"Un 41-bis più umano", lo chiede la Commissione Diritti umani del Senato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 giugno 2016 Durante il lungo dibattito dal titolo "Stati generali dell’esecuzione penale", organizzato a Rebibbia dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, è entrato nel vivo la questione del 41 bis. Il ministro Angelino Alfano è stato fermissimo nel dire che indietro non si torna: "Sono stato firmatario di varie forme di inasprimento del 41 bis: non me ne pento e sono contrario a forme di attenuazione. Non credo ci siano molte altre strade per evitare che i boss possano mandare messaggi all’esterno". Ma la sua presa di posizione va in controtendenza a ciò che raccomanda al governo la Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani presieduta dal senatore Luigi Manconi. Tale organismo ha svolto nel corso del 2013, 2014 e 2015 un’indagine conoscitiva sulle condizioni di applicazione del regime detentivo speciale del 41-bis, focalizzando il tema dal punto di vista del rispetto della dignità e dei diritti della persona. Dall’indagine è emerso che il carcere duro presenta un surplus di afflizioni, privazioni e restrizioni che non rispettano le garanzie previste dalle norme nazionali e internazionali; in alcuni casi supera perfino l’esigenza - il motivo della funzione del 41 bis - di tagliare e impedire i rapporti tra i detenuti e la criminalità organizzata di appartenenza. Nel quarto capitolo del rapporto presentato dalla Commissione, si propongono una serie di raccomandazioni e alcune misure concrete attuabili a breve termine. Secondo la stessa giurisprudenza c’è la piena consapevolezza istituzionale che il 41 bis comporta gravi limitazioni dei diritti fondamentali dei detenuti e quindi dovrebbe essere applicato solo eccezionalmente e per limitati periodi di tempo. Il rapporto della Commissione preme a sottolineare che le limitazioni alle attività e alla socialità interna all’istituto (non più di un’ora d’aria e di "socialità", in gruppi non superiori a quattro), se prolungate nel tempo, possono avere effetti dannosi sulla salute fisica e psichica dei detenuti, come rilevato dal comitato europeo per la prevenzione della tortura nella sua relazione del 2013. Tale comitato, sia nel 2009 che nel 2013, ha ribadito che l’uso del regime duro, come mezzo di pressione psicologica sui detenuti al fine di cooperare con il sistema giudiziario - per "dissociarsi" dall’organizzazione di appartenenza o "cooperare con le autorità" - sarebbe molto discutibile. In particolare desta preoccupazione la prassi della proroga: per un considerevole numero di detenuti - se non per la loro totalità, come rilevato dal cpt nel 2008 - l’applicazione del regime di cui all’articolo 41-bis è stato rinnovata in maniera pressoché automatica. Con la conseguenza - specifica il rapporto - che i detenuti interessati sono stati per anni soggetti a un regime detentivo caratterizzato da un insieme di restrizioni le quali potrebbero rappresentare una negazione del trattamento penitenziario descritto dai principi direttivi dell’ordinamento, della sua universalità e della sua individualizzazione, fattore essenziale nella finalità della pena prescritta costituzionalmente. Effetto di ripetute proroghe dell’applicazione del 41 bis, è il caso di detenuti ormai anziani che perdono progressivamente le proprie capacità di discernimento. Per questo motivo, la Commissione per la tutela e la promozione dei diritti, ritiene una revisione della legislazione consolidata, onde evitare che nella sua applicazione si manifestino rischi quali quelli paventati dal comitato europeo che vigila sulla tortura. La Commissione inoltre ha rilevato altri problemi. Gli ambienti detentivi, ovvero le celle, risultano non essere adeguate agli standard minimi di abilità. Inoltre evidenza la sproporzione dell’utilizzo della videosorveglianza h24 delle camere detentive e si raccomanda che la videosorveglianza sia applicata solo in casi particolari a fini di tutela del detenuto inabile, ovvero per un periodo di tempo limitato su disposizione dell’autorità giudiziaria nell’ambito di un procedimento penale in corso, e comunque limitatamente all’ambiente di soggiorno/pernottamento e non anche in quello da bagno. Poi c’è il problema della relazione con il mondo esterno. I detenuti reclusi nel regime 41 bis sono totalmente distaccati dal personale interno e ciò rende essenziale il rapporto con i familiari non solo sotto il profilo tratta mentale, ma anche al fine di contribuire a garantire quel minimo di socialità che consente di evitare condizioni di detenzione contrarie al senso di umanità. Per questo la commissione si raccomanda di facilitare lo svolgimento dei colloqui dei parenti dei detenuti e, in particolare di consentire la possibilità di cumulare le ore di colloquio non usufruite; di verificare la possibilità di dedicare alle visite con i minori di 12 anni un intervallo di tempo al di fuori dei 60 minuti totali riservati al colloquio con i familiari; che sia consentito, almeno ai detenuti che abbiano scontato buona parte della pena, di avere visite senza vetro divisorio in condizioni di sicurezza idonee. La commissione conclude con una altra raccomandazione. Ovvero quella di garantire un giusto processo nei confronti dei detenuti al 41 bis. Attualmente vige il divieto di partecipare fisicamente al proprio processo, ciò viene garantito esclusivamente tramite un sistema di videoconferenza. Pertanto la Commissione raccomanda che ai detenuti in regime di 41-bis sia garantita la possibilità di prendere parte alle udienze dei processi cui partecipano nelle vesti di imputati. Non mancano le polemiche politiche nei confronti della Commissione. "Su questa norma faremo le barricate, se qualcuno pensa di fare cortesie a qualche amico capomafia, sta nettamente sbagliando. Il Movimento 5stelle non lo consentirà", ha tuonato il senatore grillino Michele Giarrusso. E aggiunge: "Il presidente Manconi, del Pd, deve dimettersi è intollerabile il suo attacco a tutta la normativa antimafia. Il Movimento sta dalla parte delle vittime di mafia e non dei carnefici". Nel frattempo il rapporto è stato approvato dalla Commissione con 12 voti favorevoli, 4 contrari (Forza Italia e M5s) e nessun astenuto. Ora toccherà al governo e il parlamento raccogliere questa sfida per rendere più umano il 41 bis. Tortura. Il ministro Orlando: "il vuoto normativo esiste, serve approvazione" di Rita Rapisardi L’Espresso, 25 giugno 2016 Il ministro della Giustizia ha incontrato Ilaria Cucchi che gli ha simbolicamente consegnato le oltre 200.000 firme raccolte grazie a una petizione su Change.org. "Mio fratello è diventato un simbolo. Con le firme porto la voce di tante persone che vogliono credere nelle istituzioni. Questo è solo l’inizio" ha detto la sorella di Stefano. "Un vuoto normativo esiste. Mi auguro di dare una risposta in tempi rapidi sull’approvazione, è una questione che dobbiamo risolvere anche nei confronti della Corte europea di Strasburgo". Così il ministro della Giustizia Andrea Orlando sul reato di tortura. Orlando ha incontrato Ilaria Cucchi e l’avvocato della famiglia Fabio Anselmo per ricevere le firme raccolte con una petizione su Charge.org per l’introduzione della legge. La raccolta di firme in soli cinque giorni ha raggiunto 223.000 persone, ma l’obiettivo è 300.000. A pochi giorni dal 26 giungo, Giornata mondiale contro la tortura. "Cerchiamo un testo equilibrato che garantisca l’operato delle forze dell’ordine. In ogni caso la maggior parte di loro non ha niente da temere - ha aggiunto Orlando. Resta comunque un obbligo di carattere internazionale, perché oltre alle sanzioni che hanno un impatto concreto c’è un impatto di immagine sul nostro Paese. La raccolta firme è un tributo importante". "Lo stesso procuratore generale ha riconosciuto il caso di mio fratello come un caso di tortura", ha detto