Papa Francesco lancia appello contro la pena di morte e per migliori condizioni carceri di Franca Giansoldati Il Messaggero, 22 giugno 2016 "Bisogna migliorare le carceri". Papa Francesco chiede al mondo l’abolizione della pena di morte e, nello stesso tempo, invoca migliori condizioni carcerarie per i detenuti. "Non esiste una punizione giusta senza speranza", senza la possibilità di salvezza, miglioramento e riscatto da parte del detenuto. "Una punizione fine a se stessa senza una prospettiva di speranza diventa solo una forma di tortura". In un videomessaggio inviato al Forum contro la pena capitale, promosso dalla Ong francese Ensemble contre la peine de mort e dalla World Coalition Against Death Penalty, di cui fanno parte circa 140 organizzazioni da tutto il mondo, Bergoglio si rallegra perché il numero delle nazioni che sostengono questa campagna sono in deciso aumento. "Un segno di speranza è che la pubblica opinione sta manifestando una crescente opposizione alla pena capitale". Oggi "la pena di morte è inaccettabile, in pratica una offesa alla inviolabilità della vita e alla dignità della persona umana. Contraddice i piani di Dio per gli individui e la società e la sua giustizia misericordiosa". Superata quota 54mila detenuti nelle carceri italiane Askanews, 22 giugno 2016 Sale a quota 54.002 il numero dei detenuti presenti oggi nelle carceri italiane. Ne dà notizia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe). "Sono pressoché esauriti gli effetti delle leggi svuota-carceri e gli istituti di pena ritornano ad essere significativamente affollati, a tutto discapito del lavoro delle donne e degli uomini della Polizia Penitenziaria", denuncia Donato Capece, segretario generale SAPPE. "54.002 detenuti rispetto ad una capienza regolamentare di poco superiore ai 44mila posti letto effettivamente disponibili è un segnale preoccupante, che va a incidere pesantemente sul lavoro dei Baschi Azzurri. Le regioni più affollate sono Lombardia (8.016), Campania (6.887), Lazio (5.904) e Sicilia (5.885). Ma tutte, proprio tutte, le carceri sono affollate oltre la capienza ordinaria". Per il Sappe "poco è cambiata" la situazione penitenziaria del Paese: "Se è vero che il 95% dei detenuti sta fuori dalle celle tra le 8 e le 10 ore al giorno, è altrettanto vero che non tutti sono impegnati in attività lavorative e che anzi trascorrono il giorno a non far nulla. Ed è grave che sia aumentano il numero degli eventi critici nelle carceri da quando sono stati introdotti vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto. Solamente in questi ultimi dieci giorni si sono infatti contati Agenti di Polizia Penitenziaria aggrediti in varie carceri, tra le quali Saluzzo, Nisida, Matera, Agrigento, Monza, Potenza", aggiunge il leader nazionale dei Baschi Azzurri. Che sollecita un intervento del Ministro della Giustizia Andrea Orlando su un fatto specifico: "Nonostante la Polizia Penitenziaria è carente in organico di 8mila Agenti, la Legge di stabilità ha bocciato un emendamento che avrebbe permesso l’assunzione di almeno 800 nuovi Agenti, a partire dall’assunzione degli idonei non vincitori dei precedenti concorsi, già pronti a frequentare i corsi di formazione. Credo che sia assolutamente necessario che, almeno su questo, il Ministro della Giustizia Andrea Orlando assicuri queste nuove assunzioni assolutamente indispensabili anche per il contrasto della criminalità e del radicalismo integralista nelle carceri". Il crimine del samaritano di Luigi Manconi Il Manifesto, 22 giugno 2016 Identificati mentre distribuivano generi di prima necessità ai profughi. Rischiano quattro anni di carcere. Alcuni volontari dell’associazione "Ospiti in arrivo" stavano distribuendo coperte e generi di prima necessità a profughi accampati nelle strade di Udine quando sono arrivate le forze di polizia per identificarli. Per tre di loro - la presidente e la vice presidente dell’associazione e un interprete - è arrivato successivamente un avviso di garanzia e la loro iscrizione nel registro degli indagati relativamente al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La notizia è di qualche giorno fa ma, a quanto si sa, la Procura di Udine già dal 2013 indagava a proposito dell’aumento del numero dei profughi in città, e della pressione esercitata verso la frontiera di Tarvisio (porta italiana della rotta balcanica dei migranti). La causa immaginata dalla Procura udinese, a quanto pare, starebbe proprio nell’aiuto, e di conseguenza nell’incentivo, offerto dall’associazione "Ospiti in arrivo" ai richiedenti asilo. Forte di questa brillante analisi geo-strategica, la Procura rivolge ai volontari l’accusa di aver fornito "indicazioni precise su come muoversi in Italia, in particolare per quanto concerne la procedura di riconoscimento dello status di rifugiato politico". Accanto a questa, la responsabilità di aver "invaso terreni e edifici privati": si tratterebbe di strutture e aree abbandonate in cui i profughi si sono sistemati in qualche modo e in cui i volontari si recavano per portare aiuto e mezzi di sussistenza. Infine, sempre secondo gli atti della Procura, il "favoreggiamento dell’immigrazione clandestina" sarebbe avvenuto "a scopo di lucro". Dove per lucro qui si intende la richiesta di accreditamento nell’elenco delle associazioni destinatarie dei fondi del 5 per mille avanzata dalla stessa associazione "Ospiti in arrivo". Richiesta che in Italia hanno presentato decine di migliaia di associazioni e, nella sola città di Udine oltre 200. Per questa finalità, insomma, gli attivisti avrebbero "fornito il proprio numero di cellulare a svariati soggetti al fine di assicurarne la diffusione in capo ai clandestini che arrivavano a Udine o provincia, così venendo da loro contattati al fine di poterne poi organizzare il ricovero presso strutture o altro accogliendo e accompagnando circa trenta clandestini afghani presso la Caritas di via Treppo il 29 dicembre". Per questo reato, i volontari dell’associazione, ora potrebbero rischiare fino a 4 anni di carcere. Di fronte a quel saggio di letteratura burocratica, così maldestramente assemblata, che vorrebbe motivare un pesante provvedimento giudiziario, qualsiasi persona sennata direbbe, come in una scena di teatro da camera: "trasecolo, signora mia". E, invece, non sono molti a trasecolare davanti a quello che appare come un tentativo di sanzionare penalmente ciò che rappresenta un doveroso obbligo che l’articolo 10 della Costituzione prevede e tutela. Tanto più che la Questura di Udine è tra le più lente d’Italia nell’espletare le procedure per la domanda di protezione umanitaria. Vedremo quale sarà la decisione del Gip, ma intanto sulla piattaforma Change.org è stato lanciato un appello, a prima firma Loris De Filippo, presidente di Medici senza Frontiere, che in poche ore ha raccolto 5 mila sottoscrizioni. Ma la domanda che questa vicenda pone è un’altra: cos’è diventato oggi il nostro paese? Come è mai possibile che l’atto antico e semplice del samaritano sia considerato nulla di diverso da un crimine? E che la sacrosanta attività di pronto soccorso e il tendere la mano per prestare aiuto possano essere scambiati per una fattispecie penale? Campi nomadi e tangenti: manette a Roma Il Dubbio, 22 giugno 2016 I campi nomadi di Roma finiscono nuovamente nel mirino della magistratura e delle forze dell'ordine. Notificate quattro ordinanze di custodia cautelare in carcere, due ai domiciliari più una misura interdittiva. È il risultato di un'inchiesta su un giro di presunte "mazzette" al Comune, che chiama in causa alcuni imprenditori legati alle cooperative e dipendenti del Dipartimento delle Politiche Sociali e della Salute. L'accusa ipotizza i reati di corruzione, falso in atto pubblico e turbativa d'asta e ha sullo sfondo la figura di Emanuela Salvatori, indagata e perquisita nell'ambito di questo nuovo filone, ma già condannata lo scorso novembre a 4 anni di reclusione, in abbreviato, per i suoi affari con Salvatore Buzzi e le cooperative che gestiva. In quel caso fu la prima funzionaria pubblica a finire nel mirino degli inquirenti Il gip Flavia Costantini, accogliendo le richieste dei pm Maria Letizia Golfieri, Carlo Lasperanza, Edoardo De Santis e Luca Tescaroli, coordinati dall'aggiunto Paolo Ielo, ha disposto il carcere per Roberto Chierici e Massimo Colangelo, rappresentanti di fatto di alcune cooperative, per Loris Talone, imprenditore nonché assessore all'Agricoltura al comune di Artena e per Salvatore Di Maggio, presidente del Consorzio "Alberto Bastiani Onlus". Ai domiciliari sono finiti Eliseo De Luca, vigile urbano dipendente del Dipartimento e Alessandra Morgillo, altra dipendente comunale. La misura interdittiva è stata applicata a carico di Vito Fulco, funzionario del Comune legato alla Salvatori. I campi nomadi oggetto di indagine sono quelli di Castelromano e di via Candoni, alla Magliana. L'inchiesta, portata avanti dai Carabinieri della compagnia di Roma Eur, ha come arco temporale il periodo che va dalla fine del 2013 alla fine del 2014, quasi in coincidenza con la prima tranche di arresti di "Mafia Capitale". Secondo i magistrati, gli imprenditori in questione hanno cercato di corrompere funzionari o dipendenti del Dipartimento delle Politiche Sociali e della Salute del Comune di Roma con differenti modalità e non soltanto attraverso le tradizionali "mazzette" in denaro. Sotto la lente d'ingrandimento sono finiti beni e utilità di vario tipo, come un collier, biglietti per il teatro, la promessa di un'assunzione presso una cooperativa, l'acquisto di un escavatore o la pubblicità gratuita per uno studio dentistico di un familiare di un indagato. La Procura di Roma e i militari dell'Arma avrebbero accertato che quasi sempre i lavori per la bonifica dei campi rom non venivano effettuati e che dietro l'aggiudicazione degli appalti c'erano firme apocrife, atti con richieste falsificate o documenti retrodatati. L'accusa si fa forte anche di alcuni passaggi di denaro, filmati dagli investigatori e avvenuti anche negli stessi uffici del Comune. In particolare, a seconda del valore degli appalti, sono stati versati importi compresi tra gli 800 e i 3.000 euro. A determinare il via all'inchiesta sono state alcune intercettazioni telefoniche e ambientali, in cui esponenti del campo nomadi avrebbero riferito di conoscere il giro di tangenti tra imprese e dipendenti pubblici. Campi Rom, il pozzo senza fondo per il mondo di mezzo di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 giugno 2016 Quattro imprenditori, un funzionario e un vigile arrestati per corruzione. Un giro di mazzette, regali e favori agli impiegati comunali, quello ipotizzato dai pm, che tra il 2013 e il 2014 avrebbe permesso agli imprenditori di ottenere in affidamento diretto una serie di appalti. La miniera d’oro è la stessa di Mafia Capitale. Il business dei "villaggi della solidarietà" nel 2013 analizzato in un dossier della "21 Luglio". Costi della segregazione all’epoca dei fatti incriminati. Con gli immigrati e con i Rom si guadagna più che con la droga, diceva Salvatore Buzzi, uno dei due "ras" del "mondo di mezzo" di Mafia capitale. Ed è ancora attorno al business dei campi nomadi che ruota la nuova inchiesta della procura di Roma che ha portato ieri all’arresto in carcere di quattro imprenditori di cooperative e ai domiciliari una funzionaria del Dipartimento delle politiche sociali del Campidoglio ed un vigile urbano. Applicata anche una misura interdittiva e indagata un’altra dirigente dell’Area Inclusione sociale dell’Ufficio Rom, Sinti e Camminanti del medesimo dipartimento, già condannata in primo grado e con rito abbreviato a 4 anni di reclusione per i suoi affari con Buzzi. Un giro di mazzette, regali e favori agli impiegati comunali, quello ipotizzato dai pm, che tra il 2013 e il 2014 avrebbe permesso agli imprenditori di ottenere in affidamento diretto una serie di appalti per la bonifica di alcuni campi nomadi come quello di Castel Romano e di via Candoni, e in alcuni casi di non completare neppure i lavori. La gip Flavia Costantini ha disposto le misure cautelari sulla base delle ipotesi, formulate a vario titolo per gli arrestati, di corruzione, falso