Quegli equivoci sulle riforme di Stefano Rodotà la Repubblica, 24 giugno 2016 Poiché la garanzia dei diritti è affidata alle leggi, nel momento in cui in cui queste vengono variamente manipolate, la soglia di quelle garanzie si abbassa. Valutando i risultati dei ballottaggi, Matteo Renzi ha voluto subito sottolineare che la capacità attrattiva dell’M5S dipendeva dal fatto che era stato percepito come soggetto del "cambiamento". Ed ha aggiunto che da questo portava con sé la conclusione che il governo doveva insistere con ancor maggiore determinazione sulla strada delle "riforme". Ma proprio le parole adoperate per una diagnosi così sbrigativa mostrano gli equivoci politici che la caratterizzano e l’intenzione di sfuggire alle domande più stringenti che le elezioni hanno proposto. Non si può certo dimenticare il fatto che il Presidente del Consiglio ha sempre insistito in maniera martellante proprio sul cambiamento che il suo governo avrebbe già determinato in tutte le materie più significative. Perché l’opinione pubblica non ha dato rilievo a questo fatto proprio nel momento in cui il governo si presentava al giudizio dei cittadini? Non credo che ci si possa rifugiare nell’argomento del difetto di comunicazione, visto che proprio la comunicazione ha costituito l’ossessione di Renzi, sì che si potrebbe, se mai, addirittura azzardare l’ipotesi che la sua presenza in ogni luogo e in ogni tempo, il suo tono perennemente assertivo abbiano provocato una reazione di rigetto da parte degli elettori. Se, però, si ragiona seriamente sull’accoppiata "cambiamento" - "riforme", diventa più aderente alla realtà la conclusione che vede nel voto amministrativo il rifiuto del cambiamento incarnato dalle politiche governative. Due cambiamenti a confronto, dunque, uno dei quali prospetta un cambio di passo. Non facile, perché la dimensione locale non rende agevole la messa a punto di politiche che abbiano in qualche modo un significato alternativo rispetto a quelle governative. Ma pure con gli interventi consentiti dalle specifiche competenze dei comuni è ben possibile dare concreti e visibili segnali di un diverso modo di selezionare le domande sociali, di determinare priorità corrispondenti agli interessi e ai bisogni che sono state rese visibili dal voto. Due sono le dimensioni da prendere in considerazione. Riferimenti come quelli alla trasparenza, alla partecipazione, alla legalità dell’agire pubblico hanno trovato un denominatore comune nel rifiuto di ogni logica oligarchica, che non è solo un retaggio del passato, ma il tratto caratteristico del modo in cui si sono venuti organizzando i partiti. Qui si coglie la spinta a ripensare le forme del rapporto tra i cittadini e la politica, anzi la stessa cultura politica. Non è una esigenza astratta. Le oligarchie producono un duplice effetto di esclusione — delle persone legittimate ad aver voce effettiva nella politica e delle domande sociali da prendere in considerazione. Le riforme del governo Renzi sono profondamente segnate da questo duplice limite, del quale le persone hanno potuto direttamente misurare il peso considerando la subordinazione dei loro diritti sociali al primato attribuito al calcolo economico. Di questo, di un nuovo protagonismo delle persone e dei loro diritti hanno cominciato a rendersi conto diversi tra i commentatori dei risultati elettorali, con riferimenti e parole che, come eguaglianza e solidarietà, rinviano a una diversa idea di società. Anzi, mostrano come la certificata morte della distinzione tra destra e sinistra abbia avuto come esito politico una ideologizzazione ben orientata, che ha attribuito alla logica di mercato le sembianze di un invincibile diritto naturale. Sottolineare questo dato di realtà non significa invocare uno sguardo rivolto al passato, il recupero di vecchie categorie. Pone la ben diversa questione di costruire il futuro secondo principi e diritti nei quali ci si possa comunemente riconoscere. Poiché un altro dei luoghi comuni che hanno afflitto, e ancora affliggono, la discussione italiana, è rappresentato da una contrapposizione schematica tra conservatori e innovatori, bisogna pur ricordare che non basta proporre un qualsiasi cambiamento per essere automaticamente ascritti alla benemerita categoria degli innovatori. È indispensabile individuare i criteri necessari per valutare la compatibilità del cambiamento con libertà e democrazia. Non vi è dubbio che, altrimenti, dovremmo attribuire a Donald Trump la medaglia dell’innovatore. I risultati elettorali dovrebbero spingere a una riflessione in questa direzione, non solo per ricondurre alla rilevanza dei criteri costituzionali le politiche di riforma di nuovo promesse, ma per valutarne l’effettivo carattere innovativo. Proprio considerando i valori di riferimento, ben può dirsi che in Italia (e non solo) si sia venuto costituendo un blocco sociale fondato sul primato di interessi e ceti che concretamente revocano indubbio la rilevanza primaria di eguaglianza e solidarietà. Una politica così fatta assume le sembianze della restaurazione, e non può essere definita che conservatrice. A questa conclusione, consapevoli o no, giungono molti commentatori di questi giorni che insistono sui guasti drammatici della diseguaglianza, senza dire una parola sul fatto che questa diseguaglianza non nasce da dinamiche incontrollabili, ma è l’effetto di politiche deliberate, perseguite con determinazione pari all’arroganza. Poiché, tuttavia, il perno di una rinnovata stagione di riforme è, per quasi quotidiana insistenza del Presidente del Consiglio, quella legata alla riforma costituzionale, anche questa deve essere valutata considerando i criteri che i risultati elettorali suggeriscono. La confusione è massima, perché la debolezza culturale del ristrettissimo ceto di governo ha messo spietatamente in luce l’uso strumentale delle istituzioni. Dopo aver personalizzato al massimo la campagna referendaria, ora Matteo Renzi sembra incline a seguire altre strade, non perché si sia reso conto degli effetti distorsivi della trasformazione di un referendum in plebiscito (altro palese segnale conservatore), ma per una convenienza elettorale che non può distogliere da una valutazione nel merito della riforma e della sua innegabile connessione con la legge elettorale. Proprio l’invocata discussione sul merito si sta rivelando impietosa. Ricordo, da ultimo, l’analisi di Ugo De Siervo, che non mostra soltanto con chiarezza come la sbandierata semplificazione del procedimento legislativo sia contraddetta dalla farraginosità delle procedure previste, ma sottolinea anche l’alterazione di delicati equilibri e prerogative costituzionali. Vengono pure rafforzati i meccanismi di esclusione, come accade con l’eccessivo accentramento delle competenze statali rispetto a quelle delle regioni, che evoca la riduzione della rappresentanza dei cittadini prevista dall’Italicum (ancora un tratto conservatore). Proprio l’analisi puntuale, di dettaglio, fa così emergere "gravi rischi di un complessivo peggioramento della nostra democrazia". Questo è il contesto nel quale si svolgeranno le discussioni dei prossimi mesi. I risultati elettorali lo hanno reso più chiaro, hanno individuato poteri e responsabilità delle diverse forze politiche, che devono esser ben consapevoli anche della necessità di non farsi incantare da un altro argomento che viene speso nella discussione pubblica, secondo il quale, poiché non si toccano formalmente articoli del prima parte delle Costituzione, i principi e diritti lì considerati non correrebbero rischi. Non è così. Poiché la garanzia dei diritti è affidata alle leggi, nel momento in cui in cui queste vengono variamente manipolate, la soglia di quelle garanzie si abbassa. La discussione dei dettagli della riforma si fa giustamente impietosa, non può dar spazio a convenienze di breve periodo. Se si incrina il patto fondamentale tra i cittadini, la convivenza civile, la buona politica, il reciproco riconoscimento tra i cittadini diventano sempre più difficili. La triste inutilità del voto di Piero Sansonetti Il Dubbio, 24 giugno 2016 Non ho la minima idea, ovviamente, sulla colpevolezza o l’innocenza di questo signore di Abano Terme che si chiama Claudio Luciano. Per un mio vecchio vizio (che poi è quello di dar retta alla Costituzione) tendo a immaginare che le persone siano innocenti almeno finché non vengono condannate. Vizio che mi fa considerare un soggetto un po’ losco da moltissima gente e da gran parte dei giornalisti italiani. Stavolta però la questione non riguarda la diatriba su innocenza o colpevolezza, ma il meccanismo dell’arresto. Perché - chiedo - i Pm hanno deciso di far scattare le manette ai polsi del Sindaco di Abano, e anche in modo spettacolare, visto che sono andati a prenderlo alle 6 di mattina e a quell’ora, per strada, c’erano molti fotografi (suppongo che stessero lì per pura coincidenza)? Probabilmente hanno deciso di catturalo perché domenica scorsa era stato rieletto sindaco, con una buona percentuale. Il ragionamento ha anche un suo fondamento. Dicono i magistrati: dal momento che noi sospettiamo che abbia usato il suo potere di sindaco per prendere mazzette, è chiaro che se avesse perso le elezioni non ci sarebbe stato più rischio che ripetesse il reato, o che inquinasse le prove, ma siccome le ha vinte il rischio c’è e dunque dobbiamo arrestarlo. L’argomento però è debole. Il sindaco aveva già ricevuto un avviso di garanzia, contro di lui era aperto da mesi un procedimento giudiziario. Se avesse voluto inquinare le prove avrebbe potuto già farlo. Ed è improbabile che un sindaco che sa di avere addosso gli occhi di magistratura e Guardia di Finanza se ne vada in giro a chiedere tangenti con la probabilità altissima di essere beccato. Il problema, quindi, c’è. Il voto ad Abano è stato libero e gli elettori sapevano anche che uno dei candidati era sospettato di corruzione, concussione ed altro. Potevano decidere se fidarsi o no. Lo hanno votato. Gli hanno dato fiducia. È chiaro che se dovesse risultare che è un lestofante va comunque rimosso dall’incarico. Però occorre che le accuse siano dimostrate. Perché altrimenti, decidere di metterlo fuorigioco, arrestandolo, è come dichiarare: il voto popolare non conta niente. Vale solo se i magistrati decidono che vale. Se invece sospettano che l’eletto non meriti la carica, il solo sospetto di uno di loro conta più dei voti della maggioranza della popolazione. Cosa si può fare per riparare? Forse basterebbe applicare la legge. Cioè basterebbe che le autorità giudiziarie pretendessero dai Pm una rigorosa applicazione della legge, la quale ammette il carcere preventivo solo per ragioni eccezionali e di sicurezza. Purtroppo questa legge non è rispettata da nessuno. Quale legge? Per esempio la legge n. 47 del 2015, che modifica il codice di procedura e riduce al minimo le possibilità di custodia cautelare (applicando la Costituzione e il suo articolo 27). Tra i Pm, pochissimi - immagino - hanno letto quella legge (e quell’articolo della Costituzione). Allora forse è necessaria una misura ulteriore. Per quel che riguarda il rispetto del voto popolare, vedo una sola misura possibile. Estendere il divieto di arresto, che attualmente vale per i parlamentari, a tutti gli eletti dal popolo, subordinando la possibilità di custodia cautelare all’autorizzazione da parte del Parlamento. È chiaro che una proposta del genere potrebbe suscitare una grande indignazione e si troverebbe a scontrarsi con il populismo che dilaga, e con i partiti - un po’ tutti - che dal populismo sono intimiditi. Eppure è una semplicissima proposta di difesa della democrazia. Ammesso che a qualcuno interessi qualcosa della democrazia. L’appello serve a rimediare alle ingiustizie di Guariente Guarienti (Avvocato) Il Fatto Quotidiano, 24 giugno 2016 A Gian Carlo Caselli mi legano amicizia, affetto e condivisione quasi totale di visione del mondo e di idee sulla giustizia. Il "quasi" esclude la questione dell’appello, nel processo penale, su cui il Nostro si è espresso su Il Fatto Quotidiano, domenica 12 giugno. Caselli da sempre si batte per l’abolizione del secondo grado di giudizio; io, lo ritengo indispensabile. Ragiono con l’esperienza di cinquantadue anni da avvocato penalista. Più di una volta mi è capitato di incontrare soluzioni opposte o, comunque, assai diverse in casi analoghi. Un giudice, nello stesso tribunale, condanna per un furto a sei mesi di reclusione, il giudice a fianco a un anno e mezzo per un furto perfettamente identico. C’è il gip che, con rito abbreviato, ritiene fatto lieve la detenzione di 500 grammi di hashish e concede la sospensione condizionale, un altro che per 100 grammi condanna a sei anni. L’appello in entrambi i casi può riportare la pena a un giusto equilibrio, nel primo caso su impugnazione del pubblico ministero, nel secondo dell’imputato. Questi squilibri, legati alla mentalità del singolo giudice che, non dimentichiamolo, può decidere da solo su omicidi pluriaggravati se l’imputato chieda di essere ammesso al rito abbreviato, molto dipendono dall’avere il legislatore affidato a un giudice monocratico la maggior parte delle decisioni così come gli ha affidato la grave decisione sulla libertà dell’imputato nella fase delle indagini preliminari. I giudici rivendicano con forza la loro autonomia. Raramente nei tribunali i capi degli uffici riuniscono i colleghi per individuare criteri comuni da applicare nelle sentenze. Ognuno è libero di decidere come vuole. In alcuni casi l’avvocato si strappa i capelli, in altri si frega le mani. Le Corti d’appello, organi collegiali, sono molto più affidabili per rimediare a sentenze di primo grado ingiuste, sia a favore che in danno dell’imputato. Ne sono prova le molte sentenze di primo grado riformate quando, ovviamente, le impugnazioni non siano pretestuose o finalizzate solo alla prescrizione. La Cassazione può rimediare solo a gravi errori di diritto o di procedura. A una sentenza, ingiusta nella sostanza ma ben motivata nella forma, non vi sarebbe alcun rimedio. Per lo stesso fatto un tribunale potrebbe condannare un rapinatore a vent’anni, negando le attenuanti generiche, un altro tribunale a tre anni, concedendo le attenuanti equivalenti alle aggravanti. Entrambi infliggono una pena legale perché prevista dal codice penale. Altri, secondo me, sono i rimedi per evitare che i processi finiscano in prescrizione o, come scrive Caselli, per mancanza di risorse. Anzitutto trovare nuove risorse con rapide assunzioni di cancellieri e segretari tenendo conto che non basta trasferire da altre amministrazioni personale del tutto digiuno di competenze in un settore delicato qual è quello d e ll ‘amministrazione della giustizia costringendo i funzionari esperti a impiegare come istruttori buona parte del loro tempo. C’è poi la necessità di una depenalizzazione molto più forte di quella fino a oggi attuata. I giudici dovrebbero occuparsi solo di fatti gravi, i reati che aggrediscono beni protetti da norme costituzionali: la vita, la libertà, la proprietà, la salute, le risorse naturali, la sicurezza, solo per fare qualche esempio. Per colpire le impugnazioni pretestuose le Corti d’appello dovrebbero poter istituire sezioni del genere di quella esistente in Cassazione, la settima. All’imputato, non convinto di una decisione di inammissibilità, rimarrebbe sempre il ricorso per Cassazione, diritto costituzionalmente garantito. L’urgenza di riconoscere che la tortura è un reato di Donatella Di Cesare Corriere della Sera, 24 giugno 2016 Nel 2015 la Camera dei Deputati ha apportato modifiche a un disegno di legge che non è stato poi approvato dal Senato. Le difficoltà nascono dalla definizione del concetto. Com’è possibile che un giovane cittadino europeo, residente per motivi di studio in un Paese amico, venga torturato per giorni, subisca una violenza assoluta e sistematica che, prima di ancora di uccidere, intacca la dignità umana? Com’è possibile passare, d’un tratto, da cittadino a vittima inerme di sevizie indicibili? Quel che è accaduto a Giulio Regeni ha sconvolto profondamente l’opinione pubblica italiana. E ha riportato la questione della tortura all’ordine del giorno. Sarebbe tuttavia un abbaglio credere che la tortura sia prerogativa solo dei regimi dispotici o dittatoriali. Come mostra l’ultimo rapporto 2015-2016 di Amnesty International, nel mondo sono oltre 140 i Paesi in cui si denunciano casi di tortura. Si tratta, dunque, di una crisi globale. Benché sia universalmente stigmatizzata, la tortura continua ad abitare il paesaggio contemporaneo. E in Italia? Anche quest’anno si deve constatare, con grande amarezza, che la tortura non è stata ancora riconosciuta come reato. Il che esclude il nostro Paese da quelle democrazie occidentali che almeno, nei loro codici, hanno da tempo dichiarato illegale la tortura. Approvata dalle Nazioni Unite nel 1984, la Convenzione contro la tortura è stata ratificata dall’Italia già nel 1988. Da allora, però, quelle attese sono state tradite. Anche quest’ultimo anno si è concluso con un nulla di fatto. Il 9 aprile 2015 la Camera dei Deputati ha apportato modifiche a un disegno di legge che non è stato poi approvato dal Senato. Le difficoltà nascono dalla definizione della tortura. Ad esempio: è necessario che la violenza sia "reiterata", affinché ci sia tortura? È difficile crederlo. Se si guarda più in profondità, appare evidente che la legge vada configurandosi come una sorta di compromesso tra le forze dell’ordine, preoccupate di essere poste sotto accusa, e l’opinione pubblica, sempre più sensibile ai crimini perpetrati dietro le quinte. Come dimenticare i misfatti della Diaz di Genova, per i quali l’Italia è stata condannata il 7 aprile 2015 dalla Corte europea per i diritti dell’uomo? E che dire dei troppi casi di pestaggi crudeli, di morti brutali e inspiegabili, da