In carcere, aprirsi al confronto è l’unico modo per cambiare davvero Il Mattino di Padova, 20 giugno 2016 Le persone che vivono nelle sezioni di Alta Sicurezza sono considerate solo "i mafiosi" e inchiodate, anche dopo venti-trent’anni di galera, al loro passato, e lo sono anche perché non escono praticamente mai dalle loro sezioni. A Padova, si è sperimentato un modello di detenzione diverso, che ha rotto quello schema di sezioni-ghetto e ha messo i detenuti provenienti dai circuiti dell’Alta Sicurezza davvero a confronto con la società, con le scuole, con gli studenti, ed è solo così che si può cambiare, che si può dare un taglio al proprio passato e trovare il coraggio per mettere in discussione le proprie scelte sbagliate. L’esperienza padovana è stata da questo punto di vista straordinaria, speriamo che faccia da modello per cambiare la condizione dei 9.000 e più detenuti che ancora vivono isolati anche dal resto del carcere. Vivevo come quell’animale tenuto in cattività che ha paura a uscire fuori dal suo perimetro Ho sempre vissuto nelle sezioni di Alta Sicurezza, e malgrado di norma in quelle sezioni si viva in un contesto chiuso, da emarginati, non conoscendo altro quella vita detentiva finisce per rientrare nella tua normalità. Ma passano gli anni e mi sono accorto che in quel contesto c’era qualcosa che non andava, le persone che vivono chiuse nei ghetti senza avere possibilità di relazionarsi con altri cominciano ad adoperare un linguaggio ridotto, congelato nel tempo, improntato al giorno in cui ci hanno tratto in arresto: ci si limita a commentare cose futili, e ci si dimentica di tutto, persino di chiedere i propri diritti. Me ne sono reso conto quando ho cominciato a frequentare la Redazione di Ristretti Orizzonti, e ho avuto modo di incontrare persone che provengono dalle sezioni comuni con tipologie di reati diverse, con condanne diverse, e ho rivoluzionato il mio modo di confrontarmi con le persone. Non nascondo che i primi periodi sono stati un po’ frustranti, i compagni avevano una naturalezza nel parlare, nel confrontarsi, che mi imbarazzava, a volte pensavo che erano fuori di testa per il modo di fare che avevano, ma superato il primo periodo, ho preso consapevolezza che l’aver vissuto una vita da isolato in quelle sezioni ghetto comporta anche dei timori, è come quell’animale tenuto in cattività che ha paura a uscire fuori dal suo perimetro delimitato. Ma quel mondo giovane pieno di vita che incontravo fuori dalla mia solita sezione mi entusiasmava, mi stimolava a esplorare di più, mi dava linfa vitale, perché loro erano in un contesto normale e io ero quell’animale tenuto in cattività. Ora sono quasi quattro anni che frequento la redazione, il rapporto con i compagni dei reparti comuni è ottimo, non ci sono mai stati problemi di qualsiasi natura, ogni giorno ci confrontiamo su tematiche diverse che la redazione affronta, la mia frustrazione è scomparsa, sono rimasti i problemi sull’uso della parola che in tutti quegli anni di isolamento era quasi scomparso, ma gli altri compagni ci stanno mettendo del loro per aiutarmi, per farmi reinserire, e devo dire con tutta sincerità che adesso mi trovo più a mio agio quando sono con loro che in sezione con i miei compagni dell’Alta Sicurezza. L’esperienza di vivere la quotidianità con i detenuti dei reparti comuni è stata positiva in tutto, positiva rispetto al mio modo di pensare, perché sono persone che sono vive, dinamiche, reali. E perché se sei posto in un contesto diverso da quello tuo, riesci a riflettere in modo diverso, non sei costretto a rigurgitare sempre il tuo contesto sociale di provenienza, anzi, hai modo di criticare le tue stesse scelte, e di prendere le distanze da certi schemi di vita. A volte però ci sono anche circostanze che ti rattristano, la mia non è invidia, non sono mai stato invidioso, ma è un susseguirsi di gioia e frustrazione nello stesso tempo, considerando che il mio fine pena è mai, e che ogni giorno gran parte dei detenuti che frequento esce in permesso per poi far rientro dopo pochi giorni, c’é gioia nel sentirli raccontare del mondo esterno, di come è cambiato, e come è andato avanti. Ma condividere con loro momenti importanti vissuti con la famiglia, quando arriva la notte nella tua solitudine è come fustigarsi, continui a pensare se arriverà mai quel giorno, o se arriverà talmente lontano che non saprai più che fartene di un permesso, quando le persone che nella vita ti hanno voluto bene o saranno morte o si saranno costruite la loro vita senza di te, e non si può certo invadere la vita altrui. La speranza è che possa cambiare questo sistema, come sta succedendo a Padova, poiché non ha senso suddividere le persone in categorie, costringendole a vivere ognuna nel suo contesto sociale senza darle la possibilità di confrontarsi neanche con la restante popolazione detenuta dei vari reparti. Agostino Lentini Mi è stata data la possibilità di raccontarmi, di esprimermi riflettendo sul mio passato In questi ultimi anni il corso della mia vita detentiva è cambiato grazie al confronto avviatosi con i detenuti di media sicurezza. Il confronto nasce nella redazione di Ristretti Orizzonti e con il progetto scuola/carcere. Per me rimangono due punti fondamentali del cambiamento che sto vivendo. Ho avuto modo di riflettere e credo di essere anche maturato, con fatica, grazie alla tanta buona volontà messa in campo. Ho avuto voglia di migliorarmi verso la società, e questa esperienza mi ha stimolato diversi ragionamenti, pensieri che prima ignoravo del tutto. Mi ritengo fortunato di essere stato trasferito a Padova, dove la mia vita detentiva si è evoluta, con mio stupore. Questo accade quando a uno come me dell’Alta Sicurezza gli si dà una possibilità di svolta. La mia crescita nasce lavorando come redattore di questa speciale redazione. Credo che le diverse opinioni e i confronti che si svolgono con i detenuti della media sicurezza e con tante persone che entrano dall’esterno siano fondamentali per un vero cambiamento. Se in questi anni ho dimostrato di essere un uomo migliore è perché mi è stata data la possibilità di raccontarmi, di esprimermi riflettendo sul mio passato, sperimentando un senso di crescita interiore. Sono detenuto da oltre 20 anni e non ho mai pensato che malgrado la lunga condanna il mio percorso carcerario avrebbe potuto prendere una strada di cambiamento così rapida. Forse perché sono stato sempre lontano dalla realtà di cui adesso faccio parte. Oggi posso dire di essere una persona diversa e spero di poter mantenere il mio impegno e rimanere deciso e concreto in quell’attività socio-culturale che mi dà un senso di responsabilità giorno dopo giorno. Ecco cosa vorrei fosse una pena, mettersi a confronto ogni giorno per risvegliarsi da quel torpore che spesso si impadronisce del nostro vivere. Se oggi mi sono messo in gioco è perché credo che il mio impegno possa dare risultati positivi con ricadute sempre maggiori. La detenzione nella Casa di reclusione di Padova mi ha migliorato da ogni punto di vista, facendomi uscire da una regressione continua di cui non ero pienamente cosciente. Devo solo dire grazie a questa straordinaria occasione di confronto che trova il suo apice negli incontri con le scolaresche e nei seminari e nei convegni in cui la società entra davvero in carcere. Aurelio Quattroluni Il mondo carcerario e le sue contraddizioni di Agnese Moro La Stampa, 20 giugno 2016 Se prendessimo il modo in cui intendiamo la pena (inflitta come conseguenza di un reato commesso) come punto di osservazione per indagare i valori su cui, in pratica, si muove il nostro Paese avremmo uno scenario contraddittorio e in movimento. L’occasione per farlo è stata offerta nei giorni scorsi dall’Assemblea della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia - volontariatogiustizia.it - alla quale aderiscono importanti associazioni. Per la verità la nostra Costituzione (art. 27) indica con chiarezza i confini ideali e operativi entro cui muoversi: "La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte". Non viene indicata la reclusione come il modo di gestire la pena; la finalità non è "farla pagare", ma rieducare; non sono ammessi trattamenti contrari al senso di umanità. Come sappiamo la realtà è più contraddittoria. Ci sono luoghi di grandissimo successo (controllo e diminuzione del fenomeno, drastica riduzione del tornare a commettere reati) come la giustizia minorile che mette al centro il minore, la persona, con la sua concreta situazione e con le sue potenzialità, lavorando da subito su uno specifico percorso, che nella stragrande maggioranza dei casi non prevede il carcere. Una realtà messa oggi in questione da una riforma organizzativa che rischia di disperderne il patrimonio, mentre - paradosso! - l’Ue indica il modello italiano come quello che tutti gli Stati devono adottare. Per gli adulti si spera che quanto emerso dagli Stati generali dell’esecuzione penale promosso dal Ministero di Giustizia, con protagonisti studiosi e operatori di diverse competenze, serva a superare la centralità del carcere e raggiungere la finalità della rieducazione attraverso altre strade. Resta aperto come una insanabile contraddizione con quanto stabilito dalla Costituzione il problema dell’ergastolo, e di quello ostativo in particolare. Consiglio due bellissimi libri: di Elvio Fassone "Fine pena: ora" (Sellerio); di Carmelo Musumeci e Andrea Pugiotto "Gli ergastolani senza scampo" (Editoriale Scientifica). Cose che riguardano ognuno di noi e il tipo di Paese in cui vogliamo vivere. Carceri: i volontari a Orlando "non siamo tamponi emergenza" Ansa, 20 giugno 2016 "Vogliamo che ci sia un dialogo e un confronto, ma che ci sia davvero. Al ministro chiediamo di incontrarci, non di essere usati solo quando c’è da tamponare l’emergenza". Questo l’appello lanciato da Ornella Favero, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, al termine della IX Assemblea Nazionale dell’associazione, che si è svolta ieri e oggi a Roma. "Ha detto Dacia Maraini, durante i lavori dell’assemblea, che il rapporto con l’altro è sempre uno scambio. Ecco, pensiamo che questo sia fondamentale: capire che il rapporto con la persona detenuta, ma anche con le istituzioni, è uno scambio", afferma Favero. "Noi volontari portiamo noi stessi e la nostra esperienza", spiega. E lancia un appello: "Il ministro ci ascolti, porti la sua esperienza e i suoi dubbi". "Il carcere non è altro dalla società", conclude Favero, "ecco perchè è importante l’impegno dei volontari per portare cultura ed esperienza all’interno di un mondo che rischia di essere troppo spesso rimosso dai nostri pensieri e relegato a mondo di scarto. La pena sensata è quella che accompagna e non quella che esclude". "La società sta sempre più voltando le spalle al carcere. Con l’annunciata dismissione dei carceri urbani, verranno allontanati dallo guardo della comunità. Lontano dagli occhi lontano dall’attenzione", sottolinea a margine dell’assemblea il finalista del Premio Strega Edoardo Albinati, scrittore e insegnante di Lettere in carcere. All’evento sono intervenuti rappresentanti delle istituzioni, garanti dei diritti dei detenuti, sociologi, professori universitari, avvocati, procuratori della repubblica, letterati e volontari, insieme a vittime e familiari di detenuti. Don Mazzi: "l’ultima battaglia della mia vita sarà per abolire le carceri minorili" gonews.it, 20 giugno 2016 L’ultima battaglia della mia vita sarà lottare affinché vengano abolite le carceri minorili. La pena deve essere rieducativa, non repressiva. Servono strutture che recuperino i giovani che hanno sbagliato. Nelle carceri, invece, si concentrano gravi problematiche e disagi sociali forti. I giovani devono scontare i loro anni di pena in un contesto rieducativo e che salvi la loro dignità". Così il fondatore della Fondazione Exodus Don Antonio Mazzi, ricevendo, a Rapolano Terme (Siena), il premio Goccia d’Oro al merito della solidarietà. Giunto alla sua XXVI edizione, l’evento organizzato dai volontari della Confraternita di Misericordia e del Gruppo Donatori di Sangue Fratres, con il patrocinio dell’amministrazione comunale, ha voluto premiare esempi di coraggio e di perdono nel 2016, proclamato Anno Santo della Misericordia da Papa Francesco. Il riconoscimento è andato pertanto a "due madri coraggiose", Claudia Francardi e Irene Sisi, fondatrici dell’associazione AmiCainoAbele dopo che, il 25 aprile 2011, il marito della prima, il carabiniere Antonio Santarelli, venne ferito a morte dal figlio della seconda, Matteo Gorelli, che rientrava da un rave party a Sorano (Grosseto). Oggi il giovane si trova al carcere di Bollate (Milano) e, anche grazie alla Fondazione Exodus di Don Mazzi, ha intrapreso un percorso di recupero che gli ha permesso di diplomarsi e iniziare l’università. Le due donne sono state premiate dal prefetto di Siena, Renato Saccone, e dal comandante provinciale dei Carabinieri di Siena, colonnello Giorgio Manca. Premiato anche l’attore Giovanni Scifoni, per il suo monologo "Mio padre era cattocomunista", spettacolo teatrale in cui ha affrontato quello che lui stesso definisce "il miracolo del perdono". Per il sindaco di Rapolano Terme, Emiliano Spanu, è stata "un’edizione della Goccia d’oro particolarmente riuscita. Il grande valore degli ospiti, le loro storie e i loro grandi esempi di umanità e coraggio, insieme alla profondità dei temi trattati, hanno toccato nel profondo la nostra comunità, lasciando un segno indelebile nella nostra memoria collettiva", ha commentato il primo cittadino. Come tradizione, il premio è stato assegnato anche a due volontari del territorio. Amos Trilli ha ricevuto il riconoscimento per la Misericordia di Rapolano Terme, mentre la Goccia d’Oro è andata alla memoria di Bruno Amerini, storico vicepresidente dei Donatori di Sangue Fratres di Rapolano prematuramente scomparso nel 2015. Le legge sull’omicidio stradale non fa diminuire gli incidenti mortali di Fabio Di Todaro La Stampa, 20 giugno 2016 Un 35enne, romeno, è stato arrestato in poco più di quarantotto ore. Tante ne erano trascorse dall’incidente che aveva provocato giovedì a Taranto, spezzando la vita di Rosa Secci, 41 anni, sei figli. Un’altra persone è ricercata in tutta la Toscana: è considerato responsabile della morte di Brunella Prosperi, 78 anni, falciata sabato davanti al cimitero di Fucecchio e deceduta nella notte al policlinico Careggi di Firenze. Due casi di cronaca, nell’ultimo fine settimana, hanno riacceso i riflettori sul reato di omicidio stradale, introdotto nel codice penale (articolo 589 bis) da una legge del due marzo. La speranza era che l’inasprimento delle pene (reclusione fino a diciotto anni) e il ritiro prolungato della patente (per trent’anni, se c’è l’omissione di soccorso) fungessero da deterrente. Ma a tre mesi dall’introduzione delle nuove misure, la frequenza del reato non appare in calo. Né è venuto meno il cattivo vizio che porta a pensare di farla franca. Il numero di decessi provocati dagli incidenti è rimasto costante. