Renzi rinvia la riforma della Giustizia penale, non è tempo di scontri con i pm di Giorgio Ferrini La Notizia, 23 giugno 2016 Renzi rinvia la riforma della Giustizia. Meglio evitare scontri, a cominciare dalle intercettazioni die per le toglie non si toccano. In stand by anche l’allungamento della prescrizione. La paura è di fornire altri assist a Grillo. Non è più il caso di scontrarsi con la magistratura sulla riforma del processo penale. "Ogni polemica sulla giustizia ingrassa il Movimento Cinque Stelle", ammette un esponente di primo piano del Giglio magico renziano. E lo stesso guardasigilli Andrea Orlando, dopo i ballottaggi di domenica ha ammesso con i suoi collaboratori più stretti che sarà difficile portare a casa la maxi-riforma del processo penale entro ottobre, ovvero prima di quel referendum costituzionale che potrebbe tenersi il 2 ottobre. Oltre a tutto, su temi come prescrizione e intercettazioni, si rischia anche di litigare pesantemente con gli alfaniani. Dunque è meglio rinviare ancora. A Matteo Renzi non è sfuggito che il popolo grillino, composto in parte da ex elettori del Pd, ha festeggiato in piazza l’elezione di Virginia Raggi e degli altri sindaci pentastellati al grido di "Onestà, onestà". E tutto questo mentre negli ultimi due mesi il partito del Nazareno, a livello locale, è stato colpito da una gragnuola di avvisi di garanzia. Al segretario del partito democratico, che in privato la pensa come quasi tutti i leader di partito, ovvero vorrebbe spezzare il link tra Procure e giornali, rischia di non bastare più il santino dell’ex pm Raffaele Cantone, sbandierato come garanzia del suo personale impegno nella lotta alla corruzione. La melina - Con i grillini pronti ad avvantaggiarsi di ogni incertezza del Pd sulla lotta alle mazzette, Renzi ha capito che polemizzare con Piercamillo Davigo, il battagliero presidente dell’Associazione nazionale magistrati, è una pessima strategia elettorale. E allora meglio rinviare il rinviabile, anche perché il gigantesco ddl sulla riforma del processo penale, fermo da settimane in Commissione Giustizia al Senato, è una tale mattonata che ben si presta a subire rallentamenti. Spaccature - Del resto, anche nei contenuti della riforma preparata da Orlando non c’è pieno accordo né all’interno del governo né in maggioranza. La parte che riguarda i tempi di prescrizione dei processi, specie quelli per reati contro la Pubblica Amministrazione, preme molto ai magistrati, stufi di buttare via anni di inchieste (ieri è stato prescritto Antonio Bassolino e il processo per la strage di Viareggio rischia di fare una brutta fine, tanto per citare due casi). Ma Ap, con i ministri Angelino Alfano ed Enrico Costa in prima fila, sono fieramente contrari, convinti che allungare la prescrizione sia un messaggio sbagliato a una magistratura già abbastanza lenta. Anche sulle intercettazioni, e sulla loro pubblicazione, Renzi e Orlando vorrebbero intervenire in senso restrittivo, ma pure qui rischiano di essere presi d’infilata dal Movimento Cinque Stelle, che sulla sua sbandierata assenza di garantismo sta costruendo parte delle proprie fortune. Stesso discorso per il capitolo carceri, con il tema del sovraffollamento completamente passato di moda. Intercettazioni con i trojan di Stato: ecco la proposta di legge di Carola Frediani La Stampa, 23 giugno 2016 L’obiettivo è regolamentare i software-spia nelle indagini. Servono requisiti tecnici precisi e deve essere garantito l’acceso ai dati alla difesa. A poche settimane dal pronunciamento della Cassazione, i captatori informatici rientrano nel dibattito politico e parlamentare. A guidare la discussione l’elaborazione di una nuova proposta di legge che intende per la prima volta regolamentare in dettaglio il loro utilizzo nell’ambito delle indagini. Della proposta, e più in generale dei captatori si è discusso martedì 21 giugno a Roma in un convegno a porte chiuse organizzato dall’associazione Italia Decide in una sala del Senato con decine di parlamentari, magistrati, forze dell’ordine, informatici e avvocati. Cosa sono i trojan - I captatori informatici sono un trojan, cioè un malware, insomma un software- spia, che infetta un pc o uno smartphone e ne prende il controllo da remoto. A quel punto può essere usato per controllarne tutte le attività: telefonate (anche attraverso app), messaggistica, email, navigazione web, archivio foto eccetera. Inoltre consente di attivare silenziosamente microfono e videocamera per effettuare registrazioni ambientali. In Italia questi software sono usati a livello investigativo da anni, anche se in modo discreto e variabile proprio per la difficoltà a inquadrarli nel codice di procedura penale e nei diritti costituzionali. Anche perché con lo stesso strumento è possibile eseguire in contemporanea azioni diverse: perquisizione, sequestro, intercettazione di comunicazioni, intercettazione ambientale, ovviamente senza che il soggetto interessato ne venga a conoscenza. Non è la prima volta che si tenta di regolamentarli, e i tentativi fatti finora - in verità alquanto rozzi - si erano arenati a causa delle preoccupazioni sollevate dal fatto che questi strumenti sarebbero estremamente potenti e invasivi nonché, secondi le voci più critiche, del tutto incompatibili con le garanzie costituzionali. L’attuale proposta in elaborazione è avanzata, tra gli altri, dal deputato del Gruppo Misto Stefano Quintarelli, che in passato aveva criticato proprio il tentativo di far passare un via libera indiscriminato dei captatori nel decreto antiterrorismo dell’attuale governo. Obiettivo dichiarato degli estensori della nuova legge, dunque, sarebbe di regolamentare una volta per tutte i trojan di Stato ma in modo stringente e tecnicamente appropriato. Il che probabilmente rischia di scontentare sia chi continua a pensare che i trojan siano intrinsecamente incompatibili con la Costituzione, sia chi vorrebbe mantenere la situazione attuale, un po’ Far West, un po’ arte di arrangiarsi, con i suoi relativi margini di manovra. I contenuti della proposta - La Stampa ha potuto accedere ai contenuti di una bozza della proposta (da considerarsi non definitiva) e questi sono, allo stato attuale, i suoi punti salienti. La legge dichiara di voler segmentare le funzionalità dei captatori, riconducendole al mezzo di ricerca della prova tradizionale con cui avrebbero più somiglianze. Per cui la ricerca di file sul dispositivo è considerata una forma di perquisizione; l’acquisizione di file come una forma di sequestro probatorio; le intercettazioni del traffico vocale come una intercettazione telefonica; e le registrazioni audio/video come una intercettazione ambientale. Perquisizioni a distanza - La proposta di legge si sofferma soprattutto sulla problematicità della perquisizione a distanza, riconoscendo che questa modalità “pone seri problemi di compatibilità costituzionale” e prevedendola per i seguenti casi: gravi reati associativi, terrorismo, pedofilia, prostituzione minorile, omicidio, rapina, estorsione, sequestro di persona, ma anche delitti di pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione e delitti informatici. Il sequestro a distanza dei dati - previsto per gli stessi reati della perquisizione - dovrà invece garantire la “conformità con gli originali, la loro immodificabilità e protezione”. No a tecnici esterni - La legge prevede anche che l’esecuzione materiale delle operazioni sia affidata alla polizia giudiziaria, senza la possibilità di avvalersi di tecnici e società esterne, “anche in considerazione dell’impossibilità per le forze di polizia e per la magistratura di verificare l’operato” di tali soggetti. Questo è un punto importante affrontato dalla legge. Attualmente i captatori sono forniti da società esterne - che gestiscono anche l’assistenza, senza però avere, in teoria, contatto diretto coi dati acquisiti o conoscenza dei target - e a loro volta sono poi gestiti materialmente da altre società che lavorano a stretto contatto con le procure, facendo da cinghia di trasmissione fra i fornitori del software e gli inquirenti. Portare tutto sotto il controllo della polizia giudiziaria è considerato auspicabile da molti, anche e proprio in considerazione della delicatezza dei dati trattati e della potenza dello strumento. Tuttavia, potrebbe non essere affatto semplice. L’accessibilità dei dati - Interessante anche un altro punto evidenziato dalla proposta di legge che ha a che fare con l’acquisizione dei dati compiuta da remoto: questi dovrebbero restare inaccessibili alle parti prima della notifica degli atti all’indagato. Una misura pensata per garantire il principio di parità tra accusa e difesa, non avvantaggiando cioè l’accusa. È tecnicamente possibile? È possibile che chi gestisce il trojan - polizia giudiziaria, secondo la proposta - possa acquisire dei dati da un dispositivo senza che potenzialmente possa anche accedervi (prima dell’acquisizione)? Per altro la proposta prevede che in casi eccezionali, non ancora esplicitamente definiti, il pubblico ministero, autorizzato dal Gip, possa comunque consultare i dati acquisiti prima della notifica all’indagato. I requisiti tecnici - La proposta affronta infine il tema spinoso di come dovrebbero essere e funzionare questi captatori. In particolare prevede un decreto apposito che individui i requisiti tecnici di tali strumenti. Il decreto - emanato dal ministro della Giustizia, di concerto con quello dell’Interno, e con parere del Garante della privacy e dell’Agenzia per l’Italia digitale - stabilirebbe i criteri necessari per far sì che i captatori autorizzati non alterino i dati o le restanti funzioni del dispositivo ospite. E non abbassino il livello di sicurezza dell’apparecchio su cui sono utilizzati. Attenzione che questo aspetto è uno degli elementi cruciali del dibattito: è possibile avere un trojan che non sia potenzialmente in grado di alterare i dati e le funzioni del dispositivo che ha infettato? Ed è possibile verificare che ciò non accada mai? La certificazione - La proposta di legge prevede anche l’istituzione di un sistema di certificazione, affidato all’Istituto superiore delle comunicazioni e tecnologie dell’informazione, dei captatori utilizzati nelle indagini, e di un loro registro nazionale, nonché l’obbligo di depositare i loro codici sorgenti presso un ente da determinarsi. Codice sorgente depositato? Anche qui si tocca un nervo scoperto che non sarà scontato far accettare ai produttori del software. L’idea alla base della proposta sarebbe quella di consentire alla difesa di accedere a tutta la documentazione sulle operazioni eseguite tramite i captatori, le loro console di gestione e gli operatori, dalla installazione alla rimozione, fino alla verifica che gli stessi siano certificati (ovvero rispettino i requisiti tecnici previsti) ed, eventualmente, fino all’ispezione del codice. Una discussione a porte chiuse - La riunione a porte chiuse di ieri ha causato qualche perplessità fra gli addetti ai lavori, che avrebbero voluto da subito una discussione aperta, come ad esempio ha fatto notare il professore di informatica giuridica Giovanni Ziccardi in un post pubblico su Facebook. “L’argomento è talmente delicato - ha dichiarato Ziccardi alla Stampa - coinvolge diritti fondamentali, parità delle parti nel processo, una tecnologia che è la più invasiva oggi esistente - che sarebbe opportuna una discussione aperta e pubblica e una diffusione dei lavori preparatori, nonché dei soggetti, aziende e privati, che stanno partecipando ai lavori”. Come porre dei limiti - I tempi e lo sviluppo della proposta di legge non sono ancora chiari, ma di certo i temi sollevati - anche dal confronto di ieri - sono molto densi e complessi. Ogni elemento tecnico della questione solleva infatti degli interrogativi giuridici e di garanzia dei diritti. Come limitare l’ampiezza dello strumento quando viene usato per una perquisizione a distanza? Quanto si può andare in profondità nello scavo e chi deve definirne i limiti? Come conciliare certificazione e velocità dello sviluppo tecnologico? Come evitare il rischio dell’alterazione dei dati? sono solo alcuni dei dilemmi con cui si dovrà confrontare la proposta. Meno slot, meno mafia: frenare il gioco d’azzardo si può e si deve, adesso di Antonio Maria Mira Avvenire, 23 giugno 2016 Per combattere gli affari delle mafie su azzardo e gioco patologico bisogna ridurre slot e sale scommesse e consolidare il potere di regolamentazione dei Comuni. Lo abbiamo scritto tante volte, raccogliendo il grido d’allarme di persone, famiglie, Fondazioni antiusura, movimenti di cittadini. Ora lo afferma la Commissione bicamerale Antimafia nella Relazione sull’infiltrazione della criminalità organizzata nel gioco legale e illegale. Con affermazioni che fanno propri due dei quattro punti dell’appello al Parlamento delle associazioni più impegnate sul fronte dell’azzardo sostenuto anche da "Avvenire". Affermazioni molto importanti perché riconoscono che il boom continuo dell’azzardo, che lo Stato sinora non ha controllato ma addirittura promosso, ha prodotto e sta producendo due danni gravissimi: un ulteriore e fortissimo arricchimento delle mafie e lo sconquasso personale e familiare di tanti "giocatori", che è più giusto chiamare vittime. Affermazioni importanti e libere da condizionamenti. Bisogna dare atto al relatore, il senatore Stefano Vaccari e ai consulenti della Commissione di aver svolto un lavoro serio accurato, che i luoghi comuni messi in circolo dai (troppi) difensori di Azzardopoli non hanno frenato in alcun modo. Un paio di esempi del battage pro-slot? La veemente e liquidatoria reazione all’importante proposta - avanzata nei giorni scorsi dal sottosegretario all’Economia, con delega per l’azzardo, Pier Paolo Baretta - di togliere le slot da bar e tabacchi: “Una via fallimentare per il contrasto all’illegalità e la prevenzione della ludopatia”. E certamente le