Aldrovandi a Cucchi, da Magherini a Uva? La speranza è che non si debba attendere ancora a lungo e soprattutto che la norma non sia vaga e ambigua, non avalli furtivamente quel che dovrebbe con chiarezza proibire. Riconoscere la tortura come reato è una esigenza, etica e politica, inderogabile. Tanto più che il fenomeno oggi dirompente è una sorta di democratizzazione della tortura, il suo sopravvivere, cioè, in forme e modalità diverse, nel contesto democratico. Una volta criminalizzata, la tortura ha cercato infatti riparo nell’ombra: nei campi di internamento per stranieri, nei luoghi di detenzione e nelle carceri, negli ospedali psichiatrici, nei centri per disabili e anziani, ovunque un inerme si trovi nelle mani del più forte. La "guerra al terrore" provoca, attraverso la politica di emergenza, una riabilitazione inedita della tortura che, in particolare negli Stati Uniti, viene tollerata come misura straordinaria, ma utile. Non meno allarmante è un fenomeno connesso: il dissimularsi della tortura grazie a metodi sempre più raffinati. È la "tortura bianca", che salva le apparenze e fa implodere il concetto stesso di tortura: dalla privazione del sonno al disorientamento spazio-temporale, dall’immobilizzazione all’isolamento, dalle violenze sessuali alle sevizie psicologiche. Ecco perché la vigilanza dei media e dell’opinione pubblica è l’unico antidoto contro questa violenza che resta a offuscare il nostro presente. Petizione con 223mila adesioni. Ilaria Cucchi da Orlando con le firme per il reato di tortura Il Dubbio, 24 giugno 2016 Oltre 223mila firme a sostegno della petizione, lanciata su Change.org, per l’introduzione del reato di tortura in Italia. Sono quelle consegnate ieri da Ilaria Cucchi al guardasigilli Andrea Orlando, durante un incontro in via Arenula. "Ho incontrato il ministro della Giustizia per consegnare le sottoscrizioni", ha scritto in un post su Facebook Ilaria Cucchi, spiegando che all’incontro era presente anche l’avvocato Fabio Anselmo, che ha ricordato quanto il nostro Paese abbia bisogno di una legge sulla tortura: "Sta passando un concetto per cui una legge di questo tipo legherebbe le mani alle forze dell’ordine, impedendo di garantire sicurezza ai cittadini. Questo è un messaggio sbagliato: la sicurezza parte dal rispetto dei diritti umani e tutta Europa ci sta guardando su questo punto", ha detto Anselmo. "Lo stesso procuratore generale - ha aggiunto Ilaria Cucchi - ha riconosciuto il caso di mio fratello come un caso di tortura: l’ho ricordato citando le ultime dichiarazioni al processo contro i medici, che si celebra alla Corte d’Assise di Appello di Roma. Stefano è diventato un simbolo di tante altre storie che non hanno voce e queste firme raccolte in pochissimo tempo dimostrano come è cambiata la sensibilità e l’attenzione della gente comune. Il ministro Orlando ha risposto accogliendo l’invito della petizione: anche per altri casi c’è un preciso obbligo di carattere internazionale, che se non accolto rischia di esporci a sanzioni e a un impatto di immagine devastante per il Paese. Mio fratello Stefano - ha concluso Ilaria Cucchi - è diventato un simbolo con quello che ha subito. Ho portato al ministro la voce di tutti coloro che vogliono ancora credere nelle istituzioni, questo è solo l’inizio". La legge non è uguale per tutti: l’Ilva docet di Luigi Ferrarella Sette del Corriere, 24 giugno 2016 Il decreto ad hoc per l’impianto siderurgico regala ai futuri acquirenti una sorta di immunità penale. Così la giustizia si piega agli interessi economici. Da sempre "la legge è uguale per tutti" era magari programma ambizioso e talvolta frustrato, ma da sempre era comunque un bel credere che in teoria così fosse, e che in concreto a quell’obiettivo si dovesse tendere. Invece ormai si moltiplicano le situazioni nelle quali viene esplicitamente teorizzato, e singolarmente digerito senza troppi mal di pancia, che l’urgenza di salvare posti di lavoro, le esigenze dei cicli produttivi o le priorità della politica industriale nazionale ben possono giustificare aree di liceità condizionata dall’utilità economica (come le riassume il professore Francesco Forzati all’Università Federico II di Napoli): uno spaccato di quel "diritto penale differenziato" che già più di dieci anni fa il giurista Massimo Donini coglieva. Iniziare cioè a invertire il principio in base al quale gli scopi politico-criminali sono subordinati all’impiego di mezzi giuridicamente prestabiliti, e a trasformarlo nel principio per cui invece i fini politici e gli scopi politico-criminali soppiantano i mezzi giuridicamente attivabili. L’ultimo evidente caso è l’immunità penale e amministrativa assicurata ai futuri compratori dell’Ilva di Taranto dal recente decreto legge (addirittura il decimo) sulla più grande acciaieria d’Europa. Nel 2012 i primi decreti legge (gratificati in seguito dal via libera della Corte Costituzionale) erano intervenuti per neutralizzare gli effetti dei sequestri ordinati dalla magistratura tarantina, far ripartire gli impianti e rimettere l’azienda nella disponibilità dei prodotti sequestrati. Poi, con il proclamato scopo di assicurare i posti di lavoro, altri decreti avevano fra l’altro concesso 3 anni supplementari di produzione sottratta di fatto alle incertezze della giurisdizione penale. Infine il 5 gennaio 2015 ancora un decreto aveva previsto che le condotte poste in essere in attuazione del Piano ambientale 2014 non potessero dare luogo a "responsabilità penale o amministrativa del commissario straordinario e dei soggetti da questo funzionalmente delegati, in quanto costituiscono adempimento delle migliori regole preventive in materia ambientale, di tutela della salute e dell’incolumità pubblica e di sicurezza sul lavoro". Sembrava già una enormità. Ma adesso il decreto legge Calenda-Galletti, dispone che nel testo del 2015, dopo l’espressione "del commissario straordinario", siano aggiunte una virgola e le parole "dell’affittuario o acquirente"; e che l’espressione "da questo funzionalmente delegati" sia sostituita con le parole "da questi funzionalmente delegati". Il risultato, quindi, è che non più soltanto il commissario straordinario Ilva e i suoi delegati (come nel 2015), ma anche i futuri acquirenti dell’acciaieria e i loro delegati godranno per legge di immunità penale e amministrativa per le loro futuribili azioni e/o omissioni, che evidentemente il governo (nel decreto) e il legislatore (nella legge di conversione) già assumono - per definizione e in anticipo - saranno ortodossa traduzione delle "migliori regole preventive in materia ambientale, di tutela della salute e dell’incolumità pubblica e di sicurezza sul lavoro". Dopo le avvisaglie (dal 2008) nelle norme sull’emergenza rifiuti in Campania e sui reati vigenti addirittura solo in una porzione di territorio, la saga di Taranto è la certificazione che sta cambiando la stella cometa: l’emergenza diventa normalità, l’eccezionale si fa regola, l’inderogabilità lascia spazio alla compatibilità, il divieto non si viola ma si circumnaviga. E se la tutela dei diritti fondamentali non procede sui medesimi binari dell’interesse economico, è la tutela dei diritti a finire per indietreggiare ed essere derubricata in semplice auspicio. Più dei diritti contano i rapporti di forza, quasi a voler a tutti i costi far tornare in mente l’"illegalismo dei diritti": quello che Foucault, in Sorvegliare e punire, distingueva appunto dall’illegalismo dei beni più accessibile alle classi popolari. Intervista ad Antonio Lattanzi "quattro volte in carcere in tre mesi, ma ero innocente" di Franco Insardà Il Dubbio, 24 giugno 2016 Il suo incubo ora è sul grande schermo. "Non voltarti indietro", docu-film di Alessandro Del Grosso, racconta cinque gravi errori giudiziari tra i quali quello subito da Antonio Lattanzi: è finalista del Pesaro Doc Fest "Hai Visto Mai", concorso internazionale di documentari provenienti da tutto il mondo su temi sociali, con la direzione artistica di Luca Zingaretti, che inizia oggi. A dispetto del titolo, Antonio Lattanzi, però, si volta indietro e rilegge tutta la sua storia con lucidità e amarezza. Una delle cose che lo hanno colpito di più è la frase pronunciata dall’avvocato dello Stato nel processo in Corte d’Appello, nel quale si discuteva della richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione: "È vero, ci sono stati degli errori, ma il fatto di non essere stato condannato ha riparato a questi errori". Antonio Lattanzi proprio non riesce a mandare giù queste parole e sbotta: "È assurdo. Sono stato arrestato quattro volte, sono stato in cella 83 giorni e per dieci anni sono stato imputato. Finalmente vengo assolto, chiedo il risarcimento e mi sento dire che l’assoluzione mi dovrebbe ripagare per questo calvario". È un fiume in piena quando racconta la sua incredibile vicenda. Ricorda perfettamente date, processi, pm, gip e giudici che lo hanno accompagnato per dieci anni. Un incubo iniziato quando? Il 21 gennaio del 2002. Alle quattro di mattina i carabinieri sono venuti a casa e mi hanno notificato il mandato di arresto. Sono caduto dalle nuvole. All’epoca avevo due figli di 4 e 2 anni ed essere portato via sotto i loro occhi è stato bruttissimo. Non riuscivo a guardarli in faccia, mi sentivo addosso il loro sguardo indagatore e quello di mia moglie. Era incredula, non riusciva a capire quello che stava succedendo. Di che cosa era accusato e da chi? Di concorso in tentata concussione e abuso di ufficio. All’epoca ero assessore ai Lavori pubblici del comune di Martinsicuro. Il tutto era partito dalle dichiarazioni di Pierluigi Lunghi, l’architetto responsabile del settore tecnico del comune, arrestato in flagranza di reato nel luglio del 2001. Raccontò di aver chiesto dei soldi ad alcuni imprenditori, e, a un certo punto, mi tirò in ballo dicendo che il tramite sarei stato io. Lunghi nel 1996 fu indagato, dopo una mia denuncia, per un reato di falso in atto pubblico e condannato a 14 mesi. Fu arrestato in flagranza di reato il 26 luglio 2001 e di nuovo il 22 agosto 2001. Come si conclusero le indagini? Il pm, Bruno Auriemma, chiese l’archiviazione, ma poi Elena Tomassini, alla quale era passato il fascicolo del primo procedimento, chiese l’emissione dell’ordinanza di arresto al gip Giovanni Cirillo. E così quel 21 gennaio si aprirono per me le porte del carcere di Teramo. Quanti giorni ci rimase? Ventidue giorni, perché il Tribunale del Riesame annullò l’ordinanza di custodia cautelare, ritenendo che non vi fossero i gravi indizi di colpevolezza e non ricorressero le esigenze cautelari. E così il 12 febbraio potei tornare a riabbracciare i miei figli. A quel punto pensò che l’incubo fosse finito? Sì. Ma quella sensazione durò pochissimo: solo otto giorni. Il 20 febbraio i carabinieri vennero di nuovo per portarmi in carcere. L’accusa era la stessa, stavolta per un nuovo episodio di tentata concussione. Un altro pm Domenico Castellani chiese sempre allo stesso gip Cirillo una nuova ordinanza di arresto. Anche questa volta il Tribunale del Riesame, l’11 marzo, annullò l’ordinanza di custodia cautelare. Di nuovo libero... Questa volta solo per tre giorni. Era il 14 marzo 2002. L’accusa, tanto per cambiare, era di tentata concussione in concorso con l’architetto Lunghi. Il Tribunale del Riesame, il 29 marzo 2002, annullò l’ennesima misura cautelare. Finalmente libero... Non mi hanno neanche fatto uscire dal carcere di Teramo. Il giorno prima, il 28 marzo, mi hanno notificato una nuova ordinanza di custodia cautelare per un quarto tentativo di concussione. Stesso pm e stesso gip. E, tanto per cambiare il Tribunale del Riesame ordinò la scarcerazione. Era il 22 aprile del 2002. Quale spiegazione si dà per questo accanimento? Penso che alcuni magistrati non vogliano ammettere di aver sbagliato in una valutazione e cercano ossessivamente gli elementi per sostenere la loro tesi accusatoria. Nella mia vicenda c’è stato il combinato disposto tra il mio accusatore, che voleva vendicarsi, e i magistrati che gli hanno creduto e sono voluti andare caparbiamente avanti, senza valutare serenamente i fatti. Se lo avessero fatto non sarei stato arrestato quattro volte, non avrei fatto 83 giorni di carcere e i processi. Infatti nel 2003 sono iniziati i processi... Il 14 gennaio del 2006 sono stato assolto in primo grado, ma il pm fece ricorso per Cassazione, perché all’epoca era in vigore la "legge Pecorella". Nel 2012 il procuratore generale nel processo di Appello all’Aquila chiese di non procedere per sopravvenuta prescrizione. Ma io e i miei legali chiedemmo di procedere. Volevo avere una sentenza. Eravamo sicuri e abbiamo avuto ragione. Sono stato pienamente assolto. Quando è entrato per la prima volta in carcere che cosa ha pensato? Sono cresciuto con un insegnamento chiaro: se non si fa nulla non bisogna avere paura. Purtroppo oggi devo dire che non è vero. Sono stato sbattuto in carcere senza che avessi fatto niente. Quando sono stato arrestato è stato disposto il divieto di incontrare gli avvocati prima dell’interrogatorio di garanzia. Sono passati otto giorni prima che mi facessero vedere mia moglie. Neanche fossi il peggiore assassino. Parliamo di sua moglie... È una donna straordinaria. Senza di lei non sarei riuscito a venire fuori da questo incubo. Mi è stata vicina sin dal primo momento, mi ha sostenuto sempre. A ogni arresto e a ogni scarcerazione. Quel 22 aprile 2002, il giorno della mia libertà, le chiesi di venire con il nostro fuoristrada perché dalla finestrella della cella potevo intravederne il tettuccio, e quindi quella mattina sono stato a guardare fuori. Sembravo un leone in gabbia, ma mi calmai solo quando vidi spuntare la macchina. Prima raccontava dello sguardo dei suoi figli quando sono venuti ad arrestarlo. E poi? All’epoca avevo due figli, di 4 e 2 anni, che grazie a mia moglie sono cresciuti tranquilli. La più grande ha un carattere forte. Durante la carcerazione con mia moglie decidemmo che ci saremmo fatti un regalo: un altro figlio. Nel 2005 è nata Francesca. La nostra famiglia oggi è ancora più unita. Io volevo cambiare paese, ma mia moglie mi ha convinto a rimanere. E i suoi amici? Martinsicuro si è diviso. I veri amici hanno creduto in me e mi sono stati ancora più vicini, altri mi hanno deluso e si sono allontanati. Va bene così. Chi è Antonio Lattanzi? Sono un ottico professionista, ho 55 anni, sono nato a Giulianova e vivo con la mia famiglia a Martinsicuro, in provincia di Teramo, e sin da ragazzo ho sempre voluto impegnarmi in politica. Nel 1993 sono stato eletto consigliere comunale ed ero all’opposizione. Nel 1997 sono stato rieletto e nominato assessore ai Lavori pubblici. Poi quel 21 gennaio 2002?. L’assessorato ai Lavori pubblici è una poltrona che scotta. Che cosa ha realizzato? Su tutto l’avvio dei lavori per la sistemazione del lungomare e la realizzazione del porticciolo. Opere ferme da quel 2002. Quella poltrona per me non scottava, forse ho dato fastidio a qualcuno che si è voluto vendicare. Dopo questa esperienza ha chiuso con la politica? Assolutamente no. Mi chiedono di candidarmi a sindaco. I cittadini di Martinsicuro vogliono che metta a disposizione del paese la mia esperienza amministrativa e la mia determinazione. Questa vicenda mi ha rafforzato. Come sono stati questi 83 giorni in cella? Sono stato trattato bene dai miei compagni di sventura e dagli agenti penitenziari. Ho visto da vicino un mondo che non immaginavo e un sistema che va senza alcun dubbio migliorato, nel rispetto del dettato costituzionale. È stato risarcito per quella detenzione? Risarcito è una parola grossa. Mi sono stati riconosciuti 55mila euro, ma tenga presente che ho speso circa 200mila euro per difendermi. Senza contare tutto quello che è significata questa storia dal punto di vista psicologico per me e per la mia famiglia. Ora sento di dover davvero chiudere il capitolo. Senza voltarmi indietro. Al giudice dell’esecuzione potere di revoca di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2016 Corte di cassazione - Sentenza 26259/2016. Il giudice dell’esecuzione può revocare la condanna inflitta dopo l’entrata in vigore della legge che ha abrogato la norma incriminatrice, se il giudice della cognizione non ha rilevato l’abolizione del reato. Le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 26259 depositata ieri, sciolgono il contrasto sul potere del giudice dell’esecuzione di intervenire e superano l’orientamento in base al quale l’errore sarebbe emendabile solo attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione. Il caso finito sul "tavolo" delle Sezioni unite, riguardava la contestazione del reato di permanenza illegale nel territorio dello Stato, nei confronti di un extracomunitario colpevole di non aver esibito i documenti di identità e il permesso di soggiorno. Il giudice di cognizione aveva condannato lo straniero, irregolare, per un fatto commesso nel 2010 senza tenere conto dell’effetto parzialmente abrogativo della legge 94 del 2009, in virtù della quale, come chiarito dalle sezioni unite (sentenza 16453/2011), il reato non è contestabile allo straniero in posizione irregolare visto che i documenti non li possiede. Per la Cassazione il giudice della cognizione non sarebbe incorso in un errore valutativo, il che avrebbe impedito di rimettere in discussione il giudicato, ma in un errore percettivo. Circostanza che legittima l’intervento del giudice dell’esecuzione tenuto, come garante della legalità della pena, a valutare se nel caso concreto la condanna debba essere revocata perché pronunciata per un fatto commesso dopo l’entrata in vigore della norma abrogatrice. La condanna successiva al "colpo di spugna" per via legislativa è infatti pronunciata in violazione del principio di legalità, come sottolineato a più riprese dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Le Sezioni unite ricordano la decisione con la quale la Consulta (sentenza 210/2013) ha affermato che il diritto alla libertà personale deve prevalere sull’intangibilità del giudicato. Un verdetto al quale si sono allineate le Sezioni unite (sentenza 32/2014) bollando come non accettabile l’applicazione di una pena avulsa dal sistema, come quella inflitta con una sentenza di condanna pronunciata su un fatto che, nel momento in cui è stato commesso, non aveva più un rilevo penale "e per questo era da ritenersi illegale ab origine". Il possesso di denaro non prova il riciclaggio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2016 Corte di cassazione, seconda sezione penale, sentenza 23 giugno 2016 n. 26301. No all’imputazione per riciclaggio se il solo elemento di prova è costituito dal possesso di un’ingente somma di denaro scoperto alla frontiera. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 26301 della Seconda sezione penale depositata ieri. La pronuncia ha così annullato senza rinvio il provvedimento con il quale il tribunale di Como aveva respinto la richiesta di riesame avanzata contro due decreti di sequestro probatorio disposti dal Pm su due considerevoli somme di contante (868mila euro e 10mila euro) rinvenuti a bordo di un’automobile al momento dell’ingresso in Italia dalla Svizzera. Per il riesame, quanto alla presunzione della commissione di un delitto, da una parte non era richiesta una formale imputazione e risultava sufficiente l’indicazione del reato di riciclaggio contenuta nei provvedimenti impugnati mentre, con riferimento alla motivazione, non occorreva indicare le esigenze probatorie dal momento che verosimilmente si trattava proprio di denaro che costituisce il corpo del reato. La conservazione del sequestro era poi giustificata per la necessità di ricostruire compiutamente le operazioni effettivamente eseguite dall’indagato al quale erano stati sequestrati telefoni cellulari e documentazione varia. La difesa aveva invece contestato i sequestri, sottolineando invece l’assenza di ogni indicazione sull’esistenza del reato presupposto del riciclaggio, quando invece erano presenti altri elementi che si sarebbero potuti tenere presenti per ritenere che l’occupante della vettura fosse un gioielliere che doveva procedere all’acquisto di preziosi. La Cassazione ha accolto il ricorso, mettendo in evidenza come il reato presupposto del sequestro sia frutto di un’ipotesi totalmente astratta, "basata esclusivamente sulla quantità del contante, non confortata da alcun elemento concreto, poiché il mero possesso di un’ingente somma di denaro non può giustificare ex se, in assenza di qualsiasi riscontro investigativo, l’elevazione di un’imputazione di riciclaggio, senza che sia stata in alcun modo verificata l’esistenza di un delitto presupposto". Non solo, non è stata neppure verificata l’esistenza anche solo di semplici relazioni tra l’uomo "beccato" con i contanti e ambienti criminali oppure la precedente commissione di fatti di reato dai quali era derivato quel denaro. o, ancora, la messa in pratica di operazioni di investimento comunque di natura illecita a qualsiasi titolo. Senza nessun elemento idoneo a specificare l’esistenza di un delitto presupposto dal quale possa avere avuto origine quella somma contante oggetto del sequestro (sempre possibile sul piano amministrativo per violazione della disciplina valutaria) l’ipotesi di riciclaggio configurata di prospetta alla Cassazione del tutto arbitraria. Tanto più se si tiene presente invece apparente attività di commercio di preziosi che non è stata oggetto di smentite. Puniti i giornalisti che intercettano con mezzi illegali di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2016 Protezione della libertà di stampa sì, ma giusta la sanzione per i giornalisti che captano notizie utilizzando strumenti radiofonici in grado di accedere alle frequenze riservate alle forze dell’ordine. È la Corte europea dei diritti dell’uomo a fissare i paletti nel primo caso sulla pubblicazione di notizie acquisite con intercettazioni vietate arrivato a Strasburgo. Con la sentenza depositata ieri (n. 22567/09), infatti, la Corte ha respinto il ricorso contro l’Italia di tre giornalisti condannati dai tribunali nazionali a misure detentive, pena sospesa, dopo aver accertato, però, che la notizia, seppure acquisita in modo illecito, era stata pubblicata. I cronisti avevano captato, utilizzando uno scanner sintonizzato su frequenze riservate ai carabinieri, un’informazione su un blitz per un sequestro di armi. Arrivati sul luogo del crimine, erano stati fermati e i carabinieri avevano sequestrato gli strumenti. Poi la condanna e la decisione dei cronisti di rivolgersi a Strasburgo che, però, ha respinto il ricorso. Prima di tutto, la Corte ha chiarito che l’azione penale avviata dalle autorità nazionali non ha riguardato la pubblicazione della notizia che non è stata impedita, ma il comportamento dei giornalisti nell’intercettazione su frequenze riservate. E sul punto la Corte è chiara. Malgrado l’importanza della libertà di stampa, i giornalisti non hanno immunità penale assoluta per il solo fatto che un reato è commesso nell’esercizio della professione giornalistica. Non solo. La stampa è tenuta ad agire rispettando i doveri imposti dalla legge e dagli standard del giornalismo responsabile che include il contenuto delle informazioni, ma anche la liceità del comportamento del cronista. È chiaro - osserva Strasburgo - che i reporter hanno violato norme interne intercettando utenze riservate, indispensabili per la sicurezza. Di conseguenza, l’ingerenza era necessaria. D’altra parte, la misura è stata proporzionata anche sotto il profilo della sanzione. È vero, infatti, che i giornalisti sono stati condannati a una sanzione detentiva, ma la pena è stata sospesa. Per la Corte, poi, ha grande importanza la circostanza che non è stata impedita la pubblicazione della notizia e, quindi, è stato effettuato un giusto bilanciamento tra i diversi diritti in gioco: da un lato l’ordine pubblico e, dall’altro lato, il diritto della collettività a ricevere informazioni. E su quest’ultima questione, la Corte pone l’accento sulla necessità di valutare "il peso" della notizia perché fatti di cronaca come quelli in discussione non possono avere lo stesso peso di questioni di interesse generale o che rivestono un grande interesse mediatico. Un riferimento che lascia la porta aperta alla possibilità che, in futuro, di fronte a questi casi, Strasburgo scelga un’altra strada. Ammonimento per stalking: l’avviso non è necessario se è motivata l’urgenza di Giulia Laddaga Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2016 Consiglio di Stato - Sezione III - Sentenza 6 giugno 2016 n. 2419. Con la pronuncia n. 2419 del 6 giugno scorso, la terza Sezione del Consiglio di Stato si è pronunciata sulla procedura di ammonimento per stalking, affermando che non è necessario l’avviso di avvio del procedimento ex articolo 7, legge 241/1990, in ragione dell’urgenza della misura adottata dal Questore, se adeguatamente motivata con i fatti posti a fondamento della stessa. La vicenda - Avverso l’ammonimento per stalking emesso dal Questore di Genova, l’interessato ha proposto dapprima ricorso gerarchico al Prefetto e, successivamente al rigetto, ricorso giurisdizionale. Il Tribunale amministrativo ha accolto il motivo col quale è stata lamentata la mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento, prevista dall’articolo 7 della legge n. 241 del 1990, così annullando il provvedimento impugnato. La sentenza è stata quindi appellata dal ministero dell’Interno, deducendo che nel caso di specie non occorreva l’avviso per l’avvio del procedimento, sia per la natura cautelare dell’ammonimento, sia per le circostanze di fatto emerse nel corso del procedimento. La decisione del Consiglio di Stato - Ai sensi dell’articolo 8 del Dl n. 11 del 2009, fino a quando non è proposta querela per il reato di stalking la persona offesa può rivolgersi all’autorità di pubblica sicurezza avanzando richiesta al Questore di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta. Il Questore, dopo aver assunto le necessarie informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate sui fatti, se ritiene fondata l’istanza, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento. Nell’esame della richiesta, il Questore esercita un potere discrezionale, valutando non solo se adottare il provvedimento richiesto, ma anche quando adottarlo. Infatti, oltre ad essere titolare del potere di emettere o meno la misura, egli può decidere se emanare senza indugio il provvedimento, oppure se le circostanze consentano di avvisare il possibile destinatario dell’atto dell’avvio del procedimento. Nel caso all’esame del Consiglio di Stato, il provvedimento del Questore ha dato espressamente atto che sussistevano "particolari esigenze di celerità del procedimento amministrativo" e che la misura andava senz’altro emessa "al fine di scongiurare il possibile scatenarsi di dinamiche reattive ulteriori". La Terza Sezione ha quindi valutato ragionevoli le considerazioni fatte dal Questore, anche in ragione dei fatti posti a fondamento della richiesta avanzata dalla persona offesa (come il possesso di una licenza di polizia per porto d’armi da parte del destinatario dell’ammonimento). Non solo quindi la natura cautelare del provvedimento, ma altresì le risultanze del procedimento sono state poste dal Questore a fondamento dell’urgenza oltre che della necessità della misura adottata. Inoltre, ha precisato il Collegio, la proposizione del ricorso gerarchico al Prefetto prima della proposizione del ricorso giurisdizionale ha comunque dato la possibilità all’interessato di rappresentare le proprie ragioni in sede amministrativa, anche in assenza dell’avviso ex articolo 7, legge 241/1990 e di un contraddittorio in una fase anteriore all’emissione del provvedimento negativo. Sulle altre censure di merito proposte dall’interessato in primo grado, e ivi assorbite, la Sezione ha poi valutato ancora ragionevole e motivato il provvedimento del Questore, valutando tutti gli elementi fattuali posti a fondamento della misura, correttamente ritenuta idonea ad indurre l’interessato a non avere più comportamenti molesti nei confronti della richiedente. Conclusioni - In conclusione, se vero è che il provvedimento di ammonimento, assolvendo a una funzione tipicamente cautelare e preventiva, può non essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, altrettanto vero è che tale decisione deve essere comunque motivata dal Questore sulla base della peculiarità del quadro indiziario che è alla base della misura stessa adottata. Dopo la chiusura dell’O.P.G. di Aversa di Cesare Bondioli ed Emilio Lupo* Ristretti Orizzonti, 24 giugno 2016 La chiusura dell’Opg di Aversa, il cui processo è stato costantemente monitorato negli anni scorsi da Psichiatria Democratica che ha effettuato numerose visite nella struttura attivandosi anche per la dimissione di alcuni pazienti impropriamente internativi, da un lato conferma il buon lavoro svolto in Campania, dove già era stato chiuso l’Opg di Napoli Secondigliano, e accentua le responsabilità di quelle Regioni che, nonostante il Commissariamento, sono tuttora in ritardo con i piani di superamento degli Opg in esse ospitati e contribuiscono a mantenere aperti, contra legem, gli (ex)ospedali di Montelupo Fiorentino (dove al 16 maggio scorso risultavano ancora internate 49 persone) e di Barcellona Pozzo di Gotto (26 internati al 31 marzo 2016). Questi ritardi sono generalmente imputati alla mancata realizzazione delle Rems: questo è tuttavia un falso problema creato dalla sostanziale disapplicazione della legge 81/14 tanto da parte della Magistratura che applica routinariamente la misura di sicurezza detentiva quando questa è per legge da riservare solo a quei casi per cui non si può applicare un diverso provvedimento, sia da parte dei Dipartimenti di salute mentale che, anche per oggettive difficoltà di organico e di risorse, non si fanno carico, tempestivamente, di formulare i progetti terapeutico riabilitativi, previsti dalla legge, per i loro pazienti autori di reato. Ovviamente, come Psichiatria Democratica, non possiamo che ribadire che le Rems non rappresentano l’alternativa al vecchio invio in Opg e che quelle esistenti, se ben utilizzate, possono essere sufficienti con i loro posti letto ad accogliere la domanda di ricovero in regime di detenzione se correttamente irrogata, a condizione che alle Rems non vengano anche destinati pazienti in misura di sicurezza provvisoria, che tutti gli invii siano accompagnati da un progetto terapeutico riabilitativo personalizzato e, soprattutto, che l’invio nelle Rems venga "filtrato" da subito (dal momento della notizia di reato di un soggetto affetto da un disturbo psichico) da un lavoro congiunto della Magistratura e del Dipartimento di Salute Mentale competente per quel paziente. Per superare gli opg residui e non vanificare l’applicazione della legge intasando le Rems di ricoveri impropri, è ancora più attuale la proposta formulata da anni da Psichiatria Democratica, di attivare, in ogni Regione e Azienda Usl, dei protocolli operativi vincolanti congiunti tra Dipartimenti di Salute Mentale e Magistratura di ogni grado, per una tempestiva presa in carico dei pazienti psichiatrici giudiziari fin dall’inizio della loro carriera giudiziaria al fine di trovare la modalità più consona ai loro bisogni di cura e assistenza utilizzando in pieno le alternative previste dalla legge che recita espressamente all’art 3: "Il giudice dispone nei confronti dell’infermo di mente e del seminfermo di mente l’applicazione di una misura di sicurezza, anche in via provvisoria, diversa dal ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e custodia, salvo quando sono acquisiti elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla sua pericolosità sociale". *Cesare Bondioli - Responsabile carceri e OPG Psichiatria Democratica *Emilio Lupo - Segretario nazionale Psichiatria Democratica Sabella e i "pm coraggiosi", sempre sospesi tra giurisdizione e cura del potere di Giuseppe Sottile Il Foglio, 24 giugno 2016 Sabella e gli altri. Guida minima per riconoscere i tic e le delizie dei "coraggiosi" pm prestati alla politica. Evitate, se potete, di chiedere dov’è. Perché in questo momento starà di sicuro parlando con l’editore per decidere la data d’uscita del prossimo libro, scritto a quattro mani con il suo giornalista di fiducia, per cantare le lodi della giustizia più bella del mondo; oppure starà discutendo con il produttore cinematografico per gli ultimi ritocchi alla sceneggiatura del film che la Rai manderà in onda, con ogni probabilità, il prossimo 23 maggio, venticinquesimo anniversario dell’assassinio di Giovanni Falcone, per sottolineare ancora una volta il proprio impegno antimafia; oppure starà nella redazione del giornale impegnato sul fronte della legalità per ribadire, in un’intervista ad ampio raggio, ci mancherebbe altro, la necessità di inasprire leggi e pene contro la corruzione. Oppure - e qui il riferimento è ad Alfonso Sabella - starà nella segreteria del candidato sindaco di Roma che lo ha appena designato come futuro assessore magari per preannunciargli una pubblica dichiarazione che poi, al di là delle intenzioni e delle successive puntualizzazioni, ha finito per mascariare, con una spruzzatina di facile sospetto, la candidata del partito concorrente. E non chiedetevi nemmeno se lui - il magistrato in carriera che Roberto Giachetti voleva nella giunta capitolina - presti servizio in procura o alla Corte di assise o al Tribunale del riesame; o se, per meglio seguire la sua strada, si è messo in aspettativa. Perché un magistrato è per sempre, come il diamante della De Beers, e quando parla non sentirete mai l’alito cattivo di un particolare interesse politico; dalla sua bocca verrà fuori sempre e comunque il profumo iridato di tante belle parole messe insieme come in un bouquet di fiori: c’è il sapore della legalità e pure quello dell’antimafia; c’è il sapore della società civile e pure quello fascinoso e inebriante della rivoluzione: ricordate Antonio Ingroia, l’esuberante procuratore di Palermo che, alla vigilia delle elezioni politiche del 2013, imbastì il monumentale processo sulla fantomatica trattativa tra lo Stato e i boss di Cosa nostra? Se ne andava ai comizi, saliva sul palco con i Ray-Ban a goccia e la mano in tasca, e se qualcuno osava sollevare un dubbio sull’opportunità di quel suo comportamento rispondeva, con urtante spocchia, che lui si riteneva un partigiano - "un partigiano della Costituzione" - e in quanto tale rivendicava il diritto di zampettare da una manifestazione politica a un’altra senza che nessuno potesse dirgli nulla. Meno che meno quei quattro imparruccati membri della commissione disciplinare del Csm. Perché se un magistrato è per sempre, il magistrato che ha intramato la propria carriera tra lotta alla mafia e interviste ai giornali, porta una croce d’oro sul petto ed è più uguale degli altri. Sono intoccabili, sono inattaccabili. Qualunque cosa dicano, qualunque cosa facciano. E non azzardatevi a sostenere che, magari, hanno buttato soldi su un’inchiesta senza capo né coda o che hanno istruito un processo senza prove. Non azzardatevi. Perché molti di questi intrepidi coltivano anche l’innocente vizietto di correre subito nelle stanze del piano superiore a piagnucolare "per l’oltraggio ricevuto", a battere i piedini per ottenere "solidarietà e protezione" e a calare lì in mezzo, tra una gnagnera e l’altra, quelle due o tre paroline che sembrano fatte apposta per richiamare chissà quali congiure, chissà quali complotti, chissà quali attentati, chissà quale mafia alle porte. È la mistica della persecuzione. Ormai lo sanno pure le pietre: parole pesanti