciano, partendo da testi di attualità quali Cattivi di Maurizio Torchio e Abolire il carcere di Luigi Manconi. Il desiderio è quello di sensibilizzare tutti noi su un mondo sconosciuto ai più, che spesso purtroppo si preferirebbe tenere sepolto come se non ci appartenesse. Rituali, codici, percorsi, parole, atmosfere, colori per descrivere un altro "essere", un altro vivere; e sottesa una sola domanda: si diventa migliori? Così la regista Elisa Taddei "Negli ultimi anni il nostro lavoro teatrale si è confrontato con questioni che ogni volta ci sono apparse urgenti, attuali, che ci avrebbero legato al mondo di fuori per entrare con questo in comunicazione. In questa ricerca ci siamo affidati ad opere e testi di teatro per parlare del rapporto tra uomo e donna, genitori e figli, immigrazione, sete di potere. Mancava il carcere". "Abbiamo lavorato interrogandoci molto - ha detto Elisa Taddei -, oltre che su cosa raccontare anche sulla forma che avremmo dovuto dare a questo spettacolo che in particolare, forse più di altri, guarda a Brecht e al suo teatro epico. Abbiamo chiesto a Oscar De Summa di fare da guida e attraverso la sua voce, proveremo a portare gli spettatori ancora più dentro queste mura; oltre il teatro, oltre lo spettacolo". Il progetto Teatro a Sollicciano, accolto dalla Direzione del Carcere di Firenze, nasce nell’ottobre del 2004 sotto la guida di Elisa Taddei. Nel 2004 viene approvato dal Coordinamento Teatro e Carcere, promosso dalla Regione Toscana, a cui aderiscono le principali realtà artistiche che operano nel settore teatro e carcere, presenti sul territorio regionale. Da allora, la compagnia di attori detenuti del carcere di Sollicciano ha prodotto ogni anno uno spettacolo nuovo. Negli ultimi anni la compagnia è riuscita ad ottenere i permessi per uscire dal carcere e ha potuto presentare i suoi lavori in teatri come il Ridotto del Teatro Comunale, il Teatro del Cestello, il Teatro Everest, il Teatro Studio di Scandicci. Il biglietto servirà a retribuire la prestazione degli attori-detenuti. Il progetto ha il sostegno della Fondazione Carlo Marchi. Gorizia: in carcere per ricordare Marco Pannella di Timothy Dissegna Messaggero Veneto, 27 giugno 2016 Il carcere di via Barzellini ha ospitato ieri mattina il primo degli appuntamenti dedicati in città alla figura di Marco Pannella, organizzati dal comitato radicale "Trasparenza è Partecipazione". Un’occasione a cui hanno partecipato autorità, persone esterne alla struttura e, ovviamente, chi questa la vive: detenuti e operatori. Moderato dal filosofo Luca Taddio, l’incontro ha visto la partecipazione di figure non necessariamente legate ai radicali, ma che hanno condiviso almeno in parte le loro lotte. Come Alessandro Tessari, ex deputato del Pci che quando sentì per la prima volta il linguaggio crudo di Pannella in aula rimase esterrefatto. Ma nonostante vi abbia litigato tutta la vita, come ha dichiarato, non poté rimanere indifferente alla lotta per i diritti dei carcerati. Tra gli ospiti più attesi per parlare del tema c’era il Provveditore regionale del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) Enrico Sbriglia, che ha puntato il dito contro "la cattiveria che non si combatte con la cattiveria". Nemmeno lui ha mai fatto parte dei Radicali, ma non accettò di essere "complice" del sistema in cui riversano i penitenziari nostrani: ecco quindi il suo impegno che non chiede una nuova struttura perché questa "è il luogo della sconfitta per lo Stato". Il garante per i detenuti, don Alberto De Nadai, non era presente ma ha lasciato un messaggio in cui ha ricordato con affetto Pannella. L’intervento del giurista Bilotta si è poi focalizzato sulla necessità, per chi vive dietro le sbarre, di tutelare la sicurezza del proprio corpo, che a loro volta i detenuti affidano allo Stato quando entrano lì dentro. In quest’ottica, la sua tesi è che separare persone come trans e omosessuali dagli altri detenuti (com’è accaduto proprio a Gorizia) non sia un abuso. L’intervento più corposo è stato però quella dell’ex segretaria radicale Rita Bernardini, che ha avuto modo di visitare il carcere il giorno prima e conoscere le storie dei detenuti: sono così emerse delle lacune che, anche se comuni con altre realtà italiane, vanno contro la legge prevista. La conclusione è stata dell’assessore regionale alla Salute, Maria Sandra Telesca, che ha sottolineato come la Regione si stia da tempo muovendo verso una maggior tutela proprio in questi contesti. La giornata si è infine conclusa con la presentazione del libro "Radicalmente liberi. A partire da Marco Pannella" con gli interventi di Luca Taddio, dell’ex sindaco di Moraro Renato Fiorelli e della stessa Bernardini, moderati da Pietro Pipi. Verbania: con i Radicali, martedì una serata sul tema delle carceri verbanianotizie.it, 27 giugno 2016 Il partito Radicale transnazionale, galleria Sala Archi e la Consulta Laica del VCO invitano alla serata organizzata martedì 28 giugno alle ore 21.00 a palazzo Flaim, con il seguente tema: carcere, società, giustizia, libertà e amnistia. In continuità con l’opera e l’impegno di Marco Pannella