in atto pubblico e turbativa d’asta. Fin qui la cronaca giudiziaria: i nomi, dal nostro punto di vista, sono poco importanti, fin quando non verranno accertate le responsabilità. Ma che esista un problema "appalti" nel comune di Roma è fin troppo noto. E la riorganizzazione di tutto il sistema è, come ha detto ieri Raffaele Cantone, "assolutamente fondamentale". "Il sindaco Raggi lo sa, ha letto la nostra relazione", ha puntualizzato il presidente dell’Anac secondo il quale si tratta ora di capire come la serie di misure prese dopo lo tsunami di Mafia capitale abbia "inciso sul sistema". In ogni caso, ha aggiunto Cantone, la gestione dei campi nomadi "rientra nel settore dei servizi sociali, uno di quelli assolutamente da tutelare ma su cui è necessario lavorare anche sul piano della trasparenza". Per intanto, vale la pena rileggere il dossier dell’Associazione 21 Luglio (che sulla trasparenza lavora da anni) "Campi nomadi Spa", pubblicato a giugno 2014 e dedicato ai costi della segregazione, della concentrazione e degli sgomberi dei Rom a Roma nell’anno 2013, esattamente l’epoca a cui si riferiscono i fatti incriminati. Un costo che supera i 24 milioni di euro annui. Nel corposo documento vengono descritti minuziosamente (vedi tabelle in pagina) gli otto "villaggi della solidarietà" presenti a Roma, e come sono costretti a vivere i Rom (4.391 nel 2013) che vi risiedono: "isolamento fisico e relazionale", "precaria condizione igienico-sanitaria", "spazi inadeguati e asfittici", "servizi interni insufficienti", "unità abitative in stato di grave deterioramento e al di sotto dei requisiti minimi previsti dagli standard internazionali". Si prenda il campo di Candoni, per esempio, a 12,4 km dal centro, direzione sud, "inaugurato nel 2000 per accogliere inizialmente 480 persone provenienti dalla Romania" e ampliato nel 2004 per concentrare altre 170 persone provenienti dalla Bosnia. Nel 2013 vi vivevano 820 persone di cui 450 minori. "L’ufficio postale più vicino dista 4 km e il negozio di generi alimentari è a 2,3 km. Nell’anno scolastico 2013-2014 risultano iscritti 326 minori distribuiti in 45 plessi scolastici con l’ausilio di 5 linee di trasporto scolastico. Di essi solo 4 sono iscritti ad una scuola superiore". Il dossier stima che nel solo 2013 la spesa per questo campo è stata di 2.393.699 euro: il 46,2% per la gestione, il 31,6% per la sicurezza, il 21,4% per la scolarizzazione e solo lo 0,8% per l’inclusione sociale. Soldi che sono andati ai nove soggetti operanti: le partecipate del comune e cooperative private, tra le quali la Coop. 29 Giugno, guidata da Buzzi fino all’arresto del 3 dicembre 2014. Tutti gli interventi sono stati affidati per via diretta, tranne quelli per la scolarizzazione passati attraverso due bandi. Stessa solfa per Castel Romano, sorto nel 2005 a 5 km da Pomezia, e che all’epoca ospitava 989 abitanti di cui 520 minori, originari di Bosnia, Serbia, Montenegro e Romania. In questo caso nel 2013 si spesero 5.354.788 euro per la gestione (il 70,7%), la sicurezza (il 17,1%), la scolarizzazione (il 12,2%). Ma zero (0%) per l’inclusione sociale. Soldi incassati dai 16 soggetti operanti per affidamento diretto, nemmeno un centesimo alle famiglie. Il 36,1% di queste risorse pubbliche è stato assorbito dalla Eriches 29, consorzio collegato anch’esso alla 29 Giugno. A gestire e coordinare le attività inerenti a questi "villaggi" è l’Ufficio Nomadi del Dipartimento politiche sociali, finito di nuovo sotto la lente dei magistrati, all’interno del quale operavano nel 2013 "un funzionario direttivo amministrativo che svolge il ruolo di responsabile ed un assistente sociale". Con loro operava, in stretto rapporto, un’Unità di Strada", incarico affidato in modalità diretta a una cooperativa. Nel dossier, come pure in quello messo a punto dall’associazione Lunaria, si trovano anche soluzioni concrete. Nulla di astruso: progetti dettagliati già studiati altrove, in Europa. Dove l’Italia è conosciuta come "il Paese dei campi". Arriva il pugno duro sulla Torino No Tav di Maurizio Pagliassotti Il Manifesto, 22 giugno 2016 Ventitré arresti e misure restrittive contro gli attivisti piemontesi: arrivano all’indomani dei ballottaggi. La nuova sindaca Appendino ha già spiegato di sostenere le proteste, ma non ha ancora deciso come agirà. Nicoletta Dosio ha sessantotto anni. Ex docente di italiano e latino presso il liceo scientifico Norberto Rosa di Bussoleno, è una delle fondatrici del movimento Notav. Da sempre un volto noto della lotta, per il coraggio che dimostra ad essere sempre in prima fila, nonostante il passare degli anni. Ieri è stata arrestata, insieme ad altri tre ultrasessantenni: con loro altre diciannove persone hanno subito misure restrittive (tra arresti e obblighi di firma dalla polizia). Un’operazione massiccia, che dimostra la ferrea volontà della Procura di Torino di mantenere ben salda la barra sulla linea della tolleranza zero. Il tunnel geognostico - un buco in una montagna che dovrebbe fungere come servizio a un successivo buco nella montagna, il famoso tunnel di base - avanza con estrema calma, il cantiere ricorda più un proscenio teatrale, il progetto definitivo latita, costi definitivi ignoti. Nonostante questo situazione singolare permane una pressione giudiziaria fuori scala. Questa volta l’affondo giudiziario tocca una dimensione simbolica potente del movimento: gli anziani. Il mosaico umano che compone i quaranta chilometri della Val Susa che si oppongono alla costruzione della ferrovia per il super treno, riconosce la sacralità dei suoi "vecchi". Perché sono coloro che da sempre più si espongono, perché non hanno indietreggiato di un passo durante la ventennale lotta, perché hanno sempre curato gli aspetti logistici e umani con dedizione certosina. Ieri, Nicoletta Dosio, ha rifiutato l’obbligo di firma. Una misura cautelare enigmatica, probabilmente frutto di una valutazione ferrea del codice penale, perché di questa anziana signora tutto si può pensare tranne che scappi. La sua vita, come quella degli altri arrestati, è in val Susa e ruota intorno al cantiere di Chiomonte che mai abbandonerebbe. Dopo una perquisizione presso l’osteria che gestisce con il marito Silvano, ha dichiarato con parole ferme e tono calmo: "Che sia chiaro, io non accetto di andare a chiedere tutti giorni a chiedere scusa ai Carabinieri, non accetterò che la mia casa divenga la mia prigione. Quindi decidano loro, tanto la nostra lotta è forte, lottiamo per diritto di tutti a vivere bene. Lottiamo non solo per la nostra valle, ma per un mondo vivibile è più giusto. Noi non abbiamo paura, non ci inginocchiamo: quindi io a firmare non ci vado, e non rimango nemmeno chiusa in casa. Siamo nati liberi e uguali, e liberi e uguali rimaniamo". Un gesto di resistenza pacifica, che potrebbe quindi aprirle le porte del carcere. Con lei un’altra figura storica del movimento subisce provvedimenti restrittivi, la settantunenne Marisa Meyer, e altri due ultra sessantenni. La "retata", che giunge dopo l’elezione a sindaca di Chiara Appendino a Torino, dichiaratamente Notav e assidua partecipante dei cortei che si sono succeduti negli anni, fa riferimento alla manifestazione di un anno fa, quando un imponente corteo circondò il cantiere di Chiomonte. Alcuni manifestanti raggiunsero i cancelli della centrale elettrica, punto di controllo e accesso presidiato costantemente dai militari, e qui furono respinti da un fitto lancio di lacrimogeni. Qui secondo la magistratura avrebbe lanciato sassi, attaccato funi ed esploso ordigni. I capi di imputazione sono: resistenza aggravata, lesioni personali ed esplosioni di ordigni con la finalità di turbare l’ordine pubblico". Cosa si intenda per "ordigno" non è chiaro, probabilmente petardi rumorosi e fumogeni colorati, atti a fare confusione. Il cantiere non subì alcun danno serio. Il movimento, riunitosi in una affollata assemblea a Bussoleno, collega l’operazione giudiziaria alla caduta degli ultras torinesi del Tav, in primis del sindaco Piero Fassino: "Un post elezioni che si carica di ulteriori significati politici nella città di Torino e in Valsusa. Con un’operazione già pronta sicuramente da giorni, il pm Rinaudo e i suoi amici della questura hanno deciso di attendere l’esito del ballottaggio e la caduta del partito amico, il Pd, prima di scaricare la loro ennesima azione intimidatoria". La notorietà delle persone arrestate, e l’annuale distanza cronologica dagli eventi oggetto dell’inchiesta, appaiono singolari. Privacy: Garante, no al diritto all'oblio per ex terrorista Ansa, 22 giugno 2016 La storia non si cancella. È il principio sancito dal Garante privacy nel dichiarare infondato il ricorso di un ex terrorista che chiedeva la deindicizzazione di alcuni articoli, studi, atti processuali in cui erano riportati gravi fatti di cronaca che lo avevano visto protagonista tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80. L'interessato, che ha finito di scontare la pena nel 2009, si era rivolto in prima battuta a Google - spiega il Garante - chiedendo la rimozione di alcuni indirizzi e suggerimenti di ricerca. Google non ha accolto la richiesta e così l'ex terrorista si è rivolto al Garante, sostenendo di non essere un personaggio pubblico ma un libero cittadino al quale la permanenza in rete di contenuti del passato e fuorvianti rispetto all'attuale percorso di vita causa gravi danni personali e professionali. L'Autorità ha dichiarato infondato il ricorso, perché le informazioni fanno riferimento a "reati particolarmente gravi", che hanno "valenza storica" e per cui è "prevalente l'interesse del pubblico ad accedere alle notizie". L'Autorità - spiega la Newsletter del Garante - ha rilevato che le informazioni di cui l'ex terrorista chiedeva la deindicizzazione "fanno riferimento a reati particolarmente gravi, che rientrano tra quelli indicati nelle Linee guida sull'esercizio del diritto all'oblio adottate dal Gruppo di lavoro dei Garanti privacy europei nel 2014, reati per i quali le richieste di deindicizzazione devono essere valutate con minor favore dalle Autorità di protezione dei dati, pur nel rispetto di un esame caso per caso". Secondo il Garante, poi, "le informazioni hanno ormai assunto una valenza storica, avendo segnato la memoria collettiva" e "riguardano una delle pagine più buie della storia italiana, della quale il ricorrente non è stato un comprimario, ma un vero e proprio protagonista". Inoltre, "nonostante il lungo lasso di tempo trascorso dagli eventi l'attenzione del pubblico è tuttora molto alta su quel periodo e sui fatti trascorsi, come dimostra l'attualità dei riferimenti raggiungibili mediante gli stessi url. Il Garante, ritenendo quindi prevalente l'interesse del pubblico ad accedere alle notizie in questione, ha dichiarato infondata la richiesta di rimozione degli url indicati dal ricorrente ed indicizzati da Google. L'Autorità - conclude la Newsletter - ha inoltre dichiarato non luogo a provvedere sulla rimozione dei suggerimenti di ricerca nel frattempo eliminati da Google e su un url di un articolo non più indicizzabile da quando l'archivio del quotidiano che lo aveva pubblicato è divenuto una piattaforma a pagamento". Società, sanzioni da rimodellare di Uberto Percivalle Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2016 La responsabilità "penale" delle società, disciplinata dal decreto 231/01, ha strette connessioni con il diritto del lavoro. Su alcune di esse è bene riflettere, perché forse alcune soluzioni tradizionali vanno ripensate. È questo lo spunto che si trae dalla lettura delle sentenze n. 10943 del 26 maggio 2016 della Cassazione e n. 564 del 22 aprile 2016 della Corte d’appello di Milano. Con la prima, la Cassazione confermava il licenziamento per giusta causa impugnato da un lavoratore che aveva denunciato all’organismo di vigilanza la sovrafatturazione operata dalla società da cui dipendeva, ai danni di un Policlinico. Il dipendente si era difeso con le risultanze delle indagini poi scaturite in sede penale (presumibilmente comprovanti i fatti), ma la Cassazione aveva evidenziato come il licenziato avesse riferito all’organismo di vigilanza che la sovrafatturazione sarebbe stata