Ilaria Cucchi, citando le ultime dichiarazioni al processo contro i medici, che si celebra alla Corte d’Assise di Appello di Roma. "Mio fratello è diventato un simbolo. Molti si sono riconosciuti in questa battaglia. Con le firme porto la voce di tante persone che vogliono credere nelle istituzioni. A nome loro mi sento dire che questo è solo l’inizio. Insieme riusciremo a raggiungere un risultato". Il ministro ha poi parlato con preoccupazione della direzione che sta prendendo l’Europa: "Nell’Unione esiste il rischio di regressione e questo mi preoccupa. In nome di una maggiore sicurezza molti paesi stanno rinunciando alla libertà dei singoli. Ad esempio noi in Italia il terrorismo l’abbiamo sconfitto nei tribunali non nelle caserme". "È chiaro che il corpo di Stefano parla - ha detto invece Anselmo - C’è bisogno un reato di tortura, ma purtroppo nel dibattito pubblico è spesso passato un concetto sbagliato: che chiedere questa legge voglia dire andare contro le forze dell’ordine. Ma non è così. Anche le Nazioni Unite da oltre vent’anni ci chiedono un passo avanti". L’avvocato poi evidenzia che il buco normativo si riscontra anche nei tribunali: "Esistono sentenze che riconoscono la tortura, ma cadono nel vuoto perché manca il reato, quindi non si possono attuare. La legge non è contro le forze dell’ordine, ma per loro e per i cittadini", ha concluso Anselmo. Intercettazioni, il dubbio di Greco sul codice interno di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 25 giugno 2016 Il procuratore di Milano valuta l’adozione di una direttiva. Le premesse ci sono tutte. E sono delle migliori. Anche perché, se nemmeno Francesco Greco, uno dei magistrati più esperti che ci sono in Italia, riuscirà a ripristinare un modello d’indagine non limitato alle intercettazioni, vuol dire che nessuno è destinato a riuscirci. In uno dei suoi primi interventi, il neo procuratore di Milano ha dichiarato che "c’è la necessità che i pubblici ministeri tornino a una cultura antica delle investigazioni e della loro centralità rispetto alle indagini: abbiamo delegato tutto alla polizia giudiziaria". Un mea culpa tardivo ma, sicuramente, di buon auspicio, per porre finalmente fine all’incontinenza d’ascolto del maresciallo, oggi dominus indiscusso delle indagini. Colui che, celato dietro un paio di cuffie, a sua personale discrezione decide cosa trascrivere e cosa no. Quali telefonate sono utili alle indagini e quali no. Infatti, prosegue Greco, "la mia preoccupazione principale è che il pm non conosca tutte le intercettazioni che fa". Codice rovesciato - Il nuovo capo della Procura milanese conferma nei fatti che è la polizia giudiziaria e non il magistrato oggi a condurre le indagini. Un rovesciamento di ciò che il legislatore aveva previsto con il codice di procedura penale del 1989, quando le forze di polizia vennero poste "sotto la diretta direzione del pubblico ministero". A differenza di quello che va affermando il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, e cioè che bisognerebbe trascrivere tutte le intercettazioni, anche quelle non rilevanti, porre dei seri paletti alla polizia giudiziaria ricondurrebbe il Paese nell’alveo dello Stato di diritto. Solo nei regimi totalitari, infatti, la polizia intercetta senza alcun controllo dell’Autorità. O, come dice Greco, sottoposta a un controllo solo sulla "carta", avendo ormai i pm disimparato l’abilità di condurre le indagini, ed essendosi ridotti ad affidarsi esclusivamente all’operato della polizia giudiziaria. Considerando le intercettazioni per quello che sono, quindi mezzo di ricerca della prova e non prova come nella sostanza è adesso, si eviterebbe la gogna mediatica che attualmente accompagna la fase delle indagini preliminari. Dove anche conversazioni insignificanti finiscono in pasto all’opinione pubblica, quasi sempre in occasione dell’applicazione di misure cautelari. E ciò accade, certamente, non per mano del difensore dell’indagato, come vogliono far credere gli inquirenti quando si verificano "fughe di notizie". Se ciò fosse vero, sarebbe utile che venisse spiegato qual è l’interesse del legale nel vedere il proprio assistito esposto al pubblico ludibrio. La premessa di metodo fatta da Greco all’indomani della sua nomina a procuratore di Milano andrà verificata su un piano concreto. Quello milanese è ad oggi il solo grande ufficio inquirente d’Italia in cui il capo non abbia di recente adottato un "codice interno" sull’uso delle intercettazioni. Lo hanno fatto nei mesi scorsi i capi delle Procure di Torino (Spataro), Roma (Pignatone), Napoli (Colangelo) e Firenze (Creazzo). Se anche Greco seguirà l’esempio dei colleghi e metterà un limite all’uso degli ascolti, da una parte darà un contributo al rispetto dei principi costituzionali, dall’altra si metterà in "conflitto" con Davigo, suo ex collega del pool Mani pulite e attuale leader dell’Anm. Una svolta d’altronde è inderogabile. I giornali che basano la loro linea editoriale sul fango nel ventilatore, copiosamente prodotto grazie alle bobine fornite da pm e marescialli amici, venderebbero qualche copia in meno e l’Italia farebbe però un passo in avanti verso la civiltà giuridica rispettando i propri cittadini e il loro diritto costituzionale alla riservatezza delle conversazioni. PS: "Nelle indagini di criminalità economica, l’abc sono le indagini societarie, non le intercettazioni". Lo ha detto sempre Greco. Chissà se Davigo potrebbe dissociarsi da un’affermazione del genere. Della strage di Ustica sappiamo tutto, ora serve la verità di Daria Bonfietti Il Manifesto, 25 giugno 2016 Ricordiamo il 36° Anniversario della strage di Ustica e continuiamo il cammino verso la verità. Sappiamo già molto di quello che è accaduto nel cielo: sappiamo che "il DC9 è stato abbattuto all’interno di un episodio di guerra aerea, guerra di fatto e non dichiarata", come ci rivela il giudice Rosario Priore già nel 1999. Sappiamo che vi erano altri aerei intorno al DC9 nel momento dell’incidente, ce lo rivela la Nato. Gli esperti della Nato infatti, lavorando su materiale che i nostri militari si rifiutavano di "leggere" al magistrato, confermano la presenza di aerei americani, francesi, belgi, inglesi e forse libici quella sera nel mar Tirreno. Sappiamo che con due sentenze della Cassazione sono stati condannati in via definitiva il ministero dei Trasporti, per non avere garantito la sicurezza dei voli, e il ministero della Difesa, per avere con ogni mezzo, distruzione di prove, depistaggi vari, allontanato il raggiungimento della verità. Dal 2008 sono state riaperte le indagini dalla procura di Roma, dopo le dichiarazioni del presidente Francesco Cossiga, che indica i francesi quali autori, per errore, dell’abbattimento del DC9 Itavia. Nuove rogatorie, gli interrogatori condotti dai magistrati italiani al personale di Solenzara, la base francese in Corsica, permettono di confermare l’attività di quella base aerea per gran parte della notte del 27 giugno 1980, smentendo perciò definitivamente la versione ufficiale francese della chiusura di quella base alle 17. Altri Paesi non hanno risposto o hanno risposto in maniera poco soddisfacente, e allora altre azioni la magistratura non pensiamo possa attivare, crediamo dunque che lo sforzo per aggiungere l’ultimo tassello di verità, cioè gli autori materiali della strage, debba essere fatto dal governo, dalla politica, dalla diplomazia del nostro Paese, che deve far sentire con determinazione rinnovata l’esigenza di ottenere una fattiva collaborazione per il disvelamento totale delle responsabilità in questa azione delittuosa che ha comportato la morte 81 cittadini italiani, pena, noi crediamo, una caduta irreversibili della dignità nazionale. Noi continuiamo, come ogni anno a "fare memoria", a Bologna, dinanzi al Museo per la Memoria di Ustica, dal 27 giugno, anniversario della strage fino al 10 agosto, usando i diversi linguaggi dell’Arte per ricordare, per rinnovare la memoria di quella tragica vicenda, e lo facciamo con eventi di prosa, di musica, di poesia che coinvolgono un numero sempre maggiore di persone che ci accompagnano in questo percorso. Usiamo spesso uno slogan: "dalla verità alla Storia" volendo intendere che ora la vicenda deve essere inserita nella storia complessiva del nostro Paese e dunque che l’impegno deve passare agli storici, non bastano più le inchieste giornalistiche, le indagini giudiziarie e nemmeno le ricostruzioni delle stesse Associazioni delle vittime. Per questo dedicheremo una giornata, il 30 giugno, ad un momento di riflessione, di confronto sulla "Direttiva Renzi", sulla desecretazione degli atti dei ministeri e della P.A, con il sottosegretario De Vincenti e un gruppo di storici, per comprendere meglio da una parte le finalità, gli strumenti, i criteri e le indicazioni date dal governo e far emergere, d’altra parte, le "esigenze" degli storici, dei ricercatori. La storia, crediamo, deve diventare protagonista a cominciare dalla disponibilità completa delle fonti. In tutti questi modi vogliamo continuare il cammino per la verità quindi e nello stesso tempo ricordare i nostri cari e "fare memoria". Friuli Venezia Giulia: l’Ass. Telesca "maggiore assistenza alla salute dei carcerati" triesteprima.it, 25 giugno 2016 Ass. Salute Fvg, Maria Sandra Telesca: "Nel 2014 la Giunta Serracchiani ha trasferito alla Regione la Sanità penitenziaria, questo ha aumentato il personale medico e infermieristico nelle carceri per maggiore assistenza ai carcerati". "La salute è un diritto che deve valere per tutti, anche in carcere. E non deve limitarsi alla condizione di non essere ammalati, ma deve significare star bene". Lo ha detto l’assessore regionale alla Salute Maria Sandra Telesca, intervenendo ieri al convegno "Uno di noi" nella Casa circondariale di Gorizia. All’incontro, promosso da Pietro Pipi in ricordo di Marco Pannella e al suo decennale impegno politico anche nei confronti dei detenuti, hanno preso parte, tra gli altri, l’onorevole Rita Bernardini, il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Enrico Sbriglia, il filosofo Alessandro Tessari e il giurista Francesco Bilotta. Da tutti è stata espressa la preoccupazione per la situazione nelle carceri italiane, dove il sovraffollamento e la carenza di personale rendono difficile la salvaguardia di alcune prerogative inalienabili. Condividendo quest’apprensione, Telesca ha sottolineato come l’Amministrazione regionale, per quanto di sua competenza, ha mosso alcuni passi fondamentali per far fronte a queste criticità. "Nel 2014, pochi mesi dopo l’insediamento della Giunta, si è attuato il trasferimento in capo alla Regione della Sanità penitenziaria", ha ricordato l’assessore. Un passaggio di competenze che ha permesso di rafforzare numericamente il personale medico e infermieristico all’interno delle case di reclusione del Friuli Venezia Giulia, con la garanziàper ìcarcerati di una maggiore assistenza. Proprio in questo contesto l’assessore ha ricordato il protocollo operativo per il soccorso di emergenza/urgenza nelle carceri di Tolmezzo, siglato ieri. Riprendendo infine uno studio, secondo cui in Italia solo il 10 per cento dei detenuti risulta socialmente pericoloso, Telesca ha auspicato un maggiore impegno dello Stato, affinché ci sia un incremento delle misure alternative, funzionali alla rieducazione a alla riabilitazione dei condannati. "La pena non deve peggiorare ma migliorare le persone", ha concluso l’assessore. L’Aquila: pochi libri ai detenuti al 41 bis, scatta il sit-in Il Centro, 25 giugno 2016 Pochi libri, e a caro prezzo, per chi è in prigione sottoposto al regime del 41 bis, il cosiddetto "carcere duro". Per protestare contro quella che viene definita "un’ulteriore censura", oggi all’Aquila, alla vigilia della giornata mondiale contro la tortura, si terranno due manifestazioni. La prima si svolgerà alle 11, con partenza da viale Gran Sasso, la seconda sotto il carcere "Le Costarelle" di Preturo. "Una sentenza della Cassazione del 2014", fanno sapere gli organizzatori di "Femminismo rivoluzionario", "stabilisce il potere assoluto delle circolari del Dap, per cui chi è sottoposto al regime di 41 bis, non può più ricevere libri e stampa in genere, se non acquistandoli a caro prezzo tramite il carcere. Quest’ulteriore censura, oltre al limite di detenere in cella un numero esiguo di testi, si aggiunge a un lungo elenco di gravi restrizioni, anche oggetto d’indagine della Commissione diritti umani del Senato. In particolare, dall’indagine conoscitiva sul 41 bis di quest’anno, emerge un quadro raccapricciante sulle condizioni detentive nella sezione femminile speciale del carcere dell’Aquila, che Giulio Petrilli definì un carcere femminile peggiore di Guantánamo e di Alcatraz, dove le detenute sono sepolte vive e in condizioni d’isolamento totale". "Lontane dai propri affetti e dai propri figli, le 7 donne rinchiuse nel carcere dell’Aquila soffrono più degli uomini di questa condizione di carcere duro", denuncia invece l’avvocato Fabiana Gubitoso. "Nel rapporto del Senato", sostengono ancora gli organizzatori della manifestazione, "le donne rinchiuse alle Costarelle ci parlano di privazioni e afflizioni quotidiane, come la presenza continua di agenti durante le visite mediche, l’impedimento a svolgere attività creative, il limite al numero di libri, indumenti. La lettura, poi, è di importanza vitale nelle sezioni di isolamento totale, impedirla è un accanimento che va oltre il 41 bis. Come altro vogliamo chiamarla questa se non tortura? Diversi magistrati di sorveglianza hanno accolto i reclami contro questa circolare, in quanto anticostituzionale. La Cassazione invece, considerando le circolari ministeriali dei semplici provvedimenti amministrativi interni, non suscettibili di controllo di legittimità, l’ha di fatto legalizzata, rendendola così definitiva". Livorno: ristrutturare Pianosa e Porto Azzurro, il Dap ci crede Il Dubbio, 25 giugno 2016 L’Amministrazione Penitenziaria rilancia il recupero storico ambientale di Pianosa e della Fortezza spagnola di Porto Azzurro all’isola d’Elba, sede dell’istituto penitenziario, con azioni mirate al miglioramento delle condizioni detentive e del benessere del personale che opera in queste sedi, nonché promuovendo progetti di impiego della mano d’opera delle persone detenute. È l’esito della visita che il capo dell’Amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, ha svolto di recente con il provveditore regionale Giuseppe Martone e il direttore di Porto Azzurro Francesco D’Anselmo, da cui dipende il presidio di Pianosa. Nel sopralluogo effettuato a Pianosa, assieme al presidente del Parco Nazionale Arcipelago Toscano Giampiero Sammuri, sono stati concordati importanti interventi per la bonifica ambientale delle aree coltivabili e per la raccolta dei rifiuti. Per il recupero storico architettonico degli edifici è allo studio la ristrutturazione dell’antica "Casa dell’Agronomo" e della pregevole cantina, nonché l’ipotesi di un progetto museale per la tutela della memoria collettiva dell’ex isola penitenziaria. "A Porto Azzurro - informa una nota del Dap - Consolo ha preso atto dei progressi compiuti negli interventi migliorativi per il benessere del personale e delle condizioni detentive che hanno già portato, con l’impiego di 80 detenuti in art. 21, alla realizzazione del campo di calcetto per il personale, all’avvio dei lavori di ristrutturazione della caserma". È già attivo, inoltre, l’utilizzo di Skype per i colloqui a distanza dei detenuti con i propri familiari. Il capo del Dap ha indicato le priorità dei prossimi interventi. Sarà inoltre avviato il recupero delle zone agricole circostanti la Fortezza per l’implementazione delle attività lavorative di detenuti. Milano: due evasi dal carcere minorile Beccaria di Amalia D’elia blognotizie.info, 25 giugno 2016 Due detenuti, la cui identità non è stata resa nota, risultano ufficialmente evasi dal carcere Beccaria di Milano. È successo martedì sera verso le 19. Ad oggi i giovani non sono ancora stati ritrovati. I due ragazzi stavano rientrando da un permesso assieme a un insegnante e a un’operatrice. L’operatrice, spiega il sindacato Sappe che ha denunciato l’evasione, ha immediatamente avvisato la polizia penitenziaria, che insieme alle altre forze dell’ordine si è messa alla ricerca dei fuggitivi. I due all’interno del carcere lavoravano e usufruivano spesso di permessi, anche perché erano ormai vicini alla scarcerazione. Forse, avevano deciso di farlo proprio durante uno di quei permessi che permetteva loro di uscire dal carcere. "Queste sono le conseguenze dello smantellamento delle politiche di sicurezza dei penitenziari e delle carenze di organico della Polizia Penitenziaria, che ha 7mila agenti in meno", commenta Greco. "Le carceri sono più sicure assumendo gli agenti di Polizia Penitenziaria che mancano, finanziando gli interventi per far funzionare i sistemi anti-scavalcamento, potenziando i livelli di sicurezza delle carceri", aggiunge Donato Capece, segretario generale del Sappe. Roma: Santo Genet fra i detenuti del regista Armando Punzo di Emilia Costantini Corriere della Sera, 25 giugno 2016 Lo spettacolo è in scena il 28 giugno ne "Il giardino ritrovato" lo spazio all’aperto all’interno di Palazzo Venezia. Quella di Armando Punzo è una storia particolare. Inizia quasi trent’anni fa nel carcere di Volterra: attore detenuto tra i detenuti non perché abbia commesso dei reati, ma solo per amore del teatro. Sì perché lui, drammaturgo e regista nato artisticamente alla scuola di Jerzej Grotowsky, proprio in quello che era uno degli istituti di pena tra i più duri e severi in Italia, ha creato la Compagnia della Fortezza: ha tramutato cioè un luogo di pena in un luogo di creazione artistica. Una compagnia a tutti gli effetti, nata da un progetto di laboratorio vero e proprio e con l’intento di fare spettacoli non solo dietro le sbarre di una prigione, ma anche in tournée come gli altri gruppi teatrali. Punzo torna a Roma con la Compagnia della Fortezza - E in tournée con i suoi attori-detenuti (e non solo), Punzo torna a Roma: martedì sarà ospite a Palazzo Venezia de "Il giardino ritrovato" nell’ambito della rassegna di arte, musica, teatro con lo spettacolo "Santo Genet". "C’è una bella frase di Jean Genet che mi piace citare - dice l’autore e regista della drammaturgia - "La bruttezza è la bellezza in riposo": un concetto che mi sembra in linea con l’ambiente in cui lavoro da tanti anni". Il parallelo con la biografia del drammaturgo, scrittore e poeta francese è inevitabile. "Certamente - ribatte Punzo - anche lui conobbe, in varie occasioni e per piccoli reati, la condizione da recluso, ma è la sua scelta estetica che mi interessa porre in evidenza con la frase che ho citato. Lui, un detenuto che scrive in modo straordinario. La sua continua ricerca di uno spazio interiore, che è quello della poesia. L’esaltazione di un luogo interiore aperto: massima apertura che si confronta con il luogo di massima chiusura, la prigione. Ma si tratta della prigione che è dentro di noi esseri umani, e cioè quello che ci vincola. E ancora - continua - è lo spazio che si può identificare con il salotto di Irma, il bordello di madame Irma del testo Il balcone, dove ognuno può vivere tutto ciò che viene rifiutato dalla cosiddetta, apparente normalità". Nello spettacolo brani tratti dalle opere di Genet - Nello spettacolo si mescolano anche i brani, le suggestioni, le riflessioni tratte da altre opere di Genet: da "Querelle de Brest" a "I negri", da "Le serve" a "Diario di un ladro". "Abbiamo lavorato due anni su tutta l’opera dell’autore francese - continua Punzo - La sua realtà diventa immagine reale che si fa riflesso. Il teatro è la macchina del delitto". E gli attori-detenuti cosa hanno rintracciato in Genet? "Hanno ritrovato un percorso che loro hanno provato a fare con il teatro, una storia simile. Genet, attraverso la scrittura, si è affrancato fino a diventare uno dei più importanti intellettuali del suo tempo. Lo hanno sentito vicino alle proprie biografie". Alcuni di loro si sono altrettanto affrancati. "Certo, questo è il caso, per esempio, di Aniello Arena, che è diventato protagonista del film Reality di matteo Garrone". Ma perché "Santo Genet"? "L’ho ripreso dal saggio di ean-Paul Sartre, Santo Genet, commediante e martire. Ma è una provocazione, un modo per ribaltare la realtà brutta del carcere, nella bellezza della poesia". Protagonisti gli attori-detenuti del carcere di Volterra - Come vengono scelti gli attori? "Non ho mai dato dei limiti, non faccio selezioni o provini, tutti si possono iscrivere al mio laboratorio. Alla fine è il teatro che sceglie: alcuni, dopo anni di formazione, non se la sentono di salire in palcoscenico, altri invece resistono e arrivano a recitare in pubblico. Il carcere di Volterra, purtroppo, ospita persone con pene lunghe e ciò mi permette di formare una compagnia stabile. Un gruppo multietnico di cui vado fiero. Cinesi, rumeni, albanesi, nigeriani... Chi può permettersi una varietà di questo genere? E alcuni di loro, anche quando hanno scontato la pena, tornano a recitare con noi. Di solito chi esce di galera non vuole più averne a che fare, da noi avviene il contrario: è un altro miracolo del teatro". Sassari: Sardinia Film Festival; 40 corti in gara, fra i giurati i detenuti di Bancali di Francesco Bellu sardiniapost.it, 25 giugno 2016 Giunto alla undicesima edizione, il Sardinia Film Festival si presenta al suo pubblico con un programma assortito che partendo da punti fermi come le ormai classiche proiezioni notturne nel cortile de il "Quadrilatero" di viale Mancini, si arricchisce di workshop e aperitivi cinefili con i registi sardi, puntando ad un approccio sempre più diretto con le persone. Un modo di dare del "tu" al cinema che per una settimana, dal 27 giugno al 2 luglio, vedrà accesa su Sassari la luce del grande schermo. Altra novità di quest’anno sarà la presenza di una giuria molto particolare che lavorerà in parallelo con quella istituzionale: si tratta di quella composta dai detenuti del carcere di Bancali, i quali daranno poi un proprio riconoscimento alle opere in gara. Si tratta di un tentativo di avvicinare la casa circondariale alla città attraverso l’emozione del cinema all’interno di un percorso di reinserimento sociale. Sono una quarantina i cortometraggi in concorso, su un migliaio di film arrivati per la selezione, distribuiti nelle varie sezioni di fiction italiana, internazionale, Vetrina Sardegna, videoarte, documentari, scuole. Un vero e proprio giro del mondo, punti di vista differenti e approcci spesso innovativi. Rispetto al passato non c’è un filo conduttore unico stavolta, ma vari temi messi in ballo che guardano alle difficoltà dell’esistenza con un accostamento più leggero, più disincantato, come se, in un certo qual modo, si volesse rispondere alle brutture della vita con una carica di energia. "Il lavori di selezione sono stati complessi - rimarca il direttore artistico Carlo Dessì - ma siamo riusciti ad avere lavori interessanti. Sono tutte prime visioni per la Sardegna, ma ci sono anche prime visioni europee come ad esempio "Domenica" di Bonifacio Angius che apre la serata inaugurale fuori concorso, oppure lavori surreali come "Maialetto della Nurra" di Marco Antonio Pani, "The cemetary men" di Alì Mardomi dall’Iran o il belga "Le mur" di Samuel Lampaert. Come tradizione, la chiusura sarà affidata al vincitore del David di Donatello 2016 come miglior corto, "Bellissima", con la presenza del regista Alessandro Capitani". La giuria tecnica del festival è formata dal regista Salvatore Mereu (Ballo a tre passi, Sonetàula, Bellas mariposas), Manuela Buono, della casa di distribuzione Slingshot film di Trieste e da Paul Bruce, direttore del Edinburg short film festival con il quale la kermesse sarda sta consolidando una rete composta anche da altri festival europei come il Fastnet short film di Cork, il Fike di Evora e il Psarokalo film festival di Atene. A questa giuria si affianca quella dell’Accademia di Belle Arti, degli studenti di Scienze della Comunicazione dell’università di Sassari e della Federazione italiana circoli del cinema (Ficc). Le proiezioni inizieranno alle 21 e saranno precedute alle 19 da un aperitivo intervista in via Torre Tonda che vedrà susseguirsi mano a mano registi come Bonifacio Angius, Peter Marcias, Enrico Pau e Paolo Zucca che verranno moderati da Francesca Arca di Radio Venere, mentre a condurre le serate sarà la giornalista Rachele Falchi. Per gli operatori del mercato il 1 luglio è stato organizzato un workshop in collaborazione con la casa di produzione "Monello film" che si terrà alle 17,30 nell’aula Sebastiano Satta del polo didattico di Scienze Politiche con la presenza di addetti ai lavori quali Paolo Minuto (Cineclub internazionale distribuzione) e Franco Muceli (vice presidente Anec Sardegna). Modera Riccardo Baldini, head of production per la Fondazione Sardegna Film Commission. Due le iniziative collaterali: la mostra "Filmofrenico, iconografia filmica e immaginario" di Max Mazzoli che rimarrà aperta a Palazzo Ducale per tutta la durata del festival e che propone in maniera del tutto fuori dal comune le immagini di alcuni film più noti come ad esempio "Arancia meccanica" o "2001 odissea nello spazio" di Kubrick, fermati sulla tela e capaci però di restituire ancora il loro significato più profondo. In questo modo la grammatica delle scene incontra Magritte e Hopper creando un cortocircuito visivo mai visto prima d’ora. L’altra iniziativa è il "Dopo festival" che si tiene in Piazza Tola al "Caimano distratto", dove tra note e musica verranno proiettati cortometraggi borderline e visioni nascoste. E sarà sempre in questa piazza che si terrà l’atto di chiusura ufficiale della kermesse con la Vilsait Jazz Band. Lo strano caso del reato di immigrazione clandestina di Luigi Irdi La Repubblica, 25 giugno 2016 Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e quando si parla di contrasto all’immigrazione clandestina e di lotta ai trafficanti di esseri umani, il ministro dell’Interno Angelino Alfano si distingue con particolare impegno. Nonostante le sollecitazioni dell’intero apparato giudiziario, dal ministro della Giustizia Andrea Orlando ai magistrati sul campo, Alfano si oppone ostinatamente all’abolizione del reato di "immigrazione clandestina" introdotto nel 2009 dal quarto governo Berlusconi. Per come è concepita, la legge genera ridicoli paradossi. Nel momento in cui le navi della Marina Italiana intervengono per salvare i migranti, poiché formalmente favoriscono l’ingresso di clandestini nel nostro Paese sbarcandoli in territorio italiano, anche i nostri marinai sarebbero teoricamente passibili di conseguenze penali, al pari degli scafisti che imbarcano i migranti su pescherecci malconci e li lasciano alla deriva. A risolvere il problema ha pensato la Corte di Cassazione decretando che i marinai agiscono in "stato di necessità", per soccorrere i clandestini, e quindi non sono perseguibili. Lo sono invece i migranti che approdano in Italia. Sono automaticamente indiziati di reato (immigrazione clandestina, appunto) e dunque non solo debbono essere assistiti da un avvocato (ovviamente d’ufficio, che paga lo Stato italiano), ma, se interrogati, debbono essere informati del loro diritto a non rispondere alle domande del magistrato. Molti non aspettano altro, ringraziano e salutano, e vengono così meno testimonianze Alfano lo difende, Orlando lo critica. Gli effetti paradossali di una legge nata per bloccare gli sbarchi illegali e che invece li sta favorendo che potrebbero invece essere utilissime per l’individuazione e l’arresto degli scafisti. E le Procure della Repubblica (ovviamente in particolare quelle della Sicilia sud orientale, Agrigento, Ragusa, Catania) sono sommerse da inutili processi. Non per nulla sia il capo della procura della Repubblica di Agrigento Renato di Natale e il Procuratore Nazionale Antimafia non perdono occasione per invocare l’eliminazione del reato. La legge che Alfano continua a difendere ha ricevuto di recente un altro colpo dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Esaminando il caso di una cittadina del Ghana fermata in Francia senza documenti, la Corte ha stabilito che nessun extracomunitario può essere messo in prigione solo per essere entrato illegalmente in uno stato membro della Ue. Nel frattempo il fatturato degli scafisti e dei trafficanti di esseri umani è in piena espansione. Si stima che solo nel 2014 e solo dalla Siria siano arrivate in Italia clandestinamente circa 50 mila persone, ognuna delle quali ha pagato dai 4 mila ai 6 mila dollari per il passaggio via mare. Una semplice moltiplicazione dà l’idea delle dimensioni del business che infatti raffina sempre di più le sue procedure. Le organizzazioni di trafficanti di uomini tendono a servirsi di navi madri che trascinano in acque internazionali barche più piccole e gommoni mal in arnese. Una volta al largo ma tenendosi a distanza dalle acque territoriali italiane, spingono i profughi a salire su pescherecci colabrodo, danno loro un telefono satellitare per chiamare i soccorsi e tagliano la corda. Tecnicamente, il reato di traffico di esseri umani viene così compiuto fuori dalle acque italiane e quindi anche fuori dalla giurisdizione delle nostre forze di polizia. Anche questo ostacolo è stato però superato interpretando lo sbarco dei migranti dalle navi madri ai gommoni come il primo atto di un delitto che si perfeziona poi in territorio italiano. Da questo punto di vista dunque, si può andare a caccia di scafisti anche oltre le acque territoriali italiane. "Non sapremo mai davvero quante sono state e saranno le vittime del traffico di uomini", ha scritto di recente Giovanni Salvi ex procuratore capo della Repubblica a Catania (ora Procuratore Generale a Roma). Solo nel triennio 2013-2015 i procedimenti della Procura di Catania hanno riguardato oltre 2.000 tra morti e dispersi. Il rancore degli esclusi e la politica che abdica di Ezio Mauro La Repubblica, 25 giugno 2016 Una clamorosa asimmetria sentimentale tra europeismo e antieuropeismo pesa sul voto. Cosa si muove nel sentimento profondo del popolo? Come se la vita fosse senza dubbi, e la vita pubblica senza sfumature, il referendum sembra costruito apposta per questi tempi radicali, radicalizzando i due corni dell’opinione pubblica nelle loro forme estreme, dove c’è spazio soltanto per essere totalmente a favore o definitivamente contro. Sembra il massimo dell’espressione democratica, la parola al popolo, come la scelta tra Gesù e Barabba. E invece è l’espressione basica e universale della democrazia che cerca se stessa, quando i rappresentanti non sono in grado di elaborare una proposta politica convincente, si spogliano della loro responsabilità e delegano la scelta ai cittadini, saltando i parlamenti e i governi per raggiungere una vox populi dove fatalmente si mescola la ragione e l’istinto, l’emozione e la frustrazione, l’individuale e il collettivo. In questo senso, il pronunciamento popolare è il più ricco di contenuto e di ingredienti soggettivi. In un senso più generale, è un’altra prova di abdicazione della politica organizzata nella sua forma storica tradizionale, che oggi rinuncia ad assumersi i suoi rischi e ricorre al popolo per rincorrere in realtà il populismo che la sta mangiando a morsi e bocconi. Quei due estremi oggi rivelano che la speranza britannica in un futuro capace di conciliare la storia dell’isola con la geografia del continente e con la politica dell’Occidente è minoritaria. Mentre la chiusura nella coscienza di sé, l’autocertificazione dell’orgoglio identitario e l’investimento esclusivo sul proprio destino prevalgono dirottando la politica del Paese. Tutto questo, come dicono gli istituti di ricerca, costerà caro alla Gran Bretagna e alla sua economia? Ma che importa, se è vero quel che diceva Nietzsche: "La decadenza è scegliere istintivamente ciò che è nocivo, lasciarsi sedurre da motivazioni non finalizzate". Ci sono momenti in cui l’istinto di dare una forma politica visibile alla decadenza in cui viviamo prevale su tutto, anche sulle convenienze. L’insularità storica e spirituale, orgogliosa, dei britannici è certo un elemento specifico decisivo di questa scelta. Ma il meccanismo politico e morale con cui si è costruito questo esito - l’istinto dei popoli, appunto - parla per tutti, parla per noi. Vale dunque la pena di cercare i caratteri generali di un fenomeno che è esploso a Londra, ma che sta covando come una febbre sotto la pelle di tutta l’Europa. Prima di tutto sul voto ha pesato un’asimmetria sentimentale clamorosa. L’europeismo non è più un sentimento politico, in nessuno dei nostri Paesi. L’antieuropeismo è invece un risentimento robusto e potente, distribuito a piene mani dovunque. La radicalizzazione delle scelte senza mediazioni, come quella del referendum, realizza un processo alchemico strepitoso e inedito nel dopoguerra, trasformando immediatamente e definitivamente il risentimento in politica, quella politica in vincolo, quel vincolo in destino generale. Tutto ciò che un processo storico lento, prudente e tuttavia visionario ha costruito in decenni, si spezza così in una sola giornata, probabilmente per sempre. Minoritario sugli scranni del parlamento, il populismo anti-sistema e anti-istituzionale ha dunque portato a termine la sua vittoria nelle piazze, sommando le frustrazioni individuali, le separazioni e le solitudini, lo smarrimento delle comunità reali nella ricerca artificiale di una comunità di sicurezza e di rassicurazione che non è più territoriale e nazionale (nonostante lo slogan "Brexit") ma è spirituale e politica, una sorta di secessione dalla forma istituzionale organizzata che i popoli europei si erano costruiti nel lungo dopoguerra di pace, per crescere insieme cercando un futuro comune. Il risentimento ha le sue ragioni, tutte visibili a occhio nudo. L’impotenza della politica prima di tutto, schiacciata dalla sproporzione tra problemi sovranazionali (la crisi, l’immigrazione, il terrorismo) e le sovranità nazionali a cui chiediamo protezione. Poi la lontananza burocratica dell’Unione Europea, che percepiamo come un’obbligazione disciplinare senza più rintracciare la legittimità di quella disciplina. Quindi il peso ingigantito delle disuguaglianze che diventano esclusioni, la nuova cifra dell’epoca. In più la sensazione tragica che la democrazia e i suoi principii valgano soltanto per i garantiti e non per i perdenti della globalizzazione. Ancora la rottura del vincolo di società che aveva fin qui unito - nelle differenze - il ricco e il povero in una sorta di comunità di destino, mentre il primo può ormai fare a meno del secondo. Infine e soprattutto il sentimento di precarietà diffusa e dominante, la mancanza di sicurezza, la scomparsa del futuro e non solo dell’avvenire, la sensazione di una perdita complessiva di controllo dei fenomeni in corso: di fronte ai quali l’individuo è solo, immerso nel moderno terrore di smarrire il filo di esperienze condivise, vale a dire ciò che gli resta della memoria, quel che sostituisce l’identità. È evidente come tutto questo favorisca un linguaggio di destra, una semplificazione demagogica, una banalizzazione antipolitica, uno sfogo nel politicamente scorretto e una via di fuga nell’estremismo, come mostrano i banchetti imbanditi coi cibi altrui da Le Pen e Salvini. In realtà, c’è uno spazio enorme per una riconquista della politica, se sapesse ritrovare una voce credibile e per la costruzione europea, se sapesse riscoprire l’ambizione di sé. Altrimenti varrà, a partire proprio dal Brexit, la profezia di George Steiner, secondo cui l’Europa ha sempre pensato di dover morire. Mentre ormai soltanto gli immigrati vedono nella nostra terra quel che noi non sappiamo più vedere: semplicemente "una dimora, e un nome". Le vele gonfie dei nazionalismi in Europa di Marco Bascetta Il Manifesto, 25 giugno 2016 Se davvero si vuole fare qualcosa per l’Europa sottraendo terreno alle destre bisogna fare marcia indietro sulle riforme come la loi travail in Francia che ha scatenato contro i socialisti un movimento imponente. Ben pochi credevano davvero che sarebbe finita così. Ma, del resto, gli usuali strumenti analitici appaiono irrimediabilmente fuori uso. Le borse e i loro esperti operatori sobbalzano impotenti come il più sprovveduto degli apprendisti stregoni. Tutto torna ad accadere "per la prima volta" e perfino la pedanteria procedurale dell’immane corpus legislativo europeo già si annuncia un indistricabile labirinto, se non un’arena all’interno della quale forze politiche ed economiche si affronteranno a colpi di ricatti, di minacce, astuzie e raggiri. Il fendente politico è stato sferrato e la governance economico-finanziaria già è al lavoro per limitarne i danni e ottimizzarne i profitti. Un patetico Nigel Farage, leader dell’ultranazionalista Ukip, proclama il trionfo del Leave contro multinazionali e poteri globali. Se non facesse impressione sentire questo torvo figuro proclamare "il giorno dell’indipendenza" britannica, ci sarebbe da farsi una sonora risata. Eppure la favola che uscendo dall’Europa si diano le condizioni per un ripristino della sovranità popolare, nello stato in cui versa, ovunque, la rappresentanza politica, continua a vantare un certo seguito. Il Regno Unito (mai disunito come dopo questo referendum) godeva in Europa di tutti i privilegi possibili. Al riparo dagli obblighi di Schengen, fuori dall’eurozona, rimborsato di buona parte delle sue "spese europee", esentato dal garantire integralmente il welfare ai cittadini comunitari ha scelto comunque di abbandonare questa comoda posizione, nonostante le fosche previsioni piovute durante la campagna elettorale. Nessun solido argomento razionale poteva essere schierato a favore del Leave, eppure la sia pur risicata maggioranza dei cittadini britannici ha scelto di voltare le spalle all’Europa. La riuscita Brexit è in un certo senso il contrario della mancata Grexit. La Gran Bretagna lascia l’Europa, dopo esserne stata blandita e favorita. La Grecia decide di rimanervi nonostante le sanguinose imposizioni subite e dopo una strenua battaglia maggioritaria (e tuttavia perdente) contro le ricette economiche della Troika. Si è trattato solo di autolesionismo o di paura? Forse Tsipras poteva rischiare di più nel suo braccio di ferro con Bruxelles (e forse ora può e deve aprirsi una nuova stagione), ma in qualche modo ci fu la consapevolezza che isolazionismo e autarchia avrebbero potuto condurre a forme inquietanti di nazionalismo e che Atene, pur piegata, aveva comunque messo in scena una diversa possibilità in e per l’Europa, lasciato intravedere una breccia. Ma è proprio lì, in quello scontro di un anno fa, che la governance europea e le miserevoli socialdemocrazie che ne assecondavano scodinzolanti le scelte, cominciavano a mettere in circolo i germi che lavorano alla disgregazione dell’Unione. Gli inglesi, torniamo a chiamarli così come la geografia del voto li ha circoscritti, decidono di abbandonare l’Unione con le peggiori ragioni possibili, ancor peggiori degli stessi concreti effetti del Brexit: un tronfio e arrogante orgoglio nazionale, un improbabile "Noi" nel paese più classista d’Europa. Thatcher non si faceva certo mettere i piedi in testa dall’Europa, ma non esitava a metterli lei in testa alla working class britannica. Non a caso sono le destre olandesi, danesi, finlandesi fino al Front national di Marine Le Pen, nonché l’insignificante Matteo Salvini ad applaudire queste ragioni e a minacciare un’alluvione di referendum. Sono soprattutto i poveri dei paesi ricchi ad essere sedotti da queste sirene, convinti che siano i membri meno affluenti dell’Unione a sottrarre loro il bengodi che il patrio Pil dovrebbe garantire. Se non altro i greci avevano capito che erano gli armatori e un’oligarchia corrotta a divorare il grosso della torta. Con la complicità, finché è stato possibile, di Berlino e di Bruxelles. Ora, i vertici europei fanno un po’ la voce grossa, ma in sostanza adottano una linea assai prudente. Continueremo ad andare avanti in 27, assicura il presidente della Commissione Junker. Ma andare avanti come se niente fosse, con l’aria che tira, è una scelta autolesionista se non suicida. È ormai chiaro a tutti che sono proprio la rigidità dottrinaria della governance europea e gli interessi finanziari che la ispirano a gonfiare le vele dei nazionalismi manifesti come, per altro verso, di quelli incistati nel governo dell’Unione. Che quest’ultimo debba essere sottoposto a una pressione popolare di segno contrario a quella che ha condotto Londra fuori dall’Unione, mi sembra a questo punto, assolutamente evidente. Se davvero Hollande volesse fare qualcosa per l’Europa sottraendo terreno al Front National, per fare un solo esempio, dovrebbe fare marcia indietro su quella loi travail che gli ha scatenato contro un imponente movimento e larga parte dei francesi. L’Unione in stato confusionale di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 25 giugno 2016 Ue nel caos. Il presidente Juncker invita a far presto per l’uscita effettiva dalla Gran Bretagna dall’Unione. I leader europei in una ridda di incontri alla ricerca di soluzioni. E adesso? La Ue sotto choc invita, per prima cosa, ad evitare "reazioni isteriche" (Donald Tusk, presidente del Consiglio Ue). Ma nelle prime ore dopo il voto per la Brexit, il panico sovrasta tutti, dalle Borse al mondo politico. La prima reazione ufficiale di Bruxelles è stata dei quattro presidenti (Juncker per la Commissione, Tusk per il Consiglio, Schultz per l’Europarlamento e l’olandese Rutte per la presidenza semestrale): "Adesso aspettiamo che il governo della Gran Bretagna renda effettiva la decisione del popolo britannico il più presto possibile". Bruxelles aspetta che Londra chieda l’applicazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona che contiene la "clausola di ritiro". Ma già c’è il primo ostacolo, che annuncia una procedura di divorzio difficile dopo 43 anni di matrimonio senza amore. David Cameron ha annunciato le dimissioni, ma solo per ottobre e affermato che sarà il prossimo governo a chiedere l’applicazione dell’articolo 50. Il fronte della Brexit ha impiegato ore dopo i risultati per esprimersi, una novità per dei vincitori: Boris Johnson, leader in pectore per il momento, ha già messo le mani avanti di fronte alla gravità della situazione e ha affermato che l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue si farà "senza precipitazione". Ma Bruxelles e i 27 hanno fretta. I quattro presidenti hanno fatto sapere che l’accordo concluso tra Londra e la Ue il 19 febbraio scorso "non entrerà in vigore" (cioè non ci saranno le nuove concessioni che Cameron aveva strappato) e che nel prossimo futuro "ogni accordo concluso con la Gran Bretagna come paese terzo dovrà tenere conto degli interessi di entrambe le parti ed essere equilibrato in termini di diritti e di obblighi". I 4 presidenti si dicono "pronti ad aprire rapidamente i negoziati con la Gran Bretagna su termini e condizioni di ritiro dalla Ue". Per Bruxelles, "fino al termine del processo la Gran Bretagna resta membro con diritti e obblighi che ne derivano". Anche se il fronte dei 27 non è unito e l’idea di "punire" Londra probabilmente non verrà seguita, c’è però fretta di chiarire per evitare il "contagio" e l’"effetto-domino". Gli anti-europei di tutti i paesi hanno già alzato la testa. In Olanda, il leader di estrema destra Geert Wilders, chiede un referendum sognando la Nexit (Netherlands exit). In Ungheria, il premier Viktor Orban ha già promesso un voto popolare sulla politica verso i migranti. In Francia, Marine Le Pen vuole mettere l’adesione all’Ue al centro della battaglia delle presidenziali della primavera del 2017: "L’Ue e l’euro non sono irreversibili", ha detto ieri mattina la leader del Fronte nazionale, lodando la "schiacciante lezione di democrazia" che è arrivata dalla Gran Bretagna. In Germania, Frauke Petry, presidente di Afd, afferma che è "ormai tempo per un’altra Europa, un’Europa delle nazioni". I governi e le istituzioni europee hanno subito deciso di moltiplicare gli incontri. Prima del già previsto Consiglio europeo del 28-29 giugno, a Berlino lunedì Angela Merkel ha invitato François Hollande e Matteo Renzi, con Tusk. Martedì, Tusk ha convocato un pre-vertice informale a 27, senza Londra. La Commissione si riunisce domenica. Il 28 c’è una sessione straordinaria del Parlamento europeo. Ma non è ancora arrivato il tempo delle decisioni per colmare il vuoto che lascia la seconda economia della zona euro, potenza diplomatica e militare. È il momento dello choc. François Hollande, che ha convocato due volte il governo e oggi moltiplica gli incontri con le personalità politiche, ha invitato a "un risveglio". Il presidente francese spinge l’Europa a riaffermare "i valori di libertà, tolleranza, pace". Ammette che dopo il voto per la Brexit "la Ue non può più fare come prima". Ed evoca "investimenti, per la crescita e l’occupazione", "una politica industriale" per lo sviluppo delle "nuove tecnologie e la transizione energetica". Al tempo stesso, Hollande invita Bruxelles a "non perdersi in procedure", a concentrarsi sui grandi temi e a "lasciare agli stati nazionali le competenze che li riguardano". In Germania, Angela Merkel ha parlato di "colpo all’Europa", di "colpo contro il processo di unificazione" e ha ricordato ai giovani di "non dimenticare che l’idea di unificazione era un’idea di pace". Il suo vice, Sigmar Gabriel (Spd) ha sottolineato che bisogna "cambiare politica". Ma dai primi segnali, dalle capitali emerge l’idea di concentrarsi su alcuni aspetti "pragmatici", un’accelerazione dell’integrazione comunitaria sembra esclusa: oltre al discorso tradizionale sul rilancio economico, troppo spesso rimasto senza seguito, c’è la forte tentazione di insistere sulla questione delle frontiere esterne per rispondere alla crisi migratoria che ha condizionato il voto britannico e più in generale sui temi della sicurezza. Questo rischia di gonfiare ancora di più le fila degli euro-scettici. Ieri, Jean-Luc Mélenchon del Parti de Gauche, ha chiesto, come Die Linke in Germania, "un nuovo orientamento". Ma ha aggiunto: "La Ue, o cambia o via, la mia candidatura alle elezioni presidenziali è quella di un’uscita dai trattati europei" e ha messo tutto nello stesso sacco, a cominciare dalla contestata Loi Travail "dettata da Bruxelles". Quando Londra si degnerà di inviare la lettera per attivare l’articolo 50, inizierà il negoziato, che rischia di trasformarsi in una discussione di mercanti di tappeti, perché i governi dei 27 non vogliono che passi l’idea che ad uscire ci sarebbero vantaggi. La Ue vorrebbe limitare i tempi ai due anni previsti per disfare i legami. Poi, con un secondo negoziato, la Gran Bretagna potrebbe venire considerata "stato terzo", come gli Usa o la Cina, pagare i diritti doganali, presentare i certificati tecnici di conformità per l’export e al massimo godere della clausola di "nazione più favorita". È la sola ipotesi che esclude il pagamento di contributi alla Ue. Invece, una soluzione "alla Svizzera" con una moltiplicazione di accordi bilaterali per settore oppure "alla Norvegese" dove vengono rispettate le "4 libertà" (quindi anche quella di circolazione dei cittadini) comportano entrambe il pagamento di contributi senza avere voce in capitolo sulle decisioni. L’anima perduta dell’Unione Europea di Lucrezia Reichlin Corriere della Sera, 25 giugno 2016 Bruxelles saprà raccogliere le domande che la società esprime, rilanciando un progetto che le interpreti in modo da contare su un largo consenso? Le implicazioni dell’esito del referendum britannico sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea sono molto profonde e vanno ben al di là dell’impatto immediato che questo avrà sull’economia e sul sistema finanziario. A differenza di quanto avvenuto con la crisi globale del 2008, lo choc Brexit presenta implicazioni geopolitiche profonde: il progetto europeo non sarà più lo stesso e il ruolo dell’Europa nel mondo verrà inevitabilmente ridimensionato. Il voto è anche un campanello d’allarme per politici di ispirazione sia conservatrice sia progressista poiché è la dimostrazione che ambedue i grandi partiti tradizionali, ma in particolare il Labour, hanno perso contatto con la loro base elettorale. Inoltre, è un segnale di sfiducia verso un establishment intellettuale schieratosi nella stragrande maggioranza contro la Brexit, un voto che ha anche ignorato le previsioni allarmanti degli economisti sul costo economico dell’uscita dall’Unione. Gli elettori o hanno votato senza pensare al portafoglio o, più probabilmente, hanno considerato le previsioni economiche poco credibili o irrilevanti per una parte della popolazione, la parte che ha pagato più duramente i costi della crisi finanziaria e che, appunto, ha votato out. Ma come vanno analizzate le conseguenze economiche della Brexit? Quanto realistici sono gli scenari catastrofici dei fautori del Remain? Non c’è dubbio che nel breve periodo continuerà la volatilità dei mercati anche a livello globale, la fuga verso investimenti sicuri e la pressione sulla liquidità delle banche. Per i Paesi già a rischio di stabilità finanziaria come il nostro è necessaria vigilanza assoluta da parte delle autorità nazionali ed europee. In particolare, nella zona euro deve essere chiaro ai Paesi del Nord e del Sud che non possiamo permetterci un altro 2011 e questo è un richiamo a trovare il consenso - oggi assente - per completarne la costruzione del governo economico. Per l’economia britannica l’incertezza sui termini del negoziato con la Ue e sui suoi tempi avrà conseguenze sugli investimenti, il Paese resterà diviso e probabilmente lo diventerà di più perché a perdere sarà più l’industria che la finanza, più la provincia e meno Londra. Per non parlare della molto probabile riapertura della questione scozzese. Ma al di là di questi effetti - d’altro canto già anticipati e scontati dallo stesso campo pro Brexit - il grande quesito è che cosa succederà nel medio-lungo periodo. Se si pensa che questo voto non sia una bizzarria degli inglesi, ma, come dicevo prima, il segnale di un malessere più profondo su temi che vanno al di là dell’adesione all’Unione Europea e anche dell’economia, è probabile che l’impatto economico negativo sarà ingente anche e forse in modo più significativo sui Paesi dell’Unione. Paesi lenti a reagire a cambiamenti e a offrire risposte perché ingabbiati in negoziati su più fronti in una complessa interazione tra élite politiche nazionali, élite della burocrazia federale e le istanze globali. La nostra è un’Europa sì portatrice di valori fondamentali, ma anche un’Europa che ha perso la sua anima per strada, che fa fatica a spiegare non solo agli altri, ma anche a se stessa, le sue ragioni. Saprà questa Europa raccogliere le domande che la società esprime, rilanciare un progetto che le interpreti, che gli dia le gambe in modo, quindi, di contare su un largo consenso? L’impatto a lungo termine del voto di giovedì dipende dalla risposta a questo interrogativo. Cinque mesi fa la scomparsa al Cairo di Giulio Regeni: la verità è ancora lontana di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 giugno 2016 A cinque mesi di distanza dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo, Amnesty International Italia ha scritto al ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni esprimendo "preoccupazione per la mancanza di significativi progressi nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità per la sua tragica uccisione". A fronte dell’obbligo internazionale di svolgere un’inchiesta approfondita e indipendente sulla vicenda e di portarne i responsabili di fronte alla giustizia, le autorità egiziane hanno come noto offerto spiegazioni diverse e contraddittorie, tutte alquanto improbabili, alcune qualificabili come veri e propri depistaggi, e si sono dimostrate nel contempo poco propense a collaborare seriamente con gli organi investigativi e giudiziari italiani. Negli ultimi mesi, per di più, il contesto di violazione dei diritti umani nel quale si colloca la vicenda specifica di Giulio Regeni ha visto un notevole peggioramento: il ricorso alla tortura e alle sparizioni resta pratica comune mentre risulta in aumento la persecuzione ai danni di attivisti e difensori dei diritti umani, tra cui anche due consulenti dei legali della famiglia Regeni (uno dei quali rilasciato il 21 giugno, dopo oltre un mese di detenzione). Amnesty International Italia ha apprezzato le iniziali prese di posizione del governo italiano, tra cui la scelta di richiamare l’ambasciatore al Cairo e la recente rassicurazione che, per il momento, il nuovo ambasciatore rimarrà in Italia. Ma, col trascorrere dei mesi, è giunto il momento di integrare le risposte sul piano dei rapporti diplomatici con altre misure, indispensabili al fine di assicurare la dichiarata proporzionalità della risposta italiana ai mancati progressi da parte egiziana. Tra queste, l’interruzione immediata di ogni ulteriore fornitura di armi e altri equipaggiamenti utilizzati per commettere o agevolare gravi violazioni dei diritti umani in Egitto. L’Italia è infatti tra i paesi europei che hanno continuato a esportare in Egitto, anche in tempi assai recenti, sia armi che tecnologie e strumentazioni sofisticate per svolgere attività di sorveglianza, nonostante il rischio elevato che le une e le altre possano essere usate contro il dissenso pacifico. Sarebbe inoltre opportuno, secondo Amnesty International, che il governo italiano compisse sforzi finalizzati a rafforzare la risposta dell’Unione europea e della comunità internazionale. L’organizzazione per i diritti umani chiede in particolare al governo italiano di attivarsi affinché l’Unione europea assuma, in coerenza con la risoluzione del parlamento europeo del 10 marzo che definisce Giulio Regeni "cittadino europeo", tutte le iniziative necessarie, tenendo conto che l’accordo di associazione tra Unione europea ed Egitto prevede che il rispetto dei diritti umani sia parte integrante di quell’accordo. Amnesty International Italia invita inoltre il governo a prendere in considerazione l’ipotesi di promuovere l’adozione di una dichiarazione sulla situazione dei diritti umani in Egitto, che faccia riferimento al caso Regeni, nel Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Un altro meccanismo che Amnesty International Italia invita la Farnesina a valutare, nell’ipotesi che continuassero a mancare progressi nell’accertamento della verità, si colloca nel quadro della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984, di cui Italia ed Egitto sono stati parte: l’articolo 30 prevede infatti che, a fronte di una controversia relativa all’applicazione della Convenzione, ogni stato parte possa promuovere, nell’ordine, un negoziato, un arbitrato internazionale e, infine, un ricorso unilaterale alla Corte internazionale di giustizia. Oggi e domani, Amnesty International Italia promuoverà una twitter action rivolta al primo ministro Renzi e al ministro degli Affari esteri Gentiloni per chiedere verità per Giulio Regeni.