opposizioni alle iniziative dei Comuni anti-slot condotte al grido di “rischio proibizionismo” e “no a discriminazioni”. Concetti anche nobili, usati in modo del tutto falsante. La realtà è che Azzardopoli non dà segni di cedimento. Così le slot machine, che a fine 2014 erano 377mila, ora sono 418mila (dati ufficiali dei Monopoli). E quest’anno l’affare si fa facendo ancor più ricco. Nei primi 5 mesi del 2016 le scommesse sportive sono cresciute di più del 23%, arrivando a 2,9 miliardi di euro, e quelle online addirittura di quasi il 34%. Altro che crisi! E mentre le imprese dell’azzardo si lamentano delle iniziative comunali, presentando ricorsi su ricorsi, con la nuova gara riusciranno a colonizzare i bar anche coi "totem" per le scommesse. Davvero benvenuta, allora, questa Relazione dell’Antimafia. “Se vuoi fare la lotta alla mafia tu non aumenti l’offerta del gioco, non lo puoi fare”, aveva detto alcuni giorni fa la presidente Rosy Bindi, aggiungendo che “l’idea che legalizzando il gioco si limita l’illegale è sbagliata: molte di quelle concessioni infatti finiscono nelle mani della mafia” e sottolineando “la necessità di una legislazione più rigorosa”. Parole confermate dalla Relazione secondo la quale “in effetti le "macchinette", in particolare quelle allocate nei bar, sono la modalità di gioco di gran lunga più insidiosa e generatrice di patologie”. Più si gioca, più ci si ammala e più si gioca ancora. Un terribile cerchio che si chiude, ben descritto dai documenti della Commissione. Bisogna perciò salutare con soddisfazione le iniziative dei Comuni prese in accordo col governo. “L’obiettivo ultimo - è l’importante invito dell’Antimafia - non può non essere quello di pervenire a una intesa che abbia come obiettivo di fornire gli indirizzi strategici di controllo, programmazione e sviluppo per un’offerta di gioco complessiva "eticamente e territorialmente sostenibile"“. Per questo il ruolo dei Comuni deve essere non solo centrale, ma sostenuto dallo Stato. Perché “le comunità locali, insieme alle autorità di pubblica sicurezza e alle forze di polizia dislocate sul territorio, sono i primi sensori in grado di percepire il degrado sociale e il diffondersi dell’illegalità”. Parole chiare. Altro che “proibizionismo” e “discriminazione”. La Commissione chiede invece “il ripristino di una condizione di "equilibrio di legalita"“ da un lato “dando seguito alla contrazione dell’offerta prevista dell’ultima Legge di stabilità, ma prevedendo altresì una diversa articolazione, tipologia e configurazione sul territorio dei punti di gioco”. Molto bene. L’Antimafia riconosce e indica percorsi e strumenti. Tocca ora al Governo. Niente può giustificare ritardi o pasticci. Neanche il timore di perdere un po’ di tasse. Quanto vale la lotta alle mafie e per la salute? E quanto ci fa, per davvero, tutti più ricchi? L’ombra di Gomorra sui concorsi di Polizia penitenziaria e Ps di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 giugno 2016 Ripetere al più presto le prove del concorso con video sorveglianza e assumere 800 agenti. È quello che chiede il sindacato autonomo della polizia penitenziaria (il Sappe) in merito alla questione riguardante la sospensione del concorso per gli agenti penitenziari tenuto nello scorso mese di aprile. "Abbiamo invitato il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria a rompere gli indugi e, a prescindere dalla pronuncia o meno dell’Avvocatura della Stato, annullare le procedure di svolgimento delle prove in regime di autotutela", spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe. "Allo stesso tempo - continua il segretario del sindacato - il Sappe ha proposto all’Amministrazione di avviare immediatamente le procedure per la ripetizione delle prove che devono essere espletate prima della fine dell’estate nella Sala concorsi della Scuola di Polizia penitenziaria di Roma, anche avvalendosi di un sistema di controllo mediante telecamere a circuito chiuso con registrazione video, allo scopo di escludere ogni candidato ripreso a commettere irregolarità". Il Sappe denuncia che i reparti di polizia penitenziaria hanno bisogno di rinforzi al più presto e per questo chiede non solo la ripetizione del concorso, ma anche di avviare lo scorrimento delle graduatorie ancora valide degli idonei non vincitori dei concorsi precedenti al fine di avviare ai corsi di formazione almeno 800 ulteriori agenti. Ma che cosa è accaduto durante l’esame e perché è stato sospeso? Il concorso si era svolto alla Nuova Fiera di Roma il 20, 21 e 22 aprile. Vi avevano partecipato 11 mila uomini per 300 posti e duemila donne per cento posti. I dubbi su possibili irregolarità erano emersi già nei giorni precedenti visto che voci in merito giravano da qualche tempo: per questo l’amministrazione penitenziaria aveva disposto una task force composta da agenti del Nic (Nucleo investigativo centrale) e da due commissari. A quel punto è uscito fuori lo scandalo: 88 candidati sono stati denunciati perché durante le prove hanno utilizzato radiotrasmittenti, auricolari, bracciali con le risposte ai quiz, cellulari contraffatti, cover dei telefonini con le soluzioni. Ma c’è di più. Grazie alle dichiarazioni di alcuni concorrenti finiti sotto accusa, sono usciti fuori i nomi di terze persone coinvolte che puntano diritto alla camorra. Il sospetto degli inquirenti è che la criminalità organizzata abbia tentato di infiltrarsi nelle carceri italiane tramite la via ordinaria del concorso ministeriale. Secondo una ricostruzione de Il Messaggero pare che le indagini puntino anche ad accertare eventuali complicità all’interno del Dap. A suscitare allarme e forti dubbi sulla possibilità di infiltrazioni della criminalità organizzata sono state anche le cifre che sarebbero state pagate per ottenere le soluzioni ai test: in alcuni casi raggiungerebbero i 25mila euro. Soldi che difficilmente un normale concorrente, che abbia la licenza media, può permettersi di pagare per superare un concorso. Gli accertamenti riguardano pure la ditta che si era aggiudicata l’appalto per le selezioni, anche quella con sede in Campania e le idoneità fisiche ottenute dai candidati. Ma non finisce qui. Lo stesso sospetto riguarda un altro recente concorso riguardante la polizia di stato. Il 4 maggio si sono tenute le prove scritte del concorso Polizia di Stato 2016. Terminato il primo step, il 13 maggio, ufficiosamente, è stata pubblicata la graduatoria di merito. Intanto sui gruppi Facebook sono apparse le prime segnalazioni da parte dei candidati che hanno riscontrato irregolarità e procedure poco chiare. Tutto il materiale è sul tavolo del numero uno dell’anticorruzione Raffaele Cantone. A lui e al ministro dell’Interno Angelino Alfano ha scritto il sindacato Autonomo di Polizia su segnalazione dell’associazione "Militari in congedo". In poche parole sono emerse delle anomalie appena sono uscite le graduatorie del concorso. Nonostante non fosse stata resa pubblica la banca dati su cui allenarsi per prepararsi alla prova scritta, ci si è trovati di fronte a un alto numero di ragazzi che hanno superato la stessa prova senza commettere alcun errore. Ben 194 candidati non hanno sbagliato nemmeno una delle ottanta risposte, 134 hanno commesso un solo errore e 93 ne hanno sbagliate appena due. La totalità degli idonei provengono tutti dalla Campania, regione in cui ha sede la ditta - la stessa che si è occupata anche del concorso per agenti penitenziari - che prepara la banca dati utilizzata per la somministrazione dei quiz. Gente preparatissima, al limite della genialità, oppure dei furbi? Ci penserà forse Raffaele Cantone con una indagine conoscitiva. Cosentino condannato a quattro anni “ha corrotto una guardia del carcere” di Marilù Musto Il Messaggero, 23 giugno 2016 Quattro anni di reclusione. Doccia fredda per Nicola Cosentino, in aula ieri, per ascoltare la lettura del dispositivo di sentenza del Tribunale di Napoli Nord alla presenza dei suoi due figli gemelli di 22 anni. È verso di loro, seduti sul fondo dell’aula, che l’ex sottosegretario all’Economia dal primo banco si è voltato quando ha capito che non c’era più nulla da fare. Parole come pietre quelle pronunciate dalla presidente del collegio, Domenica Miele: l’imputato è condannato a quattro anni per il reato di corruzione. Concesse, però, le attenuanti generiche: Cosentino è incensurato e, inoltre, il reato per cui si è proceduto non è di particolare gravità. Quindi, non è stata accolta la richiesta del pubblico ministero Paola Da Forno di condannare l’imputato a sei anni, senza le attenuanti. Ultima ordinanza, prima sentenza. Estremi di un elastico che racchiude la storia giudiziaria del politico più influente a Caserta degli ultimi venti anni. Perché, per una curiosa circostanza, il primo processo che si chiude a carico di Cosentino è il frutto di un’ordinanza emessa appena un anno fa. “Presenteremo sicuramente ricorso a una decisione giuridicamente sbagliata”, spiegano i legali difensori Stefano Montone e Agostino De Caro. Tutto era nato da un’intercettazione ascoltata dai pm Alessandro D’Alessio e Fabrizio Vanorio della Dda di Napoli. In carcere, dove Cosentino era detenuto nel 2014, erano stati introdotti una pomata antistaminica, delle mozzarelle, il dolce Roccobabà e un Ipod per ascoltare musica grazie alla corruzione di un agente della polizia penitenziaria di Secondigliano, Umberto Vitale, in cambio della promessa, da parte dell’ex politico, di un impiego per la moglie di quest’ultimo presso la Cooperativa sociale Sinergia. Per lo stesso reato, era stata condannata la moglie dell’ex sottosegretario (a due anni e quattro mesi) e il cognato, Giuseppe Esposito di Trentola Ducenta e l’agente Vitale a quattro anni e otto mesi. Cosentino, da un mese ai domiciliari a Venafro, ha abbracciato i figli dopo la lettura della sentenza. Prima della requisitoria, è stato ascoltato in aula anche il direttore del carcere, Guerriero Liberato. Era stato chiamato a rispondere anche della concessione di partecipare a un progetto, voluto dalla Regione Campania, per Giuseppe Lo Bue, corleonese ed ex “postino” di Bernardo Provenzano e detenuto con Cosentino. I legali dell’ex potentissimo coordinatore di Forza Italia in Campania sono determinati: “Leggeremo le motivazioni della sentenza - spiegano - ci sono tre punti che debbono essere chiariti. È un dato oggettivo la presenza di oggetti in carcere introdotti non regolarmente, ma partendo da ciò non capiamo come si costruisce l’ipotesi che ci sia stata la promessa di un posto di lavoro in cambio di un trattamento di favore. Inoltre, come si fa ad escludere che la promessa sia libera? Senza qualcosa in cambio, dunque. Lo testimoniano - concludono le toghe - alcune frasi intercettate dai poliziotti, come la celebre: “Abbiamo il porco per le mani, dobbiamo andare tutti da lui”. È un dato anche che, Cosentino, uscito dal carcere, non ha risposto alle telefonate degli agenti”. La battaglia giudiziaria, dunque, è ancora aperta. Cassazione, stretta sul ne bis in idem di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 23 giugno 2016 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 22 giugno 2016 n. 25815. Se tra due violazioni - una di natura amministrativa, l’altra penale - c’è un rapporto di “progressione illecita” (e non di specialità) il giudice non può rilevare il ne bis in idem ma piuttosto deve sollevare una questione di legittimità costituzionale. E, in ogni caso, il divieto di secondo giudizio presuppone la definitività del procedimento amministrativo. La Terza penale della Cassazione torna sul tema della sentenza Grande Stevens vs Italia (decisione 25815/16, depositata ieri) dando una lettura restrittiva del principio di doppia punibilità e intervenendo in un caso molto particolare. I fatti di causa erano relativi a una sentenza del Tribunale di Asti che aveva mandato assolto - per ne bis in idem, appunto - un imprenditore accusato di omesso versamento dell’Iva. Il procuratore generale di Torino aveva quindi impugnato il verdetto direttamente in Cassazione per erronea applicazione dell’articolo 649 del codice di procedura penale (divieto di secondo giudizio), sostenendo che il giudice di merito aveva erroneamente qualificato come penale la sanzione amministrativa e come penali i procedimenti sanzionatori relativi ai fatti contestati. Pur riconoscendo la “ratio composita” del ne bis in idem previsto dall’articolo 649 del codice di procedura - come presidio di ordine pubblico processuale funzionale alla certezza delle situazioni giuridiche accertate da una decisione irrevocabile, ed espressione inoltre di un diritto civile e politico dell’individuo - la Terza prende le distanze dalla decisione del giudice piemontese partendo proprio dall’analisi della fattispecie incriminante. L’articolo 10-ter del decreto legislativo 74/2000, infatti, già dalle Sezioni Unite del 2013 (n. 37424) era stato inquadrato come “progressione illecita” rispetto alla violazione amministrativa prevista dal dlgs 471/97 (articolo 13, omesso versamento dell’imposta entro il mese successivo alla maturazione del debito mensile Iva): ciò in quel periodo storico, antecedente alla sentenza Grande Stevens della Corte di Strasburgo, aveva come conseguenza la doppia applicabilità delle sanzioni. Oggi, scrive la Corte, per dirimere la questione della duplicazione sanzionatoria di tale illecito “l’unica via percorribile per dare attuazione al diritto convenzionale di ne bis in idem è necessariamente quella che passa attraverso una questione di legittimità costituzionale per violazione dell’articolo 117 comma 1 della Costituzione”. Tuttavia, annota ancora il relatore, nel caso specifico non c’erano neppure gli estremi per una remissione alla Consulta, poiché nel procedimento penale non c’è la prova che l’accertamento tributario contestato fosse già definitivo; circostanza, questa, che priva la stessa Corte procedente a rilevare d’ufficio la