autorizzata da un dirigente della società, circostanza non provata e irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario che regge il rapporto di lavoro. Che accusare di reato i propri superiori, senza prove e rivolgendosi a terzi, conduca al licenziamento per giusta causa corrisponde alla giurisprudenza e anche a ragionevolezza. Quel che sorprende è che la Cassazione non abbia sentito il bisogno di escludere che le accuse fossero mosse in buona fede (o riferire se i giudici di merito lo avessero accertato) e che, per quanto emerge dalla sentenza, nemmeno il ricorrente si fosse soffermato sul punto. Affinché un modello di prevenzione dei reati funzioni è necessario che l’organismo di vigilanza abbia la maggior trasparenza possibile circa il funzionamento della società. Il dolo o la mala fede dovrebbero costituire il limite oltre cui trovare le sanzioni disciplinari. La Corte d’appello di Milano ha confermato, invece, la reintegra di un dipendente di una quotata, licenziato per giusta causa per aver collaborato a vendite triangolate in cui la società acquistava e rivendeva alcuni prodotti al solo scopo di aumentare artificiosamente il fatturato. La Corte osservava, infatti, che il comportamento del licenziato era il frutto delle indicazioni dei superiori e costituiva un fenomeno diffuso, tanto da aver dato vita a numerosa casista giurisprudenziale. Anche in questo caso sorprende che nella sentenza non si esamini se la società avesse in effetti comunicato ai dipendenti il divieto di certi comportamenti, con l’obbligo di segnalarli agli organi di controllo interno e anche se il divieto fosse stato poi accompagnato da indicazioni opposte di alcuni dirigenti. È corretto infatti che non possa essere sanzionato il dipendente che ponga in essere comportamenti conformi alle direttive ricevute, ma c’è da chiedersi se ciò possa valere sempre, anche in presenza di direttive confliggenti, di comportamenti vietati dalla legge e in presenza di meccanismi ispettivi e di segnalazione delle violazioni. È per questo che, alla luce della sempre maggior sensibilità per le esigenze di compliance in ogni campo, i principi che hanno a lungo informato l’irrogazione di sanzioni disciplinari dovrebbero tener conto, da un lato, della esigenza di verificare e tutelare la buona fede nel far uso dei meccanismi interni di denuncia di comportamenti vietati (in tal senso va il Ddl 2208 in corso di esame al Senato) e, dall’altro, consentire di sanzionare le contravvenzioni ai regolamenti aziendali (quantomeno se non segnalati) anche se in presenza di indicazioni contrarie da parte dei superiori. Reati contro il patrimonio: il riciclaggio Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2016 Reati contro il patrimonio - Riciclaggio - Capitali illecitamente detenuti all'estero - Delitto presupposto - Prova - Illecito tributario. Per i capitali illecitamente detenuti all'estero sussiste il reato di riciclaggio solo se l'accusa prova l'esistenza del delitto presupposto, non potendosi solo presumere l'illecito tributario. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 7 aprile 2016 n. 13901. Reati contro il patrimonio - Riciclaggio - Ricezione, versamento su conti correnti e cambio di assegni di illecita provenienza - Configurabilità. Integra il delitto di riciclaggio la condotta di colui che riceva, dall'autore di un delitto, degli assegni costituenti provento di quest'ultimo e li versi su conti correnti intestati a persone diverse dal predetto autore, procedendo, poi, alla monetizzazione dei titoli. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 19 gennaio 2016 n. 1924. Reati contro il patrimonio - Riciclaggio - Provenienza di denaro, beni o altre utilità da delitto - Significato - Provenienza diretta - Necessità - Esclusione - Provenienza mediata - Sufficienza. Perché sussista il delitto di riciclaggio non è necessario che il denaro, i beni o le altre utilità debbano provenire direttamente o immediatamente dai delitti presupposto, essendo sufficiente anche una loro provenienza mediata. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 24 settembre 2012 n. 36759. Reati contro il patrimonio - Riciclaggio - Delitto presupposto - Accertamento giudiziale - Necessità - Esclusione. Ai fini della configurabilità del reato di riciclaggio non si richiede l'esatta individuazione e l'accertamento giudiziale del delitto presupposto, essendo sufficiente che lo stesso risulti, alla stregua degli elementi di fatto acquisiti ed interpretati secondo logica, almeno astrattamente configurabile. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 9 gennaio 2009 n. 495. Dal voto una domanda di giustizia sociale di Savino Pezzotta Il Dubbio, 22 giugno 2016 Dopo le recenti elezioni, che, a mio parere, mettono in mostra la permanenza di un forte disagio sociale evidenziato dalla conferma di alti tassi di assenteismo e dall’indebolimento degli schieramenti tradizionali di destra e sinistra, con l’affermazione di una nuova forza politica (M5S) che al momento non risulta classificabile con le tradizionali, bisogna avviare una profonda riflessione fuggendo da ogni demonizzazione. Le democrazie hanno sempre la possibilità di generare delle nuove esperienze e queste vanno colte e interpretate da chi ha o sente di avere maggiori responsabilità politiche di fronte al Paese, all’Europa e, complessivamente, alla comunità internazionale. La riflessione deve andare oltre la conta dei numeri e dei luoghi ove si è vinto o perso, ma valutare come si sono orientati i vari ceti sociali ed in particolare le lavoratrici e i lavoratori dipendenti, i giovani e gli abitanti delle "aree periferiche", sia urbane che sociali. Chi paga il maggior scotto è sicuramente il Pd che sembra veder arrestare la marcia ascendente che gli aveva impresso il segretario Renzi. Un riformismo orientato culturalmente da una sorta di "liberismo temperato" alla Blair, non sembra essere convincente e non amplia il consenso, anzi genera timori e riprovazioni. Forse più che andare a spasso con gli imprenditori, i banchieri, i "signori" dell’economia, sarebbe utile che si riprendesse un contatto con il mondo dei lavoratori dipendenti, con coloro che si guadagnano la vita con il lavoro e valutare quanti timori creano e diffondono misure che intervengono sul mercato del lavoro, sul sistema pensionistico, sulla sanità. Sembra che sia venuta meno la tensione verso l’uguaglianza e la solidarietà. Ma se la sinistra perde il riferimento al principio emancipatorio, finisce per non essere più compresa da chi vive lo stato di subordinazione e di dipendenza. La modernizzazione del Paese non si realizza orientandosi verso una società di mercato, in cui a contare sono solo i soldi. Le persone e la società nel suo complesso hanno bisogno di un sogno, di speranze, di giustizia, di equità e di moralità e non di una serie di determinazioni conformistiche. Sono convinto che il voto degli italiani abbia rilevato un "gap di aspettativa". Credo che ci sia un bisogno profondo di un discorso, o meglio, di una narrazione che demistifichi l’illusione che un futuro migliore possa esserci passando da beni pubblici a beni privati, dall’indebolimento della rispettabilità delle istituzioni sostituita con la crescente importanza delle oligarchie al governo o del premier, da una riduzione delle tutele collettive per una esaltazione di un merito che non si comprende chi lo possa definire, da una professionalizzazione estrema della funzione politica che pone l’eletto in una insolita e talvolta debole visione etica, di un progresso sociale orientato solo sull’aumento dei diritti individuali e staccato da una visione della società nel suo complesso, su forme ideologiche che tendono ad ignorare i limiti e la finitezza umana. Compito della politica è promuovere le condizioni per vivere bene e per generare i diritti di tutti in un quadro di moralità pubblica e di responsabilità condivise che non lasciano appassire il desiderio di giustizia e di fraternità; una politica che si prende il rischio di non dimenticare l’attenzione verso il più fragile. Per superare questa situazione di stallo, serve un nuovo lavoro politico, da fare con perseveranza che ognuno si impegni, per quello che può, a trovare o a costruire con altri una visione coerente del destino di tutti. Questo per me significa ristabilire il contatto positivo con la tradizione sociale e democratica italiana. Questo contratto sociale, che si è formato a poco a poco nella nostra storia, merita di volta in volta di essere aggiornato con i nuovi dati dal presente. Nello stesso tempo non dovremmo perdere la bussola del nostro orientamento antropologico, non per ricreare esclusioni che oggi sarebbero anacronistiche, ma per partecipare in libertà al confronto-dialogo con altre storie e tradizioni e tendere insieme al bene comune. Dobbiamo rilanciare con forza un progetto riformatore per contribuire alla rinascita della vita pubblica, per contribuire ad arricchire il dibattito e la proposta politica e superare il riformismo anemico dei nostri tempi contribuendo alla definizione di una coerenza tra gli obiettivi della comunità politica, il bene comune e la promozione della dignità di ogni persona. Quest’ultima intesa come dignità che si manifesta in relazione agli altri. Se guardiamo la politica, con occhi e mente liberi dagli attuali schieramenti e collocati con chiarezza con i ceti più deboli, vediamo che le diverse crisi della politica che abbiamo attraversato in questi ultimi vent’anni sono state generate dalla rottura di questa coerenza o dall’idea dall’espulsione del bene comune dagli orientamenti personali e generali. Il progetto riformatore non si ferma ai confini nazionali. Aiuta a pensare al futuro della nazione come parte dell’Europa e della comunità mondiale. In un mondo in cui si muore ancora di fame, dove una moltitudine di bambini sono denutriti e dove la maternità resta un rischio e le guerre imperversano facendo aumentare il numero delle persone minacciate e costrette a cercare un rifugio, si dovrebbe iniziare a pensare in modo nuovo la giustizia sociale in termini globali. Innanzi all’avanzare della globalizzazione dei mercati, delle merci, delle comunicazioni sorge l’esigenza pressante a ricoinvolgere i pubblici poteri nell’economia e nella regolazione della distribuzione della ricchezza. Immettersi in questa prospettiva significa, in ultima analisi, rafforzare e incoraggiare il crescere di un atteggiamento etico e sforzarsi di vivere la politica come luogo di esercizio della coerenza. Significa continuare ad affermare, ad alta voce, che la "politica" svolge un ruolo insostituibile per attraversare il cambiamento sociale economico, ecologico che coinvolge l’umanità. I risultati delle ultime elezioni vanno compresi fino in fondo per cogliere soprattutto le istanze di socialità e di moralità pubblica che esprimono. Non possiamo accettare l’idea che quello che viviamo sia il migliore dei mondi possibile e che il massimo che si può fare sia di riformarlo, quando invece l’istanza profonda che emerge dal problema migratorio e dalla crisi ecologica è di produrre uno sforzo per cambiarlo. Per costruire questa possibilità bisogna cercare di costruire ponti e non ostracismi e chiamare tutti a lavorare perché le diversità non siano ostacolo alla costruzione di una "ragionevole aspettativa". Piemonte: carceri, meno sovraffollamento e più stranieri La Stampa, 22 giugno 2016 Il quadro dei penitenziari piemontesi nella relazione del garante dei detenuti Bruno Mellano. Meno sovraffollamento e più stranieri: questo il quadro delle carceri piemontesi, che emerge dalla relazione che il garante dei detenuti Bruno Mellano ha tenuto questa mattina nell’aula del consiglio regionale. "Sotto il profilo del sovraffollamento, la situazione delle carceri - ha sottolineato Mellano - in Piemonte è migliore rispetto alle altre regioni, ma negli ultimi due anni è molto aumentata la percentuale dei detenuti stranieri. Su una capienza regolamentare di 3.850 posti, in Piemonte abbiamo 3.600 detenuti. Proprio per questo fatto, negli ultimi due anni è avvenuto uno spostamento di detenuti verso la nostra regione. E poiché vengono trasferiti di preferenza coloro che sono