una serata per discutere di carcere, società, giustizia, libertà e amnistia a cominciare dalla comunità penitenziaria di Verbania e del Piemonte a conclusione degli Stati Generali del l’esecuzione penale, promossi dal Ministro di Giustizia dopo le condanne della Corte Europea dei Diritti Umani inflitte all’Italia per "pene inumane e degradanti". La serata vuole essere un modo attivo per ricordare e onorare la memoria di Marco Pannella, come lui avrebbe voluto e come ci ha insegnato, evitando cioè sterili commemorazioni, ma cogliendo l’occasione per incardinare iniziative politiche, con particolare riferimento alla situazione carceraria. Programma: Ore 21.00 Introduzione e saluti delle autorità presenti. Ore 21.15 Intervento dell’On. Rita Bernardini, Presidente Onorario di "Nessuno tocchi Caino" e coordinatrice nazionale del "Tavolo sull’affettività in carcere e la territorialità della pena"; Ore 21.45 Intervento dell’On. Bruno Mellano, già presidente del Partito Radicale Transnazionale e attuale Garante dei detenuti della Regione Piemonte, sulla situazione carceraria di Verbania e del Piemonte; Ore 22.15 Apertura dibattito In fuga dalle bugie dei governi di Roberto Saviano La Repubblica, 27 giugno 2016 La mia generazione era costretta a spostarsi da sud a nord per studiare e lavorare. Oggi l’unico tentativo possibile per migliorare la vita è andarsene, mentre il nostro governo canta vittorie effimere. Renzo piano le definisce "le città del futuro", ma le periferie sembrano essere, oggi, gli spazi meno compresi dal governo e, visto il risultato del referendum sulla Brexit, non solo dal nostro. Non più solo quartieri ai margini della grande città, oggi sono definibili periferia interi paesi che si sviluppano ai margini delle città. Intere province diventano periferia dei capoluoghi, delle metropoli. Questa evoluzione postmoderna rende assai più complesso identificarle, parlarne, comprenderne le dinamiche. "Il governo perde in periferia": questa è stata l’analisi finale dell’ultimo voto amministrativo in Italia (e non solo dell’ultimo). E si può dire lo stesso valutando i risultati del referendum sulla Brexit, dal momento che a votare Leave sono state soprattutto città e paesi che spesso si considerano decentrati rispetto a quelli che vengono percepiti come centri nevralgici. L’Europa ha perso nelle periferie e le periferie sono di gran lunga più vaste dei centri. Questo corto circuito è la naturale conseguenza di un errore che i governi spesso commettono senza nemmeno rendersene conto: credere che uno storytelling positivo possa essere di per sé sufficiente al mantenimento del potere e delle posizioni acquisite, quello stesso racconto di sé che ormai viene percepito come menzognero, niente altro è che insopportabile propaganda. Può sembrare strano che in un momento così complesso si stia qui a ragionare di parole e narrazione, ma il gravissimo errore del governo Renzi è stato proprio quello di ignorare le province, di ignorarle al punto tale da non comprendere che proprio da lì sarebbe arrivato il fallimento. Hannah Arendt diceva che la democrazia è il luogo dove è la parola che convince: non è più la lama a costringere o la punizione a obbligare, lo strumento di decisione è la parola. E, in un certo senso, la narrazione di un’Italia che si era ripresa, di miracolosi sforzi che in tempi brevissimi avevano già portato a miglioramenti epocali, ha costituito per le periferie un inganno insopportabile. La mia generazione era costretta a spostarsi dalle periferie al centro, da sud a nord per studiare e per lavorare. Era un centro, quello, inteso anche come centro della vita. Oggi questo centro si è spostato e l’unico tentativo possibile per migliorare la propria vita è andare all’estero, mentre il nostro governo canta vittorie effimere a fronte di questa emorragia, e non spende una parola su quanto sia impossibile trovare lavoro in periferia, sugli sforzi titanici per portare a casa uno stipendio da fame e sullo sfruttamento cui spesso chi lavora è soggetto. Questo contrasto narrativo è aggravato dal fatto che le periferie sono consapevoli di essere la parte attiva del territorio. Da qui la rabbia e la rivolta. Sanno di essere il luogo di raccolta del denaro, pompato dalle periferie al centro. La periferia napoletana e quella romana pompano lavoro e denaro criminale al centro della città. Anche la periferia torinese pompa forza lavoro al centro della città. Ma la contrapposizione centro-periferia genera conflittualità che non possono essere considerate solo di ordine culturale. Il disagio sociale vero e proprio trae linfa dalla frustrazione creata dall’alto tasso di disoccupazione e da un cambiamento irreversibile del mercato del lavoro che a fronte di una flessibilità crescente non è riuscito ad assorbirne forza lavoro. La conseguenza più dolorosa è che il bacino di forza lavoro offerto dai migranti viene visto come uno spazio sottratto al lavoratore italiano destinato a restare disoccupato. Il corto circuito nasce proprio da questa contraddizione: la periferia ha la ricchezza del lavoro, dei figli, degli spazi, ma questo capitale non resta lì, non è lì che viene investito, viene calamitato dalla forza centripeta delle città. E così le periferie, da "città del futuro", sono di fatto diventati aborti. Le periferie sono orrende, si dirà, eppure la bruttezza dei luoghi può diventar fascino attraverso la partecipazione e la cura. Ecco perché il progetto di Renzo Piano sulle periferie (da lui chiamato G124 dal numero della stanza che occupa in Senato) è fondamentale per il nostro paese e lo sarebbe per l’Europa tutta. Il progetto ha l’obiettivo di rendere i luoghi "deboli" spazi di sperimentazione e interesse. Ripartire dalla gradevolezza, da nuove ipotesi di bellezza. Provare a respingere la schifezza abitativa. È prassi reale come lo sono i sogni nutriti dall’ossessione della trasformazione. Ma non bisogna lasciare che sia solo un esperimento bello, un tentativo di rammendo. Deve diventare affare di stato. Centralità ossessiva delle pratica della politica. Sino a ora invece al disastro delle periferie italiane si fa fronte con grandi operazioni di carità sociale, con il sostegno massiccio ad associazioni di vario genere, con roboanti operazioni di immagine (una su tutte la fallimentare idea di tenere le scuole aperte anche pomeriggio e sera: uno spazio fatiscente al mattino lo è anche nel resto della giornata). Ma l’aspetto forse più allarmante di questo racconto forzatamente positivo è che innesca un meccanismo populista. Con "populista" - aggettivo abusatissimo che andrebbe utilizzato con immensa cautela - intendo tutte quelle soluzioni proposte con leggerezza pur sapendo che non si realizzeranno mai. È stata la forza, per esempio, di tutta la politica di Luigi de Magistris. In centro a Napoli si spara, è un dato di fatto, il controllo da parte delle organizzazioni criminali sul centro storico è ormai totale. Eppure soltanto la bellezza della città è da attribuire ai suoi amministratori, mentre le morti, la paura, la mancanza totale di sicurezza sono da imputare al sistema capitalista e alla miseria. Come possa la politica sottrarsi a queste responsabilità è solo questione di comunicazione, di storytelling appunto, una narrazione alimentata da chi, cinicamente, ritenendo che nulla possa davvero cambiare sale sul carro del vincitore. Questo meccanismo si basa su una furbizia uguale e contraria a quella del governo: il racconto rovesciato nel quale la negatività viene mostrata, la contraddizione viene svelata, ma ci si sente perennemente non responsabili. Sindaci incaricati delle città si discolpano come se fossero capi rivoluzionari in balìa di poteri a loro esterni e loro nemici. Il governo avrebbe dovuto evitare la grancassa del miglioramento e tematizzare i disastri e le difficoltà per affrontarli. La periferia non può essere luogo di approccio romantico: se hai talento, sarai più bravo del ragazzo o della ragazza privilegiata nati in centro perché avrai voglia di riscatto e quindi ce la farai. Fesserie. Queste sono le favole à la Saranno Famosi che non sono più sostenibili in un’Italia in cui la mobilità sociale è pressoché immobile, in cui la meritocrazia rimane utopia, in cui non esiste riciclo di potere. Ecco perché la narrazione politica del "daremo l’università gratuita per tutti", del "distruggeremo i poteri forti", è in fondo il risultato di approcci sempre identici e ormai plurisecolari che non fanno i conti col principio di realtà. Risuona in loro il sempiterno contrasto tra massimalismo - idee meravigliose con realizzazioni impossibili e spesso derive autoritarie - e riformismo, ossia un modello di trasformazione graduale, senza romanticismo e fiammate di riscatto universale ma sostanzialmente inattuabile. Per questo motivo Turati è la lettura che consiglierei ai dirigenti del Partito democratico e del Movimento 5 Stelle che si riconoscono in una tradizione riformista. Turati diceva di non confondere il gradualismo con l’eccessiva prudenza, ma che gradualmente le cose vengono davvero cambiate: non prudentemente, per non pestare i piedi a opinione pubblica e aziende, ma con criterio e realismo. In periferia il Pd muore perché ha utilizzato questi territori come luoghi di facile estrazione di voto di scambio. Un voto un favore. Eppure, i dati lo mostrano, i giovani sono sfuggiti a questa logica e hanno votato candidati che non avrebbero potuto (per ora) prometter loro nessun favore e non avevano alcuna clientela. Su questo M5S e de Magistris hanno puntato. La centralità delle periferie non è nelle promesse né nelle opere "sociali", ma in una sfida che è vitale: rendere le periferie luoghi in cui si vuole rimanere, comprare casa, investire. Certo, il cambiamento, quello vero, richiede tempo, impegno, dedizione, pazienza e costanza. Ma è esattamente dalle periferie che può arrivare l’unica rinascita possibile del nostro paese. Nelle periferie dove nasce il grande scontento: gli esclusi in rivolta contro il centro di Ilvo Diamanti La Repubblica, 27 giugno 2016 La frattura fra centro e periferia costituisce una delle più importanti spiegazioni del comportamento politico. Definita, con chiarezza, da Stein Rokkan, insieme a Seymour Lipset (fra gli anni Sessanta e Settanta). I quali, però, facevano riferimento, principalmente, alla dimensione territoriale. Alle tensioni delle periferie, nella ricerca di difendere la loro autonomia e la loro identità di fronte all’egemonia del centro. Tuttavia, ai nostri giorni, il segno della periferia va oltre. Evoca la dimensione sociale, insieme a quella territoriale. D’altronde, periferie sociali e territoriali, inevitabilmente, si incrociano e si influenzano reciprocamente. Ma con effetti diversi. La periferia può delineare i luoghi lontani ed esclusi dalla geografia del potere e della cultura. Oppure, in alternativa, le sedi dove i cambiamenti avvengono senza strappi, in modo meno vistoso, le "province" dove si riesce a produrre, a lavorare, a crescere economicamente senza traumi, senza rinunciare a vivere bene. Restando nell’ombra. In periferia, appunto. Dov’è più semplice agire e reagire, limitando le interferenze esterne. Tuttavia, ciò che sta succedendo in questi tempi non riflette dipendenza, né distacco ma, per certi versi, una rivolta delle periferie territoriali, economiche, sociali. Le quali rinunciano alla strategia dell’attesa per emergere in modo appariscente. Servendosi di media e attori ad alta visibilità. Leader, partiti, movimenti. Agitati e attivi. Si tratta di una tendenza globale che spiega alcuni dei fenomeni politici più rilevanti di questo periodo. Negli Stati Uniti, Donald Trump ha intercettato la paura delle classi agiate bianche contro la minaccia delle altre componenti dell’universo multietnico americano. Inoltre alimenta la paura di nuove migrazioni, che spingano ancor più in basso, ancor più in periferia, la classe media. Così, in Gran Bretagna, il motore della Brexit è certamente il sentimento di declino delle aree extraurbane inglesi, dei settori sociali colpiti dalla crisi, dei più anziani. Che imputano all’Europa - "centrata" sulla Germania - la propria crescente perifericità. E vorrebbero isolarsi di più. Se non possono più essere centro, meglio non diventare periferia. Europea. Scozia e Irlanda del Nord, invece, hanno votato no alla Brexit. Perché si sentono periferia di Londra. D’altronde, almeno in Europa, ormai da molto tempo classe operaia e ceti esclusi - dal mercato del lavoro - non votano più per la sinistra ma per i partiti di destra. E per le forze politiche definite populiste. In Francia per il Front National di Marine Le Pen, primo partito della classe operaia, tradizionalmente forte nelle aree periferiche - di confine - a sud e nel nord est. In Italia la classe operaia (ciò che ne resta) fino a ieri si era avvicinata alla Lega. Ma oggi vota, in misura crescente, per il Movimento Cinque Stelle. In Italia, d’altronde, la maggioranza della popolazione - il 53 per cento - si sente e si definisce di classe sociale bassa e medio-bassa. Fra gli elettori del M5S la percentuale sale al 60 per cento. Insomma la periferia della società preferisce le scelte antipolitiche e impolitiche. Peraltro, se poniamo attenzione sulle recenti elezioni amministrative, la crescente centralità della periferia diventa evidente. A Torino la neo-sindaca, Chiara Appendino, si è imposta - soprattutto - nei quartieri periferici. Fra i giovani. Mentre Fassino resiste al centro e in collina. Fra i più anziani. La frattura generazionale è, dunque, divenuta importante. Anche se con effetti diversi. Privati di futuro, i giovani se ne vanno. Oppure votano contro. Com’è avvenuto in Spagna, dove si vota proprio oggi. Là, i più giovani si sono rivolti a Podemos (oggi alleato di Izquierda Unida). Perché, rispetto alle politiche dei partiti maggiori (Partito socialista e Partito Popolare), si sentono periferici. Per tornare in Italia, a Roma, nelle amministrative, Virginia Raggi ha dominato a Ostia e nei quartieri periferici più popolosi. Mentre Roberto Giachetti resiste solo nel centro storico e nei quartieri borghesi, Parioli e Nomentano. A Napoli, infine, Luigi De Magistris, portabandiera della periferia alla conquista dei centri, ha vinto in tutti i quartieri, a partire dal Vomero. Spingendo i concorrenti, per prima la candidata del Partito democratico, Valeria Valente, non in periferia, ma fuori dalla città. Nel complesso, queste elezioni amministrative disegnano un’Italia senza radici, come abbiamo scritto in sede di analisi del risultato. Un paese dove le specificità (politiche) territoriali si stanno scolorendo. D’altronde, il M5S, dichiarato vincitore, non ha radici. Al di là delle due metropoli dove ha vinto, si è affermato in altre diciassette città maggiori distribuite in tutto il territorio. Mentre il Pd si è perduto. Non solo perché ha perduto in metà delle città maggiori dove prima governava: 45 su 90. Ma perché è arretrato soprattutto nel suo territorio. Nelle regioni rosse del Centro. La Lega "nazionale" di Salvini, a sua volta, ha perduto a Varese. La sua patria. E non è riuscita a proseguire la propria marcia oltre il nord. Da parte loro, i Forza-leghisti non sono riusciti a riprendersi Milano. La loro capitale storica. E mitica. Così si delinea la mappa di un paese incerto e instabile. Senza colori. Che non ha più capitali. Oppure ne ha