questione di legittimità. Lo stesso discorso può poi essere replicato in relazione al ne bis in idem recepito nella legislazione europea (articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali della Ue, citato anche dal tribunale di Asti): il difetto di prova in ordine alla definitività dell’irrogazione della sanzione amministrativa non permette alla Terza penale di sollevare d’ufficio la questione pregiudiziale. Infine, la Corte ricorda che il 12 maggio scorso la Corte Costituzionale ha rilevato che il divieto di doppia punibilità ha natura processuale e non sostanziale, rimettendo pertanto al legislatore “le soluzioni alle frizioni che tale sistema genera tra l’ordinamento e la Cedu”. Sì alla “stepchild adoption” per le coppie gay di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 23 giugno 2016 Cassazione - Sezione I civile - Sentenza 22 giugno 2016 n. 12962. La Cassazione ha riconosciuto la stepchild adoption - ovvero il diritto del partner di adottare il figlio minore dell’altro - anche a una coppia gay. Nella fattispecie si tratta di due donne romane sposatesi in Spagna, conviventi stabilmente dal 2003 e con un progetto genitoriale realizzato con la procreazione assistita, da cui è nata una bambina, oggi di 7 anni. Un rapporto di filiazione, precisa la Corte, che dunque “non è riconducibile ad alcuna delle forme della cosiddetta surrogazione di maternità, realizzate mediante l’affidamento della gestazione a terzi” poiché la bambina è stata riconosciuta dalla donna che l’ha partorita. È il primo caso esaminato dalla Cassazione di una coppia omosessuale che chiede la stepchild adoption - l’adozione coparentale prevista dall’articolo 44, lettera D della legge 184/1983, sotto il titolo di “adozione in casi particolari” - e la suprema Corte lo ha risolto confermando la sentenza della Corte d’appello di Roma. Che, come altri giudici di merito italiani nei confronti di coppie gay, aveva riconosciuto l’applicazione della stepchild, ovviamente dopo aver verificato la sussistenza, in concreto, delle condizioni stabilite dalla legge, in generale. In un comunicato stampa che ha accompagnato il deposito della sentenza (n. 12962/16, presidente Salvatore di Palma, relatrice Maria Acierno), la Cassazione ricorda infatti che questo tipo di adozione “non determina in astratto un conflitto di interessi tra il genitore biologico e il minore adottando, ma richiede che l’eventuale conflitto sia accertato in concreto dal giudice”; inoltre, essa “prescinde da un preesistente stato di abbandono del minore e può essere ammessa sempreché, alla luce di una rigorosa indagine di fatto svolta dal giudice, realizzi effettivamente il preminente interesse del minore”. Dunque, nessun vuoto normativo colmato dai giudici. Anzi. La Cassazione ha applicato le norme vigenti, interpretandole alla luce di una minuziosa ricostruzione del quadro costituzionale e delle convenzioni internazionali nonché della giurisprudenza costituzionale e comunitaria. La sentenza ricorda che all’adozione “in casi particolari” possono accedere “sia le persone singole che le coppie di fatto” per cui “l’esame dei requisiti e delle condizioni imposte dalla legge, sia in astratto (la constatata impossibilità dell’affidamento preadottivo) sia in concreto (l’indagine sull’interesse del minore), non può essere svolto - neanche indirettamente - dando rilievo all’orientamento sessuale del richiedente e alla conseguente natura della relazione con il proprio partner”. Tanto più che “non esistono evidenze scientifiche dotate di un adeguato margine di certezza in ordine alla configurabilità di eventuali pregiudizi per il minore derivanti dall’omogenitorialità”, come la Cassazione ha già avuto modo di scrivere nella sentenza n. 601 del 2013. La Corte ha perciò rigettato il ricorso della Procura generale presso la Corte d’appello e le conclusioni della Procura generale presso la Cassazione. Che, fra l’altro, aveva chiesto preliminarmente l’assegnazione della causa alle sezioni unite per la “particolare importanza” della questione (nonché, aveva detto in udienza in Pg, in nome “della pace sociale”). Richiesta respinta. La sentenza ricorda, in proposito, che la Cassazione si è pronunciata a sezioni semplici “su numerose questioni variamente collegate a temi socialmente e/o eticamente sensibili”: dalle “direttive di fine vita” ai limiti al riconoscimento giuridico delle unioni omoaffettive, dalle adozione da parte della persona singola alla surrogazione di maternità nella forma della gestazione affidata a terzi. Tutte questioni decisamente importanti. Infine, la Corte precisa che nella vicenda decisa non si è neanche posto il problema di applicare la legge 76/2016 sulle unioni civili, entrata in vigore solo il 5 giugno 2016, per mancanza di una disciplina transitoria che ne prevedesse l’applicazione retroattiva. Il che, ovviamente, non equivale affatto a dire che la nuova legge porterebbe a una diversa soluzione. Il falso in bilancio resta agganciato alla “offensività” di Daniele Piva Il Sole 24 Ore, 23 giugno 2016 Cassazione - Sezioni unite penali - Sentenza 28 maggio 2016 n. 22474. A distanza di un anno esatto dalla riforma del falso in bilancio, il 27 maggio scorso è stata depositata la motivazione della sentenza n. 22474 con cui le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto giurisprudenziale, tutto interno alla Quinta Sezione penale, in ordine all’eventuale abolitio criminis del falso valutativo. Si trattava di un problema ampiamente annunciato e, per certi versi, cercato dallo stesso legislatore pur di giungere all’approvazione di un testo in grado di raggiungere la maggioranza parlamentare, come chiaramente emerso nel corso dei lavori preparatori. Con una sentenza davvero pregevole si chiarisce che il nuovo falso in bilancio integra delitto di mera condotta incentrato sul pericolo concreto, a tutela della veridicità e completezza dell’informazione societaria come desumibile dalla disciplina civilistica. Sul piano esegetico, non è allora tanto l’interpretazione letterale (la mancanza dell’inciso “ancorché oggetto di valutazioni”) quanto quella dettata dal “contesto” ad essere decisiva, essendo composto il bilancio di enunciati essenzialmente valutativi conformi ai criteri di verità legale o convenzionale normativamente determinati (art. 2426 c.c., direttiva 2103/34/UE, standard internazionali Ias/Ifrs) o tecnicamente indiscussi (principi contabili nazionali elaborati dall’Organismo italiano di contabilità). Senonché, la sentenza afferma pure che, per effetto del mancato richiamo dell’aggettivo “rilevanti” nelle ipotesi commissive di cui all’art. 2622 c.c., la condotta rimane in tal caso penalmente perseguibile anche se il fatto esposto non sia ritenuto rilevante trattandosi, evidentemente, di una valutazione seguita in astratto dal legislatore e non demandata al giudice: al riguardo, pur al netto delle perplessità di un reato di pericolo concreto fondato su valutazioni eseguite in astratto dal legislatore, c’è da sperare che da questo obiter dictum non si sviluppi un indirizzo volto a legittimare applicazioni incondizionate della nuova fattispecie a fronte delle quali tenda progressivamente a svanire ogni contenuto di offesa, dovendosi piuttosto ritenere che il requisito della rilevanza sia comunque richiesto quale ineludibile componente del giudizio di concreta idoneità a indurre altri in errore. Più in generale, anche dopo le Sezioni Unite, resta tutta l’indeterminatezza e la ridondanza del nuovo sistema di incriminazioni “a scalare” in cui si è passati da soglie quantitative a soglie qualitative (materialità, rilevanza, lieve entità, particolare tenuità), tendenzialmente sovrapponibili (come la rilevanza e l’idoneità a indurre in errore) senza oltretutto dar conto del parametro di riferimento del destinatario dell’informazione (uomo medio, investitore ragionevole, agente modello) genericamente indicato col pronome altri. Del resto, sono le stesse Sezioni Unite ad affermare che sono state sì abolite le soglie di punibilità, ma è stato introdotto il requisito della “rilevanza” delle alterazioni di bilancio la quale, proprio perché non più ancorata a soglie numeriche predeterminate, viene ora apprezzata dal giudice mediante la valutazione in concreto della incidenza della falsa appostazione o della preterizione di essa, in relazione alle scelte che i destinatari dell’informazione potrebbero effettuare. Peccato, però, che il giudice ragioni secondo la logica del caso per caso, questa sì davvero fomentatrice di una strutturale imprevedibilità degli esiti della decisione, con buona pace dei vincoli di legalità. Scatta la corruzione per chi di fatto gestisce la società incaricata di pubblico servizio di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 23 giugno 2016 Corte di Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 22 giugno 2016 n. 26052. Un soggetto può rientrare nella qualificazione di incaricato di pubblico servizio, anche indirettamente, sulla base delle attribuzioni di compiti che riceve dall’amministratore delegato di una società che si occupa dei rifiuti di un Comune: se di fatto gli viene affidata la gestione. Così la Corte di cassazione con la sentenza n. 26052/16, depositata ieri, ha riconosciuto il perimetro del reato di corruzione per un soggetto cui era stato affidato il compito di diretta collaborazione con la direzione generale su tutte le attività della società incaricata di pubblico sevizio. I principi ribaditi dalla sentenza - La Cassazione ricorda due principi già affermati dalla propria giurisprudenza per l’inquadramento del reato di corruzione. In primis il principio, che la stessa sentenza definisce “consolidato”, secondo cui la qualifica di incaricato di pubblico servizio va riconosciuta a colui che, svolgendo di fatto attività diverse da quelle inerenti alle mansioni istituzionalmente affidategli, sia effettivamente investito di un pubblico servizio “purché al compimento di tali attività si accompagni, quanto meno l’acquiescenza o la tolleranza o il consenso, anche tacito, della pubblica amministrazione”. Inoltre, viene ribadito che nella corruzione propria, per il compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio, non serve che il patto corruttivo si riferisca a specifici e determinati atti, ma anche a una serie indistinta di questi, che implichino però l’asservimento della funzione affidata al corrotto al raggiungimento dello scopo del corruttore. Cioè basta l’uso distorto del potere discrezionale attribuito. Come - nel caso specifico - affidare a terzi ciò che la società incaricata di pubblico servizio avrebbe potuto svolgere da sé. Sul caso specifico - La vicenda vedeva coinvolto, in qualità di corrotto, un soggetto che pur non avendo la titolarità della società incaricata di svolgere il pubblico servizio aveva di fatto orientato la scelta di affidare senza gara lo svolgimento di due attività della società di gestione dei rifiuti urbani: la manutenzione dei mezzi e la raccolta differenziata. Ma soprattutto aveva ricevuto cifre di denaro non giustificate da parte del titolare dell’impresa cui erano affidate le attività, cioè il corruttore. Quest’ultimo ha contestato in Cassazione l’inquadramento della vicenda come corruzione invece che, al massimo, come traffico di influenze proprio sulla base della contestata qualifica di incaricato di pubblico servizio in capo al corrotto. Infatti, il punto dibattuto era che l’affidamento senza gara fosse stato formalmente disposto dall’amministratore delegato, ma su sollecitazione del soggetto corrotto, al quale di fatto erano stati attribuiti i compiti gestionali e che - a riprova del reato - successivamente percepiva attraverso contratti fittizi con il corruttore i proventi illeciti. Mentre non risulta che abbia avuto alcun vantaggio l’amministratore delegato. Il ricorrente in Cassazione impugnava la misura cautelare trasformata dal Tribunale da arresti domiciliari a interdizione per un anno dall’esercizio di uffici direttivi nella società favorita dal reato corruttivo e da qualsiasi altra impresa operante nel settore della gestione dei rifiuti e dell’igiene ambientale. E nell’impugnare la misura di fatto ha svolto un’ampia contestazione sull’imputazione per corruzione sostenendo al massimo la sussistenza del traffico di influenze sanzionato dall’articolo 346 bis del Codice penale. La Cassazione risponde che tale reato sottintende che il pagamento del “prezzo” non è destinato direttamente all’agente pubblico, ma solo a retribuire l’opera di mediazione. Ci sono dei Pm che contano più di un ministro di Guido Salvini Il Dubbio, 23 giugno 2016 L’infinita querelle tra potere politico e magistratura non si è certo esaurita, come qualcuno pensava, con la quasi-scomparsa di Silvio Berlusconi dalla scena politica. Anzi si è in qualche modo inasprita. on appare più una contrapposizione temporanea tra la magistratura e un Presidente del Consiglio, sottoposto a più processi e ritenuto irrimediabilmente ostile, ma ha assunto la forma di uno scontro di principio e che coinvolge in modo quasi radicale la reciproca posizione nello scacchiere istituzionale, uno scontro giocato anche sul piano mediatico con la stampa come veicolo di influenza e anche terzo protagonista. Da mesi i mezzi di informazione ribollono di reciproci attacchi, interviste, comunicati dell’Anm quasi più visibili delle fisiologiche contrapposizioni tra governo e opposizione politica. Proviamo a mettere in fila, come se fossero gli indizi di un’indagine, qualcuno degli episodi salienti di questa quotidiana querelle, in forma non ideologica, senza dar ragione o i voti a nessuno ma cercando di capire il significato profondo del loro insieme. Piercamillo Davigo, il nuovo Presidente dell’Anm, un’associazione privata di magistrati, si ricordi, assimilabile ad un sindacato, all’indomani della sua elezione ha affermato, con toni da polemista francese indubbiamente brillanti, che l’intera classe politico-amministrativa, e di conseguenza quella imprenditoriale, è "presunta colpevole" di corruzione e di altri illeciti simili. Detto questo la guerra, giusta o ingiusta che sia, è dichiarata. Ovviamente gli scritti e gli interventi ai convegni del Presidente dell’Anm hanno toni meno drastici ma il messaggio che arriva ai cittadini è quello delle interviste ai grandi quotidiani, il veicolo principe della comunicazione e non le analisi più raffinate dei saggi su Micromega. Quello che pochi poi hanno notato è che chi ha fatto quelle affermazioni perentorie è un giudice e ai più alti livelli, da pochi giorni nominato Presidente di Sezione in Cassazione, e non, come invece trasmette il messaggio e come è percepito da chi lo ascolta, un Pubblico Ministero con specifiche funzioni di accusatore. Vi è da chiedersi come possa sentirsi, se giudicato in quel contesto, la Cassazione appunto, un esponente qualsiasi e anche ai minimi livelli delle categorie dei "presunti colpevoli". E se non possa essere più che legittima la sua sensazione di non godere di tutte le garanzie cui ha diritto un cittadino dinanzi alla Giustizia (non davanti all’accusa). Quanto all’intervista al Foglio del consigliere del Csm Piergiorgio Morosini il caso sembra essere stato chiuso anche se con imbarazzo. Ma ciò non esime dal rifletterci ormai non più a caldo. Lo sfortunato incontro con la giornalista sembra originato da una grossa ingenuità. Tale è l’abitudine dei magistrati ad avere a che fare con una stampa alleata e più che benevola che probabilmente il Consigliere del Csm non ha preso abbastanza in considerazione il grosso rischio di relazionarsi con una giornalista che da tempo sta conducendo una campagna critica nei confronti della magistratura e soprattutto nei confronti di Md, ritenuta una vera e propria "entità politica", e cioè la corrente cui appartiene lo stesso Morosini. Ma ciò non significa che il consigliere del Csm non abbia effettivamente espresso a ruota libera alla giornalista quello che pensava della sede istituzionale in cui è stato eletto dato che si può con un pò di astuzia mascherare un’intervista, fingendola una semplice chiacchierata, ma più difficilmente si può falsificare il contenuto e il senso generale di una simile conversazione. Nell’intervista involontaria, perché così è stato, a parte i giudizi sul referendum, sul governo Renzi e i suoi ministri "mestieranti", giudizio che un Consigliere del Csm dovrebbe evitare, si legge anche di più: nel Csm di cui egli fa parte "tutto è politica". E nelle nomine per i posti direttivi la sponsorizzazione di "politici, liberi professionisti, imprenditori" oltreché ovviamente delle correnti della magistratura prevarrebbe sui meriti, la capacità, il curriculum dei candidati e cioè sulle regole che lo stesso Csm prevede per le dirigenze. Uno scenario, tratteggiato dal Consigliere, tale da rendere i concorsi del tutto apparenti e ricorda piuttosto il tanto esecrato traffico di influenze. Nomi, nell’intervista, non ce ne sono, ma alla descrizione di situazioni simili se venisse da un amministratore di un qualsiasi Ente pubblico, magari in una casuale intercettazione, seguirebbe da parte del pm l’immediata apertura di un fascicolo. Invece non è successo nulla. Nessuno ha chiesto al componente di un così importante organo costituzionale a quali situazioni si riferisse, certamente situazioni non inventate né da lui né dall’intervistatrice perché del tutto identiche a ciò che dicono, ogni giorno e in ogni Palazzo di Giustizia, centinaia di magistrati semplici. Con la sola differenza che i soldati semplici lo dicono in privato ma non in pubblico per non inimicarsi i capi corrente cui prima o poi dovranno chiedere qualcosa. La querelle in merito all’intervento della magistratura come tale nella campagna del referendum è stata invece innescata da un’altra intervista, ma questa volta ragionata, rilasciata l’8 maggio dal Procuratore di Torino, Armando Spataro, alla sua giornalista di riferimento di Repubblica. L’argomentazione secondo cui le associazioni della magistratura dovrebbero partecipare alla campagna per il No è abbastanza bizantina: l’aumento dei poteri dell’esecutivo e la quasi scomparsa del Senato metterebbero in serio pericolo l’indipendenza del magistratura. Il suo assetto però non è toccato in alcun modo dalla riforma e quindi le grida di pericolo sembrano eccessive. Ma, lasciando da parte ogni giudizio di merito che qui non possibile approfondire, quelli che colpiscono, per usare gli strumenti interpretativi di Marshall MacLuhan, sono il mezzo e il messaggio. Al termine del dibattito suscitato dall’intervista, nel consesso dell’Anm una sola corrente, quella di Spataro appunto, ha insistito sul diritto/dovere di partecipare in quanto tale alla campagna referendaria. l’Anm nella sua maggioranza, con una delibera equilibristica di sole quattro righe, ha deciso di non scendere in campo consentendo comunque a chiunque dei suoi associati di intervenire nella campagna a titolo personale. Proprio qui sta però la distorsione perché l’informazione nel campo della giustizia funziona nel modo seguente. I giornali, e non solo quelli più vicini alla magistratura, concedono ampie pagine di interviste ai magistrati più noti, una dozzina, in genere i pm e alcuni capi delle correnti, spesso i due ruoli si sommano, che occupano sui quotidiani non molto meno spazio di quello di tutti i politici. Nessuno di costoro specifica, di norma, a che titolo parla sui più vari argomenti, se a titolo personale, se a titolo del suo ufficio, della sua corrente, dell’Anm, del Csm e così via. Basta quindi che un magistrato famoso parli in una intervista di un qualche argomento e quello che dice è recepito da chi legge come il giudizio di tutti i magistrati. Nessun giornalista, forse perché è troppo faticoso e non fa fare articoli rutilanti, si prende la briga di fare quello che una volta si chiamava giornalismo di inchiesta, di bussare cioè alla porta delle altre migliaia di magistrati, centinaia solo nei Tribunali di Milano o Roma, per sapere la loro opinione. Ha parola solo la nomenclatura e la distorsione prospettica dell’informazione è fatta e aiuta anche la nomenclatura dei magistrati a riprodursi. Io invece parlo solo a nome mio, e lo dico qui. Quello che è certo è che il voto di ottobre, anche per il momento in cui si colloca, è e sempre più sarà non solo un dibattito tecnico ma un referendum pro o contro il governo Renzi, più ancora delle recentissime amministrative e anche legato non alla riforma costituzionale ma a tutte le altre scelte che il Governo ha fatto. Prendere quindi pubblica posizione, ad esempio in un talk show, da parte anche di un singolo magistrato, con tutta la notorietà e influenza che alcuni di essi hanno, comporta una scelta politica in quanto tende ad incidere sulle scelte politiche dei cittadini. Certo in Germania e in molti altri Paesi europei nessun magistrato interverrebbe mai pubblicamente, per stile istituzionale, nella campagna per un referendum, anche meno importante. Anche dal dibattito che ha preceduto la nomina del nuovo Procuratore capo di Milano si traggono indizi nello stesso senso, quello che vede la magistratura come soggetto che orienta in senso politico le sue scelte. Non esprimo ovviamente alcun giudizio su chi è stato nominato, che conosco comunque come un Procuratore con ottime capacità e una solida formazione anche se a tratti discontinuo a causa delle indagini che segue, tante e tutte insieme. Quello di cui si discuteva nel corso di una procedura molto delicata, il Procuratore capo di Milano è molto più importante di un ministro e forse anche di una mezza dozzina di ministri che spesso vanno e vengono, quello che la stampa ha sempre sottolineato non era il dubbio in merito a chi, nella rosa dei candidati, fosse il più capace a organizzare un simile ufficio e avesse una preparazione specifica a gestire le persone e la programmazione del lavoro. Queste caratteristiche contavano poco o nulla. Lo ha ricordato su Panorama Cuno Tarfusser, un candidato e magistrato bravo organizzatore che, per ironia della sorte, il Csm si è anche scordato di sentire durante il procedimento di selezione. Il dibattito verteva essenzialmente non solo sul necessario livello di aggancio dei vari candidati con le correnti ma sulla linea "politica" che ciascuno avrebbe intrapreso. Per questo la supposta "prossimità" al governo di un candidato, Giovanni Melillo, impegnato in un incarico ministeriale, ne ha comportato l’eliminazione dalla corsa. Sarebbe stato come votare il candidato dell’avversario. 41 bis, sommergiamo di libri le carceri di Luigia De Biasi ilcapoluogo.it, 23 giugno 2016 Da ottobre 2014 chi è sottoposto al regime 41bis dell’ordinamento penitenziario non può più ricevere libri né qualsiasi altra forma di stampa. Tutta la lettura è sottoposta a censura. È vietato leggere, studiare, tenere più di due libri in cella. Se non acquistandoli a caro prezzo tramite il carcere. Quest’ulteriore censura si aggiunge a un lungo elenco di gravi restrizioni, anche oggetto d’indagine della Commissione Diritti Umani del Senato. In particolare, dall’indagine conoscitiva sul 41 bis di quest’anno, emerge un quadro raccapricciante sulle condizioni detentive nella sezione femminile speciale del carcere dell’Aquila. “Un carcere femminile peggiore di Guantánamo e di Alcatraz”, lo definì Giulio Petrilli, “dove le detenute sono sepolte vive e in condizioni d’isolamento totale” e per di più in una Regione ancora priva di un garante dei detenuti. “Lontane dai propri affetti e dai propri figli, le 7 donne rinchiuse nel carcere dell’Aquila, soffrono più degli uomini di questa condizione di carcere duro” denuncia l’avvocata Fabiana Gubitoso. Nel rapporto del Senato le donne rinchiuse alle Costarelle ci parlano di privazioni e afflizioni quotidiane del tutto gratuite ed esercitate al solo scopo di intimidazione e annichilimento, come la presenza continua di agenti durante le visite mediche, l’impedimento a svolgere attività creative, il limite al numero di libri, indumenti, foto ecc. La lettura poi è di importanza vitale nelle sezioni di isolamento totale, impedirla è un accanimento che va oltre il 41 bis. Come altro vogliamo chiamarla questa se non tortura? Diversi Magistrati di sorveglianza hanno accolto i reclami di prigionieri e prigioniere, tra cui la Lioce, contro questa circolare, in quanto anticostituzionale. La Cassazione invece, considerando le circolari ministeriali dei semplici provvedimenti amministrativi interni, non suscettibili di controllo di legittimità, l’ha di fatto legalizzata, rendendola così definitiva. “La lettura è una porta sul mondo”, ha detto Mattarella, che molti non attraversano pur potendo e che invece è sprangata a vita per chi è recluso in 41bis. “Impedire che terze persone vengano a conoscenza dell’istituto di assegnazione dei detenuti” e “agevolare le operazioni di perquisizione ordinaria” sono le assurde motivazioni accampate per questa tortura bianca, esemplari del grado di inciviltà e di imbarbarimento di questo sistema. Alla vigilia della giornata mondiale contro la tortura, Sabato 25 giugno a L’Aquila, h. 11 a Viale Gran Sasso, h. 14 sotto il carcere: manifestiamo contro la tortura! Per adesioni e info:mfpr.naz@gmail.com - femminismorivoluzionario.blogspot.it. Napoli: detenuto di Poggioreale si impicca in carcere, è in fin di vita all’ospedale di Chiara Cepollaro vesuviolive.it, 23 giugno 2016 Un 48enne, recluso nel carcere di Poggioreale ha tentato il suicidio. Il fatto è avvenuto nella giornata di ieri, durante la quale, poco prima delle 23, le guardie penitenziarie del padiglione Avellino, hanno dato l’allarme dopo la scena che si sono trovati di fronte: l’uomo aveva legato delle lenzuola per impiccarsi e all’arrivo degli agenti aveva già perso coscienza. Pertanto, il primo intervento ha riguardato il personale medico della struttura della Casa Circondariale, poi la corsa in ospedale, dopo aver allertato il 118. L’ospedale di riferimento è stato il Loreto Mare, al quale il paziente è arrivato in pieno codice rosso: immediatamente è seguito il ricovero nel reparto di rianimazione. In questo momento, il 48enne è sul filo del rasoio e lotta tra la vita e la morte poiché riporta una grave lesione al collo. Tale lesione è proprio la conseguenza del gesto estremo, il quale ha preceduto l’intervento delle guardie, ma non è dato sapere di quanto. Biella: violenza su un detenuto "mi hanno picchiato i compagni di cella" di Floriana Rullo La Repubblica, 23 giugno 2016 La denuncia di un recluso: "Mi hanno preso a schiaffi, calci e bastonate e minacciato di morte la mia famiglia". Schiaffi, calci e bastonate, e ancora minacce di morte e angherie. Perfino la pulizia della loro cella, il lavaggio dei loro vestiti, e l’acquisto del cibo con i suoi soldi. Tutto per insegnargli la dura vita del carcere. Sono alcuni dei fatti contestati a due detenuti nel carcere di Biella a cui è stata notificata la custodia cautelare in carcere (Gianluca Dercenno e Roberto Monterosso Roberto). Vittima un compagno di 44 anni che li ha denunciati. Secondo la vittima i due hanno esercitato una continua violenza fisica, sferrandogli pugni sulle braccia, schiaffi calci e bastonate in ogni parte del corpo, con l’intento di “insegnargli la vita del carcere”, provocandogli anche delle bruciature e comunque provocandogli lesioni giudicate guaribili in giorni 30 (oltre a quelle psicologiche), in una circostanza fra l’altro, lo hanno immobilizzato rasandogli i capelli a zero. Fra le vessazioni inflitte, in più occasioni i due indagati gli avrebbero compresso la mascella schiacciandola così da potergli aprire la bocca e sputargli dentro. Inoltre gli hanno sequestrato la corrispondenza prendendo gli indirizzi dei suoi familiari e minacciandoli di morte Le angherie sarebbero terminate quando la vittima si sarebbe allontanato dalla cella riuscendo a chiedere aiuto a personale della Casa Circondariale. Le indagini sono state coordinate dalla Procura della Repubblica di Biella con il sostituto Mariaserena Iozzo. Savona: assolto per incapacità di mente, resta in carcere perché alla Rems non c’è posto di Giovanni Ciolina La Stampa, 23 giugno 2016 Assolto per incapacità totale di mente è da sette giorni in un cella del carcere genovese di Marassi perché la residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza di Castiglione delle Stiviere (ex ospedale psichiatrico criminale) - indicata dal ministero per ospitarlo - è off limits: 210 ospiti a fronte di una capienza massima di 160. La procura di Savona, nonostante i solleciti a tutte le autorità competenti, non è ancora riuscita a trovare una collocazione idonea a Luigi Frumento, 53 anni, savonese, assolto al processo dall’accusa di parricidio, ma giudicato da ben due periti “socialmente pericoloso” e in grado di commettere un altro omicidio se non sottoposto a cure. Due le alternative per il sostituto procuratore Vincenzo Carusi: lasciare in carcere Frumento (“violando i suoi diritti umani”) o azzerare le misure di sicurezza concedendo la libertà vigilata “ma con il pericolo - dice il pm - di mettere in circolazione un uomo che i medici ritengono possa scatenare la sua violenza contro la sorella. Dopo aver ucciso con 15 coltellate il padre”. Luigi Frumento non è un paziente qualunque. “Non ha commesso una rapina, ha ucciso il padre” ripete il pm Carusi che dopo la lettura dell’assoluzione da parte del gip Fiorenza Giorgi, mercoledì 15 giugno, si è attivato per trovare una soluzione. Compito improbo, che riporta alla ribalta la vicenda della trasformazione degli ex ospedali giudiziari (Opg) - scattata a novembre scorso, voluta dal governo Monti e ratificata da Renzi - nelle cosiddette Rems. La regione Liguria non ha ancora una sua residenza per pazienti psichiatrici alle prese con problemi di giustizia e ha stipulato una convenzione con la Lombardia. Ma nella struttura mantovana di Castiglione delle Stiviere i posti sono esauriti. Che fare? Il pm savonese ha scritto alla regione Liguria, a quella lombarda, alle Asl di Savona e Mantova, al dipartimento amministrazione penitenziaria del Ministero, ai provveditori alle carceri di Milano e Torino. Insomma a tutte le autorità competenti a risolvere il caso. Protocollate le lettere sabato 18, fino a ieri sera nessuno si era ancora fatto vivo. Nel palazzo di giustizia savonese imbarazzo e rabbia sono palpabili. Anche perché la vicenda sembra senza soluzione e le sanzioni (anche economiche) incombono. Reggio Emilia: il lavoro dietro le sbarre per reinserire i detenuti di Jessica Barigazzi primapaginareggio.it, 23 giugno 2016 Sono due i progetti di lavoro che dalla fine del 2015 stanno coinvolgendo diversi detenuti della casa circondariale di via Settembrini, uno all’interno del carcere e uno all’esterno in circa tre ettari di terreno il cui utilizzo è stato concesso dal Comune di Reggio. Fosse un film, non potrebbe che intitolarsi “tre ettari di libertà”, e in fondo è proprio quello che sta avvenendo nel carcere cittadino, dove la cooperativa sociale L’Ovile, in collaborazione con l’amministrazione penitenziaria ha avviato due progetti di lavoro per i detenuti che si sviluppano all’interno di un fabbricato destinato a laboratorio di falegnameria, con l’attiva partecipazione dell’azienda Fratelli Veroni fu Angelo s.p.a di Correggio, e su tre ettari di terreno coltivati a frumento e ortaggi. Entrambi i progetti sono sostenuti dal contributo della Fondazione Bnc di Roma. Il laboratorio di falegnameria, ricavato da un magazzino in disuso e restaurato dagli stessi detenuti, è stato il luogo che ieri mattina ha ospitato relatori e giornalisti in una conferenza stampa per fare un bilancio dell’attività finora svolta. Il laboratorio, avviato nel dicembre scorso, ha già visto la conclusione della prima parte del lavoro per 15 detenuti, ai quali altri si sono sostituiti e ai quali si sono ora affiancati quelli impegnati nel nuovo progetto di agricoltura sociale promosso e gestito da L’Ovile, che si è avviato su tre ettari di terreno all’interno del perimetro del carcere. “Queste attività - ha sottolineato il presidente della cooperativa L’Ovile, Valerio Maramotti - rappresentano la naturale continuità di un impegno ventennale a fianco di carcerati ed ex carcerati, e in particolare a favore di quelli detenuti negli ex Opg, che pochi anni fa ci ha portati a creare anche un Centro per la Giustizia Riparativa come strumento di possibile riconciliazione, che va oltre l’esercizio della giustizia ordinaria, tra vittima e reo, grazie alla comprensione piena dell’effetto del reato e del senso della pena”. “Il lavoro che entra in carcere - ha continuato Maramotti - è anch’esso uno strumento che non facilita soltanto il futuro reinserimento sociale e occupazionale di chi sta scontando una pena, ma è prima di tutto il segno di un riscatto già iniziato, il ridare speranza e occasione d’impegno, abbattendo così anche i rischi di ricadute nel crimine”. Nel capannone concesso in comodato d’uso dall’amministrazione penitenziaria, i detenuti coinvolti svolgono lavori legati alle attività del salumificio Veroni. Proprio grazie alla disponibilità della storica azienda correggese e all’accordo con la cooperativa, qui vengono ripristinati tavoli e altre attrezzature in legno che l’azienda utilizza normalmente per ambientare ed allestire le vendite in store in tutta Italia. Il lavoro agricolo e quello di falegnameria coinvolgono oggi 12 detenuti: 6 nel laboratorio per 18-20 ore settimanali e 3 in regime di semilibertà per 40 ore settimanali sul terreno e al mercato di piazza Fontanesi con gli operatori de L’Ovile. Firenze: migranti, detenuti e rifugiati recitano Divina Commedia dal campanile di Giotto gonews.it, 23 giugno 2016 All’alba e al tramonto del 24 (Festa di San Giovanni, Patrono di Firenze) e del 25 giugno, il Campanile di Giotto di Firenze diventerà il palcoscenico di un originale percorso scenico e corale dedicato al tema del volo nella Divina Commedia. Migranti, detenuti, rifugiati e persone in situazioni di disagio reciteranno una selezione di terzine tratte dalla Divina Commedia, in cui Dante parla degli uccelli, del volo e degli angeli, dell’esperienza nel mondo e del coraggio dell’uomo che desidera superare i confini. Piume Dante|2021 legato con amore in un volume ciò che per l’universo si squaderna è una produzione dell’Associazione Culturale Culter realizzata col contributo del Comune di Firenze -Estate Fiorentina, Ente Cassa di Risparmio di Firenze, Fondazione Brunello Cucinelli, Mazzanti Piume e la collaborazione dell’Opera di Santa Maria del Fiore. Durante i due giorni - con repliche alle ore 5.30, 7.00, 19.00 e 20.30 - due compagnie di circa 40 persone ciascuna - composte da gente comune fra cui migranti, detenuti e individui in situazioni di disagio economico, sociale e psichico - offriranno al pubblico la visione di un “popolo” di uccelli che abitano il Campanile di Giotto. L’Ingresso è gratuito con prenotazione obbligatoria. Il pubblico, in piccoli gruppi, salirà i quattro piani interni del monumento, dove incontrerà da prima un popolo di uccelli simbolo dell’aspirazione della persona alla dimensione ultramondana che assume le forme materiche e meccaniche delle ali. Al terzo piano, si udiranno i versi di Dante, sono quelli dell’umanità dolente che attraversa la vita terrena e giunta sulla sommità del Campanile, desidera spiccare il volo, perché ciascuno, ugualmente ai migranti e ai rifugiati - che troviamo proprio in cima al monumento - è mosso dall’aspirazione a cercare un bene per la propria vita, e come afferma Papa Francesco: “La vostra esperienza di dolore e di speranza ci ricorda che siamo tutti stranieri e pellegrini su questa Terra, accolti da qualcuno con generosità e senza alcun merito”. La direzione artistica è di Culter e di Franco Palmieri con la coreografa e danzatrice Luisa Cortesi. Al progetto hanno collaborano anche alcune importanti realtà che si occupano di disagio e di inclusione sociale: Casa Circondariale di Prato, Complesso Albergo Popolare “Fioretta Mazzei”, Associazione Progetto Villa Lorenzi, Casa Elios (Caritas), Cooperativa sociale Il Cenacolo. I costumi e gli accessori in piume sono gentilmente offerti da Mazzanti Piume, storica bottega fiorentina che da tre generazioni mantiene viva una delle più raffinate e antiche tradizioni artigianali del territorio (info.mazzantipiume.it). "Abbiamo sostenuto questo progetto - dichiara il Direttore generale dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze Gabriele Gori - e altri che stiamo attuando in questo campo, perché lo riteniamo un segno di attenzione e di vicinanza verso persone che stanno soffrendo fortemente e che, mai come in questo momento, hanno bisogno di sentirsi parte di una comunità che li accoglie. Crediamo anche che il messaggio universale di Dante e il luogo magico, altrettanto universale, nel quale questa rappresentazione di svolge siano per tutti un invito al dialogo con popoli e culture diverse, come la millenaria storia di Firenze ci insegna”. “Il Comune di Firenze - ha dichiarato Tommaso Sacchi, curatore dell’Estate Fiorentina - è lieto di sostenere questa iniziativa forte e innovativa che non ha paura di far parlare e mettere al centro alcune persone normalmente neglette e lasciate ai margini. Si tratta di un evento che unisce arte, religione e cultura e che, attraverso il linguaggio universale del Sommo Poeta, punta a toccare i cuori e anche a far conoscere meglio i drammi di chi vive in condizioni di disagio”. Con questo progetto - spiega l’associazione Culter - vogliamo offrire un’opportunità di educazione e un’esperienza di inclusione attraverso lo strumento offerto dalla poesia dantesca, i partecipanti possono fare un’esperienza che finisce per accomunarli al di là delle appartenenze sociali, religiose, professionali. Roma: a Rebibbia festa musica. Orchestraccia “meglio di suonare in qualsiasi piazza” Il Messaggero, 23 giugno 2016 Musicisti e detenuti insieme per celebrare la Festa internazionale della musica. Il 21 giugno, nel carcere romano di Rebibbia, in occasione dell’evento conclusivo del laboratorio di musicoterapia in carcere (promosso dall’Associazione A Roma, Insieme - Leda Colombini, con la direzione del penitenziario e coordinato dalla musicoterapista Silvia Riccio), c’è stato un vero e proprio spettacolo, con improvvisazioni e musiche ideate dai detenuti che hanno partecipato al laboratorio nel corso dell’anno e che hanno suonato insieme a musicisti professionisti, spaziando dal jazz alla classica, dal fado portoghese agli stornelli romaneschi. Fra gli artisti che si sono esibiti c’era anche il celebre gruppo romano dell’Orchestraccia, il cui cantante Marco Conidi ha voluto ricordare sul suo profilo Facebook le emozioni di quella giornata: “Chi ci conosce sa quanto siamo onorati di aver ricevuto un invito del genere - scrive Conidi - E che nessuna piazza e nessun palazzetto d’Italia avrebbero potuto nemmeno competere”. Sul palco sono saliti anche i chitarristi Fabio Caricchia e Stefano Doneghà, la cantante Isabella Mangani, l’arpista Chiara Frontini, il chitarrista e bassista Valerio Mileto, il pianista Francesco Valori e il percussionista Massimo Ventricini. “Musica dentro”, che si tiene a Regina Coeli dal 2014, spiegano gli organizzatori, è un laboratorio di musicoterapia che permette ai detenuti di esprimersi e comunicare con il gruppo attraverso la musica, l’improvvisazione musicale, l’uso della voce e degli strumenti e il movimento. Dal 1994 l’associazione “A Roma Insieme - Leda Colombini”, presieduta da Gioia Cesarini Passarelli, svolge diversi progetti nell’area trattamentale dei penitenziari di Roma. Tra questi, i laboratori di musicoterapia ed arte-terapia avviati nove anni fa nella Sezione Nido di Rebibbia per le detenute e i loro figli da 0 a 3 anni, e il laboratorio di musicoterapia avviato due anni fa con i detenuti del carcere di Regina Coeli. Lo scopo è quello di favorire il reinserimento nella società a fine pena di chi ha sbagliato, ma anche di sensibilizzare opinione pubblica e istituzioni sulla condizione carceraria, in particolare quella delle detenute madri con figli piccolissimi, per trovare soluzioni alternative. La svolta civile della fiction tv: ora racconta gli eroi dimenticati di Fulvia Caprara La Stampa, 23 giugno 2016 Annunciata una serie di film su persone comuni cadute sul fronte della legalità. Andrà su Canale 5, coinvolge registi di spicco, consulenti i familiari delle vittime. Eroi lontani dai riflettori, combattenti della vita quotidiana, capaci di sfidare violenza, ricatti, intimidazioni e poi tornare a casa, per abbracciare i figli, per coltivare i sogni. Persone normali, dice il produttore Pietro Valsecchi, “che hanno avuto il coraggio di fare fino in fondo il loro dovere e hanno pagato con il sangue gli ideali di verità e giustizia”. Si chiamano Libero Grassi, Renata Fonte, Mario Francese, Emanuela Loi, sono scomparsi tra la fine degli Anni 70 e 90, in un periodo cruciale della storia d’Italia, denso di mutamenti e trame oscure, trasformazioni sociali e terribili stragi: “Paolo VI - ricorda Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio - disse di loro: “Non hanno sacrificato per la vita le ragioni della vita”“. Idealisti, temerari, oppure semplicemente Liberi sognatori, come il titolo della serie che li celebra, quattro film prodotti da Tao Due (durata 100 minuti) da realizzare in autunno e mandare in onda, su Canale 5, nella primavera 2017: “Il ciclo - dichiara Alessandro Salem, direttore generale contenuti Mediaset - rappresenta il ritorno a un genere che era prerogativa di Canale 5 e che solo per motivi economici avevamo dovuto abbandonare. Le fiction su pezzi di storia del Paese fanno parte del nostro Dna, rafforzano il legame di identificazione del pubblico”. La storia di Libero Grassi, imprenditore siciliano ucciso da Cosa Nostra nel 1991 perché si era opposto al racket delle estorsioni, sarà sceneggiata e diretta da Graziano Diana, con Giorgio Tirabassi nel ruolo del protagonista. Di lui e di sua moglie, scomparsa due settimane fa, parla la figlia Alice ricordando la battaglia di “Addio Pizzo”, il movimento nato a Palermo nel 2004 che ha coinvolto le nuove generazioni segnando la differenza con il passato. La lotta di Renata Fonte, assessore comunale uccisa nel 1984 da chi temeva le conseguenze del suo impegno strenuo contro la speculazione edilizia nel Salento, sarà ricostruita nel film di Renato De Maria, sceneggiato da Monica Zapelli e interpretato da Giulia Michelini: “Mia madre - racconta la figlia Viviana Matrangola - è stata freddata sotto casa, con tre colpi di pistola, mentre tornava da noi, che allora eravamo bambini”. Le armi, per fortuna, non fermano le idee, e quell’area per cui Renata Fonte si batteva, oggi si chiama Parco Naturale di Porto Selvaggio, un luogo che con la sua bellezza riesce a curare perfino il dolore di un’orfana: “C’è una magia ineffabile, il profumo dei pini, il rumore del mare...”. Il cronista del Giornale di Sicilia Mario Francese sarà impersonato da Marco Bocci nel film di Michele Alhaique, sceneggiato da Claudio Fava: “Mio padre - dice il figlio Guido - ha scritto di Provenzano e di Riina mentre tutti gli altri tacevano. A Palermo per vent’anni dopo la sua morte nessuno ha pensato a celebrarlo”. Quando saltò in aria, insieme al giudice Paolo Borsellino, in via D’Amelio, il 19 luglio 1992, Emanuela Loi aveva 24 anni: “È stata la prima poliziotta caduta nell’adempimento del suo dovere - spiega Graziano Diana, sceneggiatore del film con la regia di Enzo Monteleone -. Era una bella ragazza, nata a Sestu, in Sardegna, voleva sposarsi...”. Non è ancora stata scelta l’attrice che la farà rivivere sul piccolo schermo, mentre si immagina che la serie avrà molto probabilmente un seguito, con altre vittime, altri drammi, altre speranze: “Faremo di tutto - promette Tirabassi - per onorare la memoria di queste persone straordinarie”. Sull’Antologia di Spoon River, Libero Grassi aveva sottolineato una frase: “Il silenzio avvelena l’anima”. Quattro film fanno rumore, ed è già qualcosa. Con il Premio Napoli il camorrista diventa poeta in endecasillabi di Mirella Armiero Corriere del Mezzogiorno, 23 giugno 2016 Sono Carlo Ginzburg, Igort, Sergio Pinzi, Armando Punzo e il duo Rezza-Mastrella i vincitori del Premio Napoli 2016. La cinquina è stata annunciata ieri nella sede della Fondazione, al Palazzo Reale. Ma presto si cambia: il Premio troverà una nuova casa a Santa Maria La Nova, in uno spazio di 140 metri quadrati, di proprietà della Città Metropolitana, e userà la Sala Consiliare dell’ex Provincia per le occasioni ufficiali. Un trasloco imposto, dal momento che il Palazzo Reale, come la Reggia di Caserta, non potrà più ospitare istituzioni esterne. Ma come sta in salute il più antico premio napoletano? Un po’ acciaccato, ma tira avanti con orgoglio. I soldi sono pochi, si sa, e il presidente Gabriele Frasca fa il suo lavoro a titolo gratuito. I circa 150 mila euro che la Fondazione riceve da Comune, Regione e Camera di Commercio sono interamente dedicati alle attività. Anche quest’anno ci sarà una lunga programmazione e nei mesi di ottobre e novembre i vincitori saranno protagonisti di una serie di incontri tra scuole, piazze e carceri della città. “Quest’ultimo”, spiega Frasca, “è un settore che ci sta particolarmente a cuore”. Non a caso martedì 28 i detenuti del carcere di Secondigliano si esibiranno in un reading a conclusione del laboratorio di poesia che si è svolto in prigione. A condurlo sono stati giovani dottorandi di ricerca. “I risultati”, prosegue Frasca, “sono stati eccezionali. I detenuti, di cui molti ex camorristi, hanno composto in endecasillabi”. I versi saranno pubblicati in un libro a ottobre prossimo. E martedì a Secondigliano ci sarà anche il programma di Radio 3 “Zazà”, che nell’occasione sarà registrato con l’intervento dei detenuti. La trasmissione andrà in onda il 3 luglio alle 15. La scelta dei vincitori? Com’è avvenuta? “Quello che mi ha maggiormente colpito”, aggiunge il presidente, “è che durante la discussione è emersa forse la caratteristica fondamentale che accomuna uno storico come Ginzburg a uno psicoanalista come Finzi, e un maestro di fumetti come Igort ad autori teatrali, pur così dissimili fra loro, del calibro di Punzo e Rezza & Mastella. E questa caratteristica, neanche a dirlo, è la capacità di narrare, attraverso la materia greve e irresistibile del reale. A compimento di un anno che la Fondazione ha vissuto interamente nell’impegno di portare la cultura nei luoghi di detenzione, che rappresentano il reale della malavita organizzata non l’immaginario delle fiction, il Premio Napoli per la lingua e la cultura italiana non poteva essere attribuito a nomi più adeguati e rappresentativi”, Intanto ieri, alla conferenza stampa alla quale hanno partecipato anche Gennaro Cadilo, Stefano de Matteis, Carmelo Colangelo e Piero Sorrentino, sono state illustrate iniziative collaterali, come “Il (buon)gusto dell’innovazione”, che tira dentro il Premio anche gli imprenditori, forse una delle novità più significative dell’edizione 2016. Il progetto ruoterà intorno a due aree cittadine ritenute particolarmente rappresentative sia dal punto di vista della cultura gastronomica sia da quello artistico e imprenditoriale. La prima area, tra San Giovanni a Carbonara, Porta Capuana e Piazza Garibaldi, è una zona in cui è in atto un forte processo di rigenerazione urbana, la seconda conserva un impianto tradizionale ma ha anche un tessuto urbano multietnico, con la consistente presenza dei cingalesi. Attraverso il cibo la Fondazione Premio Napoli vuole rintracciare un filo unitario che metta in relazioni culture antiche e nuove, imprenditoria e arte. A Montesanto, in particolare, verrà sviluppato un percorso di realtà aumentata basato su sensori di geo-localizzazione che, attraverso smartphone, permetteranno di accedere a chiunque si trovi in quei luoghi a video, interviste, suoni site specifici. Insomma, ce n’è per tutti 1 gusti, speriamo però che il menu più ricco resti sempre quello dei libri. “Inserire nel lavoro i rifugiati in Italia”. Accordo Confindustria-Viminale di Lorenzo Salvia Corriere della Sera, 23 giugno 2016 Non è il solito protocollo. L’intesa firmata ieri da Confindustria e dal ministero dell’Interno tocca uno dei temi più delicati dei nostri giorni: la possibilità di avviare al lavoro i rifugiati accolti in Italia, circa 90 mila secondo gli ultimi dati. Il percorso è graduale, prevede “iniziative comuni per l’inserimento”, cominciando dai “tirocini presso le imprese associate”. Ma è un primo passo. Soprattutto è il primo caso del genere al mondo, dice Confindustria. “L’integrazione - dice il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia - è una grande sfida. E, se non riusciamo, la conflittualità e i costi saranno un problema per il futuro”. Il presidente degli industriali sottolinea di essere a favore di una “società aperta, inclusiva” per un “capitalismo moderno, non selvaggio”. E raccoglie l’applauso del ministro dell’Interno, Angelino Alfano: “Confindustria ha avuto un approccio molto coraggioso. Avrebbe potuto tenersi alla larga da un argomento così spinoso. E invece noi abbiamo la responsabilità di piantare il seme dell’integrazione per raccogliere in futuro il frutto della pace”. Non a caso Confindustria sostiene il Migration compact, la proposta del governo italiano che prevede un aiuto economico ai Paesi che controllano i flussi e reprimono il traffico di migranti. Un piano da finanziare con bond europei, che però ha incontrato la resistenza di diversi Stati membri. L’associazione degli industriali chiede di “riattivare i flussi migratori, incoraggiando gli arrivi di persone qualificate e arginando l’immigrazione irregolare”. A sostegno di questa posizione proprio ieri ha presentato un rapporto del suo Centro studi. Un documento che non solo fotografa il contributo degli immigrati all’economia italiana: 120 miliardi di euro l’anno scorso, l’8,7% del prodotto interno lordo contro il 2,3% del 1998. Ma che sottolinea come, senza il contributo degli stranieri, il Pil italiano “sarebbe cresciuto meno negli anni di espansione e caduto di più durante la crisi”. Secondo il Centro studi Confindustria gli immigrati “non sottraggono il lavoro agli italiani” perché in media sono “poco istruiti e tendono a svolgere lavori poco appetibili”. Spesso occupando quelle caselle che le nostre imprese, nonostante tutto, faticano a riempire. E hanno anche un impatto favorevole sui conti pubblici, con un saldo positivo di 12 miliardi di euro secondo i dati 2009, gli ultimi disponibili. Perché è vero che in media uno straniero contribuisce meno di un italiano alle entrate pubbliche, fra imposte, tasse e contributi. Ma è anche vero che pesa di meno sulla spesa pubblica. Unica eccezione, non da poco, il costo dell’emergenza umanitaria. Tra soccorso in mare e accoglienza, l’impegno è passato dagli 828 milioni di euro del 2011 ai 2,6 miliardi del 2015. Per l’anno in corso la stima è di 3,3 miliardi. La vera emergenza è il Migration compact. Nuova truffa al Cara: i badge fasulli di Alfredo Marsala Il Manifesto, 23 giugno 2016 L’inchiesta segue a quelle di Mafia Capitale: rimborsi milionari per immigrati inesistenti. Nel filone precedente sono risultati coinvolti il sottosegretario Castiglione (Ncd) e Luca Odevaine. Non bastavano gli scandali per il mega appalto da 100 milioni di euro finito nel dossier Mafia Capitale e quello per la parentopoli con assunzioni del personale e induzione alla corruzione per l’offerta di posti di lavoro come ricompensa per cambi di casacca al consiglio comunale di Mineo, filone che ha già portato all’avvio di un processo. Ora sul Cara di Mineo, il centro più grande d’Europa che nei piani del governo Renzi dovrebbe diventare addirittura un hotspot aprendo le porte a 7 mila migranti, si è abbattuta una nuova inchiesta giudiziaria. Secondo la Procura di Caltagirone, che da mesi lavora su più tronconi d’indagine con montagne di faldoni e decine di informative di polizia e carabinieri sulle scrivanie del procuratore capo Giuseppe Verzera e dei suoi pm, i gestori del centro di accoglienza e del coop avrebbero intascato rimborsi dallo Stato per l’accoglienza di migranti fantasma. La “truffa dei badge” sarebbe cominciata nel 2012 e avrebbe garantito quattro anni di incassi non dovuti. Gli inquirenti quantificano il raggiro in almeno un milione di euro. Ma è solo una stima, probabile, fanno intendere in Procura, che le cifre siano maggiori. I magistrati hanno notificato sei avvisi di garanzia a funzionari e impiegati del Cara, indagati a vario titolo per i reati di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici e per truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ai danni dello Stato e dell’Unione. Europea. Nel registro degli indagati sono stati iscritti Sebastiano Maccarrone, direttore del Cara; Salvo Calì, presidente Cda Sisifo, consorzio di cooperative capofila dell’Ati fino a ottobre del 2014; Giovanni Ferrera, direttore generale del Consorzio “Calatino Terra d’accoglienza”; Roberto Roccuzzo, consigliere delegato Sisifo; Cosimo Zurlo, amministratore della “Casa della solidarietà”, consorzio coop dell’Ati fino da ottobre 2014 a oggi e Andromaca Varasano, contabile del nuovo Cara Mineo. Gli agenti della squadra Mobile della questura di Catania e del commissariato di Caltagirone hanno compiuto perquisizioni nel capoluogo etneo e nei comuni di Giarre, Riposto, Mineo, a Palermo, Roma, Ragusa e Matera. Sono quattro le Procure che ormai da almeno un anno stanno raccogliendo elementi sul Cara, sotto profili differenti: Roma, Palermo, Catania e Caltagirone. Distretti che si scambiano informazioni e collaborano, partendo dall’inchiesta madre, quella sul maxi-appalto per la gestione triennale dei servizi del centro, che fu ritenuta illegittima dall’Anac di Raffaele Cantone. Nel filone catanese sarebbe coinvolto, tra gli altri, il sottosegretario alle politiche agricole Giuseppe Castiglione (Ncd), accusato di turbativa d’asta e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente insieme con Luca Odevaine, uomo chiave dell’indagine romana. Il sistema messo in atto nella presunta truffa sui rimborsi, secondo gli inquirenti, era semplice: ai migranti condotti al Cara viene consegnato un badge che dà diritto ad usufruire dei servizi di mensa, dell’emporio e dell’ambulatorio. Il tesserino serve anche per entrare e uscire dal centro. Quando non viene utilizzato per tre giorni di fila, il badge va in allarme e parte una segnalazione che indica l’assenza del migrante dal centro. Trascorsi altri due giorni di inattività, il badge viene automaticamente disattivato. Per i primi tre giorni di “assenza” i gestori hanno diritto comunque a richiedere alla Prefettura i 35 euro di diaria (elargiti per ogni giorno di permanenza), trascorse 72 ore s’interrompe la corresponsione del contributo. Ed è proprio qui che si anniderebbe la truffa. Per gli inquirenti le assenze che vengono automaticamente registrate dal sistema computerizzato del Cara non sarebbero state segnalate alla Prefettura che, dunque, per quattro anni avrebbe continuato a pagare diarie non dovute per migliaia di migranti fantasma. Inoltre, il software di gestione degli ingressi non sarebbe sottoposto a controlli “esterni” e sarebbe modificabile dagli utenti. Gli investigatori però sospettano dell’altro: l’esistenza di un mercato parallelo dei badge. Tesserini magnetici di migranti fuggiti finiti nelle mani di un’organizzazione di trafficanti che agirebbe all’interno del centro. Alcuni mesi fa un’inchiesta della Dda di Palermo ha svelato che persone vicine ai trafficanti libici sarebbero