privi di contatti familiari, in Piemonte sono arrivati molti stranieri. Abbiamo punte del 59/60% di stranieri per esempio a Fossano, Alessandria e Vercelli, siamo oltre il 50% a Biella, Verbania e Cuneo, e a Torino gli stranieri sono il 43% della popolazione carceraria contro una media nazionale italiana del 33%". Mellano ha indicato tre questioni di diretta competenza della Regione che ritiene prioritarie: sanità, lavoro e formazione professionale. Sul primo fronte c’è una delibera del 1 giugno che definisce le prestazioni a cui i detenuti hanno diritto, si tratta quindi di dare seguito alle direttive; sul fronte lavoro in Piemonte svolgono qualche attività lavorativa retributiva 1.065 detenuti sui 3.600 totali, ma solo 161 alle dipendenze di enti esterni all’amministrazione penitenziaria; nel campo della formazione, la Regione Piemonte ha una storia di presenza nelle carceri con le attività formative regionali ordinarie. Ciò che occorre, ha detto Mellano, è creare maggiori sinergie con i territori. Toscana: il Consiglio regionale approva risoluzione sull’operato del Garante dei detenuti gonews.it, 22 giugno 2016 Il Consiglio regionale della Toscana ha approvato a larga maggioranza una proposta di risoluzione sull’attività del garante regionale dei detenuti. È stato il presidente della prima commissione, Giacomo Bugliani (Pd) a illustrare in aula la risoluzione e il quadro generale sulle carceri nella nostra regione. Il Consiglio regionale esprime apprezzamento per l’attività svolta da Franco Corleone, garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, nel 2015, e "ribadisce l’impegno ad assicurare la finalità rieducativa della pena, il reinserimento sociale dei condannati e, più in generale, l’effettivo godimento dei diritti civili e sociali, nonché la rimozione degli ostacoli al godimento di tali diritti all’interno delle strutture restrittive della libertà personale". Nel corso del 2015, la popolazione detenuta si è stabilizzata, con quasi 53 mila unità a livello nazionale (erano 68mila nel 2012) e 3mila 300 in Toscana (erano 4mila 500 nel 2011). Nella nostra regione spicca il dato del 45,82% di presenze straniere alla fine del 2015, con il caso eclatante di Sollicciano, con il 62% di detenuti stranieri. Le donne mantengono una presenza contenuta del 3,6%, a fronte di un dato nazionale del 4%. A fine marzo 2016 le detenute erano 125 in tutto. Anche rispetto alla posizione giuridica il quadro regionale è migliore di quello nazionale, con il 72,2% dei detenuti condannati in via definitiva (contro il 65%), mentre quelli in attesa di primo giudizio al 31 dicembre 2015 erano 12,2% rispetto al 16,3%. Nel 2015 sono state affrontate alcune situazioni di criticità: bonifica e ristrutturazione ad Arezzo; nuova sezione per l’alta sicurezza a Livorno; dopo l’uragano che ha danneggiato il tetto, sono in corso lavori di adeguamento a Pistoia; lavori in corso anche a Lucca; a Massa è stata collaudata la nuova sezione, adesso in funzione; cambiamenti notevoli a Porto Azzurro con il nuovo direttore e detenuti al lavoro sull’isola di Pianosa. A Sollicciano la denuncia delle detenute e il documento dell’Asl ha fatto scoppiare il caso: un finanziamento di tre milioni di euro dovrebbe garantire la riparazione del tetto, il rifacimento dei servizi igienici nelle celle. È stata chiusa la casa di cura e custodia femminile. A fronte di 3mila 327 presenze negli istituti penitenziari al 15 marzo 2016, si avevano 5mila 738 soggetti in carico agli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe). Nel 2015 si sono avuti mille e 184 affidati in prova al servizio sociale, 184 detenuti domiciliari, 207 semiliberi, mille e 149 messi alla prova e mille e 428 lavori di pubblica utilità: queste ultime due misure, dette sanzioni di comunità, superano (2mila 577) di gran lunga le misure alternative (mille e 575). Tra le questioni aperte, c’è quella sanitaria, con la popolazione detenuta che è più ammalata di quella libera, pur essendo più giovane. Tra i punti più critici le cure odontoiatriche e la necessità di terapie psicologiche per i sex offenders. Ancora nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino, che deve essere chiuso, erano presenti il primo maggio scorso diciotto internati toscani, senza fissa dimora, e due umbri. A Volterra è stata aperta una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), nell’area dell’ex manicomio, ora ospedale cittadino. La capienza è attualmente di 28 posti, che saliranno a 40 con la struttura definitiva. Nel processo di chiusura degli Opg, restano da affrontare altri nodi, come la collocazione di coloro a cui è sopravvenuta un’infermità psichica nel corso della condanna, o di coloro che hanno evidenti problemi psichici, ma la cui posizione processuale è ancora aperta. "Apprezzamento e sostegno", a nome del Movimento 5 stelle, è stato espresso in Aula dal consigliere Gabriele Bianchi, che oltre a rilevare il permanere di "forti criticità, come ad esempio alla Rems di Volterra", ha chiesto "massima attenzione alle figure dei garanti regionali, per l’ottimo lavoro fatto" e rilevato la necessità di "una riflessione sempre più necessaria rispetto al modello e alla concezione della pena". "Assoluta contrarietà" alle risoluzione e all’attività svolta del garante dal consigliere Marco Casucci a nome del gruppo Lega Nord: "Diciamo no all’ideologismo buonista, che contesteremo sempre con la massima forza. Il problema del sovraffollamento carcerario non si affronta svuotando le carceri, ma con la costruzione di nuove carceri e l’impiego di quelle al momento inutilizzate". La Lega, ha aggiunto Casucci "esprime soddisfazione perché la Regione toscana sembra avviarsi, finalmente, verso l’istituzione di una sola figura di garanzia, il difensore civico regionale, con l’accorpamento del garante dei detenuti e del garante dell’infanzia". Posizione "diametralmente opposta" è stata espressa da Tommaso Fattori per il gruppo Sì-Toscana a sinistra, che ha ringraziato Corleone "per tutto ciò che ha fatto. C’è assoluto bisogno - ha spiegato Fattori - del garante dei detenuti e del garante dell’infanzia, che ora è vacante. Non possiamo chiudere gli occhi sulle condizioni delle nostre carceri. Sollicciano e Pisa sono tra i primissimi posti in Italia per numero di suicidi. L’intero modello organizzativo è da ripensare". Messina: detenuto di 40 anni muore suicida all'ex Opg di Barcellona Pozzo di Gotto di Simona Arena meridionews.it, 22 giugno 2016 La riforma prevedeva la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari entro il 31 marzo scorso. Ma in Sicilia ci sono solo due Rems, residenze sanitarie alternative, che non riescono ad accogliere tutti. Il 40enne che si è tolto la vita si è ammalato in carcere e da un anno e mezzo era stato trasferito nell'istituto messinese. Un detenuto di 40 anni si è suicidato ieri notte nell'ex ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. A togliersi la vita è stato un disabile psichico, trovato dall’agente di polizia penitenziaria di turno. L'unico che deve gestire due piani della struttura. Il tragico episodio fa tornare alla ribalta l'ex opg di Barcellona, trasformato in istituto polifunzionale giusto qualche mese fa dopo la riforma del sistema penitenziario. La legge 81 del 2014 prevedeva infatti la chiusura di tutti gli opg entro il 31 marzo 2015. Si sarebbero dovuti destinare gli internati a pene alternative, col trasferimento nelle Rems, le residenze sanitarie per le misure di sicurezza. O, nei casi in cui fosse stata esclusa la pericolosità sociale di queste persone, liberarli e passarli alle cure dei dipartimenti di salute mentale sparsi sul territorio. "Il problema - spiega una fonte interna all'ospedale psichiatrico di Barcellona - è che le uniche due Rems esistenti in Sicilia, quella di Caltagirone e quella di Naso, non sono sufficienti ad accogliere i tanti detenuti psichiatrici ancora presenti negli ex opg. Il quarantenne che si è suicidato non doveva nemmeno esserci qui, avrebbe dovuto posto in una Rems". La riforma degli istituti penitenziari ha seguito vie spesso tortuose con l’apertura in ritardo delle strutture demandate a ricevere gli internati e il mancato potenziamento dei dipartimento di salute mentale delle Asp. In particolare in Sicilia le due Rems possono accogliere una ventina di persone ciascuna, posti del tutto insufficienti. Con il risultato che l'ex Opg di Barcellona continua ad avere una natura ibrida, come spiega il direttore dell'istituto Nunziante Rosania. "È una casa circondariale con detenuti ordinari in attesa di giudizio e per condannati con sentenza definitiva; c'è un residuo di internati del vecchio Opg, circa 30 che a tutt’oggi non hanno trovato spazio nelle Rems: e infine c'è anche un'articolazione della salute mentale per malati psichici, (persone entrate sane in altre carceri e che sono state trasferite qui perché dietro le sbarre è subentrato un disagio psichico ndr), tra queste anche otto donne". In totale 187 persone. L'uomo che ieri si è tolto la vita era proprio un detenuto di quest'ultimo gruppo. Di origini catanesi, condannato per reati contro il patrimonio, è stato trasferito a Barcellona da una comunità terapeutica assistita. "Stava nella nostra struttura da un anno e qualche mese - spiega il direttore -. Ha sviluppato questa sua infermità durante la detenzione in un altro istituto". A trovarlo è stato uno dei 80 agenti di polizia penitenziaria che lavorano nell’ex opg. Secondo le stime di chi vi opera ne servirebbero almeno 125. Il direttore confida nel recente e storico passaggio della medicina penitenziaria dalla competenza del ministero della Difesa a quello della Salute, e quindi all'Asp. "Mi auguro che questo porti un incremento di personale per i servizi espletati nelle strutture come la nostra. Ad esempio - conclude Rosania - in una struttura esterna al nostro istituto è prevista la nascita di un Icam, un istituto a custodia attenuata per madri di bimbi fino a tre anni". Venezia: dal Garante nazionale dei detenuti pesanti critiche alla direttrice del carcere di Giorgio Cecchetti La Nuova Venezia, 22 giugno 2016 Santa Maria Maggiore: la relazione, resa nota dopo una visita di due mesi fa, muove una serie di rilievi "Rapporti con l’esterno ostacolati, poca luce ed aria nelle celle, nessuna socialità, sezioni sguarnite". Il garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma ha reso noto sabato scorso il rapporto sulla visita compiuta due mesi fa a Santa Maria Maggiore. I rilievi critici nei confronti dell’attività della direttrice Immacolata Mannarella sono numerosi e pesanti. Inoltre, nella relazione sono indicate alcune raccomandazioni per il futuro e il "garante chiede che sia data risposta, indicando le azioni intraprese o argomentando quelle non avviate, entro quindici giorni". Il garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale è un organo di garanzia, indipendente, non giurisdizionale che ha la funzione di vigilare su tutte le forme di privazione della libertà, dagli istituti di pena, alla custodia nei luoghi di polizia, alla permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione, alle residenze di esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche (Rems), ai trattamenti sanitari obbligatori. Almeno cinque i rilievi che vengono mossi alla direzione del carcere. Il primo riguarda il rapporto con l’esterno, in particolare con le numerose associazioni di volontari che da anni svolgono attività all’interno. "Una tradizione di intervento che sembra invece fortemente diminuito e ostacolato" si legge nel documento, il quale prosegue: "La criticità dei rapporti tra Direzione e soggetti esterni ha raggiunto recentemente anche il livello istituzionale giacché il Comune di Venezia ha informato della crescente difficoltà a cooperare con la Direzione del carcere". Secondo rilievo: al termine di una precedente visita era stata data "la chiara indicazione di rimuovere le schermature delle finestre dei locali detentivi", necessità ribadita anche dagli ispettori dello Spisal dell’Ulss 12, visto che i detenuti a Santa Maria Maggiore vivono "in ambienti scarsamente illuminati - sia di luce naturale che di luce artificiale - poco ventilati e