Giustizia in Italia, tra errori giudiziari e memoria a breve termine di Andrea Spinelli crimeblog.it, 21 giugno 2016 In questi giorni imperversa una forte polemica in ambienti giudiziarie politici sul rifiuto del Senato di concedere una delle sue sale per la presentazione del libro "Lettere a Francesca", scritte da Enzo Tortora durante la drammatica esperienza in carcere alla sua compagna Francesca Scopelliti. Ne ha dato notizia la stessa Scopelliti, oggi presidente della Fondazione Enzo Tortora, spiegando come nella lettera di diniego ricevuta dalla Presidenza del Senato il 7 giugno scorso si la mancata concessione in questo modo: "la proposta non può essere valutata positivamente, non essendo la presentazione del libro collegata alle finalità istituzionali del Senato". Inizialmente il Senato aveva dato il suo assenso alla presentazione del libro, che contiene scritti inediti e toccanti, e che come spiega la stessa Scopelliti offre una visione autentica sul periodo di carcerazione di Enzo Tortora, ingiusta e frutto di una montatura nella quale i pm caddero con tutta la toga. Motivi per i quali era stata richiesta un'attenzione particolare da parte di un'istituzione come il Senato, secondo organo dello Stato per importanza. Il libro "parla di un uomo che, a dispetto di chi lo voleva vittima, si è fatto protagonista di una nobile battaglia per la giustizia, diventando così un grande leader politico in Italia e in Europa". Niente di più vero. Ma è anche vero che il Presidente del Senato Piero Grasso nella sua carriera di magistrato prima, di politico poi e di seconda carica dello Stato oggi non ha mai proferito parola nè promosso impegni sulle carceri, la vita nelle patrie galere e sulle tante, troppe, detenzioni ingiuste. Un fatto che allontana molto la figura dell'uomo da quella dell'istituzione, che va ricordato essere il presidente del Senato di tutti gli italiani, colpevoli e innocenti, carcerati in attesa di giudizio o liberi. In buona sostanza sarebbe quasi stato strano aspettarsi il contrario. "Se tutti questi argomenti non rispecchiano le finalità istituzionali del Senato, allora mi deve spiegare quali sono e come giustifica tante altre iniziative che hanno invece ottenuto il sigillo senatoriale. Naturalmente rispetto la decisione del presidente del Senato ma, mi si perdonerà la franchezza, spero non sia stata dettata più dal suo passato di magistrato che dalla attuale veste di seconda carica istituzionale del paese. Sarebbe un'ulteriore ferita per Enzo Tortora". La presentazione si è poi svolta altrove, presso la Camera di Commercio di piazza di Pietra a Roma, mentre un portavoce di Grasso spiegava che sul "diniego standard" si è ricamata una polemica ad arte. La miglior difesa, d'altra parte, è sempre l'attacco. Ma la realtà è che, in Italia, di carcere si fa ancora troppa fatica a parlare. 'Non voltarti indietrò, di cui vi proponiamo il teaser in testa a questo post, è il primo docufilm sugli errori giudiziari realizzato in Italia: cinque storie di persone normali, una commercialista, uno stilista di moda, un impiegato delle poste, una dipendente di una provincia, un assessore di un piccolo comune, che vengono travolte dalla giustizia che sbaglia, da processi interminabili, dal carcere ingiusto. Cinque storie a perfetti sconosciuti che potremmo essere noi. Il docufilm è prodotto da errorigiudiziari.com ed è in concorso al Pesaro Doc Film Fest e all'Ischia Film Festival: si tratta di un vero e proprio ritratto a più voci che cerca di restituisce la misura incolmabile di autentici calvari consumati tra le celle dei penitenziari, le mura domestiche e i tribunali, per poi trovarsi a fare i conti con la rinascita e il tentativo di mettere alle spalle quell'esperienza che ha lasciato ferite difficili da rimarginarsi. Il carcere, questo grande rimosso della coscienza collettiva del Paese di chi pensa che se si è in cella "qualcosa avrà fatto" o "se la sarà andata a cercare", è in realtà il lato oscuro della coscienza di ognuno di noi, che stinchi di santo certo non siamo. Quella di Enzo Tortora è una vicenda che ricordano tutti nelle cronache ma i cui fatti si sono smarriti nella memoria a breve termine di un Paese incapace di reagire, se non di stomaco, alle ingiustizie che ogni giorno vengono commesse dallo Stato contro i propri cittadini. Violenze terribili, ingiustizie inenarrabili ma che vanno raccontate un pò per esorcizzare e un pò per continuare ad alimentare quella speranza che oggi sembra essersi smarrita dentro un 41bis. E se poi arriva l’avviso di garanzia? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 21 giugno 2016 I ballottaggi hanno confermato le tendenze espresse dal voto di quindici giorni fa: vittoria netta dei Cinque stelle, sconfitta netta del Pd, risultato non positivo ma neppure drammatico per la destra berlusconiana. Detto in termini un pò più generali, forte affermazione della spinta populista, che in tutto l’Occidente sta mettendo in discussione molte certezze della stabilità politica. C’è chi dice che stia minacciando addirittura la democrazia politica classica, e può darsi che sia così, ma questo è un discorso più complesso e ha una dimensione che comunque supera la dimensione nazionale. Intanto però possiamo porci alcune domande - tutte dentro la politica italiana - su alcune questioni cruciali. 1) La vittoria dei grillini - travolgente in città decisive come Roma - avrà come conseguenza quella di uno spostamento dei partiti tradizionali su posizioni più grilline, cioè più populiste, o invece - al contrario - la necessità di misurarsi col problema di governare le grandi città spingerà i Cinque stelle a spostare il loro populismo, rendendolo compatibile con i nuovi compiti che si assumono, e dunque più concreto, meno gridato, meno demagogico? Diciamo pure: meno populista. 2) Esiste un populismo di governo? Cioè è possibile coniugare le spinte essenziali del populismo (l’antipolitica, il giustizialismo, l’anti-intellettualità, il giovanilismo, l’idiosincrasia per la storia e per la mediazione, il complottismo, la leggenda metropolitana) con le ragioni della governabilità? Finora, nei grandi paesi occidentali non è mai successo che una forza autenticamente populista (e quindi non collegata a grandi interessi, o a grandi poteri, o a una classe sociale di riferimento potente e insediata socialmente) fosse chiamata a governare. Ora questa possibilità si avvicina. I Cinque stelle dovranno governare Roma, Torino e un’altra ventina di comuni e si candidano alla guida del paese con ottime possibilità di vittoria, se resterà la legge elettorale Renzi- Boschi. 3) Il giustizialismo, che è uno dei pezzo forti dei Cinque stelle, può restare intatto di fronte all’attivismo di alcune Procure che difficilmente rinunceranno a influire sulla vita politica, e in particolare su quella delle amministrazioni locali? Prendiamo il caso di Roma. Marino sicuramente è stato cacciato da una iniziativa molto forte della stampa, è vero, ma il "recapito", al momento giustissimo, di un paio di avvisi di garanzia ben studiati dalla Procura di Roma è stato di grande aiuto, no? Ora chiunque abbia seguito un pochino le vicende politiche di regioni e Comuni degli ultimi anni sa benissimo che per un sindaco o un presidente di regione che operi in presenza di una di quelle Procure - come dire? - un pò "protagoniste", è assai difficile (anche se è un’ottima persona) evitare un avviso di garanzia. Che sia per una cena pagata con la carta di credito sbagliata (tipo Marino) magari una roba di 200 euro, che sia per un abuso d’ufficio - che non si nega proprio a nessuno - o per l’assunzione di qualche precario, o per un temporale non previsto, o per aver promesso, magari, qualche posto di lavoro, nessun amministratore può stare tranquillo. Ne sanno qualcosa proprio i Cinque stelle, che su tre sindaci che avevano eletto finora in città medio-grandi ne hanno ben tre, cioè tutti, colpiti da una indagine penale. Ora il problema è che finché è Parma, o Livorno, passi. Ma se lo scandalo si apre a Roma o a Torino nessuno ti perdona. E poi a questo punto le città amministrate dai grillini sono parecchie, e non è che tra i Pm ci siano solo fans di Grillo, c’è anche una bella pattuglia alla quale il Pd non dispiace, e può darsi che vogliano dargli una mano, no? E allora forse sarebbe il caso che le varie forze politiche -Cinque stelle compresi - facessero un patto, scordandosi il passato. E cioè stabilissero che siccome una amministrazione comunale, specie se di una grande città, è scelta da molte migliaia di cittadini (o anche centinaia di migliaia) e un Pm, invece, è solo un pm ed è solo un pm, allora, d’ora in poi, quando arriva un avviso di garanzia nessuno si dimette: si aspetta il rinvio a giudizio, e poi il processo, e magari l’appello e la Cassazione. E che questa regola vale per tutti, non solo per i grillini (come è stato sin qui), perché in democrazia, purtroppo, non si possono fare regole diverse a seconda del partito di appartenenza. E l’impegno deve essere non solo quello che non ci si dimette - e, per esempio, Graziano torna ad assumere la segreteria regionale del Pd della Campania - ma anche che nessuno del partito avversario chiede le dimissioni. 4) Questa però non è una domanda ma un’osservazione. Se si dovesse arrivare a siglare un patto di questo genere, naturalmente, sarebbe un guaio per tutti. Dal momento che negli ultimi anni - diciamo, più o meno, dal 1992 in poi - la lotta politica in Italia, tranne poche eccezioni (lo scontro col sindacato) è avvenuta tutta attorno a vicende giudiziarie o a leggi da riformare per rendere più semplici e frequenti le azioni giudiziarie... è chiaro che abolire dall’agenda della lotta politica l’avviso di garanzia costringerebbe tutti a riprogrammarsi e ad iniziare a pensare politica, progetti, idee, e a lottare su problemi che riguardano i diritti, i rapporti sociali, l’organizzazione dell’economia: cose assai complicate, delle quali, magari, l’attuale ceto politico sa pochissimo. È un bel problema, capisco, però andrà affrontato. Robledo indagato per i 90 milioni non affidati al Fondo per la giustizia di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 21 giugno 2016 La procura della Repubblica di Brescia ipotizza il reato di abuso d’ufficio per l’ex procuratore aggiunto milanese Alfredo Robledo. Il Procuratore generale della Cassazione invece aveva archiviato il caso in via disciplinare nel dicembre del 2014. L’ex procuratore aggiunto milanese Alfredo Robledo è indagato dalla Procura di Brescia per l’ipotesi di abuso d’ufficio insieme a 3 dei 4 professionisti che nell’aprile 2009 nominò custodi, sulla Banca Credito Cooperativo di Carate Brianza, di 90 milioni sequestrati a 4 banche estere per truffa al Comune di Milano e non depositati sul neonato "Fondo unico giustizia" (Fug): da una proroga della pm Erica Battaglia si ricava anche che i 4 sono indagati solo dal 7 dicembre 2015 benché la storia fosse emersa nell’ottobre 2014 nello scontro tra il procuratore Bruti e Robledo, e nel dicembre 2014 fosse stata archiviata in via disciplinare dal Pg della Cassazione. La segnalazione al Csm - Bruti aveva segnalato al Csm non gli 87.000 euro al custode delle azioni Mario Doni (non indagato), ma le parcelle dei tre custodi in banca del denaro liquido: 483.000 euro nel 2010-2012 all’avvocato Federica Gabrielli (liquidata con le tariffe dei commercialisti), 457.000 nel 2011-2013 al commercialista Piero Canevelli, e 62.000 al collega Silvano