troppe. Perché la periferia si è allargata dovunque. Da nord a sud. Ovunque, in Italia, è periferia. Dovunque cresce la voglia di cambiare. Di diventare centro. Oppure, di ribellarsi al centro. Per sfuggire al declino. Il vento del cambiamento, in fondo, ha questo significato. Evoca il rifiuto di rassegnarsi: a scivolare verso la periferia. E a rimanere lì. Senza speranza. Il mondo che rivuole le frontiere di Federico Rampini La Repubblica, 27 giugno 2016 L’offensiva liberista avviata da Reagan e dalla Thatcher ha creato fratture che ora stanno provocando reazioni inattese Oggi Trump ripete gli stessi argomenti di chi era contro gli accordi di libero scambio tra Messico, Usa e Canada. La competizione globale - dice Barack Obama - dà a molti lavoratori la sensazione che li abbiamo abbandonati. Provoca diseguaglianze ancora maggiori. I privilegiati accumulano straordinarie ricchezze e potere. L’angoscia è reale. Quando la gente è spaventata, ci sono politici che sfruttano queste frustrazioni". Pronunciate poche ore dopo il risultato del referendum inglese, queste parole del presidente degli Stati Uniti abbracciano fenomeni comuni a tutto l’Occidente. Da Brexit a Donald Trump, forti correnti dell’opinione pubblica appoggiano i politici che promettono un ritorno all’indietro, verso un’Età dell’Oro pre-globalizzazione. È un vasto rigetto delle frontiere aperte, dei mercati comuni, dei trattati di libero scambio, oltre che dell’immigrazione. Viene rimesso in discussione tutto ciò che sotto il termine di globalizzazione ha segnato l’ordine economico mondiale nell’ultimo quarto di secolo. Una storia che ha origini in due trattati. Il primo è l’Atto che crea nel 1992 il grande Mercato unico europeo. Il secondo è il Nafta (North American Free Trade Agreement) negoziato nel ‘92 e ratificato nel 1994 tra Stati Uniti, Canada e Messico. Parte da quei due cantieri la costruzione di un sistema che in seguito si estenderà fino ad abbracciare Cina e altre nazioni emergenti. Ma dall’inizio Mercato unico e Nafta avevano in embrione i problemi destinati a esplodere oggi. Le riforme di mercato degli anni 90 arrivano al termine di un’offensiva neoliberista travolgente: gli anni Ottanta con Ronald Reagan e Margaret Thatcher hanno delegittimato l’economia mista, il capitalismo di Stato, la pianificazione, la concertazione sindacale. Il crollo del Muro di Berlino ha sancito il fallimento dei sistemi comunisti. L’implosione dell’Urss e dei suoi satelliti è l’altra faccia di una storia di successo: di qua dal Muro, l’America e l’Europa occidentale hanno conosciuto decenni di sviluppo e diffusione del benessere, che hanno coinciso con i primi smantellamenti di barriere doganali. Dal 1947 al 1995 il Gatt e la Cee sono stati i primi esperimenti di libero scambio. Con gli anni Novanta la parola d’ordine diventa: andare più avanti, molto più avanti. Reagan-Thatcher sposano le teorie di Milton Friedman, premio Nobel dell’economia, capo della "scuola di Chicago". Qualsiasi laccio che freni il mercato va abolito perché impedisce il dinamismo e la creazione di ricchezza. Senza più barriere e protezionismi ciascun paese può specializzarsi nelle cose che fa meglio e sfruttare i "vantaggi comparativi". Fin da allora si levano alcune voci critiche. Jacques Delors, socialista e cattolico, è il presidente della Commissione europea che gode dell’appoggio di François Mitterrand. Delors vede la necessità che il Mercato unico sia accompagnato da una "carta sociale" dei diritti: per evitare che la competizione fra paesi di livello diverso si trasformi in una "rincorsa al ribasso" verso il minimo comune denominatore. Nel Mercato unico c’è qualcosa dell’idea di Delors. Tant’è che i conservatori inglesi allora denunciano un’Europa "socialista" che impone rigidità al mercato del lavoro. È di quegli anni un progresso nelle tutele dei consumatori, terreno sul quale l’Europa parte tardi ma sorpassa rapidamente gli Stati Uniti. Il Mercato unico è più di un’area di libero scambio. Elimina barriere occulte all’esportazione di beni e anche di servizi; abolisce ostacoli alla circolazione di tutti i fattori di produzione: dà libertà ai movimenti di capitali e all’emigrazione di manodopera. Coordina politiche fiscali, industriali, agricole. Crea regole standard in quasi tutti i settori. Apre il mercato dei lavori pubblici. Vieta gli aiuti di Stato. Il celebre Rapporto di Paolo Cecchini (eseguito su richiesta di Delors) prevedeva, tra i benefici del Mercato unico, due milioni di posti di lavoro. Il Nafta dal primo gennaio 1994 estende un esperimento simile a tutto il Nordamerica: un’area che oggi include 480 milioni di abitanti. Lo firma un presidente democratico, Bill Clinton, con una dichiarazione scolpita nella pietra, che ancora oggi viene rinfacciata a Hillary. "Il Nafta - dice Bill firmando il trattato - significa lavoro. Nuovi posti per gli americani, ben pagati". Fin dall’inizio ci furono resistenze. I sindacati, e non solo. Clinton aveva conquistato la Casa Bianca perché nell’elezione del 1992, a rubare voti al presidente uscente George Bush Senior era sceso in campo un terzo candidato indipendente, un