molto problematici nel periodo estivo". Nonostante questo, "non ha fatto seguito nel corso dei due anni (la scorsa visita era stata compiuta nel 2014) alcuna iniziativa". Stando al garante, "l’istituto è praticamente privo di effettivi ambienti per attività comuni e le stanze di socialità si presentano estremamente scarne, prive di tavoli e sedie sufficienti, senza alcun elemento che favorisca la socialità, a esclusione di un mazzo di carte... le attività sportive sono del tutto assenti". Per questo il garante raccomanda che "l’Amministrazione penitenziaria impartisca chiara indicazione alla Direzione dell’istituto di attrezzare le stanze della socialità con elementi atti a favorire e programmare la quotidianità detentiva secondo principi di utilizzo significativo del tempo e di attiva responsabilizzazione dei detenuti. In tale direzione appare urgente la ricostruzione di un rapporto positivo con l’esterno". "La presenza della direttrice", si legge ancora nel rapporto, "è ben poco avvertita. Il registro dei colloqui della direttrice con i detenuti riporta, nel periodo da ottobre 2015 a marzo 2016, soltanto 6 sessioni di ricevimento per un totale di 32 detenuti: in nessun caso è riportata alcuna conseguente decisione". E ancora, "la dislocazione del personale di Polizia penitenziaria nelle sezioni suscita una certa perplessità, risultando queste ultime di fatto sguarnite, senza alcuna attuazione della vigilanza dinamica". Infine l’invito "a favorire al massimo l’attività" del garante comunale che "per propria competenza professionale può offrire supporto e consiglio nell’affrontare difficoltà che possano emergere nella complessa gestione della quotidianità detentiva". Monza: nel carcere situazione igienico sanitaria disastrosa, denuncia della Cgil ilsussidiario.net, 22 giugno 2016 Allarme nella caserma Pastrengo della polizia penitenziaria di Monza. Secondo quanto denunciato in un comunicato dalla Cgil, si sono infatti registrate infiltrazioni d'acqua nei muri e nel soffitto e addirittura voragini che si sono aperte nei piazzali di transito per vetture e persone. Non solo: la stessa problematica si è registrata negli alloggi demaniali dove vivono le famiglie delle guardie carcerarie (per cui le famiglie pagano l'affitto). Nelle stanze della caserma agenti si registrano infiltrazioni continue, muffa sui muri, sanitari e docce inutilizzabili. La sala conferenze non è utilizzabile per questi motivi mentre anche nel bar si evidenziano muri scrostati e presenza di muffa. La grave situazione igienico sanitaria è infine segnalata negli spazi adibiti alle cooperative e aziende che lavorano per il reinserimento dei detenuti dove gli impianti elettrici sono a rischio per le infiltrazioni di acqua rendendo difficoltoso l'uso di macchinari e computer. Come denuncia per questo stato di cose, il corpo della polizia penitenziaria di Monza ha deciso di non partecipare alla ricorrenza celebrativa del 199esimo anniversario di fondazione previsto giovedì 23 giugno. A documentazione di quanto denunciato in Rete è stato postato un video dopo il recente maltempo che mostra la situazione nel carcere. Pesaro: intervento di Sel-Sinistra Italiana su rischio chiusura Casa Paci di Andrea Zucchi* viverepesaro.it, 22 giugno 2016 Molto grave il mancato finanziamento della legge regionale 28, che rischia di sancire la fine dei progetti di reinserimento per i detenuti, come Casa Paci. Sel-Sinistra Italiana ne chiede il ripristino, nel rispetto dell'articolo 27 della Costituzione Italiana. Sel/Sinistra Italiana, da sempre attenta alle condizioni dei detenuti ed alle loro prospettive di reinserimento in società, ha colto con grande preoccupazione il grido di allarme recentemente lanciato da Antigone, a seguito del mancato finanziamento della legge regionale 28, grazie alla quale era possibile sostenere attività di formazione lavorativa per i carcerati, dentro e fuori le case di pena. È ormai ampiamente dimostrato che i detenuti che partecipano a tali programmi riducono enormemente la possibilità di recidiva a delinquere una volta scontata la pena. Al contrario i carcerati che la scontano semplicemente in reclusione, senza usufruire di percorsi riabilitativi e di formazione - meglio ancora se utili al perfezionamento o acquisizione di una capacità lavorativa - finiscono per tornare a commettere reati, con percentuali fino al 70%, come affermato anche dall'ex ministro della Giustizia Severino al Sole24Ore. Accogliamo quindi l'allarme dell’associazione Antigone Marche che ha opportunamente denunciato il mancato finanziamento della legge regionale 28, senza il quale non solo vengono messi a rischio tutti i suddetti progetti per i detenuti, ma anche la sopravvivenza di due strutture di accoglienza che operano in questo campo del reinserimento sociale, di cui una è Casa Paci, a Pesaro. Grazie a queste strutture, è possibile seguire i detenuti in semilibertà o misure alternative al carcere, in attività lavorative all'esterno dello stesso, in affidamento in prova ai Servizi Sociali, onorando quindi l'articolo 27 della nostra costituzione, che impone una valenza rieducativa per le pene detentive e non meramente reclusiva, garantendo al tempo stesso una maggiore garanzia di sicurezza per la società. Come fortemente auspicato dallo stesso presidente Mattarella, che ritiene indispensabile offrire ai detenuti opportunità di istruzione, lavoro, integrazione sociale, per un vero recupero e reinserimento, nonché da Papa Francesco, che invita a far di tutto per non abbandonare i carcerati lasciandoli nella condizione di tornare a delinquere. Anche SEL-Sinistra Italiana chiede, come Antigone, che dopo lo sforzo fatto per ridurre il penoso sovraffollamento carcerario, si ripari a quest'altra grave mancanza reinserendo nella manovra di bilancio, che dovrebbe andare in Consiglio Regionale oggi, le risorse necessarie ai programmi di recupero e inserimento lavorativo e sociale per i carcerati: ne beneficeranno non solo loro, ma l'intera società civile, in una vera opera di prevenzione che li restituisca come risorse per la comunità, e non come elementi a rischio. *Coordinatore Sel e La Sinistra Pesaro Asti: pronta la nuova ala del carcere di Saluzzo, decongestionerà la struttura di Quarto atnews.it, 22 giugno 2016 Durante la seduta di ieri del Consiglio Regionale, il Garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, ha presentato all’Aula la relazione delle attività svolte durante l’anno 2015-2016. "In particolare, per ciò che riguarda la città di Asti - spiega il Consigliere Angela Motta - è emerso che si sta completando il difficile processo di trasformazione da Casa circondariale a Casa di reclusione ad Alta Sicurezza. Come già emerso durante la mia visita di ottobre insieme Garante, le difficoltà oggettive della trasformazione e le relative problematiche di riorganizzazione, vengono acuite da una carenza di personale cui fa da contrappeso un sovraffollamento della struttura. Il carcere di Quarto, infatti, risulta il più sovraffollato della nostra Regione, con 286 detenuti a fronte di una capienza di 207 posti, con un tasso di sovraffollamento del 138%. Tra questi, una decina di detenuti sono a lunga o lunghissima detenzione. La situazione astigiana sta però per essere alleggerita, in conseguenza all’imminente apertura del nuovo padiglione della Casa di reclusione di Saluzzo. La nuova ala, infatti, già completata, potrà ospitare fino a 196 reclusi. Non solo, ad Asti proprio nel mese di ottobre, è stata nominata la figura del Garante comunale delle persone private della libertà personale. A ricoprire l’incarico la Dottoressa Anna Cellamaro, con l’obiettivo di promuovere l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione di servizi da parte delle persone private o limitate nella libertà personale. Credo che l’apertura della nuova ala di Saluzzo - conclude Angela Motta - rappresenti un passo importante nella delicata gestione dei detenuti e mi auguro che possa costituire un miglioramento effettivo delle condizioni di vita dei reclusi da un lato, e del personale al lavoro dall’altro. Durante la mia visita ad ottobre presso il carcere di Quarto, ho potuto constatare la grande professionalità e disponibilità da parte della direttrice e di tutto il personale della struttura astigiana, nonostante i grandi problemi. Credo che l’impegno delle istituzioni non debba fermarsi a questo primo risultato, pertanto ribadisco l’importanza di fare arrivare un numero di personale adeguato a garantire ai detenuti e agli addetti ai lavori la massima sicurezza". Milano: i detenuti fruttivendoli al mercato "basta rapine, così ci rifacciamo una vita" di Zita Dazzi La Repubblica, 22 giugno 2016 Hanno commesso delitti, rubato, rapinato, spacciato, fatto estorsioni, traffico d'armi. Ognuno ha la sua pena da finire di scontare, 22, 23, anche 25 anni. Ma vogliono cambiare vita. Il mezzo con cui imboccano la nuova strada è un vecchio camion con cui tutti i giorni, all'alba delle 4, dal carcere di Bollate vanno all'Ortomercato. In via Lombroso comprano frutta e verdura, circa 500 euro di merce, che poi rivendono ai mercati. Il sabato in piazza Sant'Agostino, gli altri giorni in giro a far consegne a ristoranti e comunità. Pelle tatuata, facce che raccontano storie, li riconosci subito in mezzo agli altri ambulanti, anche prima di leggere cosa c'è scritto sullo striscione che campeggia sul loro banco: "Frutta & Cultura, cooperativa sociale. Dalle università e dalle carceri di Opera, Bollate e San Vittore", col simbolo della cooperativa Trasgressione.net nata nel 2012 per dare lavoro ai detenuti in vista del loro reinserimento sociale. I prezzi sono ottimi, tra i migliori delle decine di banchi in questo popolarissimo mercato alimentare che si collega a quello dei vestiti in viale Papiniano, dove ormai tutti li conoscono e un po’ anche li invidiano. "Sì perché ormai abbiamo un sacco di clienti, gente che viene apposta perché siamo simpatici e perché abbiamo un bel progetto", spiega Massimiliano De Andreis, 44 anni, genovese, uno dei soci fondatori di questa cooperativa che dà lavoro a diversi detenuti di diversi penitenziari, sottoposti a diverse misure cautelari. C'è chi ha l'articolo 21, che significa essere ammessi al lavoro esterno, con obbligo di rientro in cella entro un certo orario. Così è per Massimiliano Rambaldini, 48 anni, calabrese, che alle 17, chiuso il bancone e caricato il camion con la bilancia, i tendoni e le cassette vuote, ritorna verso Bollate. "Il camion lo mettiamo dentro, abbiamo avuto un permesso speciale perché una volta ce l'hanno rubato. Il colmo: rubare il camion ai ladri", ride. E si capisce che è un riso amaro perché quel camion nuovo è costato molto e si è mangiato tutti i magri ricavi delle giornate di lavoro al mercato, ricavi che vanno divisi in quatto, o cinque, a seconda di quanti hanno lavorato fino a sera. Con loro Massimiliano Moscatiello e il siriano Khaled Al Waki, aggregati al progetto nato 19 anni fa sotto il coordinamento dello psicologo Angelo Aparo. Partito da San Vittore, il gruppo si è poi allargato a Opera e a Bollate. Dalle carceri, i detenuti si spostano al mercato tutte le settimane con la loro bancarella. Si fermano le massaie e tastano le pesche a un euro al chilo, arriva una signora da Trezzano che dirige un centro Sprar che accoglie i profughi. "Abbiamo trovato 12 clienti privati grandi come questa comunità - spiega orgoglioso De Andreis, i bicipiti che sono un libro illustrato di tatuaggi fatti in 20 anni di detenzione in 13 penitenziari italiani. E abbiamo fatto tutto da soli, non ci ha aiutato nessuno. Perché noi ci crediamo veramente in questa impresa, siamo noi che dobbiamo darci una seconda possibilità, non ce la può dare nessuno. Noi che abbiamo sbagliato, che abbiamo capito dove portano le nostre scelte passate, la violenza, la droga, le armi. Il lavoro è la nostra unica chance per non ricaderci". Il salumiere e pastaio vicino di bancone dei carcerati, li guarda e sorride: "Sono bravi ragazzi, è giusto che cerchino di rifarsi una vita". Fra un chilo di ciliegie e mezzo di melanzane, i fruttivendoli che vengono da dietro le sbarre ti raccontano il mondo e la loro rivoluzione. "In carcere ci torni, se fuori non hai un'alternativa, se rimani solo - racconta De Andreis, che di figli ne ha due a Genova e le rapine ha cominciato a farle a 16 anni. Io adesso vivo con 700 euro al mese e mi pago l'affitto di un monolocale al Giambellino perché ho l'affidamento sociale. Per la prima volta forse vedo la fine del tunnel. Non era vera vita quando ero un gangster e spendevo anche 1.200 euro al giorno per abiti firmati e droga. La vita vera comincia ora, con un lavoro onesto". Roma: storia di Federica, traduttrice che insegna in carcere di Chiara Piotto huffingtonpost.it, 22 giugno 2016 Ma 763 professori per oltre 53mila detenuti non bastano. Federica insegna inglese alle scuole medie e traduce tre o quattro libri l'anno. Il secondo lavoro le permette di dare voce ai grandi della letteratura mondiale - Martin Amis, Ali Smith, Don De Lillo - per case editrici tra cui Einaudi, Mondadori, Minimum Fax. Il primo la fa dialogare ogni giorno con i detenuti del carcere di Rebibbia. "Tradurre significa sapere ascoltare ed è proprio quello che devi fare in carcere", racconta ad HuffPost. "È come una ginnastica mentale, emotiva, che mi aiuta ad essere più aperta e ricettiva nei confronti delle storie e delle parole degli altri". Federica Aceto è una professoressa tra le mura. In Italia sono in 763 per quasi 54mila detenuti, uno ogni 71 detenuti. Come lei Edoardo Albinati, scrittore da premio Strega e da vent'anni professore a Rebibbia, che ha descritto i colleghi carcerari come "stremati, scettici, spesso sarcastici sul loro lavoro, e al tempo stesso stranamente orgogliosi, con punte che sfiorano un idealismo di annata". Ha anche stilato una lista di otto punti dolenti del sistema: carenza di aule e di materiali didattici, la bassa percentuale di detenuti che frequenta le lezioni, l'alta percentuale di abbandono, le difficoltà emotive e organizzative che travolgono gli insegnanti di fronte a classi così disomogenee. I requisiti sono gli stessi che ci vogliono per una qualsiasi scuola. Nessun corso di formazione aggiuntivo né preparazione ad hoc. Si può chiedere il trasferimento come per tutti gli altri istituti. Lo stipendio è lo stesso. Eppure pochi professori lo vedono come un'opzione professionale. Per fortuna c'è chi sceglie di tentare. Come quando, otto anni fa, Federica ha chiesto di essere trasferita dalla scuola media di Roma dove insegnava Inglese a quella di Rebibbia. Una scelta istintiva, frutto di curiosità: "Il mondo del carcere è difficile da vedere da vicino, perché per quanto necessario capisci quanto sia ingiusto", racconta. Che un traduttore in Italia faccia due lavori è normale - visti i pagamenti risicati (dai 10 ai 20 euro a cartella) e in ritardo - ma in questo caso i due mestieri si aiutano a vicenda: "In carcere c'è una varietà linguistica unica. Entri in contatto con tante sfumature umane, mentre fuori finiamo sempre per incontrare le stesse persone". La sua "ginnastica" inizia ogni giorno quando arriva alle porte del carcere e deve passare i controlli di sicurezza. Può entrare soltanto con borse trasparenti e deve lasciare il cellulare, il kindle e tutto quello che ha di elettronico. Non può tenere con sé medicine o limette per le unghie, solo penne e pezzi di carta. "Noi insegnanti siamo sempre considerati ospiti in carcere, non dipendenti. Se portiamo pennette usb devono essere visionate. E va a finire che si fanno lezioni molto spartane e frontali", racconta Federica. Mancano alcune materie, come educazione tecnica o storia dell’arte. Se si rompe una fotocopiatrice è un problema, perché non ci sono soldi per ripararla. Non esistono i compiti a casa e i professori non possono portare i saggi scritti a casa per correggerli. "E non ci sono genitori di mezzo!", precisa la traduttrice. I suoi studenti sono tutti adulti. Alcuni stranieri sono anche laureati. Ma lei, che insegna inglese, fatica soprattutto quando deve convincere i detenuti a guardare verso il futuro: "È una lingua che soprattutto gli italiani collegano all'idea di "partenza", "viaggio", "libertà". Perciò alcuni all’inizio fanno resistenza alla materia, gli sembra inutile, soprattutto se hanno condanne lunghe". Nuoro "cent’anni di memoria" con la storia dell’ergastolano arzanese Mario Trudu Ristretti Orizzonti, 22 giugno 2016 "Mario Trudu non sarà presente perché non ha avuto la necessaria autorizzazione ma la sua storia, quella del suo paese Arzana, della famiglia, dei suoi vecchi, sarà rievocata interamente, per ricordare, per riflettere, per conoscere". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento alla presentazione venerdì 24 giugno alle ore 18.30, a Nuoro, nella Biblioteca dell’Istituto Regionale Etnografico (ISRE) del libro "Cent’anni di memoria", edito da Stampa Alternativa. Il lavoro, pubblicato a un anno di distanza dal precedente "Tutta la verità", sarà presentato da Francesca De Carolis, che ha curato l’introduzione della pubblicazione, Natalino Piras, autore della prefazione e dall’avv. Monica Murru del Foro di Nuoro. "Appare singolare - sottolinea Caligaris - che una persona in carcere da 36 anni non ottenga di intervenire alla presentazione del suo libro. Forse si è trattato solo di un ritardo nella richiesta del permesso. Sembra però quasi una prassi consolidata, almeno nei confronti dei sardi, giacché neppure ad Annino Mele, con sette libri all’attivo, è stato mai permesso di condividere l’emozione di esprimersi pubblicamente. Ci sono ragioni - parafrasando il filosofo Pascal - che la ragione non riesce a comprendere. Sembrano tuttavia confermare l’incapacità da parte di alcuni di cogliere il significato più profondo dell’essere umano che intende con lo studio, l’impegno, la rivisitazione di se stesso e della sua storia ripristinare un colloquio con la società da cui è escluso per sempre". Condannato all’ergastolo ostativo, Mario Trudu si trova temporaneamente nel carcere di Oristano-Massama per poter fare colloqui con i familiari ed in particolare con una sorella gravemente ammalata. "L’auspicio - conclude la presidente di Sdr - è che Trudu possa restare definitivamente in Sardegna secondo quanto prevede la norma sulla territorialità della pena e partecipare alla presentazione del suo libro ad Arzana, nei prossimi mesi". Roma: sentimenti in musica, è festa a Regina Coeli di Adriano Gasperetti Dire, 22 giugno 2016 Quando varchi l’ingresso a Regina Coeli hai l’impressione di entrare in un pezzo di storia di Roma: si affaccia sul Tevere, è a due passi dal centro, da Trastevere. E poi come recita il detto a via della Lungara, dove c’è appunto il carcere, "ce sta ‘n gradino, chi nun salisce quello nun è romano, nun è romano e né trasteverino". Anche se la tradizione vuole che i gradini siano tre. Una volta dentro due lunghi corridoi freddi, spogli, accompagnano a volte i visitatori, a volte chi ha commesso un errore: tra l’uno e l’altro grandi e pesanti portoni che quando si chiudono alle spalle qualche brivido lo lasciano. Si arriva ad una sorta di piccola piazza interna sovrastata da un dipinto religioso: ti lascia quasi senza fiato, ad un certo punto ti aspetti di vedere spuntare il Libanese o il Freddo di Romanzo Criminale. E invece no. Prendendo un altro corridoio si arriva a quello della biblioteca che porta diritto diritto ad una sala dotata anche di un piccolo palco. Ed è lì che in occasione della ‘Festa della musicà, un momento emozionante, toccante, ha caratterizzato il pomeriggio di un gruppo di detenuti. "Musica dentro" è l’evento con cui musicisti e detenuti hanno festeggiato insieme appunto la Festa. È stata la ciliegina sulla torta che ha concluso l’edizione di quest’anno del progetto di musicoterapia in carcere "Musica dentro", voluto e finanziato dall’associazione "A Roma, Insieme - Leda Colombini" e dalla direzione del penitenziario e coordinato dalla musicoterapista Silvia Riccio. Quest’ultima è stata la grande protagonista dell’evento, coordinando, coinvolgendo e partecipando, anche soltanto con la vicinanza, alle esibizioni di artisti e detenuti. "Musica dentro" si tiene a Regina Coeli dal 2014, ed è un laboratorio di musicoterapia che permette ai detenuti di esprimersi e comunicare con il gruppo attraverso la musica, l’improvvisazione musicale, l’uso della voce e degli strumenti. Dal 2011 porta avanti i laboratori di musicoterapia ed arte-terapia avviati nove anni fa nella Sezione Nido di Rebibbia per le detenute e i loro figli da 0 a 3 anni, e da due anni il laboratorio di musicoterapia con i detenuti del carcere di Regina Coeli. "La giornata integra quanto già facevamo - spiega Silvia Riccio. I detenuti hanno così modo di esprimere sentimenti. Con gli strumenti è possibile così toccare certe corde". All’inizio non è stato facile: "C’era diffidenza - ammette - Silvia. Poi piano piano, dopo aver capito che non serviva competenza, che non ci sarebbe stato giudizio, si sono lasciati andare". Due ore circa di musica, balli, emozioni forti per i detenuti che hanno assistito in sala: "Grazie a nome di tutti gli altri detenuti", ha detto uno dei presenti. Il ringraziamento è andato agli artisti, amici di Silvia Riccio, che non hanno esitato ad accettare: i chitarristi Fabio Caricchia e Stefano Doneghà, la cantante Isabella Mangani, l’arpista Chiara Frontini, il chitarrista e bassista Valerio Mileto, il pianista Francesco Valori e il percussionista Massimo Ventricini. Applausi e ringraziamenti sono andati anche alla dottoressa Anna Angeletti, codirettrice di Regina Coeli che l’evento per la Festa della Musica lo ha voluto: "E non mi aspettavo una cosa del genere, così partecipata", ha detto visibilmente emozionata. La musica per esprimere i sentimenti, una verità anche per i detenuti di questo che è considerato un carcere "di passaggio". Una verità vera anche per i detenuti, una dozzina, che hanno dato vita ad una sorta di super gruppo che ha aperto l’evento legato alla Festa della musica. Chitarristi, percussionisti per un giorno e tutti insieme autori di una canzone che ha raccontato la rabbia per un presente certamente difficile: "Senti come grida la mia rabbia adesso che sono chiuso in una gabbia", il "rispetto e l’umiltà" che "ci ha insegnato la strada". È stato poi un crescendo di emozioni, di ritmo, di coinvolgimento di tutti i presenti, detenuti come pure visitatori: detenuti e artisti si sono alternati suonando canzoni della tradizione popolare, passando da canzoni romane come "Tutti c’hanno quarche cosa" e "A tocchi, a tocchi, la campana sona", alla ciociara "Ma come sona bene sto sonatore". Tra una canzone e l’altra i detenuti hanno provato a suonare le percussioni e hanno anche ballato la pizzica superando l’iniziale timidezza. Il finale è stato forse il momento più emozionante (tra gli artisti la commozione era evidente). Prima con il "Bar della rabbia", canzone in dialetto romanesco di Alessandro Mannarino e, soprattutto, con la splendida "Anima ribelle", scritta e cantata da Adriano, bravissimo chitarrista, detenuto come tanti altri. "La giornata di oggi rappresenta una sintesi del lavoro di Silvia", ha tenuto a sottolineare Lillo Di Mauro, vicepresidente di "A Roma insieme". "Speriamo che i fondi continuino ad arrivare", l’appello di uno dei detenuti. "Sicuramente arriveranno e il progetto andrà avanti", hanno precisato dall’associazione. Una bella notizia per chi ha vissuto un pomeriggio diverso, per chi ha provato la sensazione per un attimo di stare "in un ambiente pieno di musica. Neanche sembrava di essere in carcere". La forza della musica. Cagliari: detenuti protagonisti alla "Festa della musica" nel carcere di Uta Ristretti Orizzonti, 22 giugno 2016 "L’emozione di salire sul palco e la voglia di condividere parole e ritmi della tradizione sarda (Non potho reposare - A sandira) con quelli moderni dei Tazenda (Cuore e Vento) o con le melodie della Napoli di Renato Carosone (Tu vuò fa l’ammericano) hanno fatto assaporare due ore di spensierata libertà a un centinaio tra uomini e donne ristretti nella Casa Circondariale di Cagliari. Il miracolo della "Festa della Musica" ha regalato un’occasione per stare insieme mettendo tra parentesi la personale esperienza di detenuti". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", che con la socia Rina Salis Toxiri ha presenziato all’appuntamento culturale. "La partecipazione da protagonisti all’evento, ha confermato - sottolinea la presidente di Sdr - la necessità per i cittadini privati della libertà di moltiplicare le occasioni di socialità per rafforzare il clima collaborativo e raggiungere una sempre maggiore autonomia. In questo senso la volontà del Direttore dell’Istituto Gianfranco Pala, il lavoro dello staff degli Educatori, coordinato da Claudio Massa, e l’azione della Sicurezza, curata da Alessandra Uscidda hanno avuto un particolare esito positivo". "Dispiace che a fronte di un Teatro polivalente di 450 posti a sedere - evidenzia ancora Caligaris - sia stato possibile far assistere allo spettacolo solo un centinaio di detenuti perché manca il collaudo per la piena agibilità dello spazio. Singolare poi che la struttura non sia dotata delle attrezzature di scena e degli indispensabili strumenti per l’acustica. La "Festa" tuttavia è riuscita anche per la disponibilità del gruppo musicale di 4 elementi "Chorodìa" diretto da Noemi Cabras e dei cori dei detenuti "Cappellania" con il supporto di Paolo Sorrentino e "La Luce" di Uta diretto da Gigi Oliva". Il progetto culturale, coordinato da Marco Santolisier che ne ha illustrato le caratteristiche, è stato organizzato dalla Direzione dell’Istituto "Ettore Scalas", nell’ambito della Festa Nazionale della Musica, promossa dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (Mibact). Napoli: io e Gianni Morandi a Poggioreale di Antonio Mattone Il Mattino, 22 giugno 2016 Il carcere di Poggioreale come una piazza di un paese dove si tiene un concerto di inizio estate. Appena Gianni Morandi entra nella chiesa del penitenziario, i detenuti presenti si alzano in piedi e scoppia un fragoroso applauso. Subito si crea un feeling tra il cantante bolognese e i carcerati. Sono 200 e provengono dai padiglioni Italia, Livorno e Firenze. Molti sono napoletani, qualcuno è straniero, tantissimi i giovani. Morandi intona "Se perdo anche te" e l’atmosfera subito si surriscalda. Interloquisce con i ragazzi, li chiama sul palco per cantare con lui o per la richiesta di un brano. Vincenzo di Scampia, 31 anni e tre figli, chiede di cantare "In ginocchio da te. " A chi la vuoi dedicare " chiede il cantante. "A mia moglie - risponde il ragazzo - mi diceva di andare a lavorare ed io non ci sono andato, ed oggi sono in galera". "Ma come fai a conoscere questa canzone - replica Morandi - mica hai 70 anni?" In fondo, che "al mondo non esiste chi non ha sbagliato nemmeno una volta", è una verità antica. Poi si continua con "Un mondo d’amore" e, ancora "Vita". "Vita in te ci credo, le nebbie si diradano" dice il testo della canzone. A Poggioreale, per un pomeriggio, le nebbie che si diradano sono quelle dell’isolamento. Tutti cantano, anche gli operatori penitenziari presenti e i volontari della Comunità di Sant’Egidio che ha organizzato l’evento. Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando sorride soddisfatto. Quest’anno, per la prima volta nella storia del carcere, in prima fila accanto a lui e al direttore Antonio Fullone, siedono anche i carcerati. È una vera rivoluzione. "Il carcere non è un luogo estraneo alla società civile", afferma il Guardasigilli. Morandi vuole conoscere le storie, fa tante domande: quanto tempo devi stare ancora qui? Fuori hai delle persone che ti vogliono bene? Ma una faccia così simpatica come la tua, cosa può aver fatto di male? E ancora. Ti viene a trovare tua moglie, ti porta un regalo? E il detenuto risponde che i figli sono il regalo più bello. "Ma guarda che sono una responsabilità- replica l’artista". Nella platea si intrecciano storie di dentro e di fuori al carcere. Un giovane chiede di dedicare "Solo insieme saremo felici" ad una cugina che vive a Latina e che lo aspetta quando uscirà. Un altro detenuto rivela che lo scorso 5 maggio ha incontrato il cantante in una trattoria di via Tribunali che ha dedicato una canzone al figlio che compiva gli anni. "Ed ora - dice sconsolato - sono qui". Il legame tra Napoli e Morandi è profondo e antico. È iniziato quando girava i film negli anni 60 nel capoluogo partenopeo, vestito da militare, e quando teneva i concerti alla Sanità dove alla fine per salutarlo tutti sventolavano i fazzoletti. Ma è anche l’amicizia con Lucio Dalla che gli raccontava della passione e dell’allegria dei napoletani. E quando intona "Caruso", è tutto un coro che canta commosso. Così come l’accenno a "Quando" e Napul’è" di Pino Daniele. Poi è la volta de Il padrino. Il pubblico accompagna la melodia della canzone, la musica sembra riuscire a sciogliere la durezza di vite difficili, e "ci aiuta a stare insieme", aggiunge Morandi. Uno su mille è la canzone della risalita, di quando si sta a terra nella polvere e non si vede via d’uscita. Un inno alla vita e alla speranza che chissà quante volte i carcerati hanno cantato in cuor loro. Un Pulcinella di terracotta è il regalo per ricordare questa memorabile giornata. Il concerto, dopo quasi due ore finisce. Un gelato al limone offerto dai volontari rinfresca e rende meno triste il rientro in cella. Morandi saluta uno per uno i detenuti, stringe le mani a tutti e si fa fotografare con loro. Sembra non volerli lasciare più. All’uscita del portone del carcere chiede se i anche chi viene scarcerato varca quella porta. E si fa ritrarre mentre esce, immedesimandosi in uno di loro. Sicuramente gli saranno tornate in mente le parole della sua canzone, "perché al mondo non esiste chi non ha sbagliato nemmeno una volta". Palermo: al Sole Luna Film Festival un progetto per i detenuti blogsicilia.it, 22 giugno 2016 Si arricchisce ancora di più ai Cantieri culturali alla Zisa (in via Paolo Gili 4 a Palermo), il programma dell’undicesima edizione del "Sole Luna Doc Film Festival", ideato da Lucia Gotti Venturato con la direzione artistica di Gabriella D’Agostino. Giovedì 23 giugno al Cinema De Seta la giornata si apre alle 17, con la presentazione del progetto "I Classici in Strada" e del laboratorio teatrale "Esopo a modo nostro", un’iniziativa pensata per il carcere dell’Ucciardone, che ha visto la partecipazione di un gruppo di studenti delle scuole palermitane. Il progetto "Esopo a modo nostro" consiste in uno spettacolo teatrale a cui partecipano alcuni detenuti del carcere dell’Ucciardone, insieme a studenti della città e dedicato ai Classici. Ha visto la luce nel 2015, in collaborazione con l’Asvope (Associazione di Volontariato Penitenziario), quando i detenuti, dopo aver seguito un laboratorio teatrale di sei mesi, hanno messo in scena brani dell’Iliade e dell’Odissea e nel 2016 si ripropone con le favole di Esopo. In questa occasione, alle 17 sarà presentato il filmato che documenta il dietro le quinte del progetto. Alle 21 si ricomincia, sempre al Cinema De Seta, con le proiezioni dei film in concorso con Irrawaddy Mon Amour del trio Valeria Testagrossa, Nicola Grignani, Andrea Zambelli. Le leggi contro l’omosessualità in Birmania ostacolano il compimento delle nozze di un venditore ambulante e di un muratore. Solo l’aiuto di un attivista, uno sciamano, un maestro elementare e di un truccatore aiuteranno i due a coronare il proprio sogno d’amore. Seguirà A Better Place di Giulia Della Casa dove un gruppo di ragazzi congolesi, per sfuggire alla guerra, trova rifugio in Zambia, il posto migliore che potessero mai desiderare per garantirsi la sopravvivenza. Nel successivo Le baiser de Marseille, della francese Valérie Mitteaux, la gioventù lesbica francese si racconta partendo da Marsiglia dove nel 2012 urlavano a gran voce contro coloro che manifestavano contro adozioni e nozze omosessuali. La Francia non è esente da discriminazioni e questo film lo documenta con sguardo libero. Nello Spazio Arena, alle ore 21, la proiezione di un’opera che può essere elevata a manifesto dell’intera sezione Diritti umani del Festival: 16 Years Till Summer di Lou McLoughlan dipinge il rientro a casa dopo 16 anni di carcere di un uomo, con un impegno e una complessità di sguardo davvero rari. Il film è un insieme di cuore e testa, realismo magico e tragedia documentata. Chiude la serata di proiezioni nello Spazio Arena Taksim, Chronicle of the Tree Revolution della coppia Jo Béranger, Christian Pfohl, solido racconto del dramma della "gentrificazione" nel centro di Istanbul, quartiere Gezi Park, dove nel maggio 2013 prese avvio un movimento di protesta al potere di Erdogan. Radio Carcere: Donne detenute? Ecco la sezione femminile del carcere di Bergamo Ristretti Orizzonti, 22 giugno 2016 Puntata di Radio Carcere dedicata alle donne detenute nel carcere di Bergamo. Titolo: "Donne detenute?". Ecco la sezione femminile del carcere di Bergamo dove 3, 4 e anche 5 donne vivono in celle piccole e degradate. Link: http://www.radioradicale.it/scheda/478686/radio-carcere-donne-detenute-la-sezione-femminile-del-carcere-di-bergamo-dove-3-4-e "Sbirri e Padreterni", di Enrico Bellavia. Il dialogo mai interrotto tra boss e uomini dello Stato di Attilio Bolzoni La Repubblica, 22 giugno 2016 Nel suo nuovo saggio Enrico Bellavia ripercorre la storia delle tante piccole o grandi trattative con le mafie da Lucky Luciano al "Protocollo fantasma" del dopo stragi. Tutti dicono mafia e pensano solo alla faccia sconcia di Totò Riina o ai suoi tirapiedi di Corleone, a borgate fradice di sangue, a faide e a riti tribali. Tutti dicono mafia e subito dividono il mondo in due: noi da questa parte, loro dall'altra. Se vi avventurate però nella lettura di questo intrigante libro di Enrico Bellavia, scoprirete che la faccenda è un po’ più complicata e capirete perché la mafia esiste e resiste da almeno un paio di secoli. Della mafia c'è una narrazione ufficiale e innocua che piace tanto al potere, ce n'è un'altra giudiziaria che soffre di tutti i limiti temporali e dei sacrosanti confini che impone la legge, ce n'è una terza più sottotraccia dove non si distinguono più chi sono le guardie e chi sono i ladri e dove un canale permanente di comunicazione mette in contatto grandi boss e funzionari di alto rango, assassini e spie. Una linea sottile, quasi invisibile. "Sbirri e Padreterni" (Laterza) racconta proprio della "duratura, stabile, alleanza tra un pezzo delle istituzioni e Cosa Nostra", trame che Bellavia ricostruisce con sapienza attraverso una robusta documentazione e con gli "approfondimenti" di Franco Di Carlo, ex boss dei Corleonesi diventato collaboratore di giustizia. Uno che, grazie al "dialogo con le istituzioni ", in Cosa Nostra era riuscito a conquistarsi un posto al sole. Del famoso processo sulla trattativa Stato- mafia di Palermo Bellavia ne scrive ma tenendosi lontano dalla cronaca e dalle polemiche che ne contrassegnano il suo svolgimento, scegliendo di collegare avvenimenti e personaggi per inserirli di volta in volta in un contesto, in un "momento" della vita politica del Paese. Analisi e testimonianze che vanno ben oltre le risultanze investigative o processuali, per spiegare nel dettaglio "il vizio italiano dell'accordo sotto banco". In ogni pagina c'è un mafioso che tratta con un uomo dello Stato o - più esattamente, e la differenza non è poca - c'è un uomo dello Stato che tratta con un mafioso. È una rappresentazione della cosiddetta "lotta alla mafia" quasi del tutto inesplorata, un gioco degli specchi, un traffico di informazioni fra doppi e tripli giochi dove quello che veramente conta è la sopravvivenza di un sistema di potere. Luogo privilegiato per questi "baratti" sono sempre state le carceri, in Sbirri e Padreterni c'è un elenco infinito di patti che comincia da Lucky Luciano - passa da Raffaele Cutolo - e finisce nei misteri di quel "Protocollo Fantasma" che autorizzava dopo le stragi del 1992 le scorribande degli 007 fra i bracci più protetti. "Il carcere", scrive Bellavia, "con i suoi patimenti e le sue astuzie, le sue morti sospette e i suoi obliqui ravvedimenti, è perfino capace di coniare nonsense come "è stato suicidato"...". Dei suoi tanti incontri avuti dietro le sbarre con gli spioni ne parla Di Carlo, che rivela molte delle sue "relazioni" con gli apparati polizieschi quando era uno che contava nell'esercito corleonese. Capitolo dopo