riuscite a fare entrare nel Cara di Mineo centinaia di cellule, sotto spoglia di migranti, con lo scopo di pianificare le ulteriori tappe dei viaggi verso il Nord Europa. Profughi. I figli di Idomeni di Paolo Martino (Osservatorio Balcani e Caucaso) Il Manifesto, 23 giugno 2016 Di fronte ad un fatto nuovo: la richiesta esplicita di accesso in Europa non più da canali clandestini. Lo sgombero del campo di Idomeni in Grecia, la condizione dei rifugiati, il destino del popolo siriano e la balbuzie degli stati europei. Iniziare una rivoluzione in Siria per venire a perderne un’altra in Europa: questo sembra il destino di chi è rimasto per mesi bloccato a Idomeni. La protesta dei migranti che ha attratto l’attenzione del mondo su uno sperduto villaggio greco di collina, è finita. Ma davanti a quel reticolato tra Grecia e Macedonia ha trovato continuità, come il secondo atto di una tragedia epica, il più potente gesto sovversivo, la più grande sconfitta collettiva e la più nobile affermazione di umanità del nostro secolo: il tentativo del popolo siriano di cambiare il proprio destino. Gli undicimila uomini e donne che da Idomeni hanno atteso pazienti il corso avverso della storia, mettono la coscienza degli europei di fronte a un fatto nuovo: la richiesta esplicita di accesso in Europa, la fine del ricorso ai canali clandestini, il riconoscimento dell’esistenza di una condizione di fatto. Da Idomeni non sono arrivate richieste di aiuto materiale o di accoglienza, né di legittimazione delle proprie intenzioni attraverso la formalità del diritto. Chi è rimasto a Idomeni ha lanciato un appello appendendosi alla forza di un dovere storico, a una causa umana, a una continuità con la vita per come essa più naturalmente si manifesta: il cammino delle generazioni verso una condizione migliore. L’Europa, attendista e balbuziente, ha temporeggiato senza convinzioni, perché l’essere umano straccione e tenace che per settimane è rimasto seduto sulle traversine di una dimenticata stazione di frontiera, con le unghie sporche di terra, la voce stentorea e i bambini che gli giocano intorno, l’ha trascinata fatalmente su un piano dialettico, in cui essa non sa muoversi: per questo il progressivo irrigidimento, la paventata fine di Schengen, il ripristino dei confini, le guerre diplomatiche, le polizie schierate e, infine, lo sgombero. Chi entra in Europa deve continuare a farlo clandestinamente, questo vuole dirci Idomeni. I trafficanti, figli illegittimi della stessa grande madre dei migranti, hanno iniziato da tempo a fantasticare su nuove rotte: Albania e Grecia, Montenegro e Serbia. Fiumi, giungle, pestaggi, nottate al chiaro di luna, eroiche traversate, corpi abbandonati alla corrente e approdi insperati saranno la nuova narrativa dell’Europa del domani, dei nostri vicini di casa. Ma intanto Idomeni, prologo di una nuova fuga di massa, ha polarizzato sui suoi binari il più recondito e vitale spunto dell’uomo quando sottoposto a immani difficoltà: la presa di coscienza. Quanto di più temono le istituzioni europee sta avvenendo a causa della loro stessa rigidità: se il più autentico messaggio politico, la vera richiesta di cambiamento, l’unica visione di un futuro diverso dell’Europa arriva dal di fuori dei suoi confini, l’Europa stessa perde legittimità interna, e alza muri per proteggere le sue membra. L’accampamento di Idomeni è ormai un ricordo, la massa umana che impuzzolentiva un verde tratto di pianura è stata spazzata via, come nell’immaginario collettivo è stata spazzata via la rivoluzione siriana, archiviata a guerra di interessi oscuri, cieca fame fratricida, insulto al patrimonio mondiale. Ma cosa rende tale una rivoluzione? L’abbattimento del potere formale - un dittatore, un regime, una rete metallica - o la generazione di coscienza nuova che permea il mondo, gli umori e le idee dei figli dei figli? I lupi solitari di estrema destra hanno fatto più vittime degli estremisti islamici di Marco Tonelli La Stampa, 23 giugno 2016 Lo dice uno studio del think tank britannico Royal United Service Institute. I terroristi neonazisti hanno fatto più vittime degli estremisti islamici. I lupi solitari di estrema destra sono i più letali d’Europa. Lo dice uno studio del think tank britannico Royal United Services Institute basato sull’analisi dei casi di attentati e sparatorie messe in atto da singoli individui dal 2000 al 2014. Un triste primato che supera i “risultati” ottenuti dagli estremisti mossi dall’ideologia islamista. Sono 94 le vittime, e 240 i feriti. È questa la striscia di sangue messa in atto in Europa dai terroristi neonazisti e fascisti. Al contrario, le stragi compiute per motivi religiosi hanno totalizzato 16 morti e 65 feriti. Secondo un altro studio pubblicato nel marzo scorso, i terroristi solitari hanno agito in 30 paesi europei: 98 gli attacchi sventati, 72 quelli riusciti. Nel periodo che va dal 2000 al 2015, la Gran Bretagna ha il primato assoluto: 38 episodi, contro gli 11 della Francia e i 5 della Germania e della Svezia. L’attenzione delle forze di sicurezza è rivolta contro gli islamisti, mentre i terroristi di estrema destra sono meno controllati. Secondo lo studio, il 40% di loro sono stati arrestati per caso: o perché implicati in un’altra indagine o per aver fatto esplodere un ordigno per errore. L’88% degli attentati di matrice islamica invece, sono stati sventati grazie al lavoro dell’intelligence. Gli estremisti di destra non parlano con nessuno. Nascondono le loro intenzioni proprio perché più isolati e solitari degli islamisti. Il 45% di loro ha parlato con amici e parenti dei propri propositi, contro il 18% dei neonazisti o fascisti. Senza dimenticare che molti degli estremisti di destra soffre di problemi mentali, o comunque vive in isolamento rispetto al resto della società. Il più celebre e prolifico dei solitari di estrema destra è il norvegese Anders Breivik che il 22 luglio del 2011 ha messo in atto due attentati terroristici coordinati per un totale di 77 vittime. In Gran Bretagna invece, aveva creato grande scalpore l’attentato messo in atto nel 2013 da Pavlo Lapshyn, un suprematista bianco di origine ucraina. Il 25enne ha prima accoltellato l’Imam di Birmingham, l’82enne Mohammed Saleh, poi ha nascosto un ordigno nella moschea con l’intenzione di uccidere i fedeli che si sarebbero recati lì per la preghiera del venerdì. Fortunatamente l’ordigno è esploso un’ora prima del loro arrivo. Usa, rivolta al Congresso: sit-in dei democratici per una legge sul controllo delle armi di Federico Rampini La Repubblica, 23 giugno 2016 Sit-in a oltranza dei democratici per protestare contro la mancata adozione di norme più restrittive sulla vendita. Una forma di protesta inusuale negli Stati Uniti. “Scene di un eccezionale pandemonio alla Camera”. La definizione è del New York Times, descrive un caos al quale il Congresso degli Stati Uniti non è abituato. Dopo i tentativi, falliti nei giorni scorsi, di far passare leggi più restrittive sulle armi come risposta alla strage di Orlando, i deputati democratici sono passati a forme di lotta più radicali. Un sit-in, un’occupazione dell’aula della Camera. Una forma di protesta che in altre nazioni forse è meno inusuale, ma per il Campidoglio degli Stati Uniti è molto rara. Da ieri sera dunque i lavori parlamentari sono bloccati, in ostaggio alla minoranza democratica che si ribella agli ordini dello Speaker of the House (presidente della Camera), il repubblicano Paul Ryan. “Niente legge, niente pausa” gridano i deputati. Il loro obiettivo: ottenere che la Camera metta all’ordine del giorno la votazione di norme più restrittive sulle vendite di armi, entro la data del 4 luglio: che è la festa nazionale di Independence Day, ma anche l’inizio delle vacanze estive per il Congresso. Due giorni prima era stato il Senato a provarci, senza successo. Diversi senatori democratici si erano attivati per presentare progetti di riforma, e anche qualche repubblicano. Il Senato ha votato quattro di questi disegni di legge, bocciandoli tutti. Anche quelli che teoricamente potevano avere la maggioranza repubblicana dalla loro parte. In due delle proposte, si trattava di bloccare la vendita di armi a coloro che già figurano nella “no-fly list” o in altri data-base dell’antiterrorismo. La “no-fly list” è un elenco di sospetti terroristi, ai quali è vietato l’imbarco su un aereo. Oggi figurare su quell’elenco di individui pericolosi non impedisce affatto di entrare in un’armeria e comprarsi un arsenale. La versione repubblicana del disegno di legge era più blanda: per i presunti terroristi che figurano sulla “no-fly list” prevedeva un periodo di attesa di 72 ore prima di comprare un’arma, 72 ore per consentire alla magistratura di fare ulteriori controlli. Neppure questa è passata. Le altre proposte di legge avrebbero introdotto dei controlli automatici da parte degli armaioli, sui precedenti penali o di malattie psichiatriche degli acquirenti. Tutte bocciate. Ora ci riprovano i democratici della Camera, ma con forme di lotta più radicali e anche molto più appariscenti. Forse falliranno anche loro, ma almeno avranno imposto il tema all’attenzione dell’opinione pubblica, in omaggio ai 49 morti del Pulse Club. “Europa, non darci in pasto a Erdogan” di Mariano Giustino Il Foglio, 23 giugno 2016 Parla al Foglio Can Dündar, direttore del giornale turco che ripubblicò le vignette di Charlie su Maometto, finito in carcere per uno scoop sui legami tra Turchia e islamisti: “Ankara esporta repressione. L’Ue si piega”. “Oggi ho iniziato la mia giornata al Palazzo di giustizia, ho passato lì mezza giornata a parlare col procuratore. È una cosa che accade spesso. Quando ero in tribunale ho appreso che due nostri colleghi stavano per essere arrestati. In condizioni normali sarei lì a difenderli”. A parlare con il Foglio è Can Dündar, direttore del più antico quotidiano tuttora in circolazione nel paese, Cumhuriyet (“La Repubblica”), laico, di centrosinistra. Poco dopo l’intervista, i colleghi di cui si vociferava in tribunale sono stati effettivamente arrestati. La sede di Cumhuriyet è situata nel centralissimo quartiere di Sisli, a poca distanza da piazza Taksim, protetta come un fortino, con alti cancelli e filo spinato e le guardie col mitra a protezione di uno dei pochi quotidiani rimasti non allineati su posizioni filogovernative. Il direttore Dündar e un suo collega, il capo redattore di Erdem Gül, sono ancora vittime di insulti e minacce. Motivo? Il loro giornale ha avuto l’ardire di ripubblicare alcune delle vignette su Maometto che ispirarono l’eccidio islamista nella redazione di Charlie Hebdo, il 7 gennaio 2015. Non solo, Dündar e Gül sono stati condannati in primo grado a cinque anni e 10 mesi di carcere perché accusati di aver pubblicato nel 2013 informazioni coperte da segreto di stato riguardanti il passaggio di Tir carichi di armi dei servizi segreti turchi attraverso il confine siriano. Sono stati prosciolti tuttavia dall’accusa di spionaggio e di far parte di una organizzazione terroristica per la quale avevano trascorso 92 giorni in carcere. Rilasciati a marzo, a seguito di una sentenza della Corte costituzionale, sono ora in attesa dell’appello. Dündar vive sotto scorta: “Chiaramente per un giornalista la vita così diventa difficile - dice al Foglio - Non sei a tuo agio quando ti muovi con sei guardie del corpo che ti accompagnano in tutti i tuoi spostamenti. Immagina di andare a intervistare qualcuno e che ci vai circondato da guardie del corpo come un politico”. Cosa è cambiato a Cumhuriyet dopo la pubblicazione della vostra inchiesta? “Tutto è cambiato. Ci hanno messo in prigione, abbiamo passato intere giornate in tribunale e mi hanno addirittura sparato contro colpi di pistola, al Palazzo di giustizia. Volevano ammazzarmi. Per quanto riguarda il nostro giornale, siamo molto più in pericolo di prima ma siamo anche molto più famosi, per questo motivo un importante quotidiano italiano è qui per farmi un’intervista”. E ride. Viene quasi da ringraziare il presidente Erdogan: “Certo! E infatti io l’ho ringraziato per aver contribuito alla mia fama. In prigione, e noi eravamo in isolamento, la vita era dura. Non potevamo utilizzare computer, scrivevamo a mano. Ma in galera ho scritto un libro, si chiama ‘Il prigioniero’. Diciamo che è stato anche un periodo di tempo produttivo che ho utilizzato come vacanza per scrivere, mettiamola così”. Chiediamo lumi sullo scoop incriminato: “Si tratta di un documento giornalistico importante che dimostra come il governo turco abbia avuto relazioni con gli islamisti radicali in Siria e come abbia inviato illegalmente armi in quel paese attraverso i servizi segreti. Si è trattato di una sorta di crimine internazionale. Abbiamo quindi pensato di mostrare tutto questo alla popolazione turca, avvertendola anche di un possibile rischio di una guerra tra la Siria e la Turchia”. E poi della solidarietà espressa a Charlie Hebdo: “Non solo in Turchia ma anche in tutto il mondo islamico, Cumhuriyet è l’unico giornale che ha avuto il coraggio di pubblicare quelle vignette. In seguito alla pubblicazione abbiamo ricevuto minacce da islamisti radicali, questo edificio è stato circondato dalla polizia e la strada bloccata dalle forze di sicurezza per impedire possibili attacchi. Inoltre due nostri colleghi sono stati condannati perché accanto alla loro firma, nei loro editoriali, hanno ripubblicato la vignetta con Maometto. Le altre riviste di satira in Turchia non hanno ripubblicato le vignette di Charlie Hebdo, purtroppo non hanno mostrato la stessa solidarietà”. La stampa europea non è stata molto più coraggiosa, per usare un eufemismo. Erdogan intanto ha persino querelato un comico tedesco, Jan Böhmermann, per aver recitato una poesia satirica sul presidente turco: “Personalmente credo che voglia esportare la sua tirannia in Europa e che sfortunatamente l’Ue appare pronta a subirla. La forza di Erdogan risiede nella sua capacità di ricatto riguardo alla questione dei migranti divenuti suoi ostaggi, utilizzati per portare avanti il suo cinico disegno. Il fatto che l’Europa si stia piegando a questi diktat, per noi democratici turchi, è qualcosa di tragico”. Lei dal carcere ha rivolto un appello ai leader europei, affinché non voltassero le spalle ai democratici locali: “Ci ha risposto soltanto il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi. Ha promesso il suo impegno, e di questo lo ringraziamo”. Nel lungo termine, però, “diventare membri dell’Unione europea è davvero il nostro sogno. Sarebbe un’ancora di salvataggio per la democrazia turca. È il sogno di tutti i democratici turchi. Ankara però dovrebbe fare qualcosa per rendere più democratiche le sue leggi. Temo invece che Erdogan non sia pronto a cambiare né la legge sul terrorismo né tanto meno quella sulla corruzione. L’Europa dovrà insistere su tutto questo”. Che fare, nel frattempo? “Per prima cosa dobbiamo cercare di far parlare sempre più della repressione in atto in questo paese - dice Dündar - Non bisogna interrompere l’informazione su ciò che accade. Secondo il governo in Turchia ci sono 20 milioni di terroristi. Tutti noi, critici e oppositori, siamo terroristi, a causa della legge antiterrorismo studiata di proposito per avere un’ampia definizione e applicazione del termine “terrorista”. Occorre costituire un fronte democratico unito, non dobbiamo essere divisi. Non so se siamo ancora lontani dalla costituzione di questo fronte comune, ma qualcosa di certo dovrà accadere, lo spero e lo speriamo tutti. Magari capiterà un altro Gezi Park. Il governo con la sua azione repressiva potrebbe innescarla”, conclude mesto ma speranzoso il direttore. Turchia: 139 deputati curdi alla sbarra per "terrorismo" Il Dubbio, 23 giugno 2016 Il ministero della giustizia turco ha inviato 682 fascicoli relativi a 139 dei 152 membri dell’unica Camera del Parlamento turco con procedimenti a carico, divenuti perseguibili in seguito alla controversa abolizione dell’immunità parlamentare in Turchia, approvato lo scorso 22 maggio, una forzatura della costituzione operata dal presidente Erdogan per mettere all’angolo i curdi, mutilando alla radice la loro rappresentanza politica. Il procuratore ha inoltre già chiamato a deporre i deputati curdi dell’Hdp Burcu Celik Ozkan e Ahmet Yldirim, indagati per “sostegno a organizzazione terroristica”, un reato associativo dai contorni molto vaghi. Tra i 682 fascicoli inviati ieri mattina ai parlamentari compaiono anche quelli riferiti al segretario dei repubblicani del Chp, principale partito di opposizione il laico Kemal Kilicdaroglu, i due segretari filo curdi Hdp, Selattin Demirtas e Figen Yuksekdag, e il segretario uscente dei nazionalisti dell’Mhp, Devlet Bahceli. In pratica i leader di tutti e 3 i partiti di opposizione all’Akp del presidente Recep Tayyip Erdogan, una circostanza che alimenta legittimi dubbi sulla torsione delle regole democratiche compiuta dal dominus di Ankara. Sono invece 799 i fascicoli preparati a carico di 152 deputati ora soggetti a procedimenti giudiziari: 29 appartenenti all’Akp, partito di governo, 55 ai filo curdi dell’Hdp, 57 ai repubblicani del Chp, 10 ai nazionalisti dell’Mhp e un indipendente. Il Parlamento turco è composto da 550 parlamentari eletti in 81 collegi amministrativi per un mandato di quattro anni con un sistema completamente proporzionale ma regolato da una soglia di sbarramento altissima: il 10%. Turchia: l’unica “mission accomplished” è quella contro kurdi e stampa di Chiara Cruciati Il Manifesto, 23 giugno 2016 Turchia. Il premier turco Yildirim annuncia la fine delle operazioni a sud-est, ma coprifuoco e raid continuano. Oltre 100 giornalisti lanciano una campagna dopo gli ultimi tre arresti, tra loro il responsabile turco di Reporter Senza Frontiere. Ha il sapore di una “mission accomplished” nello stile George W. Bush il discorso che martedì il neopremier turco Yildirim ha pronunciato in parlamento. Con una pomposità fuori luogo il burattino del presidente Erdogan ha dichiarato conclusa l’operazione anti-Pkk nel sud est della Turchia, a 11 mesi dal suo inizio. Mai le parole del partito di governo Akp sono state più lontane dalla realtà: la campagna militare che ha devastato le regioni kurde meridionali non è affatto conclusa. Se possibile, anzi, si è inasprita con mille riserve arruolate e dispiegate a sud-est, raid aerei e altre 25 comunità, tra Sirnak e Mus, poste sotto coprifuoco in soli due giorni. Da Diyarbakir ad Hakkari, estremo oriente turco, le bombe dell’aviazione sono piovute su aree rurali dove - dice Ankara - si nascondono i combattenti del Pkk. Quelli di cui ieri il capo di Stato maggiore celebrava le uccisioni: nei primi sei mesi del 2016, secondo l’esercito turco, sarebbero oltre 10mila i miliziani kurdi uccisi, 2.700 in Turchia e 7.700 nel nord dell’Iraq (di cui da mesi Ankara viola la sovranità nel silenzio internazionale). Numeri che appaiono gonfiati, ma che soprattutto non tengono conto - o non specificano - le vittime civili: un bilancio chiaro ad oggi non esiste ancora, di certo va calcolato un minimo di 600 morti tra la popolazione kurda in Turchia. “L’operazione è finita - ha detto Yildirim martedì - Ora ci sarà un rinnovamento fisico e sociale. Sostituiremo gli edifici distrutti con edifici molto più belli”. Ma il cuore del discorso era un altro: il primo ministro ha annunciato punizioni severe per quei comuni e sindaci che Ankara ritiene responsabili di sostegno al Pkk: “Ora che abbiamo concluso le operazioni, ci sono altri passi da compiere. È tempo di punire i comuni che sostengono il terrorismo. Trasferite denaro destinato ai servizi pubblici ad un’organizzazione terroristica. Non ve lo permetteremo”. Ankara è quindi decisa a spezzare definitivamente l’Hdp, il partito di sinistra pro-kurdo da mesi nel mirino, prima con arresti di massa di sindaci e sostenitori e poi con la sospensione dell’immunità parlamentare che apre ai processi contro i suoi deputati. Il leader dell’Hdp, il co-segretario Demirtas, ha subito reagito alle minacce promettendo strenua resistenza: “Gli ispettori che hanno condotto inchieste sui nostri municipi le chiuderebbero se avessero una coscienza. Non hanno mai trovato una singola prova. Popolo che hai scelto i tuo rappresentanti, sollevati per difenderli”. Giornalisti alla sbarra - A proseguire non è solo la campagna anti-Pkk, ma anche quella contro la stampa indipendente: in pochi giorni due giornalisti e un accademico sono stati arrestati, Erol Onderoglu (rappresentante turco di Reporter Senza Frontiere), Ahmed Nesin e Sebnem Koruc Fincanci (presidente della Human Rights Foundation of Turkey). A monte il sostegno dato al quotidiano pro-kurdo di opposizione, Ozgur Gundem, target della repressione di Stato con l’accusa di “fare propaganda terroristica”. A difesa dei colleghi, oltre cento giornalisti hanno rilanciato una campagna partita lo scorso 3 maggio per assumere la guida del quotidiano. “Condanniamo questi arresti che non rispettano affatto la legge, la democrazia, la libertà di stampa e di espressione e il diritto della gente di essere informata - si legge nella petizione - Chiediamo il rilascio immediato di Onderoglu, Fincanci e Nesin”. Vista la lunga storia di attacchi contro il quotidiano, sono già stati 44 i giornalisti, alcuni molto noti in Turchia (tra loro il direttore di Cumhuriyet, Can Dundar, condannato a 5 anni per aver rivelato segreti di Stato insieme al caporedattore Gul), che hanno assunto ad interim, per un giorno ciascuno, la carica di direttore di Ozgur Gundem. 37 di loro sono sotto inchiesta. “Ci dicono che saremo arrestati se prenderemo le difese degli oppressi - ha detto ieri Dundar - Abbiamo ricevuto il messaggio e siamo venuti a dimostrare solidarietà. Se ci dicono di non appoggiare questo quotidiano, noi continueremo a farlo. Se ci diranno di non guardare un certo canale tv, insisteremo a guardarlo. Questo è il modo con cui difendiamo i nostri diritti”. Pakistan: liberati cinque di sette cristiani detenuti per blasfemia di Benedetta Frigerio Tempi, 23 giugno 2016 La vicenda aveva coinvolto 16 persone accusate di aver chiamato un pastore “santo” con un termine, “rasool”, che si usa anche per Maometto. Si è in parte risolto il caso di blasfemia che aveva sollevato proteste pubbliche in Pakistan. A manifestare per la liberazione di sette persone arrestate con questa accusa, che prevede la pena di morte, erano state tutte le chiese cattoliche e protestanti di Gujrat, nella provincia di Punjrab. La vicenda, che aveva coinvolto 16 persone, era cominciata nell’agosto del 2015, quando la Chiesa Biblica di Dio aveva dato notizia del funerale del pastore Fazal Masih, fondatore della chiesa. Vista la fama di santità dell’uomo, sui manifesti stampati per la celebrazione delle esequie i fedeli avevano usato la parola “rasool”, che in lingua urdu significa “santo” o “messaggero”. Secondo l’accusa, però, l’aggettivo attribuito anche a Maometto non doveva essere usato altrimenti. A sollevare il caso di fronte all’autorità giudiziaria era stato l’imam locale. Raggiunto dalla notizia, Nasir Saeed, direttore inglese della Claas (un’associazione nata in difesa cristiani pakistani), aveva spiegato: “La parola “rasool” è usata spesso nella Bibbia urdu come traduzione della parola “apostoli” e “discepoli”. E i cristiani, laici e religiosi, usano questa parola nei loro sermoni e anche nei loro scritti. Questo non è uno termine islamico ma urdu”. Nonostante ciò al pastore Aftab Gill e a suo fratello minore Unitan, insieme ad altri membri della loro chiesa, non è stato risparmiato il carcere. Arrestato, Unitan dichiarò di essere già da tempo molto inviso ad alcuni imprenditori musulmani locali, gelosi del suo successo in seguito all’apertura di un esercizio commerciale. Tanto che la polizia era dovuta persino intervenire per spegnere il fuoco appiccato dai residenti locali nelle proprietà dei cristiani. Intervistato da Asianews l’avvocato musulmano Imtiaz Shakir aveva definito la vicenda una “pazzia” originata dal “sistema folle” della legge sulla blasfemia: “Gli avvocati con cui lavoro mi hanno minacciato - spiegò Shakir - dicendomi che non dovevo accettare di difendere vittime innocenti”. Invece, fu proprio l’avvocato a invitare le chiese a protestare. Questa settimana, dopo dieci mesi, cinque dei cristiani ancora detenuti sono stati liberati, mentre Gill e un altro uomo, Hajaj Bin Yousaf, rimarranno in carcere per altri sei mesi. Poteva andare peggio, ma ricordando i casi precedenti, in primis quello di Asia Bibi, restano comunque vere le parole di Saeed: “Da quando esiste, questa legge è stata abusata, la polizia e le autorità devono fare attenzione ed evitare di registrare ogni denuncia contro chiunque per via della pressione civile”. Le autorità, infatti, agiscono spesso rispondendo alle spinte dell’islamismo radicale. Libano: nella prigione più famigerata l’unica speranza è il teatro di Giordano Stabile La Stampa, 23 giugno 2016 A Roumieh corsi di recitazione e spettacoli grazie ai fondi dell’Unione europea. Roumieh è a pochi chilometri dal centro di Beirut, sulle colline che dominano la città. È la più grande prigione del Libano, può ospitare 2 mila detenuti, ce ne sono in media 6 mila. Sovraffollamento e metodi brutali portano a rivolte frequenti, l’ultima nel 2011. E la maggior parte dei prigionieri, molti condannati all’ergastolo, altri nel braccio della morte, rieducazione e reinserimento sono un miraggio. In questo inferno è piombata una regista d’avanguardia, stufa della scena beirutina, Zeina Daccache, pioniera del teatro come terapia. Ha ottenuto fondi dell’Unione europea, convinto i ministeri della Giustizia e dell’Interno, fatto un casting fra 250 detenuti volontari, quelli con le pene più alte, e lanciato il teatro della prigione. Una stanza ovale, chiusa da porte di ferro cigolanti. Poche file di sedie per i cento spettatori, molte guardie carcerarie, un palco dove si esibiscono in una performance fra danza e teatro i prigionieri, diretti dalla regista seduta in prima fila. La pièce “Johar. Up in Air” racconta la vita dei compagni con disturbi mentali, relegati nelle celle peggiori in un blocco a parte nella prigione, senza nessuna cura. “Il teatro è uno strumento di cura - spiega Daccache. Ma anche di cambiamento politico”. Il sistema carcerario del Libano anche se è affidato al ministero della Giustizia, è indirizzato da quello dell’Interno, che punta soprattutto sull’aspetto della sicurezza. I servizi di base per i detenuti sono curati soprattutto dalle Ong. Daccache, ogni volta che scrive una pièce, punta a uno degli obiettivi per migliorare la condizione carceraria: riduzione delle sentenze per i detenuti con buona condotta, permessi speciali per i condannati all’ergastolo o quelli con problemi mentali. Come Youssef, uno degli attori di “Johar… Up in the Air”, condannato all’ergastolo per omicidio: “Ogni volta che recito davanti agli spettatori, sento che sto entrando nella libertà, dove posso dimenticare tutto”. Come molti altri attori, lavora con Daccache da quasi dieci anni: “All’inizio ci vedevano come un altro gruppo venuto a vendere speranze”. Ma adesso è diverso. “In queste prigioni i detenuti si sentono inutili - continua la regista -. Non possono lavorare, guadagnare qualche soldo”. Prove e spettacoli servono anche a spezzare la terribile routine del carcere, a dare sollievo mentale, a creare solidarietà fra i carcerati. I detenuti stanno ora lavorando a una proposta di legge per alleviare le condizioni di vita dei malati di mente, abbandonati in piccole celle umide. Le condizioni generali sono un po’ migliorate, anche dopo le denunce contro maltrattamenti e torture che avevano portato alla rivolta del 2011. Come quella del “sacco a pelo”, dove il detenuto, nudo, veniva chiuso dentro dalla guardie assieme a un grosso topo e a un gatto.