Cremonesi. Aggiungeva Bruti: "Non risulta motivazione sulla scelta" nel 2009 della banca di Carate, ma "Robledo risiedeva a Carate fino al 2008". "Risiedo a Milano dal 2001", aveva ribattuto Robledo, tacciando Bruti di rinfacciargli nel 2014 ciò per cui invece il 18 febbraio 2012 lo aveva ringraziato in un sms ("Ho visto i giornali. Ottimo impatto. Complimenti per tutta la gestione. Edmondo") dopo la transazione da 455 milioni che il Comune, grazie al processo, aveva strappato alle banche poi condannate in Tribunale ma assolte in Appello. Robledo additava al Csm analoghe scelte di pm a Bari e gip a Monza, e l’obbligo di intestazione al Fug incombente per legge "sugli operatori finanziari" come la Bcc di Carate (alla quale mai il ministero dell’Economia ha contestato irregolarità su eventuale richiesta del Fug): banca scelta - spiegava il pm - perché senza scopo di lucro, senza derivati, e con garanzie anticrisi. Nei suoi calcoli i custodi contrattarono con la Bcc condizioni che (invece dei 2,2 milioni di interessi attesi in base alle serie di Bankitalia 2009/2012) fruttarono 3,6 milioni: pur detratti i soldi ai custodi, per Robledo rimaneva "un utile di 392.588 euro", anzi "584.834 con l’Iva mera partita di giro". Nessun rilievo disciplinare - A fine 2014 il procuratore generale della Cassazione escluse rilievi disciplinari: "Le liquidazioni" dei compensi ai custodi "presentano profili estremamente problematici e in parte francamente discutibili", ma "non appaiono interpretazione abnorme" di norme "di non agevole comprensione. Non sfuggono, stante la consistenza della somma, le implicazioni economiche connesse alla scelta" di una banca invece di un’altra, "ma alla luce della tipizzazione degli illeciti disciplinari ci si deve limitare a a prendere atto dell’inconfigurabilità". Ma nel luglio 2015 il ministro Orlando avviò ugualmente un’azione disciplinare (di cui nulla più si è saputo) a carico del pm, per il suo mancato adeguarsi anche dopo l’entrata a regime di una specifica circolare sul Fug. Ora spunta il penale dal dicembre 2015, che per Brescia richiede (benché tutto sia contenuto nelle carte già da anni) altri 6 mesi di indagini su Robledo, nel frattempo disciplinarmente trasferito dal Csm a Torino per tutt’altra vicenda, e cioè per i rapporti con l’avvocato leghista Domenico Aiello. Il caso Lavagna: la buona politica unico antidoto alle infiltrazioni di Antonio Maria Mira Avvenire, 21 giugno 2016 Al Nord la 'ndrangheta non ha bisogno di sparare o di mettere bombe. Anche se è sempre pronta a farlo. Ma per marcare il territorio bastano gli affari, basta la corruzione, basta il perverso intreccio con la politica. A Lavagna gli uomini del clan Rodà Casile di Condofuri, paese jonico, avevano messo le mani su quasi tutto, dalle spiagge ai chioschi, dagli appalti ai rifiuti. E questo grazie a una politica locale, sindaco in testa, che in cambio di cospicui pacchetti di voti lasciava campo libero se non addirittura favoriva il clan. In particolare per il ricco affare dei rifiuti. Già, ancora una volta mafie e rifiuti. Non nella "terra dei fuochi", non nella disastrata Sicilia nuovamente in emergenza, e neanche nella Calabria dei traffici "misteriosi". Ma non c’è da stupirsi. Le mafie si inseriscono dove è più facile e in Liguria lo è. E non da oggi. Una regione che ancora manda in discarica i due terzi dei suoi rifiuti è un invito a nozze. Una regione "in costante stato emergenziale", come denunciano i carabinieri, è una porta aperta alle imprese mafiose. Basta un terreno e un pò di camion. E in questo i clan sono, purtroppo, bravissimi. Magari portando in discarica oltre alla "mondezza" anche rifiuti pericolosi. Se poi trovano politici disponibili l’affare è fatto. A loro non interessa, ovviamente, la raccolta differenziata, né un ciclo integrato dei rifiuti con impianti efficienti e sicuri. Dovrebbe, invece, interessare agli amministratori locali. È la buona ed efficiente politica l’unico vero antidoto alle infiltrazioni mafiose. Anche e soprattutto al Nord. Invece quando si opera in emergenza, con l’acqua alla gola, senza programmare, non si pensa due volte ad accettare offerte di chi assicura soluzioni. Quali siano non importa. Le mafie fanno affari e offrono servizi, tolgono, a modo loro, le castagne dal fuoco. E forniscono anche voti. Cosa volere di più? Neanche uccidono... Infiltrazione soft, tollerata se non addirittura cercata. Non c’è altra scelta? Proprio la Calabria dice che invece c’è altro. E proprio il paese del clan, Condofuri, sciolto per infiltrazione della ’ndrangheta e ora guidato da un’amministrazione giovane, pulita ed efficiente. Già, si può. Si può dire no alle mafie, si può fare buona politica, si può fare buona amministrazione. Il Sud ha pagato pesantemente ma sta imparando, offrendo esempi positivi. Ora tocca al Nord. Le mafie ci sono e puzzano come quei rifiuti, anche quando vestono l’abito dell’imprenditore o del politico "amico". Mafia Capitale, il giudice va via da Roma di Errico Novi Il Dubbio, 21 giugno 2016 Il Csm promuove il magistrato: ora tocca al plenum. Se seguirà fino alla fine il processo al mondo di mezzo lascerà sguarnita la nuova sede. Mercoledì il ministro Orlando ha inviato un pro memoria al Csm: "Non nominare tempestivamente i presidenti di Tribunale compromette l’efficienza della giustizia". In assoluto all’organo di autogoverno dei magistrati non si può contestare scarsa sollecitudine: un paio di mesi fa il vicepresidente Legnini ha annunciato con soddisfazione un traguardo, "300 nomine in soli 18 mesi". Ma non sempre le circostanze aiutano. Un pò perché, come detto l’altro ieri dal guardasigilli, a volte il Consiglio superiore "dà priorità alle sedi più grandi, dove si concentra il consenso che apre la strada a percorsi nell’Anm e nel Csm stesso". E poi anche il magistrato che concorre per la guida di un Tribunale può essere costretto a posticipare l’assunzione dell’incarico. È il caso di Rosanna Ianniello, presidente della X sezione del Tribunale di Roma davanti alla quale è in corso il processo di Mafia capitale. Ieri la giudice 61enne è stata indicata dalla quinta commissione del Csm, all’unanimità, nuovo presidente del Tribunale di Terni. Se il plenum ratificherà la nomina, potrebbe verificarsi in teoria una conseguenza paradossale: il più importante procedimento celebrato negli ultimi anni a Roma dovrebbe tornare alla casella di partenza, con escussione di testimoni da ripetersi davanti al nuovo presidente del collegio. Ma in un caso del genere l’importanza del processo in corso prevarrebbe sulla "promozione" di Ianniello: il Csm dovrebbe ordinare l’applicazione del magistrato al dibattimento che vede imputati Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Qualora non lo facesse Palazzo dei Marescialli, potrebbe intervenire lo stesso guardasigilli. Il tribunale "abbandonato" - Siamo però al punto di partenza: gli incarichi vacanti nelle sedi giudiziarie: quella di Terni resterebbe evidentemente sguarnita fino alla conclusione del processo sulla presunta cupola mafiosa di Roma. Nella città umbra l’ultimo presidente del Tribunale, Girolamo Lanzellotto, è andato in pensione lo scorso 31 dicembre. Nel frattempo la "reggenza" è stata affidata al presidente della sezione penale Massimo Zanetti. Non un magistrato qualsiasi: il giudice in questione faceva parte della Corte d’Appello che nell’ottobre del 2011 assolse Amanda Knox e Raffaele Sollecito dall’accusa di aver ucciso Meredith Kercher. Di recente è stato preso di mira da "Striscia la notizia", che ad aprile è andata a prendersela proprio col suo Tribunale per dimostrare quanto sia facile trafugare fascicoli da un palazzo di giustizia. Sta di fatto che quella nomina era attesa, che la commissione Incarichi direttivi del Csm l’ha predisposta ieri con voto unanime ma che il magistrato in questione, Rosanna Ianniello, dovrebbe eventualmente posticipare di diversi mesi l’effettiva "presa di possesso" del nuovo incarico. Terni non compare tra quei dieci Tribunali "in grave difficoltà" di cui ha parlato Orlando per segnalare un paradosso: e cioè che alle performances peggiori spesso corrispondono dotazioni di personale in perfetta regola. Certo non si tratta neppure di una sede che rifulge per prestazioni da primato: ad aprile Via Arenula ha diffuso la classifica dei Tribunali in cui la durata media di un processo civile è inferiore a un anno e di Terni non c’era traccia. Mafia Capitale, epopea in declino - In attesa di sapere con certezza se il dibattimento continuerà a svolgersi davanti allo stesso presidente di collegio, l’epopea di Mafia Capitale tende a offuscarsi. Innanzitutto perché la sentenza con cui la Corte d’Appello di Roma ha escluso l’accusa di 416 bis per i presunti boss di Ostia irradia una luce non proporio rassicurante sul processo a Buzzi e Carminati. Dal giudizio di secondo grado sui Fasciani e i Triassi si ricava la difficoltà di riconoscere il metodo mafioso in contesti così estranei a quelli della mafia tradizionale. E poi la sequenza delle deposizioni sul "mondo di mezzo" spesso avvalora sì l’idea di una rete criminale dedita ad attività corruttive, ma fatica a far emergere la pratica dell’intimidazione che induce omertà. Il tutto nel pieno di una campagna per il nuovo sindaco di Roma che ha visto allontanarsi l’ombra della "cupola" man mano che si entrava nel vivo della sfida. Un passaggio importante dovrebbe verificarsi con la prossima deposizione, nell’aula bunker di Rebibbia, di uno degli uomini chiave delle indagini: il maggiore dei Ros Francesco De Lellis. Alla base del gigantesco impianto accusatorio dei pm di Roma c’è la sua informativa. Ma curiosamente, l’ufficiale dell’Arma non è stato citato come teste dalla Procura. A farlo ha provveduto il difensore di Buzzi, Alessandro Diddi. Dall’escussione di De Lellis si potranno ricavare elementi decisivi. Anche di carattere statistico: i rapporti tra gli imputati e l’amministrazione capitolina si estendono in soli 3 dei 15 dipartimenti da cui è composta l’elefantiaca macchina comunale. Gli appalti di cui si parla nell’inchiesta sono una ventina, sui 10mila che ogni anno vengono gestiti dall’amministrazione. Sulla base di questi numeri è difficile sostenere che Buzzi e Carminati tenessero Roma in pugno. Il fenomeno sembra oggettivamente marginale, eppure è stato rappresentato come un’epopea del crimine. Gigantismo che ha lasciato segni anche dolorosi. Un caso? La cooperativa Edera: oltre 150 dipendenti fino all’autunno del 2014, titolare dell’appalto Ama per la raccolta del multi-materiale. È bastato che un suo socio fondatore, Franco Cancelli, entrasse nell’inchiesta Mafia Capitale con un’accusa di turbativa d’asta perché alla coop Edera venisse imposta l’interdittiva antimafia. Appalti persi, dipendenti ridotti a una decina. E la beffa degli istituti di pena che continuano a contattare l’azienda per chiedere se può assumere detenuti da affidare ai servizi sociali. Una microstoria che dimostra come l’accusa di mafia sia una come micidiale radiazione, e se un giorno si scoprirà che la bomba neppure doveva esplodere sarà troppo tardi. Otto anni di carcere. Per aver bevuto una birra Il Dubbio, 21 giugno 2016 Il 19enne Emanuele era alla guida. Ha avuto un incidente ed è morto un amico. Emanuele è un ragazzo di Siracusa di diciannove anni. Ha bevuto una birra, l'altra sera, prima di mettersi alla guida della macchina della sua mamma. Una: una sola. È stato imprudente, perché la legge prevede che se guidi una macchina puoi anche bere una birra, ma soltanto se hai la patente da qualche anno. Lui l'aveva presa solo da un anno, e allora la legge dice: alcool zero. Giusto. È pericoloso guidare l'auto, quando sei ancora inesperto, se non sei lucidissimo. Emanuele, sabato notte, ha ha avuto un incidente, la sua macchina si è ribaltata e un amico che stava con lui, sul sedile posteriore, Sebastiano, diciotto anni, è morto. Un altro amico, Simone, 17 anni è rimasto ferito, ma non è in pericolo di vita. Emanuele è stato trovato dai carabinieri seduto vicino all'auto, sotto choc, piangeva a dirotto, disperato. Forse non si riprenderà più dal senso di colpa per avere causato la morte di un amico al quale era molto legato. Ma allo Stato, giustamente, delle emozioni frega poco. Contano le leggi. La nuova legge sull'omicidio stradale stabilisce che la pena minima per quel che ha fatto sono otto anni. Senza condizionale, senza sconti, senza attenuanti. La legge non lascia nessuna discrezionalità ai giudici. Simone dovrà scontare la pena in cella. È giusto così? La ferocia e la rigidità della legge sono utili? Pagare per aver bevuto una birra con una pena simile a quella per l'omicidio volontario, aiuta la civiltà? Forse no. Forse aiuta solo i partiti che l'hanno votata per far pace con la spinta travolgente del giustizialismo. Il reato è del 1999, intercettazioni inascoltabili di Paola Italiano La Stampa, 21 giugno 2016 Un avvocato della difesa avrebbe voluto riascoltare una delle centinaia di intercettazioni trascritte il 657 pagine di faldoni. Ma non si può. Non più: perché, da quando gli agenti ascoltavano le conversazioni degli indagati, sono passati talmente tanti anni che i sistemi sono cambiati e non esiste più il supporto, ormai obsoleto, per risentire le vecchie tracce. La richiesta del legale è arrivata ieri davanti al tribunale che deve emettere la sentenza per un caso i cui primi episodi risalgono al 1999: 17 anni fa. E ieri, in aula, si è proceduto a ritmi speditissimi per evitare che la mannaia della prescrizione. Anche perché era una maxi inchiesta quella da cui è nato il processo di ieri a Torino. Riguardava un vasto riciclaggio d’auto. Un’organizzazione prendeva in Germania automobili ormai da buttare e le immatricolava in Italia: poi apponevano le targhe regolarmente registrate su altre macchine: stessa marca e modello, però rubate. All’inizio, gli imputati erano 116 (e i capi d’imputazione 641). Per la maggior parte di questi, l’iter processuale si è già concluso, tra posizioni archiviate o riti abbreviati. La giustizia deve ancora dare la sua sentenza (la prima) per 20 delle persone finite alla sbarra: quelle che devono rispondere delle accuse più gravi, come il riciclaggio, che si prescrive in 15 anni. Ieri il pm Antonio Rinaudo, per velocizzare i lavori, ha deciso di depositare una requisitoria scritta con venti richieste di condanna, che vanno dai quattro anni ai sette anni e mezzo di carcere. E i giudici hanno concesso un quarto d’ora ai difensori per esaminare il documento. Infine, è stata la volta delle aringhe degli avvocati. Che hanno fatto valere l’impossibilità di riascoltare le vecchie intercettazioni: su quegli episodi, hanno detto, "non sono raggiungibili conclusioni chiare". Terminata l’udienza, il processo è stato aggiornato al 20 luglio, giorno della sentenza. Quella di primo grado. Non utilizzabili davanti al Tribunale collegiale le indagini difensive del tirocinante di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2016 Corte di cassazione - Sezione III - sentenza 20 giugno 2016 n. 25431. Le indagini difensive del praticante avvocato, abilitato alle sole cause di competenza del giudice di pace o del Tribunale monocratico, non possono essere utilizzate davanti a un Tribunale collegiale. Questo anche se il tirocinante ha ricevuto la delega dal suo dominus regolarmente abilitato. La Corte di cassazione, con la sentenza 25431, annulla la decisione con la quale la Corte d’Appello aveva considerato accertata la responsabilità dell’imputato, relativamente a reati di violenza sessuale, sulla base delle testimonianze delle vittime e delle indagini difensive, queste ultime considerate valide anche se svolte da un tirocinante non ancora abilitato all’esercizio della professione di avvocato e dunque con un potere di azione circoscritto alle cause che rientravano nella "giurisdizione" del giudice monocratico. Per la Corte d’Appello un paletto che in realtà non esisteva. Secondo i giudici di merito le indagini difensive, vista la loro natura prodromica ed endo-processuale, sarebbero state soggette solo in secondo momento al vaglio di un tribunale collegiale: nulla vieterebbe dunque al praticante avvocato di acquisire elementi. Per la Cassazione però la tesi non è condivisibile. La Suprema corte ricorda innanzitutto la ratio che ha indotto il legislatore a rivedere il codice di rito, introducendo l’istituto delle investigazioni difensive con la legge 397 del 2000 (articoli da 391-bis a 391-decies). Un intervento che si giustifica con la necessità di far funzionare il sistema effettivamente accusatorio, permettendo ai difensori delle parti private di ricercare le fonti di prova da sottoporre al giudice. Non tutti però possono indagare. L’articolo 391-bis individua i soggetti abilitati che in linea generale sono: il difensore, il suo sostituto, gli investigatori privati autorizzati e i consulenti tecnici. Il tutto però con la precisazione che il potere di chiedere alle persone informate sui fatti dichiarazioni scritte o di documentare le informazioni rese, è riservato ai soli difensori titolari dell’incarico e ai loro sostituti. Nel caso esaminato erano state prodotte proprio le dichiarazioni raccolte dalla difesa della parte civile. Per la Suprema Corte, posto che la documentazione non è frutto dell’attività del difensore ma del suo sostituto, si tratta di capire se tale qualifica può essere attribuita solo al "professionista abilitato al patrocinio di fronte all’organo giudiziario che procede ovvero anche ad altro soggetto". La Cassazione precisa che la nozione di sostituto va ricavata dall’articolo 102 del codice di procedura penale, che consente al difensore sia di fiducia sia d’ufficio di nominare un sostituto che esercita i suoi diritti e assume i suoi doveri. È però evidente che la "nomina" non apre al sostituto strade che prima gli erano precluse né amplia le sue prerogative. Per fare l’investigatore deve dunque possedere la stessa abilitazione professionale del legale che ha ricevuto l’incarico e lo ha delegato a svolgerlo. Provvedimento di ammonimento per stalking Il Sole 24 Ore, 21 giugno 2016 Stalking - Provvedimenti del Questore - Provvedimento di ammonizione - Mancata comunicazione dell'avviso di avvio del procedimento - Legittimità - Particolari esigenze di celerità del procedimento amministrativo. Il Questore, nell'ambito dei suoi poteri discrezionali, può valutare il se ed il quando emanare il provvedimento di ammonizione: oltre ad essere titolare del potere di emettere o meno la misura, egli può decidere se emanare senza indugio il provvedimento di ammonizione, oppure se le circostanze consentano di avvisare il possibile destinatario dell'atto, con l'avviso di avvio del procedimento. • Consiglio di Stato, sezione III, sentenza 6 giugno 2016 n. 2419. Reati contro la persona - Atti persecutori - Stalking - Provvedimenti del questore - Ammonimento - Mancata querela - Ricorso gerarchico al prefetto - Annullamento del provvedimento del questore. Nel caso in cui il Questore emetta un provvedimento di ammonimento per stalking (ex articolo 8 L. 38/2009) e successivamente la persona che si ritiene danneggiata non proponga querela a norma dell'articolo 612 bis del codice penale, vi può essere un ricorso gerarchico al Prefetto (organo sovraordinato) per ottenere l'annullamento del provvedimento del Questore. Il Prefetto, a sua volta, è tenuto ad esprimersi in modo coerente ai fatti che gli sono illustrati: in particolare, se l'ammonimento è avvenuto a causa di comportamenti assillanti o vessatori, mediante l'invio di numerosi SMS e lettere manoscritte, pedinamenti e appostamenti sotto casa all'indomani della conclusione di un relazione, occorre tuttavia dare il giusto peso anche alla circostanza che la persona destinataria del comportamento assillante non abbia lasciato trasparire minacce o messaggi intimidatori, che generassero paura. In questa situazione, se il provvedimento di ammonizione da parte del Questore non evidenzia alcuno specifico comportamento che renda ragionevole o verosimile il timore che si possa trascendere con azioni imprevedibili e spropositate, l'ammonito si può rivolgere in sede gerarchica al Prefetto e quest'ultima autorità dovrà superare le perplessità del Questore attuando una specifica attività investigativa. In particolare, il Prefetto dovrà confermare o meno la fondatezza di quanto dichiarato nella richiesta di ammonimento, specificando i comportamenti ritenuti potenzialmente pericolosi o che generino ansia. Se tutto ciò manca nel provvedimento del Prefetto, il Tribunale amministrativo può sospendere il rigetto del ricorso gerarchico avverso il provvedimento del Questore, provvedendo con ordinanza in modo tale che il Prefetto riesamini la posizione della parte ricorrente, riaprendo l'istruttoria e convocando la parte stessa ed i testimoni per un'audizione: il tutto entro 60 giorni, considerando che la procedura ha carattere di urgenza. • Tar Brescia, sezione I, sentenza 7 aprile 2016 n. 279. Stalking - Ammonimento del Questore - Comunicazione di avvio del procedimento - Necessità. È illegittimo l'ammonimento del Questore in caso di stalking se questo provvedimento non è stato preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento. • Tar Genova, sezione III bis, sentenza 26 aprile 2016 n. 407. Stalking - Atti persecutori - Provvedimento di ammonimento - Potere valutativo ampiamente discrezionale in capo al Questore - Sufficienza di un quadro indiziario che renda verosimile l'esistenza degli atti persecutori. Il provvedimento di ammonimento adottato ai sensi del d.l. n. 11 del 2009, convertito in l. n. 38 del 2009, è legittimamene adottato dal Questore, nell'ambito di un potere valutativo ampiamente discrezionale, in presenza di un quadro indiziario che rende verosimile l'esistenza di atti persecutori e non richiede l'acquisizione di prove tali da essere esibite in un giudizio penale avente ad oggetto un'imputazione relativa al reato di stalking, dovendo l'Autorità di pubblica sicurezza solo apprezzare discrezionalmente la fondatezza dell'istanza, raggiungendo una ragionevole certezza sulla plausibilità e verosimiglianza delle vicende ivi esposte. • Tar Bologna, sezione I, sentenza 11 gennaio 2016 n. 3. Stalking - Atti persecutori - Decreto di ammonimento del Questore - Natura cautelare del provvedimento - Necessaria prova del reato - Esclusione - Apprezzamento discrezionale della fondatezza dell'istanza - Raggiungimento di una ragionevole certezza sulla plausibilità e verosimiglianza delle vicende - Necessità. Il decreto di ammonimento di cui all'articolo 8, D.L. n. 11 del 2009 è una misura monitoria, cautelare e preventiva, finalizzata a garantire alla vittima una tutela rapida e anticipata rispetto al procedimento penale per il reato di cui all'articolo 612 bis c.p. Stante tale natura, non è necessario, ai fini dell'adozione del provvedimento, che si sia raggiunta la prova del reato, essendo sufficiente fare riferimento ad elementi dai quali è possibile desumere un comportamento persecutorio o gravemente minaccioso che ha ingenerato nella vittima un forte stato di ansia e di paura. L'Autorità amministrativa, pertanto, è unicamente tenuta ad apprezzare discrezionalmente la fondatezza dell'istanza, raggiungendo una ragionevole certezza sulla plausibilità e verosimiglianza delle vicende ivi esposte, senza che sia necessario il compiuto riscontro dell'avvenuta lesione del bene giuridico tutelato dalla norma penale incriminatrice. • Tar Milano, sezione III, sentenza 21 gennaio 2015 n. 224. Ascoli: detenuto rinviato a giudizio per la morte in carcere di Achille Mestichelli Il Messaggero, 21 giugno 2016 Rissa mortale in carcere. A giudizio per omicidio un detenuto del Marino. Il marocchino, Mohamed Ben Alì, assistito dall'avvocato Mauro Gionni, è stato rinviato a giudizio con l’accusa di omicidio preterintenzionale, aggravato da futili motivi, per la morte dell’ascolano Achille Mestichelli, che venne aggredito il 13 febbraio del 2015 all'interno di una cella del carcere di Marino del Tronto. La prima udienza del processo si terrà il 4 luglio davanti al giudice Anna Maria Gregori. Achille Mestichelli, 53 anni di Castel di Lama venne rinvenuto privo di sensi dagli agenti della polizia penitenziaria. Inizialmente si ipotizzò che il coma in cui versava fosse la conseguenza di un’emorragia cerebrale. Venne chiesto l'intervento dell'eliambulanza che lo trasferì all’ospedale di Torrette di Ancona. Achille Mestichelli rimase in coma irreversibile per cinque giorni poi cessò di vivere. Matera: detenuti appiccano un incendio nella cella, salvati dall’intervento degli agenti nuovadelsud.it, 21 giugno 2016 Attimi di tensione nella notte tra sabato e domenica all’interno del carcere di Matera, dove due detenuti, un italiano e uno straniero, hanno dato fuoco al materasso, agli indumenti, alle coperte e ai suppellettili presenti all’interno della propria cella, creando ovviamente una serie di problemi all’ordine e alla sicurezza del penitenziario. A renderlo noto Donato Sabia ed Antonella Perrone, rispettivamente Segretario Generale e Segretario Provinciale della Uil Polizia Penitenziaria di Basilicata. L’incendio è stato provocato per futili motivi ma messo a dura prova l’organizzazione e l’intervento operativo dei baschi azzurri. L’innalzamento delle fiamme e l’aumento di fumo tossico che in pochi minuti ha invaso l’intera sezione, ha portato il personale di turno ad evacuare il reparto "Sirio" per la mancanza di ossigeno, a tutela dell’incolumità dei detenuti presenti. Salerno: detenuto incendia la cella, agenti penitenziari intossicati Corriere dell'Irpinia, 21 giugno 2016 "Questa mattina, molto presto, un detenuto straniero, nord africano e affetto da problemi psichici, ha dato fuoco ad alcuni effetti personali nella sua cella creando una intensa coltre di nube che ha creato il panico nel Reparto detentivo. Due Agenti di Polizia Penitenziaria in servizio sono rimasti intossicati per spegnere le fiamme e successivamente sono stati accompagnati in ospedale per le cure del caso", spiega Emilio Fattorello, segretario regionale per la Campania del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo della Categoria. "Poteva essere una tragedia, sventata dal tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari di servizio nel Reparto e dal successivo impiego degli altri poliziotti penitenziari. Sono stati bravi i poliziotti penitenziari in servizio nel carcere salernitano a intervenire tempestivamente, con professionalità, capacità e competenza". Fattorello esprime ai poliziotti intossicati a Salerno "la solidarietà e la vicinanza del Sappe" ed evidenzia come l’incendio sventato nel carcere è "sintomatico del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell’esecuzione della pena in Italia sono costanti. E la situazione è diventata allarmante per la Polizia Penitenziaria, che paga pesantemente in termini di stress e operatività questi gravi e continui episodi critici. Di estrema difficoltà è anche la stessa gestione di detenuti con gravi patologie psichiche, dopo la chiusura degli Opg. Rischiamo che le nostre sezioni detentive diventino un concentramento di tensioni e pericolo quotidiano". Da Roma, il Segretario Generale del Sappe Donato Capece aggiunge: "Le carceri sono più sicure assumendo gli Agenti di Polizia Penitenziaria che mancano, finanziando gli interventi per far funzionare i sistemi anti scavalcamento, potenziando i livelli di sicurezza delle carceri, espellendo i detenuti stranieri. Altro che la vigilanza dinamica, che vorrebbe meno ore i detenuti in cella senza però fare alcunché. Le idee e i progetti dell’Amministrazione Penitenziaria, in questa direzione, si confermano ogni giorno di più fallimentari e sbagliati. Come dimostra, anche, la mancanza di una strategia complessiva circa l’accoglienza degli internati dopo la chiusura degli Opg. Non è che avendo chiuso gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari non ci sono più detenuti con gravi problemi psichici: tutt’altro". Capece conclude sostenendo che "la Polizia Penitenziaria continua a tenere botta, nonostante le quotidiane aggressioni. Ma è sotto gli occhi di tutti che servono urgenti provvedimenti per frenare la spirale di tensione e violenza che ogni giorno coinvolge, loro malgrado, appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria nelle carceri italiane, per adulti e minori. Come dimostra quel che è accaduto questa mattina nella Casa circondariale di Salerno". Firenze: in carcere come a teatro, concerto di musica classica a Sollicciano Redattore Sociale, 21 giugno 2016 Le sinfonie di Bach tra le celle e i corridoi suonate dal vivo da musicisti professionisti. Evento unico nel suo genere. Nel pomeriggio inaugurazione di due pianoforti donati alla Scuola di musica di Sollicciano, riservata ai figli degli agenti di polizia penitenziaria e degli operatori. Il carcere di Sollicciano diventa oggi un teatro dell’opera. L’associazione La Pasqua di Bach del Maestro Mario Ruffini porterà nella casa circondariale fiorentina due concerti di Bach in tutte e 19 le sezioni, un evento unico nel suo genere in tutta Italia, dal titolo ‘Bach in Blach. Violini e pianoforti, trombe e contrabbassi entreranno oggi nell’istituto penitenziario, tutto dal vivo, coi detenuti e gli agenti penitenziari come spettatori ad ascoltare veri musicisti professionisti. Nel corso della giornata è prevista musica dal vivo anche nel suggestivo Giardino degli Incontri, lo spazio esterno, progettato dall’architetto Giovanni Michelucci, dove i detenuti incontrano i propri familiari. Undici azioni europee per i diritti umani di Paolo Bozzacchi Italia Oggi, 21 giugno 2016 Un anno decisivo per il futuro dei diritti umani e della democrazia in Europa e nel mondo. Questo in sintesi il messaggio lanciato dal Consiglio dell’Unione europea, che ieri ha reso noto il Rapporto 2015 sui diritti umani e la democrazia nel mondo. Lo scorso anno l’Unione europea ha adottato il nuovo Piano d’Azione 2015- 2019 sui diritti umani e la democrazia, che sottolinea le priorità e la strategia comunitaria in materia per i prossimi anni, e soprattutto attualizza la Strategia quadro del 2012 alla luce delle nuove sfide lanciate dalla crisi internazionale. Il Piano d’Azione prende spunto dalla Comunicazione dell’Alto Commissariato Ue "Mantenere i diritti umani al centro dell’agenda". Bruxelles intende promuovere e tutelare i diritti umani in Europa e nel mondo attraverso la diplomazia pubblica, strumenti diplomatici ad hoc, ma anche con linee guida dedicate e strategie nazionali e con il finanziamento di progetti internazionali. E grande spazio è perciò stato riservato a nuovi progetti di cooperazione finanziaria e al supporto della società civile. In particolare sono state adottate dall’Ue 11 linee guida dedicate alle azioni esterne, tra cui una sulla libertà religiosa e credo e sulla libertà di espressione online e offline. Queste ultime dovranno servire secondo Bruxelles come strumenti pratici di riferimento per gli attori comunitari a tutti i livelli, durante la loro attività di implementazione delle priorità per la difesa dei diritti umani sul piano nazionale e locale. Nel novembre scorso il Consiglio Ue ha anche adottato le conclusioni sulle Politiche quadro a supporto della giustizia di transizione. E con questo l’Unione è diventata la prima organizzazione regionale mondiale ad aver pianificato una strategia in materia. Queste politiche sul piano pratico hanno portato l’Ue a supportare una dozzina di paesi partner per gestire al meglio crisi locali e diritti umani in pericolo. Tra questi spicca il caso della Colombia, con il supporto diretto all’implementazione dell’accordo di pace dello scorso 23 settembre. E il finanziamento europeo di progetti relativi alla giustizia nella Repubblica Democratica del Congo (supporto all’accesso alla giustizia per le vittime di reati), e nella ex Jugoslavia (con il supporto alla formazione dei magistrati locali). Droghe: dipendenza da curare insieme di Dino Messina Corriere della Sera, 21 giugno 2016 Ritorna l’attenzione all’approccio familiare per aiutare i ragazzi a liberarsi dalla droga. Un indirizzo di cui fu iniziatrice un’italiana nata 100 anni fa, Mara Selvini Palazzoli. Due genitori si accorgono che qualcosa è cambiato nella vita del loro figlio adolescente: i risultati a scuola non sono crollati, ma non sono più quelli brillanti di una volta, notano un comportamento stranamente abulico, poi la scoperta, facilitata anche da quel forte odore nella stanza e sui vestiti: il ragazzo è un forte consumatore di cannabis. Colloqui in famiglia e richiami affettuosi non sono sufficienti a interrompere la dipendenza, si decide di mandare il figlio in terapia. Ma dove? Da quale specialista? Quale indirizzo scegliere? Vale la pena avviare un teenager sulla strada di una psicoterapia individuale? Attorno a questi temi, pur rivolto a un pubblico esperto, ruota il saggio "Entrare in terapia - Le sette porte della terapia sistemica" (Raffaello Cortina editore, pagine 327, euro 29). La pioniera - Gli autori, Stefano Cirillo, Matteo Selvini e Anna Maria Sorrentino sono allievi di Mara Selvini Palazzoli (1916-1999), pioniera e iniziatrice della terapia familiare, o sistemica. Assieme all’uscita del libro, nel centenario della nascita di questa cruciale figura della psicoterapia e della psicoanalisi italiane, gli allievi hanno organizzato per l’8 ottobre un convegno all’Università Cattolica di Milano. "Gli editori americani - spiega il figlio Matteo Selvini - nel 1963 rifiutarono di pubblicare il suo primo libro "L’anoressia mentale", perché era una malattia rara. Fu un testo poi tradotto in tutto il mondo, che assieme all’invenzione della terapia sistemica fece sì che lo studio milanese di Mara Selvini Palazzoli diventasse meta di un pellegrinaggio scientifico". La scoperta, confermata in mezzo secolo di pratica terapeutica, consisteva nel fatto che la terapia individuale non funzionava sugli adolescenti. Terapia familiare - "I ragazzi - spiega Selvini - sono spinti dai genitori a incontrare lo psicologo e dopo poche sedute individuali nell’80% dei casi abbandonano la terapia. Il fatto che i genitori deleghino a uno specialista la risoluzione dei problemi può addirittura aggravare il problema. Andare insieme dal terapeuta, almeno la prima volta, è un modo per condividere la sofferenza e per far accettare all’interessato la terapia. La terapia familiare ha portato con sé all’inizio una colpevolizzazione della famiglia. Nella realtà non sempre ci troviamo di fronte a famiglie disfunzionali. A volte i disagi dell’adolescente derivano da traumi irrisolti o da problemi rimossi dei genitori. Comunque padre e madre ma anche fratelli e altri componenti della famiglia possono dare un grosso contributo alla guarigione e a lenire la sofferenza individuale". Due anni di sedute - Se per una terapia individuale della psicoanalisi classica l’orizzonte è di anni, quanto dura la terapia familiare? "Difficilmente supera i due anni - risponde Selvini. Di solito le sedute con la famiglia vanno da 10 a 15, anche se in alcuni casi la presa in carico individuale può durare di più". La scuola sistemica o familiare, riconosciuta in sede ministeriale, ha quattro sedi (Milano, Brescia, Torino e Mendrisio) con circa 200 allievi già laureati. Dopo un primo avvio pionieristico, il rapporto con gli altri indirizzi è di collaborazione. "La scuola psicoanalitica - conclude Selvini - con il 40% di adesioni è sempre la maggioritaria; gli indirizzi cognitivo e sistemico si equivalgono: attorno al 20%. C’è poi un’infinità di altre scuole che occupa il restante 20%. La tendenza generale è tuttavia di accettare e sollecitare, soprattutto per quanto riguarda gli adolescenti, la collaborazione della famiglia". Nel 2015 record di sfollati. Più della popolazione italiana di Giordano Stabile La Stampa, 21 giugno 2016 Il rapporto Unhcr: 65,3 milioni di persone costrette alla fuga. Sarah ha 38 anni, sette figli. Solo due vanno a scuola. La maggiore l'aiuta nei campi lì vicino, nella valle della Bekaa, per la raccolta della frutta e verdura. Guadagna 4 dollari al giorno ma 50 se ne vanno per l'affitto della tenda dove vive. Ci ha ricavato due stanze, un cucinino e quella dove dormono tutti assieme. Il marito è morto in guerra in Siria. Sarah è stata registrata come rifugiata in Libano ed è entrata a far parte dei 65,3 milioni di persone costrette alla fuga dalla propria casa nel mondo. La sua casa, vicino ad Aleppo, è stata distrutta in un bombardamento. Lei ci tornerebbe, "anche sotto una tenda", ma non può. Il 2015 è stato l'anno più drammatico per i rifugiati nel mondo. Il rapporto dell'agenzia dell'Onu Unhcr, uscito ieri, fotografa il più imponente aumento di "migranti per forza" dal dopoguerra: a fine anno c'erano 3,2 milioni di persone che erano in attesa di decisione sulla loro richiesta d'asilo nei Paesi ricchi (il più alto totale mai registrato), 21,3 milioni di rifugiati (1,8 milioni in più rispetto al 2014), 40,8 milioni di sfollati interni al proprio Paese, in aumento di 2,6 milioni rispetto all'anno prima. Significa, fa notare l'Unhcr, che nel mondo oggi una persona su 113 è stata costretta a lasciare la propria abitazione. E che, ogni minuto, altre 24 persone devono fuggire. Nel 2005 erano solo sei. L'accelerazione è dovuta alla tragedia siriana, ma non solo. Dalla Siria sono fuggiti in 4,9 milioni, dall'Afghanistan in 2,7, dalla Somalia 1,1 milioni. Poi ci sono gli sfollati interni: Colombia, 6,9 milioni, ancora Siria, con 6,6 milioni, l'Iraq, 4,4 milioni, ai quali vanno aggiunte le centinaia di migliaia in fuga da Ramadi nei mesi scorsi e da Falluja ancora in questi giorni. Ma è nello Yemen che sono aumentati di più: 2,5 milioni in un anno, il 9% della popolazione. Un'altra guerra dimenticata che rischia di travolgere l'Europa. "Sfollato interno" è spesso preludio di rifugiato all'estero. E allora deve preoccupare, oltre alla Siria, l'Iraq, altro Paese confinante con la Turchia, lo Stato che ne ospita di più al mondo e che fa da camera di compensazione con l'Unione europea: 2,5 milioni di rifugiati, quasi tutti siriani. E poi c'è il Libano che invece ospita il più alto numero di rifugiati rispetto alla popolazione, 183 ogni 1.000 abitanti. Dal Libano, dove ha visitato i campi dei siriani, la presidente della Camera Laura Boldrini, portavoce dell'Unhcr dal 1998 al 2012, denuncia la "trappola" in cui si trovano le persone di buona volontà in Europa, strette fra l'urgenza di accogliere più persone e la paura che questo alimenti reazioni di xenofobia. È il dilemma dei Paesi occidentali, che l'anno scorso hanno ricevuto un numero record di domande di asilo, oltre due milioni. In testa c'è la Germania, 441.900 richieste, poi gli Stati Uniti, 172 mila. In Europa segue la Svezia, 156 mila. In Italia sono state 83 mila. Numeri risibili rispetto a quelli del Libano, anche se in Libano arrivano popolazioni "cugine", della stessa cultura, della lingua araba, addirittura dello stresso dialetto. Resta il dilemma europeo. "Invece di una ripartizione degli oneri, vediamo la chiusura delle frontiere - conferma Filippo Grandi, alto commissario Onu per i rifugiati. E le organizzazioni umanitarie come la mia sono lasciate ad affrontarne le conseguenze, mentre allo stesso tempo lottano per salvare vite con budget limitati. Ma abbiamo anche assistito a slanci di generosità: da parte delle comunità di accoglienza, di singoli individui e famiglie che hanno aperto le loro case". Gli spari ai profughi siriani icona della Giornata del rifugiato di Paolo Lambruschi Avvenire, 21 giugno 2016 Otto uccisi al confine con la Turchia, la metà bimbi. L’eccidio di profughi siriani avvenuto l’altro giorno al confine tra Siria e Turchia diventa giocoforza il tragico simbolo della giornata mondiale del rifugiato celebrata ieri. Su otto persone inermi - uccise, secondo l’accusa dell’Osservatorio siriano per i diritti umani, dalle guardie di frontiera di Ankara mentre tentavano di oltrepassare il confine, circostanza però smentita dal governo turco - quattro erano bambini. La metà. Non è un caso, sono bambini anche il 50% degli oltre 65 milioni di rifugiati stimati dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite a fine 2015, il numero più alto dalla fine del secondo conflitto mondiale, 6 milioni in più rispetto al 2014. Quindi, il mondo ha attualmente il numero più elevato di bambini in fuga da guerre, persecuzioni e fame degli ultimi 70 anni. Ma non basta a scuotere le coscienze indifferenti degli europei. La Turchia, che pure secondo il rapporto sulle tendenze globali dell’Onu è il Paese più accogliente del pianeta con oltre tre milioni di rifugiati, giustifica i respingimenti dei profughi inermi con la necessità di difendersi dalle infiltrazioni dei terroristi. Che per Ankara sono soprattutto i curdi e che la stessa Turchia ritiene più pericolosi del Daesh. Eppure con lo stato turco, che non esita a usare tutti i mezzi per tenere le persone lontane dal confine e che ha parecchi, intollerabili deficit per quanto concerne il rispetto dei diritti umani e civili (giusto ieri ha arrestato preventivamente un giornalista che rappresenta l’associazione 'Reporter senza frontierè per aver espresso solidarietà a una testata filo curda) l’Ue non ha esitato a stringere qualche mese fa un oneroso accordo per fare da guardiano delle frontiere, per stoppare coloro che provano a entrare sulla rotta balcanica, metterli in campi e poi eventualmente ricollocare quelli che ne hanno diritto negli Stati dell’Unione. Accordo che non funziona, perché le persone ricollocate sono finora troppo poche. E che ha provocato enormi costi umani, spingendo i profughi verso l’Egitto e bloccandone svariate migliaia - la metà sono sempre bambini, non scordiamolo - in una sorta di limbo che si allunga in Grecia e fino alle porte balcaniche della Fortezza Europa. Limbo fatto di campi improvvisati e precari, paradiso di criminali e trafficanti di esseri umani. Le porte sono state chiuse in faccia indiscriminatamente a tutti, a chi ha diritto e a chi non ne avrebbe, la selezione è arbitraria, in spregio alle norme internazionali, come documentano anche i reportage che stiamo pubblicando su Avvenire. E che alla fine ha solo spostato i naufragi dalle isole greche al Canale di Sicilia senza che il numero elevato delle vittime dei naufragi stessi nel Mediterraneo - circa 3.000 in sei mesi, ha ribadito ieri la Croce Rossa, e molti erano bambini - sia diminuito. Solo l’apertura dei corridoi umanitari che Sant’Egidio e la federazione delle chiese evangeliche stanno attuando in via sperimentale con il governo italiano, sembra offrire un’alternativa. Ripetiamolo con franchezza: scorrendo le cifre sui rifugiati, l’accordo con Ankara non fa onore all’Europa, ne mostra anzi tutta la debolezza politica, le paure del diverso e del terrorismo diffuse tra la popolazione - quella che la retorica definisce ancora 'Europa dei popolì-, l’ipocrisia e le divisioni tra le cancellerie. Ieri l’Alto commissario Filippo Grandi ha puntato il dito sulla narrazione isterica fatta dai media (e dai politici che investono sulla paura, aggiungiamo noi) che creano nell’opinione pubblica un’emergenza inesistente nel Vecchio continente, dove i numeri delle persone accolte sono distanti anni luce da quelli del piccolo Libano, della stessa Turchia, della poverissima Etiopia. Numeri alla mano, si rivela inutile pure la logica della costruzione dei muri che tenta anche i nostri vicini austriaci e balcanici. Se nel mondo fuggono in media 24 persone al minuto, il buon senso insegna che occorre intervenire sulle cause del conflitto per fermare e possibilmente invertire un flusso oggi inarrestabile. Flusso, non ci stanchiamo di ripeterlo ancora, fatto per metà di bambini che cercano solo rifugio e braccia aperte per crescere in una terra che di figli ne mette al mondo ormai troppo pochi. Migranti. "L’incubo dei campi greci, senza diritti né assistenza" di Carlo Lania Il Manifesto, 21 giugno 2016 Salvatore Fachile (Asgi): "Faremo ricorso alla Cedu". "In Grecia c’è una violazione sistematica dei diritti dei migranti. Il governo non garantisce loro assistenza adeguata né i ricongiungimenti familiari". Salvatore Fachile è un avvocato dell’associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) appena tornato dalla Grecia dove, insieme a quaranta operatori legali, ha ispezionato i campi allestiti da Atene per ospitare i circa 60 mila profughi e migranti presenti nel paese. Ha parlato con gli avvocati e gli operatori che ogni giorno sono a contatto con i profughi e verificata l’applicazione dell’accordo siglato a marzo dall’Unione europea con la Turchia. E il bilancio che stila è estremamente negativo. "L’unica cosa buona - afferma - è che di fatto non vengono eseguite le deportazioni in Turchia. La Grecia si accontenta che funzioni la parte turca dell’accordo siglato con Ankara, vale a dire il blocco totale della frontiera. Il timore delle autorità è che la Turchia possa riaprire i confini. In quel caso la Grecia si sentirebbe perduta e sarebbe disposta a mettere in gioco anche quelle poche garanzie che oggi riconosce ai richiedenti asilo". Qual è la situazione nei campi? Di violazione piena di ogni diritto. I campi formali, quelli gestiti dal governo, sono indecenti, privi di strutture e di reale supporto per i migranti. Lo stato non fornisce servizi, sostituito in questo dalle organizzazioni non governative o internazionali come l’Unhcr che però è sottodimensionato rispetto alle esigenze reali. L’emergenza riguarda anche gli hotspot sulle isole Guardi sono meno indecenti dei campi governativi su terra ferma e tutto sommato funzionano meno peggio. Ma ci sono richiusi anche dei bambini. È vero e a detta di alcuni anche in promiscuità con gli adulti, ma questo avviene anche nei campi governativi. E comunque questa è solo una delle violazioni, ce ne sono altre anche nei confronti degli adulti. Ad esempio? Ad esempio le forze dell’ordine riescono a garantire la sicurezza esterna dei campi da possibili attacchi razzisti, ma non riescono a garantire in alcun modo quella all’interno dei campi, dove può accadere qualsiasi cosa. Ci è stato raccontato del sequestro di un bambino siriano rilasciato solo in cambio di soldi pagati dalla famiglia. Le autorità greche hanno da poco avviato un censimento dei migranti per raccogliere le richieste di asilo. Come sta procedendo? Si tratta di una procedura di pre-identificazione avviata solo nelle città grandi e devo dire che funziona abbastanza velocemente. Consiste nell’identificazione senza impronte digitali. Alla persona viene consegnato un foglio con la fotografia in cui si dichiara una condizione di inespellibilità. Vale un anno e non ti consente di lavorare ma di essere considerato un aspirante richiedente asilo e quindi di non essere richiuso in un campo detentivo. Consideri però che si tratta di una possibilità offerta solo a chi si trova in un campo governativo, dove non tutti vogliono trasferirsi. Si può parlare di trattamento disumano nei confronti dei migranti? Sicuramente, almeno per quanto riguarda l’accoglienza. Già in passato la Grecia è stata condannata per violazione dell’articolo 3 della carta europea dei diritti dell’uomo per trattamenti disumani in relazione all’accoglienza. E questo vale anche oggi, tant’è vero che la Grecia continua a essere considerato paese non sicuro. Esistono i presupposti per un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo? Ce ne sono tanti. Innanzi tutto per il fatto che i minori, anche in presenza di familiari in altri paesi europei, non possono muoversi dalla Grecia perché non vengono prese in considerazione le richieste di ricongiungimento familiare. Questo in violazione del regolamento di Dublino, ma anche della carta europea dei diritti dell’uomo. Ma potrebbero esserci anche i presupposti di un ricorso per quanto riguarda la limitazione della libertà personale, visto che ai migranti che si trovano sulle isole viene vietato di uscire dalle isole stesse. Oltre tremila gli italiani detenuti all’estero di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 giugno 2016 Caso emblematico è quello di Giuliano Provvisionato, recluso in Mauritania da più di otto mesi, che ha scritto un appello al Presidente della Repubblica Se per il marò Salvatore Girone è finita l’odissea della detenzione indiana, ce ne sono altri 3000 italiani detenuti all’estero che si stanno confrontando con sistemi legali che non contemplano nemmeno i più elementari diritti e garanzie. Con la differenza che non hanno nessun riflettore mediatico puntato. Il caso più recente riguarda il milanese Cristian Giuliano Provvisionato che da più di otto mesi vive recluso nel carcere della Mauritania. Recentemente ha scritto al Presidente della Repubblica per chiedergli "con tutto il cuore un intervento per farmi rientrare in Patria il più presto possibile". Nella lettera l’uomo ricostruisce la sua vicenda, spiegando di essere tenuto agli arresti per reati mai commessi. Provvisionato racconta di essere stato mandato in Mauritania nell’agosto scorso dall’azienda per cui lavorava, che opera nel campo delle investigazioni private, per sostituire un altro italiano che doveva rientrare in Italia. Il compito doveva essere quello di fare una dimostrazione di alcuni prodotti di una società straniera al governo mauritano. In realtà, scrive, "sono stato mandato con l’inganno per togliere da una brutta fine l’altro italiano", perché la società straniera aveva probabilmente truffato il governo mauritano. Ma, si legge nella lettera, "il governo mauritano si ostina a tenermi in detenzione anche davanti all’evidenza che sono parte lesa come loro in questa vicenda. È un fatto gravissimo: sono l’unico agli arresti mentre tutti i veri responsabili di questa truffa sono liberi. Provvisionato sottolinea che, nonostante tutti gli sforzi della Farnesina e dell’ambasciata italiana di Rabat, "c’è un muro da parte delle autorità mauritane che non vuole cedere". E invoca quindi l’intervento di Mattarella "contro questa gravissima ingiustizia". E finisce con una supplica rivolta al capo dello stato: "La prego di fermare tutto questo prima che si trasformi in una tragedia, ho già perso 25-30 kg, non posso curarmi come dovrei, non posso sostenere le giuste visite mediche per il diabete, inizio a temere seriamente per la mia salute". I dati dei detenuti italiani all’estero sono inquietanti. Il ministero degli Esteri ha messo a disposizione gli ultimi riguardanti l’anno 2015. Risulta un totale di 3.309 reclusi all’estero di cui 2.602 in attesa di giudizio, 671 stati condannati e 36 in attesa di estradizione. Il dato più curioso è che il record della detenzione degli italiani all’estero ce l’ha la Germania: un totale di 1.229 detenuti, tra i quali ben 1.087 sono in attesa di giudizio e 123 condannati definitivamente. Nel resto del mondo, il maggior numero dei detenuti si trova in Brasile con 75 italiani reclusi in condizioni a dir poco degradanti; al secondo posto ci sono gli Usa con un totale di 68 detenuti. Dal dossier emerge comunque un dato sconcertante: più della metà sono in attesa di giudizio e risultano poche decine le persone in attesa di essere estradate in Italia per scontare la pena nei nostri penitenziari, condizione che dovrebbe essere garantita dalla "Convenzione di Strasburgo" del 1983 e da diversi "Accordi bilaterali" nei casi che riguardano le persone già condannate. In molti casi gli italiani non hanno nessun diritto per un equo processo. Basti pensare che in alcuni paesi è negata l’assistenza di un avvocato, non è presente un interprete durante gli interrogatori e frequentemente le autorità non fanno trapelare nessuna notizia in modo tale che è impossibile farsi un’idea dettagliata del processo. C’è il caso emblematico avvenuto in India. Ovvero quello riguardante Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni che - dopo cinque anni di calvario perché condannati all’ergastolo - sono stati liberati e fatti rientrare l’anno scorso in Italia. Furono accusati di omicidio nei confronti di Francesco Montis, il loro compagno di viaggio. La tragedia ebbe inizio il 4 febbraio del 2010 quando i tre, di passaggio nell’hotel Buddha di Chentgani, fecero uso di droghe e Francesco si sentì male. I due lo portarono in ospedale ma Francesco morì. Il responso dell’autopsia fu fatale: morte per soffocamento. A nulla valsero le dichiarazioni della madre di Francesco che avrebbero potuto scagionarli: il figlio soffriva di gravi crisi d’asma. Quando poi venne chiesto un secondo esame autoptico, non fu possibile eseguirlo perché l’obitorio era infestato dai topi e così il corpo di Montis venne cremato. I due vennero incarcerati il 7 febbraio 2010 e dopo un anno di detenzione il pubblico Ministero chiese la condanna a morte per impiccagione. A luglio del 2011 la pena venne convertita in ergastolo e confermata poi nel settembre 2012. Da quel giorno i due aspettavano la sentenza della Corte Suprema di Delhi che per lentezza dovuta ad assenze e rinvii, non arrivava mai. Nel frattempo i due italiani sono stati reclusi nel carcere di Varanasi in condizioni precarie: i barak, ospitano circa 140 detenuti con temperature che arrivano a 50 gradi. Costretti a bere acqua non potabile, senza alcun contatto con il mondo esterno. Solo quest’anno la sentenza della Corte suprema li ha scarcerati perché dichiarati innocenti. Negli Usa c’è il celebre caso di Enrico Forti, condannato all’ergastolo con l’accusa di omicidio. Il suo calvario inizia la mattina del 16 febbraio del 1998 quando, in una spiaggia della Florida, viene ritrovato il corpo senza vita di Dale Pike. Di questo omicidio viene accusato Forti, che era in trattativa con il padre di Dale per l’acquisto di un albergo. Nonostante si sia sempre dichiarato innocente e le prove a suo carico siano inconsistenti, la giuria americana lo ha condannato all’ergastolo affermando che "La Corte non ha le prove che Forti abbia premuto materialmente il grilletto, ma ha la sensazione, al di là di ogni dubbio, che sia stato l’istigatore del delitto". E non mancano i casi di morte sospetta come la terribile storia di Mariano Pasqualin, un giovane di Vicenza arrestato per traffico di droga nella Repubblica dominicana nel giugno del 2011. Dopo pochi giorni dal suo arresto, è stato ritrovato morto in circostanze molto sospette. La famiglia aveva richiesto di far rientrare la salma in Italia per effettuare un’autopsia che svelasse le cause del decesso, ma le autorità della Repubblica dominicana avevano, senza autorizzazione, deciso di cremare il corpo e spedire in Italia le ceneri. E la possibilità di fare luce sul caso è svanita definitivamente. Altro terribile caso di morte è la storia di un italiano che era recluso in Messico. Si tratta del bancario leccese Simone Renda che morì nel 2007 in una cella di Cancun, dopo essere stato arrestato per un banale episodio di ubriachezza molesta. Dapprima ricattato dalla polizia, fu rinchiuso poi in una cella rovente senza possibilità di accedere ad alcuna assistenza né legale né medica. Morì per disidratazione dopo due giorni di privazioni e violenze. Si era tentato di fare un processo in Italia per omicidio nei confronti del giudice, il responsabile dell’ufficio ricezione del carcere, tre guardie carcerarie, due vicedirettori del carcere e due agenti della polizia turistica, tutti messicani. Ma a causa della loro irreperibilità il processo ancora non è partito. Non mancano gli italiani reclusi per il reato di immigrazione clandestina. Ci sono Paesi - con rigide norme contro l’immigrazione - dove gli italiani non solo rischiano di essere espulsi, ma rischiano l’incriminazione proprio come avviene nei nostri confini in esecuzione della legge 94 del 2009: la metà circa degli italiani reclusi per immigrazione clandestina si trova in carceri europee, il 25% in America e il 22% in Asia e Oceania. Diritti umani e democrazia, l’Italia cambi ruolo in Egitto da Associazione Organizzazioni italiane di cooperazione Internazionale Il Manifesto, 21 giugno 2016 La drammatica vicenda di Giulio Regeni ha aperto una finestra sulla grave situazione dei diritti umani in Egitto, molto peggiorata dal 2013 ad oggi, in particolare per quanto riguarda i diritti civili e politici. Le forze dell’ordine e i servizi di sicurezza hanno sempre goduto di molto margine di manovra e durante la rivoluzione del 2011 si sono resi colpevoli dell’eccidio di quasi mille persone, ma in particolare il Paese ha vissuto dall’estate del 2013 un processo di normalizzazione e repressione che ha avuto il suo momento più tragico nello sgombero delle piazze Rabìa al-Adawiya e an-Nahdha, occupate dai sostenitori di Morsi, il 14 agosto 2013: lo sgombero causò in un solo giorno la morte di un numero di persone equivalente alle perdite sofferte durante i giorni della rivoluzione. È un imperativo etico e morale il sostegno a tutta la società civile egiziana, che rischia in questo contesto di veder cancellati di fatto i propri diritti, a tutti gli attivisti per i diritti umani, a partire dalle stesse organizzazioni di donne che promuovono i diritti, l’empowerment femminile e il contrasto alle discriminazioni e alla violenza come punto focale di trasformazione e avanzamento della società intera. La politica della presidenza di al-Sisi, che ha governato senza parlamento nazionale fino all’inizio di quest’anno, è stata quella di rimuovere il dissenso e liquidare l’opposizione politica, sia islamica che laica. I mezzi utilizzati sono i più diversi: dalla persecuzione amministrativa per presunta ricezione di fondi esteri, al sequestro di materiale e documenti, dalla messa al bando di organizzazioni civili con l’accusa di legami con il terrorismo, all’interdizione di viaggiare all’estero imposta a riconosciuti difensori dei diritti umani, dall’arresto arbitrario all’aggressione fisica degli attivisti. Le elezioni parlamentari di fine 2015, che hanno portato all’affermazione di formazioni pro-al-Sisi, hanno riscontrato un tasso di partecipazione attorno al 20-25%, rivelando la disaffezione della maggioranza degli egiziani verso il nuovo corso. È vero che l’Egitto si è dotato di una nuova carta costituzionale nel gennaio 2014, che ha emendato quella approvata sotto la presidenza di Morsi, ma la prassi del potere purtroppo si impone sui principi generali relativi a libertà e diritti adottati nella nuova carta. Si parla di più di 40.000 prigionieri politici attualmente rinchiusi nelle carceri egiziane. Questa vera e propria ondata controrivoluzionaria è stata possibile anche grazie alla tutela internazionale di cui ha goduto la nuova presidenza, considerata strategica nell’arrestare il terrorismo islamico. Questa valutazione di carattere politico-militare è stata accompagnata da un’intensa attività della diplomazia commerciale per avere un ruolo di controllo delle risorse energetiche del Paese. Anche il nostro Governo ha contribuito a queste scelte, di fatto legittimando complessivamente le politiche di al-Sisi. Sul terrorismo, a causa delle restrizioni alla mobilità e all’informazione imposte dalle autorità locali, non è possibile sapere con esattezza cosa succeda in alcune regioni egiziane e chi veramente controlli o indirizzi le bande armate che vi si nascondono, al punto che quando alcuni ricercatori e attivisti hanno cercato di fare luce sull’attività terroristica in Sinai, sono stati arrestati. Sugli interessi commerciali, va reso noto che la compagnia ENI ha stipulato lo scorso mese di marzo un contratto del valore di 4,5 miliardi di euro con l’Egitto per l’esplorazione di gas e petrolio: a quale prezzo? Di diverso indirizzo l’Aitr, Associazione Italiana Turismo Responsabile, che ha deciso la sospensione di ogni relazione commerciale e istituzionale con l’Egitto da parte dei suoi soci operatori, fino al ripristino delle libertà civili e dei diritti nel Paese contestualmente anche al raggiungimento della verità sulla vicenda drammatica dell’uccisione di Giulio Regeni. Queste le parole del Presidente, Maurizio Davolio: "l’Egitto è un Paese meraviglioso, che offre grandi attrattive culturali e grandi emozioni a chi vi compie un viaggio o vi trascorre una vacanza, ma un viaggio e una vacanza non sono possibili in un contesto di dolore e di indignazione". Con questa iniziativa vogliamo dare sostegno alle campagne già in corso in favore delle libertà civili in Egitto quali "Human Rights Behind the Bars", lanciata dalla rete Euro-Mediterranea per i Diritti Umani, e "Verità per Giulio Regeni", promossa da Amnesty International Italia. ci impegniamo a contribuire al dibattito politico in Italia sul ruolo che il nostro Paese sta giocando rispetto alla legittimazione del regime egiziano attuale, mobilitandoci sui seguenti obiettivi: (a) - Liberazione dei prigionieri politici attuali, garanzia di condizioni umane e dignitose di detenzione, cessazione del ricorso alla tortura, e riforma delle forze di polizia e di sicurezza egiziane, facendo leva sull’esperienza degli Interni italiani nella formazione e adeguamento delle forze di polizia e sicurezza al rispetto dei principi e delle libertà riconosciute dal Governo italiano (b) - Attivazione da parte del Governo italiano di un meccanismo di protezione dei difensori dei diritti umani e degli attivisti egiziani presenti in Italia e di quelli che nel loro Paese lavorano con la società civile italiana ed europea. La centralità è la tutela giuridica e pressione politica da assicurare a tutto campo, proponendo l’attivazione di un fondo europeo (ed in caso di difficoltà, ad iniziativa italiana) di sostegno alle loro organizzazioni e attività in Egitto, le cui modalità di gestione siano concordate con le reti della società civile europea (c) - Sospensione delle misure delle autorità egiziane contro le associazioni non governative indipendenti, a partire dalla fine dell’argomento dei "fondi stranieri alle ONG", che ha già costretto alla chiusura molte organizzazioni straniere operanti in Egitto ed è una permanente spada di Damocle sull’operato delle organizzazioni indipendenti egiziane (d)- Incoraggiamento di un processo per la "giustizia di transizione" in Egitto, come è avvenuto in Tunisia con la creazione della Instance Vérité et Dignité, che faccia luce sulla repressione perpetrata nei confronti dei civili dal 2011 ad oggi, sulle più gravi violazioni della dignità umana quali sparizioni e morti in carcere, e sul furto sistematico della ricchezza dello Stato da parte dei corrotti, per poter riconciliare l’Egitto con il proprio recente passato (e) - Continuità del programma Debt Swap tra Italia ed Egitto, se il debito non è ancora stato estinto, e coordinamento con programmi simili di altri Paesi europei, non solo in favore di progetti tesi al recupero della frattura economica e sociale tra ricchi e poveri che sta disintegrando la coesione interna dell’Egitto, ma anche con azioni nell’ambito della transizione democratica e del rafforzamento della società civile egiziana, avvalendosi dell’esperienza italiana in materia di processi partecipativi tra società civile e istituzioni (solamente nell’estate del 2015, il debito estero egiziano ha superato i 40 miliardi di euro) (f) - Revisione delle clausole della cooperazione economica e commerciale, recente accordo Eni-Governo egiziano incluso, che si basi su parametri minimi di tutela dei diritti umani, rispetto della libertà di espressione e promozione della giustizia sociale7; elaborazione di precise linee guida per le attività commerciali e d’investimento estero, che assicurino coerenza con gli impegni e le convenzioni internazionali sui diritti umani sottoscritte dall’Italia, e identifichino le modalità opportune per il sostegno ai difensori dei diritti umani, attraverso il contributo della cooperazione allo sviluppo, delle Ong e della società civile in senso lato (g) - Rafforzamento della società civile democratica e indipendente egiziana quale una delle scelte strategiche della politica estera e di cooperazione italiana, con la dotazione di vere e proprie infrastrutture e spazi di scambio, promozione, formazione e valorizzazione delle pratiche più innovative e coraggiose quali: un forum di incontro e scambio dei movimenti democratici del Mediterraneo, un istituto di formazione e formulazione di strategie per l’attivismo e la cittadinanza attiva nel Mediterraneo, un servizio di assistenza giuridica e istituzionale; attività di promozione di media indipendenti di giornalismo di cittadinanza (h) - Sospensione della cooperazione militare e della fornitura d’armi all’Egitto, fino a quando non siano ripristinate condizioni di sicurezza per tutti i cittadini presenti nel territorio egiziano e di rispetto dei diritti umani, a partire dalla realizzazione di processi giusti ed imparziali per chi ancora oggi si trovi in stato di detenzione per motivazioni politiche e che sia fatta chiarezza e giustizia per i casi di tortura e di sparizione (i) - Verifica internazionale sull’applicazione delle convenzioni fondamentali del lavoro, ratificate dall’Egitto, in particolare C/87, C/98, C/182, consentendo così l’esercizio delle libertà sindacali senza più discriminazioni e minacce agli attivisti ed ai dirigenti sindacali, oggi tra le principali vittime della repressione e delle violazioni dei diritti umani. Per questo ci rivolgeremo al Parlamento per chiedere di esporre queste proposte, ed al Governo affinché apra un tavolo di azione concertata con i rappresentanti della società civile italiana, metteremo a punto iniziative di raccolta fondi valorizzando ruolo e relazioni della società civile italiana ed europea, con una mobilitazione che attivi competenze e capacità necessarie alla tutela di attiviste e attivisti minacciati in Egitto, ci rivolgeremo alla stampa, con la proposta di collaborazione per informare l’opinione pubblica italiana ed europea sulla drammatica situazione e sulle violazioni dei diritti umani in Egitto, diffondendo in particolare dossier, articoli e contributi dei media egiziani indipendenti, associazioni e sindacati democratici. Egitto e diritti umani violati nel 2015 - Alcuni dati 434 organismi della società civile dichiarati illegali alla data di luglio 2015 (fonte: The Guardian, 2015); 464 attivisti scomparsi nel 2015 (fonte: Al-Nadeem Center for the Rehabilitation of Victims of Violence); 1676 casi di tortura registrati nel 2015 (fonte:Al-Nadeem Center for the Rehabilitation of Victims of Violence); 267 persone giustiziate dalle forze dell’ordine senza sentenza della magistratura nel 2015 (fonte: Arab Organization for Human Rights in the UK); 17840 persone arrestate per ragioni politiche nel 2015 (fonte: Arab Organization for Human Rights in the UK); 1978 sentenze di ergastolo nei confronti di oppositori politici nel 2015 (fonte: Arab Organization for Human Rights in the UK); circa 700 sentenze di pena capitale, anche se la sentenza non è stata ancora eseguita, emesse nel 2014 e 2015; 3091 persone uccise durante le operazioni anti-terrorismo delle forze militari egiziane in Sinai nel 2015 (fonte: Governo egiziano); Avvio o completamento di modifiche in forma repressiva di diverse leggi sulle libertà civili, tra cui: legge anti-terrorismo, riconoscimento e registrazione delle associazioni, regolamentazione delle manifestazioni, regolamentazione delle pubblicazioni su tutti i canali, collaborazione e ricezione di fondi da organizzazioni straniere (varie fonti). Egitto, "Malek Adly libero". In carcere l'avvocato che aiutò Regeni di Viviana Mazza Corriere della Sera, 21 giugno 2016 L'avvocato è stato tra i primi a denunciare la scomparsa del ricercatore italiano. Si moltiplicano gli appelli per il suo rilascio e contro l'uso punitivo dell'isolamento. Una nuova campagna è stata lanciata in Egitto da due organizzazioni dei diritti umani contro la reclusione illegale dei detenuti in isolamento. Le organizzazioni - "Kazeboon" e "Libertà per i coraggiosi" - invitano gli utenti dei social media a pubblicare foto che li ritraggono dietro le sbarre. La campagna, che durerà un mese, invita anche i parenti dei detenuti a ricorrere in Parlamento e in procura contro le autorità carcerarie. Decine di detenuti - sostengono gli attivisti - vengono rinchiusi in isolamento in violazione delle regole che prevedono che ciò possa avvenire per un massimo di 30 giorni. A ispirarla è stato soprattutto il caso di Malek Adly, attivista di sinistra e avvocato per i diritti umani, che fu anche il primo a cercare il ricercatore Giulio Regeni dopo la sua sparizione al Cairo. Quaranta giorni - Adly è stato arrestato ai primi di maggio in connessione con le proteste per la cessione del governo delle isole Tiran e Sanafir all'Arabia Saudita. Il suo avvocato, Mahmoud Belal, spiega al Corriere che è stato incriminato per incitamento alla protesta, diffusione di false notizie, minaccia alla stabilità e all'unità nazionale. Si trova nella prigione di Tora, il più grosso complesso penitenziario al Cairo. "Crediamo che l'arresto di Malek sia una vendetta - ci dice Bilal - È molto attivo sui diritti umani, le sparizioni forzate, Regeni, e penso che il suo lavoro intimidisse il regime. Inoltre, aveva ricevuto minacce, un ex dirigente del ministero dell'Interno gli aveva detto che sarebbe stato arrestato. Penso che la decisione finale sia legata al fatto che aveva presentato una denuncia contro le autorità egiziane per la cessione delle isole di Tiran e Sanafir all'Arabia Saudita". La moglie - La moglie di Malek Adly, Asmaa Aly, che gli ha fatto visita sabato scorso, afferma che nelle ultime tre settimane è stato rinchiuso in isolamento e che le sue condizioni sono critiche: si troverebbe in una cella di due metri per tre, con un solo buco nel soffitto, senza letto. Il 14 giugno la detenzione preventiva è stata confermata per altri 15 giorni (può essere prolungata di volta in volta per un massimo di due anni, spiega l'avvocato). "Non vi chiedo di rilasciarmi, so che questo è un prezzo che devo pagare - ha detto Malek Adly, in un messaggio diffuso tramite la moglie - Tutto quello che chiedo è di essere trattato come qualsiasi altro prigioniero, perché sono maltrattato come se fossi una spia israeliana. Trattatemi come i detenuti per traffico di droga o per corruzione. Giuro che sono un semplice egiziano di 35 anni, padre di una bambina di due anni che vorrei aiutare a crescere. Mi è stato negato di vedere la luce del sole per gli ultimi 40 giorni, tranne quando vengo trasferito per le udienze in tribunale (ogni 15 giorni). Le mie condizioni fisiche sono terribili perché ho solo il pavimento su cui dormire, per tre ore al massimo in cui vivo i peggiori incubi, sapendo che se mi succede qualcosa nessuno sarà in grado di salvarmi. Ho chiesto all'amministrazione penitenziaria di rimuovere tutti i farmaci dalla mia cella perché ho paura di commettere il suicidio. Ditemi, è questo che volete da me, che io mi tagli le vene? Voglio solo essere trattato secondo la legge e i regolamenti della prigione durante la mia detenzione". Gli avvocati di Adly affermano che gli sono state vietate anche le due ore al giorno di passeggiata previste dal regolamento, come pure la possibilità di partecipare alle preghiere nella moschea del carcere. "Non ci hanno dato alcuna spiegazione per questo. Il procuratore ha inoltre rifiutato di mostrarci i file relativi al caso e ci ha interrotti durante la nostra esposizione della difesa". Gli appelli internazionali - Diverse organizzazioni di avvocati, attivisti, e anche la città di Firenze hanno lanciato appelli per la liberazione di Malek Adly. La Onlus "Cospe" ha lanciato un appello al Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni perché "intervenga immediatamente" per la sua scarcerazione e perché l'Italia faccia qualcosa in difesa "dei tanti attivisti impegnati contro i regimi e la repressione e chieda il rispetto dei diritti umani nelle relazioni diplomatiche e commerciali, come stabilito dagli accordi internazionali". Tra gli altri detenuti in isolamento in Egitto ci sono: gli attivisti politici Ahmed Douma e Amr Ali del movimento giovanile 6 aprile, il giornalista Youssef Shaban e il membro di un gruppo ultras Sayed Moshagheb. Messico: la polizia spara ai maestri, 10 morti, centinaia di intellettuali scrivono al governo di Geraldina Colotti Il Manifesto, 21 giugno 2016 La polizia spara, in Messico, contro i maestri che manifestano a Oaxaca, nel sud del paese. Secondo il bilancio ufficiale, vi sarebbero 6 morti, 51 feriti e 25 detenuti. Le cifre delle organizzazioni popolari parlano invece di 10 morti, oltre un centinaio di feriti e di arresti indiscriminati. I maestri hanno pubblicato i nomi di 9 persone uccise, la decima non è stata ancora identificata. La polizia ha ammesso di aver usato armi da fuoco nella notte di domenica, ma ha accusato i maestri di aver sparato per primi e di essere "infiltrati da gruppi radicali". I manifestanti hanno invece denunciato la presenza di cecchini e di agenti con armi di grosso calibro fin dall’inizio della mobilitazione. Con fotografie e testimonianze hanno smontato la versione della polizia, secondo la quale "solo alla fine, quando già gli agenti si stavano ritirando" sarebbe arrivato un "gruppo di appoggio della Polizia federale che portava armi di grosso calibro". Sabato scorso, i maestri della Coordinadora Nacional de Trabajadores del Estado (Cnte) di Oaxaca hanno realizzato marce e vari blocchi stradali in diversi punti della strada statale, appoggiati da operai studenti e altri settori sociali, colpiti dalle politiche neoliberiste di Henrique Pena Nieto. Prima degli scontri di domenica, 500 maestri sono stati attaccati da 800 effettivi della Polizia federale a Salina Cruz, Oaxaca, e hanno denunciato "la guerra sporca" delle autorità locali nei loro confronti, condotta attraverso false informazioni. Dal 15 maggio, la Coordinadora è sul piede di guerra in difesa della scuola pubblica, e ha realizzato presidi e marce anche nella capitale, appoggiate dalle organizzazioni degli studenti e dei familiari. Nonostante la linea dura scelta dalle autorità statali e federali che hanno minacciato di sostituire i docenti in lotta, in alcuni stati lo sciopero ha interessato il 95% degli istituti prescolari, elementari e secondarie. La Cnte ha una grande forza di mobilitazione, cresciuta nel corso degli anni. Conta circa 200.000 iscritti in tutto il Messico, 80.000 dei quali solo in Oaxaca. È uno dei sindacati latinoamericani più combattivi che sta portando avanti una lotta per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della categoria, ma raccoglie anche istanze politiche più generali che premono per una profonda riforma strutturale. Con il pretesto di "alzare la qualità educativa del paese", la riforma educativa del 2013, promossa da Pena Nieto, ha imposto la valutazione obbligatoria dei maestri come condizione per l’accesso al lavoro, a un miglior salario e ad avanzamenti di carriera e per la loro permanenza nel sistema educativo. I docenti chiedono, fra l’altro, di derogare a questa disposizione, che ha provocato migliaia di licenziamenti (e 9.000 posti di lavoro sono a rischio). Centinaia di intellettuali e movimenti sociali del Messico e di diversi altri paesi (dall’America latina agli Stati uniti all’Europa) hanno sottoscritto un appello per appoggiare le rivendicazioni dei maestri. Il documento afferma di aver verificato l’esistenza di "una campagna di discredito" proveniente da vari fronti contro gli insegnanti che contestano la riforma e chiedono prima di tutto un tavolo di dialogo. Rigetta "la brutale repressione che il governo federale sta attuando contro maestre e maestri messicani", chiede a Pena Nieto di rispondere alle "giuste rivendicazioni" della Cnte, di "liberare i prigionieri politici" e di garantire la sicurezza "delle migliaia di persone che si sono mobilitate contro la riforma educativa". Cancellare il diritti legittimo alla protesta sociale - dice il documento - "è senz’altro la caratteristica principale di uno Stato autoritario". "Così sono sopravvissuta alla pena di morte in Uganda" di Monica Perosino La Stampa, 21 giugno 2016 Kigula era stata condannata per omicidio: grazie a una petizione è riuscita a riconquistare la libertà e a cambiare la storia del suo Paese. Susan Kigula oggi non dovrebbe essere qui, a Oslo, a cercare di tenere a bada il vestito leggero che il vento non vuole lasciare in pace. Susan dovrebbe essere in Uganda, il suo Paese, appesa alla forca di Kampala con il "vestito degli impiccati", una tuta con decine di tasche riempite di sabbia per rendere più pesante il corpo quando si apre la botola. Sorride, sorride sempre Susan, e dice: "Vedi, io sono la testimonianza vivente che non bisogna mollare mai, che la morte non è la cosa peggiore che ti può capitare, la cosa peggiore è morire dentro mentre siamo ancora vivi". Susan ha passato 15 anni in carcere, accusata di aver ucciso il compagno. Nei lunghi anni passati nel braccio della morte è riuscita a cambiare la storia dell’Uganda, con una petizione (nota come la "Susan Kigula e gli altri 417") che ha portato la Corte a dichiarare incostituzionale la pena capitale obbligatoria per certi reati, tra cui l’alto tradimento, il terrorismo, la rapina aggravata e l’omicidio. È uscita dal carcere 5 mesi fa. Oggi è una delle più importanti testimoni per l’abolizione della pena di morte. "La pena capitale non serve, non funziona come deterrente. Lo vediamo in Uganda, così come negli Stati Uniti: aumentano le esecuzioni, ma non mi pare che i reati diminuiscano. Dubito che un marito violento pensi ai rischi che corre mentre picchia a morte la moglie, o un kamikaze eviti di farsi saltare in aria per paura". In Uganda la sentenza viene eseguita per impiccagione, si riferisce a questo quando parla di metodi non umani? "Mi ricordo ancora quando, dopo due anni di carcere, mi hanno condannata alla forca. Da allora, ogni istante è diventato l’ultimo. Ogni porta aperta, ogni passo, ogni rumore era quello del boia che veniva a prendermi. Se morire con il collo spezzato è inumano, vivere pensando che potrebbe succedere in ogni momento è indescrivibile. È come se lo Stato facesse le prove della tua esecuzione ogni giorno, ti spreme la vita fuori dal corpo come si spreme un pompelmo". A poche centinaia di metri da dove ci troviamo, Anders Breivik ha iniziato la carneficina che il 22 luglio 2011 ha portato alla morte di 77 persone. In pochi in Norvegia hanno invocato la pena di morte, ma in molti hanno criticato la condanna a 21 anni, il massimo previsto dalla legge. Cosa ne pensa? "Penso che uccidere non sia mai la soluzione. Non lo è se lo fa lo Stato, perché diventa come gli assassini che condanna e ha il terribile sapore della vendetta. Ma ci tengo a dire una cosa: gli assassini sono dei criminali, ma nessuna persona sana di mente arriva ad ammazzare un suo simile. E soprattutto: la persona arrestata per omicidio non è la stessa persona condannata a morte. Il carcere cambia, il rimorso anche. Tutti hanno diritto a un’altra possibilità". Lei è un’assassina? "No. Non ho ucciso il mio compagno. Sono arrivati di notte, hanno tentato di sgozzare anche me. Vede questa cicatrice sul collo? È stata la mia prima condanna a morte, ma non ce l’hanno fatta a togliermi di mezzo, neanche quella volta, anche se ci sono arrivati vicino". Come è riuscita a cambiare il suo destino e quello di decine di altri condannati a morte in Uganda? "In carcere ho iniziato a studiare legge con l’aiuto dei Servizi carcerari ugandesi. Sono riuscita a laurearmi a distanza all’Università di Londra e così ho intuito quello che potevo fare, che dovevo fare: la mia unica speranza era di far cambiare la legge che rendeva obbligatoria la pena di morte in caso di omicidio. Ce l’ho fatta con l’aiuto della ong Fhri e di centinaia di persone che hanno firmato la petizione arrivata alla Corte". Ora di cosa si occupa? "Promuovo la riconciliazione contro la vendetta. Non ho rabbia, né rimpianti, quello che sono diventata lo devo anche al dolore subito. L’unica ferita è di aver dovuto abbandonare mia figlia durante gli anni del carcere. Io per fortuna avevo mia madre a occuparsi di lei, ma molti condannati non hanno nessuno, e i loro figli - dimenticati dallo Stato - finiscono per strada, cadono in mano ai criminali, alla fame e allo sfruttamento sessuale. Io mi occupo di loro, faccio in modo che abbiano una possibilità, che vadano a scuola e che capiscano che i genitori non li hanno abbandonati".