capitolo affiorano nomi e volti dei "guastatori" che si muovevano o si muovono ancora nelle terre di confine. Il capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera, i Madonia di Resuttana, i generali Mario Mori e Antonino Subranni, il misterioso "signor Franco" evocato e mai identificato da Massimo Ciancimino, il boss-informatore Luigi Ilardo, il numero tre del vecchio Sisde Bruno Contrada. E "Faccia da mostro", un poliziotto in pensione a lungo sospettato di avere avuto un ruolo nei delitti eccellenti di Palermo. I ricordi di Franco Di Carlo hanno reso molto denso il racconto. Qualche anno fa Bellavia aveva firmato con lui una biografia dell'ex boss, ma questa volta insieme si sono spinti più avanti e più "dentro". Alcune delle vicende descritte sono state accennate anche sulle pagine di Repubblica, retroscena su uomini in divisa e uomini d'onore. E ogni volta sono arrivati puntualmente avvertimenti in redazione. Anche una lettera anonima indirizzata a Bellavia: "Lasci perdere di scrivere insieme all'amico suo Franco Di Carlo storie passate. Tante volte fanno male!". A naso, l'anonimo non sembrava provenire da Corleone e nemmeno dalla Sicilia. Ma da qualche palazzo governativo. Caso Regeni. Amnesty: "Internazionalizzare la ricerca della verità" di Chiara Cruciati Il Manifesto, 22 giugno 2016 Intervista al portavoce dell'associazione che invia una lettera alla Farnesina e lancia una campagna Twitter per fare pressioni sul governo italiano. A 5 mesi dalla scomparsa del ricercatore nessun passo avanti è stato compiuto. Una pioggia di tweet per avere verità. È la nuova azione pensata da Amnesty International, all’interno della campagna "Verità per Giulio", e diretta al governo italiano. Con un obiettivo chiaro: fare pressioni perché Farnesina e Palazzo Chigi attivino le misure "immediate e proporzionali" promesse mesi fa di fronte all’apatia egiziana e tenere accesi i riflettori sulla campagna repressiva del Cairo che soffoca come mai prima la società civile. I numeri non fanno che moltiplicarsi: 41mila prigionieri politici, quasi duemila arrestati solo ad aprile, 1.700 desaparecidos nel 2015, 754 omicidi extragiudiziali nei primi cinque mesi del 2016, processi di massa e condanne a morte contro membri o sostenitori dei Fratelli Musulmani e contro giornalisti. "Internazionalizzare" la pressione sull’Egitto è la parola d’ordine, spiegata in una lettera inviata al ministro degli Esteri Gentiloni. Ne abbiamo parlato con Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia. Con la Twitter Action prevista per il 25 e il 26 giugno la società civile italiana torna lo strumento di pressione su Roma... La campagna "Verità per Giulio" andrà avanti d’ora in poi facendo leva sulle pressioni politiche alle istituzioni italiane perché nessun passo avanti è stato compiuto. Con la Twitter action del 25 e 26 giugno [date simboliche, il 25 cade a 5 mesi dalla scomparsa al Cairo di Regeni, il 26 è la Giornata internazionale per le vittime della tortura] avremo come riferimento la Farnesina e Palazzo Chigi perché nella fase attuale il timore è che le pressioni sull’Egitto calino invece di aumentare. Spero sia un’azione di grande impatto, frutto della mobilitazione della società civile. "Internazionalizzare" la questione significa utilizzare gli strumenti internazionali che esistono già, come i meccanismi Onu nella Convenzione contro la tortura del 1984, illustrati nella lettera inviata ieri a Gentiloni: l’articolo 30 prevede che, a fronte di una controversia sull’applicazione della Convenzione, ogni Stato aderente può promuovere un’azione nei confronti di quello che l’avrebbe violata. Allo stesso modo penso che l’Italia debba mettersi alla guida di un’azione globale: il governo dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di promuovere l’adozione, nell’ambito del Consiglio dei diritti umani Onu, di una dichiarazione congiunta di un numero notevole di Stati sulla situazione pessima dei diritti umani in Egitto. Eppure finora il governo italiano non ha mantenuto le promesse. Dopo il richiamo dell’ambasciatore nessun’altra misura è stata adottata mentre il premier Renzi si limita a dire che Roma segue ancora la vicenda... Le istituzioni italiane hanno il desiderio che questa vicenda si chiuda, possibilmente in senso soddisfacente. Ma ho la sensazione che prevalga l’esigenza di normalizzazione dei rapporti con l’Egitto. Per questo rendere pubblico il nome del nuovo ambasciatore è stata una mossa intempestiva. A ciò si aggiunge un atteggiamento di delega verso la Procura di Roma: se la Procura non prende posizione, neanche il governo la prende; se la Procura lamenta di aver ricevuto materiale insufficiente o contradditorio, allora il governo interviene. Non deve essere la magistratura a dettare la linea. Allo stesso modo le istituzioni riprendono vita solo quando la famiglia di Giulio parla, con un carico di dolore immenso, che succeda alla Camera dei Deputati o al parlamento europeo. A proposito di Europa, come valuta il comportamento di Bruxelles, la cui commissione annuncia il dialogo con Il Cairo per la questione migranti pochi giorni dopo l’incontro del parlamento con i genitori di Giulio, che hanno chiesto di considerare l’Egitto paese non sicuro? Non è la prima vola che il parlamento si muove a difesa dei diritti umani e la commissione fa il contrario. Non mi meraviglia. Il tema del ruolo dell’Egitto come partner strategico era stato già annunciato dal presidente egiziano al-Sisi, o meglio minacciato, nell’intervista a Repubblica. Se si continua a preferire l’esternalizzazione delle responsabilità alla loro condivisione si arriverà a fare dell’Egitto il partner a cui delegare il blocco delle partenze, come accade già con la Libia. Così, dopo la risoluzione dello scorso marzo del parlamento europeo che definiva Giulio "cittadino europeo", la risposta delle altre istituzioni europee si è mossa in senso opposto. In questo modo non è l’Egitto a essere isolato, ma l’Italia. Nei giorni scorsi polemiche si sono sollevate anche in merito al ruolo dell’Università di Cambridge, tra accuse all’ateneo e alzate di scudi a sua difesa. Qual è la posizione di Amnesty in merito? Noi siamo convinti da sempre che la verità sulla morte in Giulio si trovi al Cairo e che alla ricerca della verità debbano partecipare tutti. Se devo prendere una parte, prendo quella della Procura di Roma che ha mosso una rogatoria per avere informazioni da Cambridge. È sorprendente che abbia avuto esiti diversi da quelli sperati. Certo, se questo rumore sull’università ha come conseguenza l’attenuazione delle responsabilità di al-Sisi, non ci sto. Ma non mi piace nemmeno lo schierarsi a spada tratta con Cambridge se non collabora. Stati Uniti: bocciata la proposta di limitare la vendita di fucili d'assalto di Victor Castaldi Il Dubbio, 22 giugno 2016 Il Senato americano vota, la lobby delle armi ringrazia. Come era prevedibile il Senato degli Stati Uniti non si mette di traverso alla potente lobby delle armi rappresentata dalla National Riffle Association (Nra) e vota contro una proposta di legge per limitare l'acquisto di pistole e fucili. L'America stia ancora piangendo i morti provocati dalla sparatoria di Orlando, in Florida, che ha provocato 49 vittime e 53 feriti, colpiti dai proiettili di un fucile d'assalto AR-15 acquistato legalmente dall'attentatore Omar Mateen. Eppure i senatori hanno respinto le quattro misure, due presentate dai Repubblicani (maggioranza al Congresso) e due dai Democratici che imponevano un giro di vite nelle procedure per comprare armi negli Stati Uniti. Le due proposte democratiche prevedevano di impedire di acquistare armi agli americani inseriti nelle liste dei sospetti dell'Fbi o sull'elenco di quanti non sono autorizzati a salire su un aereo. Inoltre venivano previsti anche controlli più severi sui precedenti criminali e mentali per quanti acquistano armi alle tradizionali fiere delle armi, diffusissime e dove non esistono verifiche sugli acquirenti, e su internet. I Repubblicani si sono opposti a queste misure, appellandosi al II emendamento della Costituzione, che garantisce il diritto a "possedere armi". La proposta dei rappresentanti del Grand Old Party, invece, prevedeva di instaurare un periodo di attesa di 72 ore tra l'acquisto dell'arma e la sua consegna effettiva, sempre per quanti sono sulle liste dei sospetti dell'Fbi, per consentire ai federali di ottenere da un giudice un ordine per impedire la vendita nel caso di rischi comprovati. I democratici, però, hanno bocciato le proposte avversarie. Nulla cambia, dunque, negli Stati Uniti. Da anni il Parlamento discute sul metodo migliore per ridurre il numero di armi in circolazione - 357 milioni su 318 milioni di abitanti - ma l'opposizione della lobby NRA ha sempre stroncato qualsiasi tentativo di regolare la compravendita di pistole e fucili. A nulla sono serviti gli appelli del presidente Barack Obama, che dall'inizio del suo mandato chiede di affrontare il problema della diffusione delle armi. Intanto, le sparatorie continuano a insanguinare le strade d'America, e l'arma preferita dei killer sembra essere sempre la stessa: il fucile d'assalto AR-15, che fa da filo conduttore a tutte le stragi più drammatiche. L'arma, infatti, è stata usata nel 2012, per la mattanza alla scuola elementare Sandy Hook, nel Connecticut, dove Adam Lanza uccise 20 bambini e 6 adulti. Con lo stesso modello, sempre nel 2012, James Holmes uccise 12 persone e ne ferì 58 dentro un cinema di Aurora, in Colorado. Infine, l'AR-15 è stato usato anche per la recente strage di San Bernardino, in California, dove una coppia massacrò 14 colleghi. Rendere più umane le carceri brasiliane di Luigi Medici agccommunication.eu, 22 giugno 2016 Il Brasile cerca di "umanizzare" il proprio sistema carcerario, afflitto da sovraffollamento, violenza, mancanza di controllo istituzionale, con situazioni di estrema crudeltà per i detenuti. Il Brasile ha la quarta più grande popolazione carceraria al mondo dopo Stati Uniti, Cina e Russia. Ad aggravare la situazione sta la gestione delle strutture da parte degli enti regionali, con politiche e risorse diverse, che si traduce in una grande varietà di condizioni nelle 1.420 sue carceri. A Rio de Janeiro, lo stato con la terza più grande popolazione carceraria, dopo San Paolo e Minas Gerais, si sta tentando un esperimento pilota a Bangu, ossia al Complejo Penitenciario de Gericinó, riporta Efe. Il sovraffollamento, secondo i più recenti dati ufficiali, continua ad essere il problema principale, con 47673 "ospiti" tra uomini e donne, 20457 dei quali in attesa di giudizio. Il dato è molto preoccupante perché il sistema carcerario dello Stato ha spazio solo per 27500 detenuti. La detenzione preventiva e in attesa di giudizio è il problema più grave perché molti, secondo i dati ufficiali, saranno assolti o condannati a pene inferiori rispetto al tempo della carcerazione preventiva. L'esperimento prevede un lavoro anche con i tribunali per accelerare le udienze di conferma della detenzione, che potrebbero limitare fino al 50 per cento il numero di nuovi detenuti. Nello stato, poi, sono in costruzione quattro nuovi centri di detenzione e si stanno studiando nuove forme di pena come i servizi obbligatori alla comunità. Inoltre, la sovrappopolazione è aggravata dalla violenza delle bande presenti all'interno delle strutture, un dato che di fatto rende le carceri una fucina di nuovi criminali. Marocco: Mohammed VI lancia programma di reinserimento di ex detenuti Nova, 22 giugno 2016 Il re del Marocco, Mohammed VI, ha lanciato un programma finalizzato a sostenere il lavoro autonomo di ex-detenuti. Il progetto, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa marocchina "Map", rientra nelle attività sociali previste per il mese di Ramadan del 2016. Il capo dello stato si è recato ieri nella prigione Oukacha a Casablanca, per inaugurare il programma di sostegno a micro-progetti per il lavoro autonomo degli ex detenuti. Il re ha presieduto anche alla cerimonia della firma di tre convenzioni concernenti l'impiego di ex detenuti. Usufruiranno di questo progetto 333 detenuti mentre sono stati stanziati per la sua realizzazione 500 mila euro.