Trump ante litteram: l’industriale Ross Perot. Il suo slogan più celebre, contro Bush che aveva negoziato il Nafta: "Quel trattato è un gigantesco aspirapolvere, succhierà fabbriche e occupazione dagli Usa al Messico". Perot puntava il dito sul divario salariale: la paga oraria di un operaio messicano arrivava a stento a un decimo di quella Usa. Oggi Trump riprende gli stessi argomenti. Oltre al Muro contro l’immigrazione promette pesanti ritorsioni e multe contro le imprese Usa che delocalizzano nei paesi a basso salario. Il bilancio del Nafta che "perseguita" Hillary è meno brillante di quanto prometteva suo marito nel firmarlo. Uno studio indipendente del Congressional Research Service un quarto di secolo dopo definisce "modesti" i benefici del Nafta. L’organismo confindustriale U.S. Chamber of Commerce lo difende attribuendogli il boom di scambi: quintuplicati nel mercato nordamericano. Ma la confederazione sindacale Afl-Cio ha censito oltre 700.000 posti di lavoro trasferiti dagli Usa al Messico. Se si allarga lo sguardo oltre il Messico, si arriva a tre milioni di posti operai eliminati nella vecchia Rust Belt, la "cintura della ruggine", gli Stati industriali del Midwest che furono il centro della potenza industriale Usa per due secoli. È lì che si gioca a novembre la sfida decisiva tra la Clinton e Trump. La decideranno elettori come Joe Shrodek, metallurgico in pensione, nella cittadina di Warren, Ohio. Ha sempre votato democratico. Ma oggi indica l’altoforno siderurgico dove lui lavorava: "Lì quando cominciai eravamo in diecimila operai. Oggi? Zero. Impianto chiuso. Trump dice le cose giuste. Al cento per cento". Migranti, il mare racconta di Angela Calvini Avvenire, 27 giugno 2016 L’estate pare finalmente arrivata, insieme alla carica dei festival che da nord a sud dell’Italia riempiono le nostre piazze. Ma con il bel tempo, aumenta anche il numero dei barconi fatiscenti con il loro carico di umanità disperata. In un anno un milione di rifugiati arrivati in Europa dal mare e 3.900 morti nel Mediterraneo. E proprio le città lambite dal "Mare nostrum" non possono fare a meno di interrogarsi su quello che sta accadendo. La prima a capirlo è stata Genova, porto di mare da sempre crogiuolo di popoli che si incrociano tra i profumi di spezie dei carruggi cantati da De André. E proprio il Suq Festival - Teatro del dialogo del Porto Antico di Genova ha anticipato tutti 18 anni fa, su intuizione della sua direttrice, Carla Peirolero, storica attrice dello Stabile cittadino. Una settimana di incontri sino al 26 giugno (RadioInblu è media partner), dibattiti, concerti e cucina etnica da 35 Paesi, perché come dice l’afghano Chef Kumalé "la buona cucina aiuta a digerire gli altri". E tanto teatro, con produzioni originali del festival come Hagar, la schiava di Adonis, ispirata alla Bibbia, regia di Giuseppe Conte, che debutta stasera nella chiesa di San Pietro in Banchi. L’incontro con lo "straniero" è fisico, a Genova. Nella Piazza delle Feste disegnata da Renzo Piano a bordo mare risuona Bob Marley cantato dagli African Gang Stars, band formata da richiedenti asilo nei centri di accoglienza di Genova, progetto Migrantes nato da un incontro tra Pino Parisi e monsignor Giacomo Martino. In contemporanea, sulla terrazza del Museo Luzzati, un antico bastione del ‘500 dominante lo stesso mare, tre ragazzi italiani si ritrovano rinchiusi e sballottati in un container, perquisiti, spogliati dei loro beni e condotti verso un destino fatale da un corpulento scafista. Sono i giovani e bravi attori del centro teatrale MaMiMò, che ci raccontano la migrazione ribaltando il punto di vista, immaginando di essere noi a fuggire, poveri e terrorizzati, da un’Europa al tracollo. Scusate se non siamo morti in mare è il titolo, ispirato da un cartello issato dai migranti rinchiusi nel centro di accoglienza di Lampedusa. E se quelli fossimo noi? Vengono i brividi ad assistere all’opera avvincente, beffarda, a tratti surreale, benissimo scritta da Emanuele Aldrovandi che col suo testo ha appena vinto il bando Migrarti del Mibact. "Ci interessa parlare di umanità - spiega ad Avvenire il giovane regista Pablo Solari che porterà i tour il lavoro -. Saremmo falsi se raccontassimo la migrazione degli altri perché non l’abbiamo vissuta. Quindi abbiamo cercato un nostro punto di vista, che lasci uno spazio alla speranza. Siamo la generazione della crisi? Proprio per questo tra i giovani artisti c’è un ritorno al teatro di parola e all’impegno". Sono giovani provenienti invece dall’Afghanistan, dalla Siria e l’Eritrea quelli che si raccontano in prima persona, attraverso i filmati dei loro telefonini, nell’appassionante docufilm #myescape presentato in anteprima a Palermo, al Sole Luna Doc Film Festival alla Zisa sino 26 giugno. Il film, una produzione tedesca con la regia di Elke Sasse, documenta il viaggio che il migrante affronta, alla ricerca di sicurezza e libertà, dalla sua organizzazione all’arrivo. In molti casi, il telefono cellulare è diventato lo strumento essenziale, un compagno onnipresente che documenta esperienze estreme. Un prezioso resoconto di prima mano attraverso gli occhi di persone che scopriamo molto più simili a noi di quanto si creda: giovani determinati, intelligenti e spiritosi, che amano il rock e ci tengono anche a presentarsi con abiti "alla moda" ai loro coetanei europei. Ma il percorso è durissimo: la fotocamera era lì con loro quando le bombe hanno colpito le loro strade e le case sono state ridotte in macerie, quando hanno rischiato la loro vita per attraversare le frontiere a piedi, in barca, in treno o in auto. E così seguiamo passo passo la fuga dalla Siria di Omar, studente di 21 anni, il padre ucciso da uomini del Daesh, che ha documentato passo passo il suo viaggio. O la coraggiosa traversata a piedi del deserto di Rahmat, reporter di Kabul, e di suo figlio Mujtab, 8 anni, come l’avventura della dolce Toba, 15enne di Herat costretta a fuggire da un matrimonio forzato con un talebano trentenne. Gli eritrei, come il 28enne Khaled e i suoi amici, attraversano il Mediterraneo dopo avere sperimentato (e filmato) l’assalto dei predoni nel deserto libico che rapiscono, rivendono o uccidono questi nuovi schiavi. Il sogno per la maggior parte è la Germania. E vedere le loro lacrime quando vengono accolti, dopo tanti muri e fili spinati, dalla popolazione tedesca con un "welcome" (benvenuti), sorprende e allarga il cuore. Welcome è anche il titolo del progetto speciale del Napoli Teatro Festival Italia, in scena il 16 luglio. Creato e messo in scena da artisti e tecnici migranti, con la regia di Franco Dragone e la direzione musicale di Sergio Rendine, inviterà ad abbattere la barriera del pregiudizio attraverso la musica. Dal 28 giugno al teatro Argentina di Roma, invece, debutta in prima nazionale Respiro, spettacolo di Riccardo Vannuccini realizzato con i rifugiati provenienti dall’Africa del C.A.R.A. (Centro Accoglienza Richiedenti Asilo di Castelnuovo di Porto). Il dramma del loro viaggio viene raccontato attravereo i testi di Shakespeare, Bachman, Eliot, Eschilo e Omero. Perché in fondo, anche Ulisse era un migrante. Giulio e l’Egitto, vittime della tortura di Stato di Chiara Cruciati Il Manifesto, 27 giugno 2016 Caso Regeni. "Ammazzato come un egiziano", dicono gli attivisti. Perché al Cairo di tortura si muore e solo i racconti dei sopravvissuti riescono a dare la misura delle violazioni nelle prigioni dell’esercito. Come il buco nero di al-Azouly. Nella Giornata internazionale per le vittime di tortura la mente non può che andare a Giulio Regeni e alle parole che gli egiziani da allora ripetono: "Giulio è stato ammazzato come un egiziano". Perché di tortura e detenzione in Egitto si muore continuamente. Si moriva sotto Mubarak, si muore - se possibile con più frequenza - sotto al-Sisi. Per questo il regime mostra nervosismo per i riflettori che Amnesty International mantiene accesi: il portavoce del Ministero degli Esteri egiziano Abu Zeid ha parlato di provocazione dopo l’annuncio della tweet action di ieri e oggi per chiedere verità per Giulio. Si tratta - dice Abu Zeid - "di un nuovo modo di colpire l’Egitto" da parte di un’organizzazione, Amnesty, "che non è neutrale né professionale". Bilanci è difficile darne. Il Nadeem Center, organizzazione che da 20 anni documenta i casi di tortura e offre assistenza psicologica alle vittime, ci prova: solo nel 2015 ha registrato 1.176 casi di tortura e 500 morti. Ma se si guarda ai numeri esorbitanti di prigionieri politici è facile immaginare che le vittime siano molte di più: 41mila detenuti per ragioni politiche, questo il bilancio - sempre al ribasso - che l’organizzazione egiziana Arabic Network for Human Rights Information è riuscita a calcolare. Un intreccio mortale: sparizioni forzate, prigionieri politici, torture sistematiche. I racconti dei sopravvissuti portano dritti all’inferno, dentro celle sporche e affollate, lontane e dimenticate, dove vengono ammassati attivisti, avvocati, sostenitori dei Fratelli Musulmani, uomini sospettati di legami con gruppi islamisti. "È peggio di qualsiasi cosa si possa immaginare", raccontava un anno fa all’agenzia The New Arab Abdullah Ahmed, 22 anni, studente di ingegneria accusato di affiliazione allo Stato Islamico. "Le violazioni sono disumane, elettroshock ai genitali, abusi sessuali, waterboarding, prigionieri appesi per gambe e braccia, calci in faccia. Gli animali selvatici trattano i loro simili molto meglio di così". È la quotidianità nelle carceri d’Egitto. Al-Azouly è una di queste. Un buco nero, la prigione più temuta da sempre, chiusa dentro la base militare di Al Galaa ad Ismailia, 130 km a nord-est del Cairo, che dal 2013 ha fagocitato la ribellione di Fratelli Musulmani, studenti e attivisti alla repressione di Stato. Qui in migliaia sono scomparsi, nascosti al resto del paese e al suo sistema legale. Chi esce da al-Azouly prova a raccontare quel girone infernale: i prigionieri subiscono scosse elettriche e pestaggi di routine, vengono appesi per ore, costretti a rilasciare confessioni di ogni tipo. "Ufficialmente tu non sei lì", dice Ayman al The Guardian. Ayman è finito a al-Azouly nel 2013 ed è uno dei pochi fortunati ad esserne usciti. "Non ci sono documenti che attestino la tua presenza là. Se muori a al-Azouly nessuno lo saprà mai". La procedura è per molti la stessa: arrestati con pochissime prove a carico, vengono torturati con regolarità nel famigerato Edificio S-1, fino a quando non sputano le informazioni che i carcerieri vogliono sentire. "Moltissimi ad al-Azouly sono stati arrestati in modo indiscriminato - spiega Mohammed Elmessiry, ricercatore di Amnesty - Poi i servizi segreti li torturano fino a quando non raccolgono quello che serve per dimostrare la partecipazione a violenze". Così giustificano la detenzione che comincia allo stesso modo: il prigioniero è costretto a passare per "la cerimonia di benvenuto", un pestaggio di gruppo con bastoni e tubi che dura fino a quando il detenuto riesce a raggiungere la cella dove scomparirà, insieme ad altri 20-25 prigionieri. Prigioni come al-Azouly sono gestite dai servizi segreti militari, mentre l’intelligence del Ministero degli Interni opera in centri legati alla polizia. Il percorso è simile: le confessioni - vere o false che siano - vengono estorte dall’esercito e poi confermate di fronte a procuratori civili. Solo allora si finisce in un carcere civile, come la nota prigione della capitale, Scorpion, dove le torture sono meno sistematiche perché legali e familiari possono fare visita ai detenuti. Una legge contro la tortura non esiste, sebbene l’Egitto sia firmatario della Convenzione Onu del 1984. La società civile tenta da tempo di sottoporre un disegno di legge al parlamento, senza successo. L’avvocato el-Borai e due giudici, Raouf e Al-Gabbar, ne hanno redatto uno che propone 25 anni di carcere ai responsabili di torture. Per questo sono sotto inchiesta, accusati di attività politica illegale. L’Egitto ottiene un seggio al Comitato Onu per i Diritti umani Avvenire, 27 giugno 2016 Solo 10 giorni fa la madre di Giulio Regeni, Paola, gridava la sua rabbia davanti alla Commissione Diritti umani del parlamento di Bruxelles perché l’Europa, e anche l’Italia, pretendesse chiarimenti dall’Egitto sulla morte del figlio. Oggi la notizia dell’elezione del paese a membro del Comitato Onu per i Diritti umani dove, dal 2017 al 2021, sarà rappresentato dall’ambasciatore Ahmed Fathallah. Sulla pagina Facebook del ministero degli Esteri egiziano, il portavoce Ahmed Abu Zeid ha sottolineato che "la conquista dell’Egitto di una posizione nel comitato è importante in quanto rispecchia la fiducia della Comunità internazionale nel Paese e nell’impegno egiziano verso i propri doveri internazionali e manda un messaggio forte a quanti sono scettici riguardo al rispetto da parte dell’Egitto verso i propri obblighi costituzionali e internazionali per quanto riguarda i diritti umani". Resta il fatto che negli ultimi anni molte organizzazioni di difesa dei diritti umani hanno denunciato, e continuano a denunciare, numerosi abusi compiuti dal governo e dalle forze dell’ordine del Paese. Circostanza che sembra stridere con il compito del Comitato, un organismo composto da 18 esperti indipendenti che monitora l’applicazione da parte degli Stati membri della convenzione Onu sui diritti civili e politici, la cui assemblea si riunisce a Ginevra generalmente per tre sessioni l’anno. Il Papa e la lezione sul genocidio armeno di Marco Ventura Corriere della Sera, 27 giugno 2016 Si è chinato davanti alla fiamma eterna del memoriale, papa Francesco, e ha deposto una rosa bianca e una gialla. Più tardi, nello stesso giorno di sabato, davanti ai cinquantamila della piazza della Repubblica di Yerevan, il Pontefice ha commemorato il Metz Yeghérn, il "Grande Male" armeno del 1915. Dagli altoparlanti della piazza si è diffusa la parola chiave: genocidio. Così si era già espresso Francesco, in San Pietro, nell’aprile 2015, in occasione del centenario, e venerdì, nel discorso al Palazzo presidenziale. Senza infingimenti. Senza paura. Genocidio. La reazione turca è arrivata per bocca del vicepremier: per Nurettin Canikli quelle del Papa sono "parole molto spiacevoli che indicano la persistenza della mentalità delle Crociate". Nella sua rozzezza, l’attacco denuncia due inadeguatezze. La prima riguarda il governo turco: tanto lontano dall’Europa e dalla liberal-democrazia; sempre più incapace di gestire il fronte interno e quello esterno e perciò sempre più aggressivo. La seconda riguarda i leader dei Paesi musulmani, privi di visione per i loro popoli e per il mondo, insteriliti dall’istinto dispotico, prigionieri dell’odio religioso. Si staglia, al confronto, la forza diplomatica della Santa Sede, che ha accolto il rientro dell’ambasciatore turco ritirato da Erdogan dopo l’aprile 2015 non con tattica autocensura, ma con la fermezza di chi ha una verità da dire e il coraggio di dirla. Soprattutto, riluce la forza profetica del messaggio di Francesco: a nulla serve la memoria se non porta alla riconciliazione. Dietro il Papa che dice "genocidio" si staglia la cima innevata dell’Ararat, dove si posò l’Arca quando si ritirarono le acque. La religione di chi evoca a sproposito le "Crociate" è in balia dei marosi. Guarda oltre al diluvio, invece, la fede di Francesco.