come "intimidazione", o come "delegittimazione" verdeggiano da anni in un formulario grazie al quale dentro i palazzi di giustizia si è costruita la filiera dei cosiddetti "magistrati coraggiosi", una definizione che Giovanni Falcone o Paolo Borsellino, che di coraggio ne avevano da vendere, odiavano come la morte; ma che oggi, paradossalmente, ha finito per segnare una particolarissima casta: quella dei magistrati che oltre a essere super scortati e super coccolati da giornalisti e conduttori televisivi - dettagli che puntualmente alimentano e ingigantiscono la loro aureola di eroi in servizio permanente effettivo - vengono anche corteggiati e richiesti a gran voce dalla politica. O, meglio, da quegli esponenti politici che, intruppandoli nel loro staff, credono di potere alzare davanti agli elettori un collaudato vessillo di correttezza, di trasparenza e legalità. Dispiace dirlo, ma ci cascano tutti: Matteo Renzi si è inventato Raffaele Cantone, che viene dalla lotta alla camorra, e lo ha messo a capo dell’Anticorruzione; Rosario Crocetta, governatore della Sicilia, ha accolto felicemente tra le sue braccia Antonio Ingroia, seriamente disastrato dallo zero virgola ottenuto alle elezioni di due anni fa, e gli ha regalato persino un lussuoso incarico di sottogoverno; Giachetti voleva provarci con Sabella, seguendo l’esempio dell’ex sindaco Ignazio Marino, ma gli è andata male, malissimo: non solo ha perso le elezioni, asfaltato in malo modo dal plebiscito che ha portato Virginia Raggi al 67 per cento; ma le ha pure perse con il sospetto che la maledetta dichiarazione, con la quale Sabella ipotizzava addirittura un avviso di garanzia per la Raggi, colpevole sì e no di un insignificante malinteso burocratico, avesse provocato nelle ultime ore della campagna elettorale una sorta di rigetto nei confronti di un Pd, intrappolato ancora una volta nella sua logica sbirresca. Teoricamente, lo zelo dimostrato nell’ ultima performance potrebbe persino scalfire l’aureola di "magistrato coraggioso" che, fin dalla stagione di Palermo vissuta nel pool antimafia di Gian Carlo Caselli, cinge la testa di Alfonso Sabella. Teoricamente però. Perché se è vero che, dopo la sortita sulla Raggi, il Consiglio superiore ha aperto un fascicolo, è altrettanto vero che la commissione disciplinare non troverà mai né la forza né il coraggio di mettere in discussione le parole e le opere di una toga che vanta nel suo curriculum il merito di avere catturato boss come Leoluca Bagarella, cognato e braccio destro di Totò Riina. Sarebbe come "delegittimare" - ecco la formula magica - la lotta alla mafia. Del resto, il Csm ha sempre mostrato su questo fronte estrema cautela: ha archiviato Ingroia che, girovagando tra i palazzi della politica in vista della sua discesa in campo, era finito sul palco del congresso Pdci, quello di Oliviero Diliberto, per sostenere che "i magistrati non possono essere trasformati in esecutori materiali di leggi ingiuste"; e ha archiviato anche Vittorio Teresi, procuratore aggiunto di Palermo, che ha pubblicamente bocciato con un quattro in pagella, i giudici che avevano assolto l’ex generale dei carabinieri Mario Mori, costretto ormai da quasi vent’anni a salire e scendere le scale del Palazzo di giustizia. Volete che non dimostri altrettanto buon animo nei confronti di Alfonso Sabella o che gli avveleni la festa per l’arrivo nelle sale del film che, ricostruendo l’arresto di Bagarella, inevitabilmente finisce per intonare un inno alla sua immagine di duro e puro, alla sua storia di cacciatore di mafiosi? Tranquilli. Sabella, come quasi tutti i "magistrati coraggiosi", resterà sempre una spanna sopra gli altri, sospeso a metà tra il cielo e la terra, tra la politica e la giustizia, tra la giurisdizione e la cura del potere. In quel mondo di mezzo, dolcemente tempestoso e sottilmente inquieto, che è la dimora metafisica degli uomini che, in forza del loro impegno profondo e melodioso, meritano un posto più alto di quello assegnato ai comuni mortali. Ricordate la favola del Barone rampante, narrata per tutti gli uomini che ancora amano Voltaire, da un Italo Calvino straordinariamente illuminista e calvinista? Cosimo Piovasco di Rondò per sfuggire all’angheria del padre che gli impone di mangiare le lumache, decide a dodici anni di salire su un albero, dove rimane felice e gaudente per tutta la sua esistenza. Il padre tenta in tutti i modi di convincerlo a scendere, ma Cosimo non vuole sentire: "Io dagli alberi piscio più lontano", risponde beffardo. Ed è a quel punto che il barone padre, indicando il cielo carico di nuvole, lo avverte: "Attento, figlio, c’è Chi può pisciare su tutti noi". Messina: non c’è posto nella Rems, ritorna nell’ex Opg e si suicida di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 giugno 2016 È accaduto nell’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. Si è impiccato martedì notte nel bagno della sua cella. Si tratta di un paziente psichiatrico ristretto nell’ex Opg di Barcellona Pozzo di Gotto ed era in attesa, come gli altri 29 pazienti, di essere trasferito nelle Rems come prevede la legge. A trovarlo è stato un agente che piantonava da solo i due piani della struttura. Un istituto sotto organico perché secondo le stime di chi vi opera servirebbero almeno 125 agenti, mentre invece ce ne sono solamente 80. Quello di Barcellona - come già denunciato da Il Dubbio - è uno dei due ex Opg che nel frattempo sono stati convertiti in istituti penitenziari ordinari, ma che ospitano ancora i pazienti psichiatrici. Il risultato è quello di essere illegalmente delle strutture ibride: ospitano sia i detenuti che i disabili mentali. Come già riportato dal nostro giornale, l’ex Opg di Barcellona Pozzo ospita 177 detenuti assieme ai 30 (ora 29) pazienti ancora in attesa di essere trasferiti nelle strutture sanitarie. Abbiamo quindi un totale di 206 persone: il numero potrebbe essere superiore visto che non c’è il numero ufficiale delle persone entrate sane nelle carceri e poi trasferite nell’ex Opg perché nel frattempo sono subentrati disagi psichici. Ed è in quest’ultima categoria che apparteneva l’uomo che si è tolto la vita: era rinchiuso da oltre un anno, in attesa di giudizio, nel carcere Pagliarelli di Palermo; solo nel mese di giugno, viste le sue condizioni psichiatriche sopraggiunte, si è deciso di indirizzarlo nella Rems. Ma non c’è posto e quindi viene trasferito nell’ex Opg siciliano fino al triste epilogo di martedì notte. Il dramma si sarebbe potuto evitare se fosse stata rispettata la legge 81 del 2014 che prevedeva la chiusura definitiva di tutti gli Opg entro il 31 marzo 2015 e quindi il trasferimento di tutti gli internati nelle Rems, le residenze sanitarie per le misure di sicurezza. Oppure, nei casi in cui fosse stata esclusa la pericolosità sociale di queste persone, liberarli e passarli alle cure dei dipartimenti di salute mentale sparsi sul territorio. Dopo qualche giorno dalla denuncia del nostro giornale, i degenti rimasti nell’ex Opg di Aversa sono stati tutti trasferiti. Ma rimangono ancora quelli di Montelupo e di Barcellona. Franco Corleone, il commissario straordinario per vigilare sull’attuazione della legge che prevede la chiusura definitiva degli Opg, raggiunto dal Dubbio, ci ha spiegato che entro agosto i due ex ospedali psichiatrici giudiziari verranno definitivamente liberati dai pazienti. Una sfida difficile da portare a compiere visto che attualmente le due uniche Rems esistenti in Sicilia, quella di Caltagirone e quella di Nicaso, non sono sufficienti ad accogliere le decine di degenti rimasti ancora presenti negli ex Opg. Anche per questo, Franco Corleone, ha proposto un intervento legislativo - accolto con favore dal ministero della Giustizia - che faccia ricoverare nelle Rems solo i condannati definitivi. Con quest’ultima impiccagione, sale così a 19 il numero delle persone detenute che si sono suicidate dall’inizio del 2016, per un totale di 44 detenuti morti nell’arco di soli 6 mesi, ovvero una media di oltre 7 detenuto morti ogni mese. La radicale Rita Bernardini - commentando il penultimo suicidio avvenuto al carcere romano di Rebibbia - ha ricordato che "non bastano direttive per fermare la mattanza. Ci vuole una pena legale, cioè eseguita secondo i principi della nostra Costituzione". Benevento: detenuto muore in ospedale, la vittima è un 52enne casertano ottopagine.it, 24 giugno 2016 È morto al Rummo, dove si trovava da qualche giorno per problemi gastrointestinali. La vittima è un 52enne casertano, ospite della casa circondariale di contrada Capodimonte. Secondo una prima ricostruzione, lo scorso 21 giugno l’uomo, condannato per violenza sessuale, sarebbe stato trasportato dal carcere, in ospedale, per le sue condizioni di salute. Poi il decesso ed il trasferimento della salma all’obitorio, dove il medico legale, la dottoressa Monica Fonzo, ha proceduto alla visita esterna su incarico del sostituto procuratore Giacomo Iannella, che dovrà ora decidere se disporre l’autopsia. Cagliari: salvata detenuta che ha tentato il suicidio nel carcere di Uta Ansa, 24 giugno 2016 Ha tentato di uccidersi nella sua cella del carcere di Cagliari-Uta dove pochi giorni fa un’altra persona detenuta si era tolta la vita, ma la donna è stata salvata dal tempestivo intervento delle agenti di della Polizia penitenziaria. Ha tentato di uccidersi nella sua cella del carcere di Cagliari-Uta dove pochi giorni fa un’altra persona detenuta si era tolta la vita, ma la donna è stata salvata dal tempestivo intervento delle agenti di della Polizia penitenziaria. "Il gesto, attuato tramite impiccamento non è stato consumato grazie alle poliziotte. Soltanto grazie all’intervento provvidenziale delle agenti di sezione si è evitato che l’estremo gesto della donna di 40 anni, detenuta per reati di droga, avesse conseguenze mortali", ha denunciato Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo Polizia penitenziaria (Sappe). "Per fortuna delle istituzioni, gli uomini della Polizia penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità - ha aggiunto il segretario regionale del Sappe, Luca Fais - pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici. Ma non si può ritardare ulteriormente la necessità di adottare urgenti provvedimenti: non si può pensare che la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri sarde e del Paese (oggi affollate da oltre 54mila detenuti) sia lasciata solo al sacrificio e alla professionalità delle donne e degli uomini della Polizia, sotto organico di settemila unità e penalizzati dalla Legge di stabilità che ha bocciato l’assunzione straordinaria di 800 nuovi agenti". Pordenone: il Papa scrive ai detenuti "siete fratelli" di Enrico Lisetto Messaggero Veneto, 24 giugno 2016 Celebrato il giubileo in carcere assieme a islamici e ortodossi. Il vescovo Pellegrini: tutelerò la vostra dignità di persone. "Nessuno vi ruberà la dignità di persone. Difenderla sarà il mio impegno". Lo ha detto il vescovo, monsignor Giuseppe Pellegrini, al termine del "giubileo dei detenuti" dentro la casa circondariale di Pordenone. Tre ore di emozione al mattino per i "comuni", altrettante il pomeriggio per i protetti. Il presule ha voluto incontrare singolarmente i detenuti che ne hanno fatto richiesta: una "chiacchierata" in privato nella chiesetta, prima di varcare la porta santa in processione, realizzata nella sala polifunzionale dove campeggia un affresco di mare e aquiloni: "La nostra libertà". "Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: padre ho peccato", hanno cantato i detenuti, preparati da don Piergiorgio Rigolo, dopo avere visto un film sul "figliol prodigo" in versione moderna. Al castello ora sono in 52 (il 60 per cento stranieri, soprattutto ghanesi, il 20 islamici, uno indù), la capienza massima è 68; gli agenti di polizia penitenziaria, fa i conti il comandante Nicola De Gennaro, sono 48 su 59, un terzo in meno del previsto. Lontani i tempi del sovraffollamento: "Le iniziative legislative e le misure alternative, nonché l’attenzione dopo la "sentenza Torreggiani" hanno migliorato la vivibilità, creando una certa mobilità nella rete penitenziaria", dice il direttore Alberto Quagliotto. Situazione destinata a migliorare col nuovo carcere a San Vito: termine dei lavori 2018, per 300 posti. La più grande struttura del Friuli Venezia Giulia. Cantano "Tu sei la mia vita, altro io non ho", i detenuti, mentre il vescovo lava loro le mani, segno di purificazione. Poi dona, a seconda del credo, una "Misericordina" col vangelo, un Corano con Tasbeeh, o un libro sulla Sapienza, prima di stringere la mano a ciascuno. Il "Padre nostro", durante il rito interconfessionale - al quale hanno preso parte, tra gli altri, il vicario generale Orioldo Marson, il cancelliere Roberto Tondato, i volontari Giacomo Miniutti di Aa, Alessandro Castellari di Oasi, Giuseppe Laquatra della San Vincenzo, il medico di guardia, lo recitano in italiano, ghanese, slavo, romeno, cinese. Sì, c’è anche un detenuto cinese che legge la Bibbia in madrelingua. Sullo sfondo, gli affreschi realizzati dai detenuti: San Basilide patrono della polizia penitenziaria, San Giuseppe Cafasso, dei detenuti, una moschea, la Valcellina, le Tre Cime di Lavaredo, bandiere. "Dipingere permette di socializzare, anche tra diverse etnie. Tra i detenuti sono stati azzerati gli eventi critici". Tutti sbagliano, "qualcuno è più bravo a nasconderlo - ha ripreso il vescovo. Ma è sempre possibile ricominciare perché la misericordia è per tutti". Papa Francesco ha mandato un messaggio, "ai fratelli carcerati" affinché siano accolti e "reinseriti nel contesto sociale, civile ed ecclesiale". E, a proposito del "fuori da lì", monsignor Pellegrini ha esortato: "Ricucite le relazioni con i vostri cari, avendo coraggio di chiedere scusa, perché li avete un po’ traditi". Don Rigolo: "Nessuno ci rubi la commozione". L’impegno del vescovo: "Difenderò la vostra dignità". Ha inteso mettere a disposizione alcuni seminaristi, lì, nel cuore della città, dietro le sbarre, tra porte che si chiudono. Una resterà aperta: quella santa, giubilare. Lucca: si risistema il carcere con il lavoro dei detenuti di Luigi Spinosi Il Tirreno, 24 giugno 2016 Alla Casa circondariale di Lucca un progetto per responsabilizzare i carcerati e dare loro un’opportunità di reinserimento occupazionale una volta liberi. Qual è il modo migliore per responsabilizzare una persona? Farla partecipare, affidargli un compito. Ed è quello che è stato fatto nella casa circondariale di Lucca, nei confronti di un gruppo di detenuti, con un progetto dai tanti obiettivi. In primis, appunto, quello di offrire anche con il lavoro manuale una possibilità di riscatto e di crescita a chi si trova a vivere in un carcere. Persone che hanno sbagliato, ma che non per questo devono essere private dell’opportunità di riscattarsi. E una di quest’opportunità è stata appunto quella offerta dal progetto "Carcere", messo in pratica dalla Scuola Edile Lucchese e finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca. Il progetto ha coinvolto alcuni detenuti in una doppia attività formativa, con lezioni teoriche sulla sicurezza sui luoghi di lavoro e poi, con i protagonisti divisi in due gruppi di 5 e 7 persone, con l’attività pratica, rappresentata da un lavoro di ristrutturazione dei locali docce di due delle quattro sezioni carcerarie. Insomma, tanti risultati in una volta sola: si è recuperato un ambiente in cui gli stessi detenuti devono vivere e si sono fornite conoscenze utili agli stessi carcerati, in vista di un loro ritorno in libertà, dal momento che adesso hanno conoscenze in grado di favorirne il reinserimento nel mondo del lavoro e, quindi, in società. Non solo, ma in questo modo è stata offerta l’opportunità a queste persone di fuggire dall’oziosa apatia delle giornate in prigione ma, soprattutto, gli stessi hanno anche potuto sentirsi utili, maturare un senso di responsabilità attraverso un’attività manuale e, aspetto importante, con un lavoro di squadra. "Non ci abbiamo pensato molto a sostenere questo progetto - ha commentato il presidente della Fondazione CrL Arturo Lattanzi - sappiamo bene che i problemi delle carceri sono molti, e che c’è tanto lavoro da fare, ma in un progetto che serve a dare un’opportunità ai detenuti e, al tempo stesso, a migliorare le strutture carcerarie la Fondazione non poteva non esserci, ed è con orgoglio che abbiamo dato il nostro contributo". "Grazie alla Scuola Edile - ha commentato il direttore della casa circondariale di Lucca Francesco Ruello - è stata un’esperienza breve ma intensa dai tanti valori aggiunti. Dall’apporto fondamentale dei detenuti, dal fatto di far sentire loro vicino il mondo esterno alle carceri, e poi la soddisfazione di veder realizzata una propria opera e di poter utilizzare il frutto diretto del proprio lavoro. Non solo, ma il fatto di aver lavorato alla loro sistemazione crea nei detenuti anche un senso di responsabilità maggiore verso gli spazi comuni, come appunto le docce, che sono quelli più a rischio degrado. Stiamo già pensando di riproporre questo progetto". "È la seconda esperienza del genere a Lucca - ha ricordato il presidente della Scuola Edile Alessandro Pardini - e lavorare nella casa circondariale non è semplice, si capiscono le difficoltà di chi si trova qui. Ma il lavoro di squadra, le conoscenze acquisite, potranno in futuro permettere loro di reinserirsi più velocemente. È un’esperienza che ci piace". Si ripeterà? Da parte sua Lattanzi ha dichiarato da subito la disponibilità della Fondazione a continuare su questa strada. Vicenza: Fp-Cgil; il carcere si amplia, ma non il personale vicenzareport.it, 24 giugno 2016 "Abbiamo appreso che il prossimo 19 luglio verrà aperto, nella Casa circondariale di Vicenza, un nuovo padiglione che amplierà la capienza di detenzione. Il padiglione verrà poi inaugurato dallo stesso ministro della giustizia, Andrea Orlando, una settimana dopo. Questa notizia ci ha lasciato stupiti poiché, come ha ammesso lo stesso direttore del carcere di Vicenza, non si sa quanti detenuti il nuovo padiglione dovrà contenere, né tanto meno quanto personale il carcere vicentino dovrà avere con questo nuovo ampliamento per assicurare i diritti di chi è detenuto e di chi ci lavora". A parlare così è il sindacato dei penitenziari della Funzione Pubblica Cgil, che non manca di far trasparire la sorpresa, come dice, ma a anche il disappunto, soprattutto per una situazione che già vede una carenza di personale in forza alla Casa circondariale berica. In questo contesto, ecco che il carcere si amplia e lo stesso farà ben presto anche il numero dei detenuti, ma non c’è ancora chiarezza riguardo al personale. "Se da una parte - spiega il sindacalista Giampiero Pegoraro - il personale di polizia viene continuamente posto in distacco, dall’altra quello amministrativo posto in quiescenza non viene sostituito con nuovo personale ma attingendo dal contingente di polizia presente nel carcere, questo per far funzionare la macchina amministrativa. I dati del personale amministrato in servizio presso il carcere di Vicenza parlano di 143 agenti su 198 previsti, e di 16 amministrativi su 24 previsti in dotazione organica. La popolazione carceraria presente è invece di 218 unità, su una capienza di 154 detenuti". "La situazione è molto preoccupante - continua Pegoraro -, sia sul piano della sicurezza che su quello dei diritti delle persone, in particolar modo dei lavoratori. È vero che il padiglione era stato progettato durante un periodo di sovraffollamento, con l’allora governo Berlusconia che aveva creato ad hoc un commissario per le carceri. Però, quel governo e l’attuale non hanno tenuto in considerazione le risorse umane da destinare alle nuove strutture, questione che, secondo noi dovrebbe essere risolta prima dell’inaugurazione del nuovo padiglione. Tirando le somme, se lo sblocco del turn-over, e quindi nuove assunzioni, sia di poliziotti che di personale amministrativo, non verrà posto come priorità, ci sarà una nuova emergenza da affrontare". "Come Fp Cgil - conclude il sindacalista - ci chiediamo se il ministro Orlando, che sta per venire a Vicenza ad inaugurare il nuovo padiglione, è a conoscenza del fatto che non ci sono risorse per gestirlo. Comunque, quando verrà, diremo anche al Ministro che non serve fare la passerella, ma servono azioni concrete, come quella di destinare risorse umane e finanziarie all’istituto e creare le condizioni per un lavoro dignitoso a chi opera dentro la struttura". Gorizia: un carcere da migliorare, nel ricordo di Marco Pannella Il Piccolo, 24 giugno 2016 "Un carcere vivo può essere un punto di partenza anche per il futuro di tutta la città". Ne è convinto il radicale Pietro Pipi, che considera come solo con il mantenimento (e il miglioramento) della casa circondariale di Gorizia si potrà salvare anche il Tribunale e, a caduta, tante altre istituzioni fondamentali per assicurare un futuro alla città. E così Pipi ha voluto lanciare un messaggio importante di attenzione per il carcere e per chi lo vive quotidianamente, detenuti e operatori, presentando le iniziative promosse dai Radicali per onorare la memoria di Marco Pannella, da sempre in prima linea nelle battaglie per i diritti civili e vicino agli operatori penitenziari. Iniziative che si svolgeranno in via Barzellini tra domani e venerdì. Con Pipi, nell’ufficio del nuovo direttore del carcere goriziano Alberto Quagliotto, anche lui presente, c’erano tra gli altri Michele Migliori e don Alberto De Nadai, garante dei detenuti, che ha parlato dei tanti problemi del carcere. "Non poteva esserci luogo più adatto della casa circondariale per onorare la memoria di una persona come Pannella, che ha dedicato tutta la sua esistenza agli ultimi. La nostra attenzione va ai detenuti ma anche a tutto il resto della popolazione penitenziaria". Il programma dei Radicali. Oggi è prevista Rita Bernardini, visiterà la casa di via Barzellini intorno alle 15. Domani poi il convegno "Uno di noi: la comunità carceraria in ricordo di Marco Pannella": negli spazi del carcere dalle 9 alle 13 si alterneranno ospiti importanti. Parleranno i filosofi Luca Taddio e Alessandro Tessari, Enrico Sbriglia, Francesco Billotta, don Alberto De Nadai, Rita Bernardini e Maria Sandra Telesca. Livorno: la rinascita di Pianosa, così l’isola dei detenuti diventa l’Eden del vino di Roberto Fiori La Stampa, 24 giugno 2016 È stato per oltre cent’anni un inferno circondato dall’acqua. Grazie alla vite e al vino potrà diventare, se non proprio un paradiso, un luogo di rinascita naturalistica e di rivincita sociale. È il destino di Pianosa, l’isola piatta dell’arcipelago toscano, colonia penale agricola fin dai tempi dell’Unità d’Italia e poi carcere di massima sicurezza che ospitava brigatisti e mafiosi. Fu chiuso nel 1998 e oggi l’isola è quasi completamente disabitata, fatto salvo per una trentina di detenuti in semilibertà distaccati dal penitenziario di Porto Azzurro per fare un po’ di manutenzione e coltivare un orto biologico. L’azienda toscana Frescobaldi ha chiesto e ottenuto da Parco nazionale, amministrazione penitenziaria e Comune di Campo dell’Elba la possibilità di impiantare 32 ettari di vigneto in questo grezzo e quasi inaccessibile gioiello dalla vaga forma triangolare al largo della Toscana. L’idea è quella di replicare in modo più ampio il fortunato progetto enologico-sociale avviato nel 2012 sulla gemella (anche se rocciosa) Gorgona, l’unica isola penitenziaria ancora attiva in Italia dove i detenuti, guidati dagli enologi della Frescobaldi, hanno dato vita al vino Gorgona, un prezioso bianco da uve Vermentino e Ansonica che si vende a 80 euro a bottiglia nelle migliori enoteche e nei ristoranti non solo italiani. La conferma è arrivata mercoledì dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Toscana, Giuseppe Martone, durante una visita al vigneto di Gorgona. "Firmeremo a breve l’accordo definitivo - ha detto Martone, per consentire l’impiantamento dei primi 11 ettari entro la fine dell’anno: saranno gestiti dai detenuti, impegnati in un lavoro regolarmente retribuito". Più che una novità, la vite a Pianosa è un gradito ritorno. "A fine Ottocento, la colonia penale agricola produceva 2mila quintali di uva all’anno, che i carcerati vinificavano in una cantina tuttora esistente - dice il marchese Lamberto Frescobaldi. Il nostro sogno è di riattivarla, offrendo a chi sconta la pena l’occasione di imparare un mestiere. Con 32 ettari a disposizione, possiamo avviare un progetto riabilitativo in grado di autosostenersi anche a livello economico". I primi sopralluoghi tecnici sono già stati fatti: "Abbiamo identificato le zone migliori e stiamo facendo alcuni sondaggi per capire quali vitigni utilizzare su un’isola dove il pianoro più alto è di soli 29 metri e dove il vento soffia alla forza di 60 nodi. Punteremo su varietà bianche come l’Ansonica e il Vermentino, ma anche su qualche rosso". Il primo calice di "Pianosa" si potrà bere tra cinque anni. Ma nell’attesa, si può sorseggiare il quasi introvabile "Gorgona", prodotto in non più di quattromila bottiglie. Ognuna delle quali racconta una storia di sofferenza e di speranza. Come quella di Chargui, tunisino di 46 anni. Gliene mancano due alla fine della pena, gli ultimi quattro li ha trascorsi nella colonia penale e a settembre ha fatto la sua prima vendemmia. "Ho moglie e due figli a Napoli - racconta tra i filari del vigneto. Grazie a questo progetto mi sto costruendo un futuro e un presente meno amaro: posso dire ai miei bimbi che papà non è solo chiuso in galera, ma è a lavorare sull’isola". È un vino squisito, ma da groppo in gola, il Gorgona. Lo stesso groppo che ti prende quando lasci l’isola con la sua bellezza sfacciata e le sue ferite in cerca di rimarginazione. Napoli: Cesaro (Regione); l’Ipm di Nisida è un’eccellenza, ma va sostenuta Ansa, 24 giugno 2016 "L’Istituto penitenziario minorile di Nisida è una struttura di eccellenza, ben guidata e dalle potenzialità rieducative straordinarie che vanno assolutamente sostenute e rilanciate". Lo afferma il presidente del gruppo di Forza Italia del Consiglio regionale della Campania, Armando Cesaro, che questa mattina ha visitato l’istituto penale per minori. "A Nisida - spiega Cesaro - ho incontrato oggi ragazzi e ragazze consapevoli degli errori commessi ma pieni di voglia di riscatto e pronti a cominciare o a proseguire esperienze formative che possano metterli in condizione di un vero reinserimento sociale". "Per questo organizzerò diverse iniziative - afferma Cesaro: per far conoscere le loro competenze nel campo della ceramica, della sartoria o della cucina e, soprattutto, chiederò che nella riprogrammazione della spesa dei Fondi Europei vengano riproposti e adeguatamente finanziati quei capitoli che prevedono misure di promozione dell’inserimento lavorativo dei detenuti minori". "Già nei prossimi giorni - annuncia il capogruppo regionale di Forza Italia - lavorerò ad un progetto di legge che conceda contributi ed agevolazioni e sgravi fiscali alle aziende o ai soggetti del Terzo Settore che assumeranno questi giovani che altro non chiedono che di fare il sarto, il ceramista, il cuoco, il pizzaiolo o anche il pasticciere per garantirsi un futuro". "Parliamo di mestieri della nostra tradizione culturale che andrebbero comunque sostenuti e che - conclude Cesaro - potrebbero consegnare loro una prospettiva ben diversa da quella che altrimenti si presenterebbe una volta varcato il cancello dell’istituto". Spoleto (Pg): Festival dei Due Mondi, anche uno spettacolo in carcere spoletooggi.it, 24 giugno 2016 Sabato 25 giugno prossimo alle ore 10.00 presso la Rocca Albornoziana di Spoleto si terrà l’inaugurazione di In Visibile, un progetto prodotto da Museo Nazionale del Ducato - Rocca Albornoziana, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Casa di Reclusione di Spoleto, Compagnia #SIneNOmine - Istituto Sansi Leonardi Volta - Liceo artistico sez. carceraria, SITI Social Innovation Through Imagination - Ambasciata Rebirth, a cura di Stefania Crobe, Giorgio Flamini e Rosaria Mencarelli. Ispirati dalla poetica del Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto, una "rinascita" soggettiva e collettiva attraverso l’arte. In-Visibile si configura come processo laboratoriale, azione performativa e pratica artistica. Dal 25 giugno e sino al 30 ottobre invece, sempre presso il Museo Nazionale del Ducato - Rocca Albornoziana di Spoleto, si potrà assistere a Love Boxes, installazione sensoriale e teatrale; Imago, percorso educativo, formativo e cammino urbano che attraversa la città; CLOSE/D, opera d’arte icono-sonora realizzata con i detenuti dall’artista compositore Yuval Avita. Un percorso artistico partecipato da detenuti, cittadini, scuole, fruitori del museo per dare voce "all’impercettibile" e "rendere l’invisibile visibile". Nell’ambio di questa iniziativa nei giorni giovedì 30 giugno e domenica 3 luglio, alle ore 17.00, si terranno due performance teatrali. Love boxes si muove lungo quattro coordinate: è gesto politico, azione letteraria, performance visiva, evento teatrale. Sono messe in scena enormi scatole/gabbie da cui fuoriescono disiecta membra di attori/detenuti - nudi arti, teste, porzioni di busto - mentre voci declamano versi e prose, allusivi di un possibile orizzonte affettivo. Doppiamente rinchiusi, ricondotti alla pura corporeità, dissezionati, privati di quell’unità che ci rende persone, i protagonisti di Love boxes parlano della privazione affettiva, che è parte integrante della pena, e narrano senza indulgenza la durezza di questa condizione. Love boxes è un’esperienza individuale, intensa fino al fastidio, alla repulsione, al dolore, priva dell’approdo alla facile speranza ma, per questo, portatrice di profonde riflessioni. Il progetto è a cura di Giorgio Flamini, Rosaria Mencarellie vede la partecipazione di Diletta Masetti, Sara Ragni, Loretta Buonamente e dei detenuti della Compagnia #SIneNOmine; sound designer Maurizio Bergmann, set design e sculture Giorgio Flamini e Giuseppe Mascaro, scenotecnici detenuti del Liceo Artistico. Si ringraziano il Direttore della Casa di Reclusione Luca Sardella, il Comandante Marco Piersigilli, gli educatori, agenti e ispettori del Corpo di Polizia Penitenziaria, il Dirigente Scolastico prof.ssa Roberta Galassi Infine, sempre dal 25 giugno al 30 ottobre, il Museo del Ducato ospiterà "Voci, Suoni, Rumori dal carcere", a cura di Giorgio Flamini e Rosaria Mencarelli. "Voci suoni e rumori" del quotidiano carcerario evocano il passato recente della Rocca Albornoziana, accompagnano il visitatore dal fuori al "dentro", lo conducono attraverso il Museo del Ducato in una dimensione altra di dialoghi possibili. Le opere allestite nel Museo - corredi funerari, pale d’altare, croci - si animano e filtrano transiti sensoriali, mostrando l’intramoenia della Casa di Reclusione di Maiano. La città penitenziaria diventa meno invisibile negli stessi spazi che ospitarono i reclusi dal 1814 al 1982. Inoltre si segnala che il 1 e 2 luglio 2016 alle ore 21.00 nell’ambito di Spoleto59 (Festival dei 2Mondi di Spoleto) si terrà presso la Casa di Reclusione di Maiano di Spoleto lo spettacolo teatrale A città ‘e Pulcenella per la regia di Giorgio Flamini, di e con i detenuti attori, cantanti, danzatori, drammaturghi scenografi e costumisti e pulcenella della compagnia #SIneNOmine e con Diletta Masetti, Sara Ragni, Marcello Gravina, Alessandra Cimino, Enrico Cattani, Adrio Feliziani, Loretta Buonamente, Giorgia Fagotto e le danzatrici Margherita Costantini, Serena Perna, Livia Masselli. Musiche di Fabrizio De Rossi Re, testi di Solone, Livio, Virgilio, Eduardo De Filippo, Antonio De Curtis Totò, la Smorfia, Massimo Troisi, Pino Daniele, Gaetano Filangieri senior, Eleonora P. De Fonseca, Johann Wolfgang von Goethe, Oscar Wilde, Hermann Hesse, Derek Walcott, Giorgio Agamben e #SIneNOmine. Le scene sono state realizzate dal laboratorio di scenografia del liceo artistico diretto da Giuliana Bertuccioli, Giorgio Flamini e Giuseppe Mascaro, costumi Sofia Verna, Pina Segoni, trucco e parrucco Sandro & Antonello e Pina Segoni, Sartoria Sofia Verna. Lo spettacolo è sostenuto da Casa di Reclusione di Maiano di Spoleto, IIS Sansi Leonardi Volta, Fondazione Francesca, Valentina e Luigi Antonini e patrocinato da Antigone Onlus. Dopo il trittico MA#IA#NO - Affettività patetiche Cattività affettiva (2013), Il migliore dei mondi possibili1980-2025 (2014) e Miracolo a Maiano (2015) - A città ‘e Pulecenella, è la quarta produzione che Compagnia "#SIneNOmine", nata e attiva presso la Casa di Reclusione di Maiano guidata da Giorgio Flamini, realizzata al Festival di Spoleto. Un redivivo Goethe, spettatore ammirato di Napoli nel suo Italienische Reise, guida lo spettatore tra i diversi quadri, mentre una schiera di Pulcinella, mascherati e muti, lo scortano e lo costringono verso meandri, sempre più intimi e oscuri della città carceraria: a rendere più intellegibili i diversi passaggi, si dirà che a farsi incontro al pubblico sono i De Filippo, personaggi della Smorfia, Gaetano (Tanino) Filangieri, Eleonora Pimentel de Fonseca, la Regina Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, Totò, Cimarosa (con la sua "Serenata"), la canzone neo-melodica napoletana. L’attenzione puntata su Pulecenella non ha niente di coloristico e farsesco in Giorgio Flamini, ma nasce da un’emergenza: la constatazione del peso, del rilievo, dell’intensità della presenza napoletana all’interno della Compagnia, per cui, se pressoché ogni spettacolo ha fatto spazio a momenti, richiami, tarsie "napoletane", questa volta il regista, come sempre in stretta cooperazione con i suoi Attori, ha deciso di lasciare pieno campo a quel sostrato (linguistico, culturale, affettivo) di cui, in ogni caso e quasi involontariamente, si nutre il lavoro della #SIne NOmine. Ma l’operazione non vuole solo offrire allo spettatore un centone di pezzi che, in buona parte, risuoneranno come noti, o già celebrati; Giorgio Flamini, con la durezza che sempre più chiaramente connota il suo lavoro di regista "ristretto", impone una lettura di secondo livello nella quale va cercata la verità dell’operazione: costringersi a pensare quali siano i pensieri, gli affetti, i ricordi di chi - in quel momento, davanti a noi - rievoca quella Napoli, a cui - non per finzione - appartiene per nascita e di cui si porta dietro, e dentro, l’anima, la lingua, gli odori, i luoghi. Lo spettacolo, innervato sul filo della napoletanità, ma costantemente aperto alla domanda del "che cosa significhi, veramente" vivere l’esperienza detentiva, accoglie quindi, necessariamente, altre voci: quelle dedicate al tema della Giustizia (appena dopo l’ingresso, e prima dell’uscita, fuoriuscenti da enormi scatole ove alcuni attori sono rinchiusi; a metà dell’opera, con l’irruzione di un Walcott del tutto "fuori posto") e al tema dell’Arte (proposto in un quadro cupamente "non-salvifico"). Durata: 90 minuti. L’ingresso è libero. Lo spettacolo è fruibile esclusivamente da un pubblico maggiorenne. Per info: Casa di reclusione Maiano 10 Spoleto, tel. 0743 263217 ore ufficio. IIS Sansi Leonardi Volta piazza Carducci, 1 Spoleto, tel. 0743 223505 ore ufficio. Visto il particolare contesto, le necessarie operazioni di controllo, si prega di fare tempestiva richiesta comunicando i propri dati anagrafici (data e luogo di nascita), numero di telefono, entro e non oltre lunedì 27 giugno all’indirizzo email: ufficiostampafestival.cr.spoleto@giustizia.it. Campobasso: cinque seminari per i detenuti della Casa circondariale di Larino primonumero.it, 24 giugno 2016 Larino. Lezioni estive per i detenuti del carcere di Larino coinvolti in una serie di incontri tematici. Al centro degli appuntamenti previsti per il mese di giugno ci sono infatti temi diversi che permettono agli ospiti di avere spunti di riflessione e approfondimenti didattici. Il progetto ha preso il via lo scorso 20 giugno con l’incontro dell’Associazione "Code in Libertà": le dottoresse Laura Zanin e Valeria Vitulli hanno infatti incontrato i detenuti accompagnate dai loro amici a quattro zampe per spiegare l’atteggiamento del cane domestico e i suoi complessi schemi comportamentali per impostare una corretta interazione tra uomo e cane. Domani invece, venerdì 24 giugno e mercoledì 29, ci saranno Giusy De Castro e Silvano Mastrolonardo di Legambiente per parlare delle modalità di recupero e smaltimento dei rifiuti, della raccolta differenziata e dei danni causati dall’inquinamento. Il 28 giugno invece i detenuti affronteranno il tema del rapporto tra cibo e ritualità, con un approfondimento sul mondo antico grazie ai materiali provenienti dal Molise e dalla Campania, con le spiegazioni della dottoressa Alessandra Capocefalo dell’Associazione Me.Mo Cantieri Culturali. Infine il 30 giugno il dottor Mario Stasi tratterà del compostaggio, dell’agricoltura tradizionale e biologica e dell’utilizzo dei fertilizzanti. "Ringrazio i componenti delle associazioni interessate - ha affermato la direttrice dell’istituto penitenziario Rosa La Ginestra - per l’attenzione rivolta ai detenuti e i qualificati interventi proposti". Parma: un progetto teatrale con ex-detenuti degli Opg di Francesco Pititto teatrionline.com, 24 giugno 2016 In occasione dei quattrocento anni dalla morte di William Shakespeare il Festival Natura Dèi Teatri di Parma presenta in prima nazionale l’esito della nuova ricerca artistica guidata da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, che coglie ed assume come stimolo creativo un momento storico di particolare rilevanza in Italia per la gestione sociale della follia. Dopo il grande successo di pubblico e critica de Il Furioso (2), allestito al Tempio per la Cremazione di Valera, il Festival Natura Dèi Teatri presenta un nuovo debutto nazionale di Lenz Fondazione: Macbeth, che sarà in scena a Lenz Teatro domenica 26 giugno alle ore 21.30 (repliche da mercoledì 29 giugno a domenica 3 luglio alla stessa ora). Macbeth rappresenta il nuovo attraversamento shakespeariano di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto voluto, oltre che per celebrare il drammaturgo inglese nei quattrocento anni dalla morte, soprattutto per dare forma artistica a un momento storico di particolare rilevanza per la gestione sociale della follia nel nostro Paese: dal marzo 2015, come è noto, la Regione Emilia-Romagna è impegnata in un’esperienza pilota a livello nazionale per il trasferimento in nuove strutture di accoglienza degli ospiti finora detenuti negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG). In particolare a Mezzani, in provincia di Parma, è diventata operativa una delle prime Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza Sanitaria (REMS). Un tale stratificato contesto ha accolto la nuova ricerca artistica di Lenz rivolta agli ospiti della REMS, realizzata in stretta collaborazione con il Dipartimento Assistenziale Integrato di Salute Mentale - Dipendenze Patologiche dell’AUSL di Parma, una nuova esperienza che va ad innestarsi sul progetto ultradecennale realizzato con lo straordinario ensemble degli attori ex lungodegenti psichici. Il Macbeth di Lenz Fondazione vedrà infatti in scena l’attrice storica di Lenz Sandra Soncini insieme ad alcuni attori sensibili della Rems, presenti come performer in video: Germano Baschieri (Macbeth), Mattia Sivieri, Ivan Fraschini e Daniele Benvenuti. "È a questi ospiti sensibili che il progetto sul Macbeth si è rivolto per la sua nuova creazione imagoturgica e performativa" spiega Francesco Pititto (testo e imagoturgia) "I loro volti sono diventati il transfert visivo (sociale, emozionale) per gli spettatori del Macbeth e la questione della follia e delle visioni di Lady Macbeth e del suo consorte diventano materia vivente, atto violento rimembrato e rielaborato, allucinazione rimessa a fuoco in un contesto drammaturgico e di rappresentazione dell’opera reinterpretata dalle sonorità del musicista Andrea Azzali. Così l’impianto tragico shakespeariano può essere profondamente ridefinito da una scrittura performativa, visuale e scenografica che traduca al presente la necessità della sua rappresentazione". Aggiunge Maria Federica Maestri (installazione, elementi plastici e regia): "Sull’inesorabilità, inconsolabilità, decisione e irreparabilità delle proprie azioni sono state ricercate le linee interpretative, linguistiche e musicali di questo Macbeth, attraverso gli indispensabili impulsi di chi, rinchiuso per decenni in carcere senza nemmeno la consolazione (o la tortura) del senso di colpa, ci ricorda senza finzione che la vita è davvero un’ombra che cammina e l’attore un povero idiota che fatica a raccontarci il niente. L’opera è il risultato di un intreccio profondo tra il nucleo originario del testo e il suo svelamento attraverso la parola e il gesto dell’attore, in un processo di lavoro che tende a costruire un ponte tra le visioni immaginifiche dell’irrazionale, potentissimo nei soggetti sensibili, e le azioni reali dell’esperienza teatrale. Le limitazioni determinate dalle restrizioni della libertà personale poste dal sistema giudiziario (la concessione dei permessi è di pertinenza dei giudici) rendono de facto debole la presenza dell’attore inteso come presenza scenica convenzionale; ma è proprio questa condizione di realtà presagita, narrata, immaginata il meccanismo teatrale che impianta il nostro Macbeth. Nessuna volontà artistica può essere condizionata, nessuna scelta può essere depotenziata dalla ‘crisì, ma al contrario l’enorme densità dell’atto irrimediabile del crimen sine voluntate - offre una visione contemporanea della tragedia shakespeariana." Il debutto assoluto di Macbeth sarà accompagnato da una conversazione presso Lenz Teatro, domenica 26 giugno alle ore 17, coordinata da Daniele Rizzo - fondatore e direttore responsabile di Persinsala, rivista online di critica culturale - con l’intervento di critici e studiosi italiani ed europei, in arrivo al Festival Natura Dèi Teatri di Parma per assistere alle nuove produzioni di Lenz Fondazione: Laura Bevione (Hystrio), Mario Bianchi (Krapp’s Last Post), Matteo Brighenti (PAC - Paneacquaculture), Eugenia García Sottile (Universidad Católica de Valencia), Sergio Lo Gatto (Teatro e Critica), Aneta Mancewicz (Kingston University, London), Silvia Mei (Culture Teatrali), Renata Savo (Scene Contemporanee), Giulio Sonno (Paper Street) e Saul Stucchi (Alibi Online), in dialogo con i Direttori Artistici di Lenz Fondazione Maria Federica Maestri e Francesco Pititto. La conversazione, aperta al pubblico e ad ingresso libero, sarà incentrata sul lavoro con gli attori sensibili come pratica di costruzione di una vera e propria lingua scenica, nuova frontiera della ricerca artistica contemporanea. A seguire, alle ore 20, è previsto un drink & food a cura di Ivan Bologna. Lenz Teatro si trova in Via Pasubio 3/e a Parma. Per informazioni e prenotazioni: tel. 0521270141, 3356096220, comunicazione@lenzfondazione.it - lenzfondazione.it. Roma: progetto Coni "Lo sport entra delle carceri", domani la giornata conclusiva di Ugo Baldi Il Messaggero, 24 giugno 2016 Con il triangolare di pallavolo in programma sabato nella sezione penale della Casa di reclusione romana di Rebibbia, va in vacanza il progetto del Coni Lazio "Lo sport entra nelle carceri". Dream Italvolley e Borghesiana, due associazioni dilettantistiche della capitale, insieme alla rappresentativa dei detenuti selezionata dal tecnico Fipav e fiduciario Coni Massimo Iacono, daranno vita ad un minitorneo con partite al meglio dei tre set da 15 punti ciascuno. L’iniziativa specifica, inserita in un più vasto discorso di promozione per lo "sport per tutti" che nel corso dell’anno ha visto il coinvolgimento di case-famiglia, Sprar e Cas (Centri di accoglienza per i rifugiati), è stata sviluppata dal Comitato Regionale Coni a seguito della collaborazione avviata anni fa con l’amministrazione carceraria capitolina. Un’intesa che prevede, all’interno del Penale di via Bartolo Longo, sia l’organizzazione di corsi (pallavolo, atletica, tennis, bridge), affidati a tecnici volontari delle rispettive Federazioni, sia la partecipazione dei detenuti a tornei come quello di sabato prossimo, che segue a poco più di un mese di distanza quello calcistico con le squadre del Pro Appio e della sezione A.I.A. Roma 2, arbitrato dal fischietto internazionale Paolo Valeri. A settembre sarà la volta del tennis. Saranno presenti la direttrice della Sezione dott.ssa Antonella Grella, il presidente del Coni Lazio Riccardo Viola e quello della Fipav provinciale Claudio Martinelli. Le arance amare dei rifugiati di Silvio Messinetti Il Manifesto, 24 giugno 2016 I richiedenti asilo del Cara di Mineo impiegati al nero nella raccolta dei tarocchi siciliani. La denuncia del dossier Filiera sporca, presentato alla Camera. È un rapporto shock. Un quadro a tinte forti, dove è disegnata un’Italia schiavista, in cui le forme di sfruttamento raggiungono picchi da Terzo Mondo. "Filiera sporca 2016", dossier a cura dell’associazione Da Sud, di Terra onlus e della testata Terrelibere.org, è stato presentato ieri alla Camera dei deputati, alla presenza dei parlamentari Celeste Costantino (Si) e Luigi Manconi (Pd). Dopo un anno di campagna, missioni di ricerca, interviste, questionari, articoli, convegni, incontri con gli agricoltori, resta la certezza che la trasparenza della filiera sia quanto mai necessaria per porre fine a un fenomeno indecente che mette in condizioni di alienazione migliaia di braccianti, stranieri e non, dal Sud al Nord Italia, dall’Europa meridionale fino in Cina. "Perché se dopo oltre vent’anni non si è riusciti a sconfiggere il fenomeno in Italia, o non si è voluto farlo o gli strumenti con cui si è intervenuto non sono stati sufficienti" si legge nel Rapporto. Filiera sporca interroga e fornisce le risposte dei grandi attori della filiera agroalimentare, denuncia la mancata trasparenza della Grande distribuzione organizzata (Gdo), il ruolo distorto delle organizzazioni dei produttori che agiscono come moderni feudatari, dimostra come il costo delle arance riduca in povertà i piccoli produttori e lasci marcire il made in Italy. Produrre 1 kg di arance da succo costa circa 22,5 centesimi: 10 centesimi per la materia prima, 2,5 per il trasporto della merce, 10 per la trasformazione e la lavorazione. Per produrre 1 kg di concentrato servono 12 kg di arance. Il costo di produzione di 1 kg di concentrato è perciò pari a circa 2,70 euro, ma le multinazionali del succo e la Gdo impongono un prezzo pari a 1,80/2 euro al kg. La differenza, pari a circa 70 centesimi, sono i costi che la filiera non riconosce. Su chi si scarica questo costo? Innanzitutto sul costo del lavoro, compreso nei 10 centesimi e pari a circa 6/8 centesimi, ma comprimibile fino a 2 centesimi nel caso dei raccoglitori di Rosarno. In secondo luogo sui consumatori che - complice anche una normativa che non prevede l’obbligo di indicare l’origine in etichetta - spesso non sanno davvero cosa stiano comprando: per rientrare dei costi le aziende utilizzano percentuali di succo bassissime. E spesso miscelate con quello low cost proveniente dal Brasile. Un dato su tutti, ben evidenziato nel Rapporto, esemplifica il problema ed è fornito dal titolare di Agrumigel: "L’industria di trasformazione fattura 400 milioni l’anno, ma si comprano agrumi per soli 50 milioni". C’è una nuova categoria tra i dannati dei campi. Sono i rifugiati-braccianti. La piana di Mineo si trova proprio nel cuore della produzione delle pregiate arance rosse di Sicilia. È su quei 2 mila ettari di superfici agrumetate che l’aria fredda dell’Etna arriva più diritta pigmentando le arance e conferendo loro il colore rosso che caratterizza la più pregiata varietà sicula, il Tarocco. Quest’anno le arance di Mineo sono andate quasi tutte all’industria di trasformazione, dove viene conferito il prodotto di scarto che la Gdo non riesce a commercializzare. Sono state pagate in media 7 centesimi al kg, "un prezzo per cui non varrebbe nemmeno la pena raccoglierle", spiegano, nel rapporto Filiera Sporca, i produttori della zona. A meno di non fare quella che viene chiamata "la raccolta in economia" ovvero assoldare figli, familiari, vicini di casa e, quando questi mancano, trovare qualcuno disposto a lavorare anche per 10 euro al giorno. I neobraccianti della stagione 2016 sono i richiedenti asilo del Cara di Mineo, il comprensorio nato per ospitare i militari dell’ex base statunitense di Sigonella e che dal 2011, con i suoi circa 4 mila ospiti, è diventato uno dei centri per rifugiati più grandi d’Europa. Qui il caporalato non c’era. È nato con il Cara. A Mineo lo Stato non rilascia i documenti. Ma consegna i profughi nelle mani dei caporali. Il fenomeno è in corso almeno da un anno "ma nel corso della campagna 2016 ha assunto dimensioni massicce", denuncia il sindacato. Ogni mattina alle 8, in sella alle biciclette comprate per 25 euro direttamente all’interno del Cara, centinaia di asilanti escono per cercare lavoro negli agrumeti circostanti. Si fermano a minuti gruppetti, con le loro biciclette ammassate sui selciati, negli incroci delle strade, in attesa che qualche produttore locale venga a prenderli per portarli nei campi. I più esperti raggiungono direttamente i campi della raccolta. Non potrebbero lavorare, perché richiedenti asilo e privi del permesso provvisorio di lavoro che può essere riconosciuto dopo 6 mesi di permanenza nel territorio italiano, e invece davanti ai cancelli del "Residence degli aranci" - così è chiamato il villaggio di Mineo - tutto avviene in modo disinvolto. Di prima mattina, a partire dalle 7, sono autorizzati a depositare le biciclette fuori lungo la staccionata antistante l’ingresso del residence. Ma l’uscita al lavoro può avvenire soltanto a partire dalle 8, quando il grande cancello dietro cui si ammassano a decine, viene aperto dalle forze dell’ordine che presidiano notte e giorno il centro. "Lavorano in condizioni schiavistiche - ha rilevato Rocco Anzaldi della Flai del Calatino - i produttori lamentano il prezzo eccessivamente basso del prodotto ma in questo modo è l’intera economia locale ad essere danneggiata, con un dumping che spinge sempre più giù le condizioni di lavoro e contribuisce a sua volta ad abbassare i prezzi". È dunque una filiera fuori controllo in cui le difficoltà del mercato agrumicolo sono state scaricate completamente sul costo del lavoro, dove è il sistema di accoglienza dei migranti a creare le nuove vittime di capolarato e sfruttamento, con holding criminali che usano l’accoglienza per accaparrarsi fondi pubblici, funzionali solo alla speculazione economica. Per disinnescare la miscela esplosiva di sfruttamento del lavoro e marginalità bracciantile, la campagna Filiera Sporca chiede una legge sulla trasparenza che preveda l’introduzione di una etichetta "narrante" sui prodotti. E l’introduzione di un elenco pubblico dei fornitori che permetta la tracciabilità lungo la filiera. "Dal Cara ai campi, per 15 euro al giorno" di Angelo Mastrandrea Il Manifesto, 24 giugno 2016 Gli africani escono in bicicletta e si raggruppano agli angoli delle strade, aspettando che i produttori passino a prenderli. Ogni mattina alle 8, centinaia di richiedenti asilo africani escono dal Cara di Mineo, inforcano la bicicletta comprata per 25 euro all’interno dello stesso centro e si dirigono verso gli agrumeti nei quali sono impiegati al nero nella raccolta delle arance. Per la legge italiana non potrebbero lavorare perché il permesso di lavoro viene riconosciuto dopo sei mesi di permanenza in Italia, ma basta farsi un giro da quelle parti per capire quanto poco essa sia applicata e in che modo sia funzionale a creare l’ennesima situazione di sfruttamento del lavoro, al limite della schiavitù. Ai migranti dell’ex residenza destinata ai militari americani della vicina base di Sigonella che, con quattromila ospiti, è ormai uno dei centri per rifugiati più grandi d’Europa, è andata solo leggermente meglio che ai loro conterranei di Rosarno, pagati due centesimi per ogni chilogrammo di arance da succo raccolte e destinate. A loro sono andati mediamente sette centesimi, ma la cattiva stagione passata ha fatto sì che anche le arance rosse di Sicilia finissero nel circuito della trasformazione e non, pagate meglio, come agrume da tavola. La Cgil denuncia come il fenomeno del lavoro nero dei rifugiati sia in corso almeno da un anno, ma nel 2016 ha assunto dimensioni massicce. Soprattutto, avviene alla luce del sole. Ogni mattina, dopo che la polizia ha aperto i cancelli del Residence degli aranci, come paradossalmente è stato chiamato il villaggio. Gli africani si fermano gruppetti, con le loro biciclette ammassate sui selciati, agli incroci delle strade, in attesa che qualche produttore locale venga a prenderli per portarli nei campi, e non è detto che ciò accada. I più esperti raggiungono direttamente i campi della raccolta. La particolarità è che, a differenza che nella Piana di Gioia Tauro o in altri luoghi dello sfruttamento dei braccianti in agricoltura, qui non ci sono caporali ma tutto avviene senza intermediari, in maniera diretta. Un guineano sbarcato in Sicilia quattro mesi fa ha raccontato ai ricercatori di Filiera sporca che "non si sta male qui, però non abbiamo soldi, ci danno solo sigarette ma io non fumo, perciò sto andando a cercare lavoro". Un’altra testimonianza raccolta è quella di un venticinquenne proveniente dal Gambia: "Lavoriamo dalle 8 di mattina alle 4 del pomeriggio, ci danno da bere e qualcosa da mangiare durante il giorno e a fine giornata ci pagano 10, massimo 15 euro". Paghe da fame e condizioni di lavoro schiavistiche al soldo dei produttori italiani della zona, che poi rivendono gli agrumi alle multinazionali che li trasformano in succhi o alle grandi catene di supermercati, denuncia la Flai Cgil, per la quale "i produttori lamentano il prezzo eccessivamente basso del prodotto, ma in questo modo è l’intera economia locale a essere danneggiata, con un dumping che spinge sempre più giù le condizioni di lavoro e contribuisce a sua volta ad abbassare i prezzi". Una spirale al ribasso che scarica tutti i costi sull’ultima ruota del carro: i lavoratori. La frammentazione della filiera non aiuta: gli autori del dossier hanno interpellato cooperative di produttori, aziende di trasformazione e catene di supermercati, e lo scaricabarile è stato generale. Quello che emerge è solo la difficoltà di controllare realmente da chi siano state raccolte le arance, nonostante garanzie e rassicurazioni. Eppure, il fenomeno è noto a tutti: ad aprile scorso i Carabinieri del Nucleo Ispettorato del lavoro di Catania hanno scoperto e deferito all’autorità giudiziaria tre imprenditori agricoli della provincia di Catania che avevano preso al nero come braccianti 45 lavoratori stranieri, di cui 14 richiedenti asilo politico ospiti del Cara di Mineo. Il responsabile commerciale di un’azienda di trasformazione ha confermato: "Lo sanno tutti coloro che abitano nei nostri territori che la raccolta delle arance è fatta sempre più da personale estero con una paga inferiore al prezzo di tariffa creando concorrenza alla manodopera locale e inficiando la regolare concorrenza tra aziende". Il prezzo basso è un indicatore che a monte c’è qualcosa che non va. Dunque, occhio al prezzo. Cgil: "la legge contro i caporali è ferma, il governo si muova" di Antonio Sciotto Il Manifesto, 24 giugno 2016 Ivana Galli, segretaria Flai: il ddl 2217 si è arenato in Senato, ma sarebbe utile per estendere il reato alle imprese. La Rete di qualità e il bollino per l’ortofrutta "etica" non decollano: risorse insufficienti alla Cabina di regia Inps. Domani in piazza a Bari con Fai Cisl e Uila. "Siamo preoccupati: se la nuova legge contro il caporalato e le imprese che vi ricorrono non venisse approvata entro fine luglio, rischiamo di slittare oltre l’autunno". Ivana Galli, segretaria generale della Flai Cgil, presenta così la manifestazione nazionale di domani a Bari. Flai, Fai Cisl e Uila sfileranno insieme a 10 mila lavoratori agricoli per sollecitare lo sblocco del disegno di legge 2217, congelato da ben sette mesi, e il rinnovo dei contratti provinciali. Il governo ha più volte sottolineato di ritenere prioritaria l’approvazione del disegno di legge. Come mai è ancora tutto fermo? Il ddl 2217 è rimasto bloccato in Senato, e dopo dovrà passare alla Camera. Noto con amarezza che per altri provvedimenti si sono disposti iter agevolati e fiducie, mentre questo testo si è avviato a novembre scorso e poi si è arenato. Se non si riuscirà ad approvarlo entro luglio, in settembre potrebbe essere soffocato da altre priorità, come il dibattito sulla legge di Stabilità e il referendum costituzionale. I lavoratori non possono aspettare fine anno. Anche perché nel frattempo, con l’arrivo dell’estate, le temperature nei campi sono già molto alte: la nuova legge migliorerà le condizioni di vita dei braccianti? C’è un punto che noi riteniamo molto importante: il reato penale già introdotto con il 603 bis per i caporali viene esteso alle imprese che vi ricorrono, inasprendo le sanzioni. Poi si rendono strutturali delle misure che abbiamo già anticipato nel Protocollo firmato in maggio con istituzioni, imprese e associazioni: l’affidamento del raccordo tra domanda e offerta di lavoro agli uffici Cisoa delle Inps provinciali; le convenzioni per offrire trasporti trasparenti e legali dalle abitazioni ai campi; la creazione di alloggi vivibili, utilizzando ad esempio edifici di proprietà demaniale o confiscati alle mafie. Per concretizzare non basterà la legge, sarà poi fondamentale l’applicazione nei territori grazie a tutti i soggetti coinvolti. Per diffondere la cultura della legalità e dell’ortofrutta "etica" si attende ancora l’istituzione del bollino per le aziende che rispettano le regole: in modo che al supermercato si possa selezionare e comprare solo da imprese pulite. Che fine ha fatto? Il bollino è contenuto anch’esso nel ddl 2217, e anche per questo ne sollecitiamo l’approvazione. Sarà disponibile per tutte quelle imprese che saranno iscritte alla Rete del lavoro agricolo di qualità, poi dovremo cooperare tutti perché gli acquisti di massa - dai supermercati fino al piccolo dettaglio - si indirizzino verso le filiere, marchi e aziende che applicano tutte le regole e rispettano i diritti dei lavoratori. Ma la Rete è decollata? Gli ultimi dati diffusi qualche mese fa non sembravano incoraggianti. La Rete è stata avviata, ma non potrà mai decollare veramente se non si investirà innanzitutto sulla Cabina di regia coordinata dall’Inps. Non si possono fare le nozze coi fichi secchi: a sbrigare tutte le pratiche ci sono soltanto cinque impiegati, senza un software adeguato, fanno tutto a mano e con il telefono. Secondo i dati che ho potuto vedere questa settimana, sono state accolte le domande di 896 imprese, mentre 1.384 sono in attesa di risposta. Ma il bacino potenziale è di oltre 100 mila imprese, quindi noi ci auguriamo davvero che i numeri crescano. E se arrivassero tante domande, con cinque impiegati e senza software, il paradosso è che tutto potrebbe rimanere ingolfato. Se già non lo è. Ritengo infatti che la riuscita della Rete sia molto importante: si parte da una autocertificazione al momento della domanda, ma poi gli addetti della Cabina di regia Inps inoltrano richiesta di dati all’Agenzia delle entrate, al Casellario giudiziario, si verifica la presenza del Durc e la regolarità di contratti e versamenti fiscali e previdenziali. Un accertamento a 360 gradi sulle imprese, peraltro volontaria: direi, in qualche modo, una novità in Italia. Il salto culturale, se dovesse riuscire questo esperimento, sarebbe in effetti notevole: imprese che chiedono di essere certificate, un bollino per fare acquisti garantiti sul piano etico. Ma i controlli sono solo sulla carta. Per quanto riguarda le ispezioni nei campi a che punto siamo? Le ispezioni sono aumentate, non c’è dubbio, e gli imprenditori si sentono sotto pressione. Ovviamente non possono arrivare in ogni singolo campo, e tante piccole aziende restano nel sommerso. I dati del 2015 parlano di 8.862 imprese agricole ispezionate, con 6.153 lavoratori che sono risultati irregolari, e 713 episodi di caporalato rilevato. Non possiamo mollare: non solo chiediamo urgentemente di approvare il ddl 2217, ma proporrò a Fai e Uila di sollecitare insieme lo stanziamento di maggiori risorse per la Cabina di regia della Rete del lavoro di qualità. Un apposito Regolamento, che speriamo verrà elaborato a breve, dovrà fissare infine le modalità di verifica periodica sulle certificazioni e i bollini emessi. La cibernetica della sicurezza di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 24 giugno 2016 Non solo business e attivismo. La Rete è usata anche per attività criminali che vanno prevenute attraverso sistemi pervasivi di controllo che minacciano però la libertà di espressione. Un sentiero di lettura. La prorompente affermazione della rete telematica come fulcro dei rapporti sociali ha portato alcuni studiosi a parlare di "terzo spazio": al pari dell’ambiente naturale e della società, ci troviamo in un contesto caratterizzato dalle sue proprie regole, da dinamiche indipendenti, da conflitti peculiari, da rappresentazioni e identità del tutto inaspettate. Sul piano della criminalità, anche all’interno del terzo spazio si produrrebbero nuove opportunità, che spaziano dalle truffe online alla pedopornografia, passando per il cosiddetto "cyberterrorismo". In altre parole, la Rete, oltre ad aumentare e a modificare le possibilità relazionali sortisce altresì l’effetto di produrre panico, con nuovi imprenditori morali pronti ad agitare lo spauracchio di inedite minacce, da esorcizzare con l’attuazione di misure speciali. Le ricadute di questa deriva "securitaria" per la Rete lambiscono anche la dimensione politica. Dal momento che il terzo spazio si struttura sin dall’inizio come pubblico, al suo interno si producono due tipologie di lotte politiche: la prima, riguarda l’utilizzo di Internet per creare e diffondere pratiche politiche alternative. Non a caso, molti dei movimenti recenti, come Occupy Wall Street e le primavere arabe, hanno nella Rete un habitat fertile per diffondersi. La seconda, concerne la resistenza e l’insubordinazione nei confronti di un potere che si manifesta anche sotto forme cibernetiche. A questa tipologia vanno iscritti molti gruppi hacker o mediattivisti, o i casi di Julian Assange ed Edward Snowden. Si crea dunque un’ulteriore prospettiva sulla sicurezza in rete, dove le strategie di controllo e il panico morale si intrecciano direttamente con la prevenzione e la repressione della nascita di discorsi e pratiche alternative, sfociando in un vero e proprio securitarismo cibernetico. Al bazaar dell’identità - Quanto è reale la minaccia del cybercrime? Come si distingue dagli altri tipi di criminalità? Come si articola la dialettica tra libertà e sicurezza? I criminologi conservatori, come Peter Gottschalk, rispondono attraverso l’identikit del cybercriminale: individuo dotato di abilità specifiche, geloso della propria identità illegale, che utilizza la rete per i propri scopi illeciti, e agisce all’interno di reti criminali: ne consegue la necessità di controllare e limitare l’uso della rete, attraverso la creazione di una cyberpolizia che si avvalga della tecnologia più sofisticata. James Treadwell, Goldsmith e Brewers si preoccupano di criticare questa impostazione, mettendone in rilievo i limiti. Il primo sottolinea come la rete costituisca un vero e proprio bazaar: è possibile trovarvi gli attori più svariati, che operano in ambiti diversi. Internet, sostiene Treadwell, si connota proprio per la sua fluidità: non soltanto è possibile adottare identità multiple, ma anche si può operare contemporaneamente nell’ambito di domini legali e illegali, grazie alla garanzia dell’anonimato. Questo vale anche per le attività illegali. Su internet, come nello spazio sociale, vengono commessi per la maggior parte reati di lieve entità, e i perpetratori, come mostra uno studio su alcuni operai dell’East End di Londra, non sono criminali abituali, né posseggono sofisticate abilità. Realizzano frodi di piccolo calibro quando si trovano in difficoltà economiche e, in maniera intermittente, oltre che singolarmente. I secondi si muovono sullo stesso solco di Treadwell, parlando dell’esistenza di una vera e propria "deriva digitale". I fruitori della Rete perseguono una molteplicità di comportamenti, attuata in modo non strutturato, e secondo finalità spesso strumentali. Di conseguenza, i legami che si creano sul web, denotano una certa caducità, che rende difficile parlare dell’esistenza di network criminali. Anche nel caso di terrorismo e pedopornografia, spiegano gli autori, spesso ci troviamo di fronte o a individui isolati o a reti che hanno una durata temporale limitata, non sempre composte dalle stesse persone. Ad esempio, i cosiddetti Vpn (Virtual Private Networks), utilizzati dai pedopornografi, rischierebbero di attirare troppo l’attenzione, qualora la loro esistenza si prolungasse nel tempo. Queste letture, per quanto importanti, tralasciano però due aspetti del cybercrime tanto cruciali quanto speculari al dibattito sulla criminalità che attraversa la sfera pubblica non virtuale: quanta sicurezza bisogna garantire ai fruitori della rete? Chi deve garantirla? Lo Stato, attraverso i suoi apparati preventivi e repressivi, rientra in gioco, mettendo in scena le tematiche del controllo sociale e del rapporto tra libertà e sicurezza. Questi aspetti denotano implicazioni direttamente politiche: come nel secondo spazio il discorso "securitario" ha catalizzato la repressione del dissenso, così, nel terzo, la minaccia cybercriminale può diventare un arma contundente da brandire verso tipologie sempre più ampie di comportamenti non conformi al circuito intrattenimento-produzione-consumo. La regolamentazione statale della rete, presenterebbe un problema qualitativamente rilevante, che Daniel Geer, nella raccolta di saggi Cybercrime. Digital Cops in a Netwrok Environment (New York University Press, pp.270, seconda edizione), mette in relazione con la cosiddetta "fisica digitale". A differenza dello spazio materiale, il terzo spazio si caratterizza per la sua fluidità, volatilità e imprevedibilità, caratteristiche che si incrociano con la tutela delle libertà civili e del libero mercato. Ne consegue la riottosità da parte degli individui e degli attori economici a fornire informazioni vitali per la loro esistenza e i loro interessi agli attori del controllo sociale, che renderebbe problematico implementare ogni tipo di misure di sicurezza in rete. In realtà, secondo quanto afferma Lee Tien nello stesso volume, la lettura della rete come flusso libero e incontrollato di relazioni e informazioni si rivela, ad uno sguardo più accurato, limitata, nella misura in cui la rete funziona secondo il principio della regolamentazione architettonica. Come una casa orienta e determina i nostri movimenti secondo la sua conformazione, così la rete orienta i nostri percorsi digitali, creando le condizioni per un controllo ex ante, vale a dire imperniato sulla pre-determinazione della navigazione telematica. A differenza dell’ambiente fisico-sociale, dove le sanzioni vengono comminate ex post, il computer limita e dirige fin dall’inizio la nostra deriva nello spazio digitale. Sorveglianti "carnivori" - È all’interno di questa cornice pre-regolamentata che si crea lo spazio per una nuova forma di sorveglianza: orizzontale, impercettibile, pervasiva, in altre parole, come la definisce lo studioso canadese David Lyon relazionale. I social network che frequentiamo, le persone con cui chattiamo, i siti che visitiamo, riescono ad essere monitorati da sistemi digitali di controllo, che si avvalgono di una domanda di sicurezza a più ampio raggio per monitorare sia gli attori che le comunicazioni "a rischio". È questo il caso del progetto Carnivore, un programma di sorveglianza predisposto dall’Fbi e approvato dal Congresso Usa all’indomani dell’11 settembre. Le forze dell’ordine possono tenere sotto controllo, dietro approvazione della procura distrettuale, e per periodi di tempo limitati, quegli individui e quelle porzioni della rete sospettate di terrorismo. L’autorizzazione alla sorveglianza può essere rinnovata qualora dalle indagini risulta qualcosa che induce a ritenere fondati i sospetti, quindi a richiedere necessari ulteriori supplementi di indagine. Il progetto Carnivore è stato duramente contestato dalle organizzazioni attive nella difesa dei diritti civili, non soltanto perché viola la privacy e la libertà di espressione, ma anche perché è diretto soprattutto verso i cittadini americani di origine araba o di religione musulmana, comportando la criminalizzazione a priori di interi strati della popolazione. A fianco del progetto Carnivore, come ha svelato Edward Snowden nel 2013, esistono altri programmi di controllo della rete, elaborati ed implementati dalla National Security Agency, che si connotano per essere molto più sofisticati e articolati. L’agenzia di sicurezza interna, infatti, si connota come l’attore principe della sorveglianza relazionale, laddove i suoi programmi di controllo non riguardano solo i presunti terroristi musulmani, bensì l’intera popolazione. Utenti da addomesticare - Il lavoro di sorveglianza della rete, si prefigge dunque di monitorare ogni forma di comunicazione, relazione e pratica che vanno in senso contrario alla regolamentazione architettonica, quindi di monitorare le attività di gruppi e reti alternative. In questo contesto, figure del calibro di Snowden e Assange risultano pericolose, in quanto non soltanto disvelano la filigrana degli intrecci di potere attuali, ma dimostrano anche la possibilità di ribaltare il flusso securitario attraverso un utilizzo della rete che si muove in direzione contraria a quello convenzionale, che vuole creare un utente docile, controllabile e addomesticabile. Come nello spazio materiale il panico morale attorno ad alcuni reati di piccola entità fornisce il destro all’attuazione di misure repressive che passano attraverso la criminalizzazione di settori specifici della società, così nella rete, l’allarme per i cybercrimes, amplificato dalla paura del terrorismo, diviene il cavallo di Troia per l’azione repressiva e per la messa in atto di nuove forme di controllo sociale, nonché per la repressione di nuove forme del dissenso. Dall’altro lato, è la stessa fluidità della rete a permettere la produzione e la diffusione di saperi e pratiche dissenzienti, sia attraverso azioni individuali, come quelle di Snowden, sia attraverso la creazione di esperienze più strutturate, come Wikileaks. La talpa comincia a scavare nella rete. Ma il tunnel è ancora lungo. La Gran Bretagna lascia l’Europa di Fabio Cavalera Corriere della Sera, 24 giugno 2016 l Regno Unito ha deciso di uscire dall’Europa. All’alba, dopo una notte nella quale gli ultimi sondaggi sono stati ribaltati, il "Leave" ha superato il "Remain" di circa un milione di voti. Quando mancavano all’appello poche sezioni, i cittadini britannici che avevano scelto di abbandonare l’Unione europea arrivavano al 52 per cento. Esulta il leader degli euroscettici, Nigel Farage, che chiede le dimissioni del premier Cameron. Intanto, i mercati crollano e la sterlina è ai minimi da trent’anni. Le istituzioni, dalla commissione di Bruxelles alla Banca centrale europea, preparano le contromosse per arginare gli effetti di Brexit sull’economia. Terremoto Brexit. E David Cameron traballa. Nel giorno storico del referendum sull’Europa i numeri virtuali dei sondaggi si incrociano con i numeri reali che affluiscono nella notte e all’alba. Il Regno Unito sceglie lo strappo. Alle 23 italiane un opinion poll emette un verdetto provvisorio: 52% per il sì all’Europa, 48 per il no. Lo spoglio delle schede gela invece l’euforia iniziale. In Inghilterra, esclusa Londra, il no è davanti (60 a 40), una valanga specie nelle aree del laburismo (il Nord-Est). In Scozia la situazione è rovesciata (63 per il sì e 37 per il no). Il Nord Irlanda è per il sì mentre il Galles è in bilico con prevalenza del "leave". E a Londra l’Europa si consolida (vicina al 70%). Il dato generale suggerisce una continua altalena di risultati con una previsione finale per la Brexit (confermata dalla Bbc). E una considerazione: il Regno Unito è spaccato e si sbriciola. La posta è pesante, le ricadute globali. Speranze e paure si rincorrono schizofrenicamente sotto gli intervallati diluvi di pioggia che instillano preoccupazione a chi immagina la diserzione dalle urne e un conseguente vantaggio per i tifosi dell’"Independence Day", l’indipendenza dall’Europa, come urlano ai seggi i loro arrembanti capifila, Boris Johnson, l’ex sindaco londinese che pensa di defenestrare David Cameron, e Nigel Farage che fa proseliti a destra e sinistra. In momenti del genere, con l’ottimismo e il pessimismo che si alternano, i mercati offrono con il passare delle ore indizi da prendere però con le pinze. La sterlina si rivaluta, poi va in picchiata. La Borsa corre in positivo e guadagna l’1,2%, la migliore seduta degli ultimi due mesi. Lo spoglio spegne le fiammate. Si sa che le istituzioni finanziarie sono preparate alle montagne russe. Che i listini procedano discretamente durante il giorno può essere il segnale che gli gnomi delle banche e dei fondi abbiano indicazioni incoraggianti per l’Europa. Ma sono solo suggestioni. Nell’attesa che si scateni la bufera. Ogni spiffero di questo 23 giugno che tiene l’Europa e il mondo, i governi e il Regno Unito, in altalena può spostare gli equilibri. Apre le danze l’Evening Standard che nel pomeriggio sentenzia: 52 a 48 per l’Europa, come più tardi il sondaggio di YouGov. Mentre i bookmaker incassano puntate per il "remain". "Un voto per il futuro dei nostri figli". È l’ultimo l’appello europeista di Cameron. "Un voto per la nostra indipendenza" è il mantra di Boris Johnson. I due capifila del "remain" e del "leave" se le suonano senza tregua. C’è una maggioranza silenziosa che va conquistata. È la maggioranza silenziosa degli indecisi e dei fluttuanti. Gli euroscettici contano su un esercito di arrabbiati che dal nord-est laburista scende fino al Kent tory. Gli europeisti hanno la riserva della Scozia, Londra, Liverpool e Manchester. La tradizione insegna che, alla fine, la "terra di mezzo" dei britannici privi di convinzioni consolidate propende per i voti conservativi. Il pragmatismo di chi dice: scelgo il meno peggio. Ma oggi il vento sembra girare contro il passato. Cameron si mette in marcia di prima mattina per andare a stanare chi è davanti al pallottoliere del sì o del no. Conosce bene le oscillazioni emotive di un elettorato medio che di cuore si sente lontano dall’Europa ma che poi imbuca la scheda con la testa. È un elettorato che deve essere lavorato fino all’ultimo. E poi ci sono da spingere i giovani che non sognano di stare in un Regno Unito ammalato di nostalgie isolazioniste. L’affluenza è alta, attorno al 70 per cento. Sforzi che svaniscono. Il referendum segna un solco nel Regno Unito. Ha spaccato i conservatori e ha spaccato i laburisti. Ha dato fiato all’estremismo nazionalista. Ha diviso la Scozia e l’Irlanda del Nord (europeiste) dall’Inghilterra (Brexit). Cameron pensava di uscirne con una facile vittoria. Ne esce lui a pezzi. Leggerezza imperdonabile. Sotto la cenere covano scontri fra i tory e scontri fra i laburisti. E sia la questione scozzese sia la questione nordirlandese torneranno a ruggire. Chi ricomporrà i cocci? Ed ora l’Ue teme l’effetto domino La Repubblica, 24 giugno 2016 Chiuse le urne del referendum britannico, la priorità delle priorità per i leader europei è evitare che se ne aprano altre. La scommessa è riuscire a scongiurare il catastrofico effetto domino di una corsa generalizzata ai referendum, pro o contro la Ue, pro o contro questa o quella politica comunitaria, che paralizzerebbe del tutto l’Europa e che finirebbe per destabilizzare anche i governi nazionali. Lo European Council on Foreign Relations, uno dei think-tank bruxellesi, è arrivato a contare fino a 32 possibili referendum che potrebbero essere richiesti o convocati da non meno di 45 partiti o movimenti sparsi in tutta Europa. Certo la cifra è esagerata. In molti casi si tratta solo di piccoli gruppi che agitano lo spauracchio referendario per mettere in difficoltà i rispettivi governi. Ma, dopo l’esempio britannico, dire di no a una richiesta di democrazia diretta che tocca le scelte europee è diventato più difficile e più scomodo. E qualche governo potrebbe essere tentato di strumentalizzare la minaccia referendaria e fare pressione su Bruxelles per ottenere magari il riconoscimento di uno "status" particolare, come è riuscito benissimo a fare David Cameron. E infatti l’esempio britannico sta già facendo scuola perfino fuori dai confini europei. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan non ha aspettato neppure che si chiudessero le votazioni a Londra per minacciare di indire un referendum in Turchia chiamando il popolo a decidere se continuare o meno i negoziati di adesione alla Ue. In altri Paesi, dall’Olanda alla Svezia e alla Danimarca, i movimenti populisti hanno già cominciato ad agitarsi per chiedere a loro volta la convocazione di consultazioni popolari. In Grecia e in Portogallo c’è chi vorrebbe un referendum contro l’austerity di bilancio. In Estonia e Finlandia, sul fronte opposto, si chiede una consultazione per escludere dall’euro gli indisciplinati governi del Sud. Per non contare quanti vorrebbero un referendum per bloccare gli accordi commerciali in discussione con gli Stati Uniti o, come è già successo in Olanda, per rigettare gli accordi di associazione tra la Ue e l’Ucraina. E poi, sempre a proposito di effetto domino, c’è il pericolo che polacchi o ungheresi, che hanno aperto con Bruxelles contenziosi di principio sulla legittimità democratica delle riforme che vogliono imporre nei rispettivi Paesi, comincino a battere i pugni sul tavolo come ha fatto Cameron chiedendo di non essere vincolati a questo o quel principio della Carta europea dei valori. Dopo le concessioni fatte a Londra, sarà più difficile dire loro di no. La minaccia di un contagio referendario pone ai leader europei un ulteriore problema che aggrava la già difficile situazione in cui si trovano. Sono in molti, a cominciare dal governo italiano, a ritenere che il dopo referendum britannico imponga comunque all’Europa la necessità di una ripartenza, di una rinascita. Ma d’altra parte i fermenti populisti e anti-europei che ribollono un po’ ovunque, e che ora hanno trovato anche la bandiera referendaria di cui ammantarsi, sconsigliano di lanciarsi in una vera e propria rifondazione europea, come chiedono a gran voce i liberali e una parte dei socialisti nel Parlamento europeo. Restare inerti dopo il voto britannico è impossibile. Ma qualsiasi mossa si decida di fare, rischia di innescare la corsa a nuovi referendum e generare nuova instabilità. Belgio: l’eutanasia di Frank Van Den Bleeken non corrisponde alla pena di morte di Paolo Morelli e Cecilia Russo thelastreporter.com, 24 giugno 2016 In Belgio Frank Van Den Bleeken, detenuto con problemi psichiatrici, ha ottenuto l’eutanasia. Tracciare una corrispondenza tra l’eutanasia chiesta da un detenuto con appurati problemi psichiatrici e la pena di morte è semplicistico e non permette di inquadrare il tema nella sua complessità. Frank Van Den Bleeken chiede di morire da 4 anni e sarà accontentato domenica prossima, 11 gennaio, nel carcere di Bruges, in Belgio. L’uomo è in prigione da quasi 30 anni, nel carcere di Turnhout, condannato all’ergastolo per ripetuta violenza sessuale e per un omicidio, e da anni denuncia le pessime condizioni di vita all’interno del carcere. Ha chiesto ripetutamente di accedere all’eutanasia (in Belgio è legale dal 2002) e dopo diverso tempo e pareri medici favorevoli, ha ottenuto l’ok dal Ministero della Giustizia belga: riceverà l’iniezione letale la prossima settimana. È la prima volta che un detenuto ottiene l’eutanasia. Come stanno le cose. La storia è molto complessa e sta accendendo un dibattito molto caotico, nel quale è necessario fare chiarezza. Il quotidiano cattolico Avvenire ha parlato di "pena di morte legalizzata" ma, se a prima vista può apparire esattamente così, la realtà è molto distante da questa interpretazione. Per ottenere l’eutanasia in Belgio si devono rispettare tre requisiti fondamentali: la richiesta dev’essere volontaria, ragionata e ripetuta. Inoltre sono necessari dei pareri medici che attestino uno stato di sofferenza - anche psicologica - che non è possibile alleviare in nessun modo. "Sono un pericolo per la società - ha dichiarato più volte Van Den Bleeken ai media belgi - e sento che non potrò mai essere riabilitato. Nonostante quello che ho fatto, resto comunque un essere umano, quindi ho diritto all’eutanasia". Anni fa, Van Den Bleeken ha rifiutato la scarcerazione e ha chiesto invece di essere trasferito in una struttura olandese, attrezzata per la cura dei detenuti con problemi psichiatrici. Trasferimento rifiutato, da quel momento ha iniziato a chiedere l’eutanasia. Le condizioni di vita dei detenuti psichiatrici. La questione importante, invece, riguarda le condizioni dei detenuti con problemi psichiatrici in Belgio, che sono pessime. Il Paese è già stato più volte al centro delle critiche per le loro condizioni di vita. Esattamente un anno fa, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha condannato il Belgio per aver violato l’articolo 5 della Convenzione Europea, in merito al trattamento di otto malati psichiatrici detenuti in prigione. Ad aprile 2014, una legge nazionale ha equiparato i detenuti psichiatrici allo status di pazienti, dando loro diritto alle cure per i "liberi" malati psichiatrici. Ma questa legge non trova ancora adeguata applicazione. I detenuti con problemi psichiatrici però sono pazienti, quindi rientra nei loro diritti chiedere l’eutanasia. È per questo che altri 15 detenuti, dopo l’accoglimento della domanda di Van Den Bleeken, hanno chiesto l’eutanasia. Una sorta di "pena di morte al contrario" dove, in questo caso, è il detenuto che chiede di morire, non è lo Stato a deciderlo - come insinua erroneamente Avvenire - anzi, ottenerla non è nemmeno così semplice come sostiene il quotidiano cattolico, chiamandola addirittura "morte a richiesta". La condizione di sofferenza dev’essere confermata dai medici, per la quale devono constatare che non esiste cura; a meno di non sostenere che impedire ai detenuti psichiatrici l’accesso all’eutanasia sia una pena accessoria. Piuttosto, il problema vero riguarda la condizione dei detenuti con problemi psichici in Belgio: se arrivano a chiedere l’eutanasia significa che esiste un problema a monte. Pessime condizioni carcerarie. "Questo avvenimento è scioccante e non dovrebbe accadere - ha commentato Juliette Moreau, presidente dell’Osservatorio Internazionale delle Prigioni - ma non ci sorprende, in quanto denunciamo da anni la mancanza di cure per i detenuti, in particolare per le malattie psichiatriche. Vengono parcheggiati in carcere per anni, in attesa di essere trasferiti in strutture adeguate, ma a volte non succede mai perché non ci sono ospedali che accettino di accogliere questo genere di detenuti". Se rispettano i ristretti requisiti di legge, anche per i detenuti con malattie psichiatriche è possibile accedere all’eutanasia. Ma il problema principale riguarda le loro condizioni di vita e la mancanza di strutture adeguate a curarli, sempre all’interno della loro pena detentiva. Il dibattito sull’eutanasia. Il caso ha riacceso il dibattito in Europa sull’eutanasia. Il giornale francese Le Parisien riporta - di corredo all’articolo su Van Den Bleeken - un’interessante mappa che raffigura quasi tutti i paesi europei mostrando la loro politica nei confronti del fine vita. L’Italia, insieme a Irlanda, Grecia, Croazia, Bosnia, Bulgaria, Romania e Polonia, è tra i pochi paesi che non hanno nemmeno aperto una discussione legislativa sul tema, almeno per ora. Due discorsi distinti. È necessario discutere del tema del fine vita, argomento che in Italia è ancora tabù (più tra le istituzioni che tra i cittadini) e che spesso subisce distorsioni. Dall’altro, invece, bisogna parlare della cura dei detenuti con malattie psichiatriche: tema che in Italia invece è decisamente meglio affrontato. Bollare l’eutanasia di un detenuto con problemi psichiatrici come "reintroduzione" della pena di morte è davvero troppo semplicistico, quindi distante dalla realtà. Stati Uniti: la rivolta dei parlamentari democratici "basta armi libere" di Sara Volandri Il Dubbio, 24 giugno 2016 Protestano contro il rifiuto repubblicano di mettere al voto una restrizione sulle armi da fuoco, organizzando uno spettacolare sit-in nell’emiciclo del Congresso degli Stati Uniti. L’iniziativa, decisamente insolita per la politica americana molto rispettosa del protocollo, è stata presa dai parlamentari democratici, sostenuti dal presidente Barack Obama, da sempre sostenitore della necessità intervenire sul tema. La restrizione della compravendita di armi - se ne contano 357 milioni su 318 milioni di americani - è una questione particolarmente sentita e amplificata sull’onda del dolore e dello sconcerto per il massacro ad Orlando, in Florida. I repubblicani hanno tentato nella notte di porre fine alla protesta e il presidente della Camera, il repubblicano Paul Ryan ha provato a dare inizio alla sessione parlamentare. I cori di protesta dei democratici, che urlavano "Niente legge, niente pausa", però, hanno impedito lo svolgimento dei lavori. L’obiettivo della protesta è di ottenere che la Camera metta in votazione norme restrittive della vendita di armi prima del 4 luglio, data dell’Indipendence Day e l’inizio delle vacanze estive per il Congresso. Ryan ha provato a proseguire i lavori, ma senza successo. A quel punto ha dichiarato la pausa e abbandonato l’emiciclo, che però è rimasto occupato dai parlamentari in protesta, tra i quali spicca il nome di Elizabeth Warren, considerata in pole position per candidarsi alla vicepresidenza di Hillary Clinton. Appoggio ai parlamentari in agitazione è arrivato anche dalla stessa Clinton via Twitter. "Dobbiamo occupare l’emiciclo della Camera fino a quando cui non si faccia qualcosa", ha detto il democratico John Lewis, icona dei diritti civili della comunità afroamericana, che marciò con il reverendo Martin Luther King negli anni 60, di fronte alle decine di colleghi seduti sul pavimento. Il braccio di ferro con i repubblicani, però, è tutt’altro che vinto e, parlando alla Cnn, Ryan ha liquidato la protesta come un "atto pubblicitario" e affermato che non si piegherà alle richieste dei democratici e continuerà a garantire i diritti costituzionali dei proprietari di armi. Nel bocciare le proposte di legge avanzate dai democratici tre giorni fa, infatti, i repubblicani avevano citato il II emendamento della Costituzione Usa, che garantisce la libertà di possedere armi, allineandosi alla linea della potente lobby della National Rifle Association, il cui appoggio è cruciale in questa delicata fase elettorale. Svizzera: Consiglio Federale; le condizioni delle carceri possono essere migliorate di Salvatore Di Nolfi swissinfo.ch, 24 giugno 2016 In Svizzera bisogna affrontare maggiormente il tema degli abusi nelle carceri e creare maggiori posti di detenzione specifici per persone con gravi turbe psichiche. È l’opinione del Consiglio federale che risponde così a un rapporto stilato dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Dal 13 al 24 aprile 2015 una delegazione del comitato ha visitato vari penitenziari svizzeri. In particolare la Clinica di psichiatria forense di Basilea, il carcere di Champ-Dollon (GE), tre posti di polizia a Ginevra, il carcere di Biberbrugg (SZ), il penitenziario di Lenzburg (AG), il carcere La Promenade a La Chaux-de-Fonds (NE), i carceri La Farera e La Stampa a Lugano e i penitenziari di Hindelbank (BE). L’organismo europeo ritiene che la maggior parte delle persone sia stata trattata correttamente. Nel Cantone di Ginevra sono tuttavia pervenuti indizi di maltrattamento. In generale, il livello di detenzione è comunque elevato. Rimane però il persistente problema del sovraffollamento nel carcere di Champ-Dollon, si legge in un comunicato governativo odierno. Il comitato raccomanda di intensificare gli sforzi volti a garantire che i detenuti affetti da gravi turbe psichiche non vengano collocati in sezioni di alta sicurezza, bensì in istituzioni adeguate. In risposta, il Consiglio federale ha redatto un parere con alcune misure concrete, quali ad esempio l’indagine e la punizione coerenti in materia di abusi nonché il trattamento di questa tematica nell’ambito di formazioni e formazioni continue. Secondo i rilevamenti del gruppo di lavoro intercantonale incaricato di monitorare la capacità di accoglienza delle strutture carcerarie, i Cantoni stanno progettando di creare ulteriori posti di detenzione specifici per persone con gravi turbe psichiche.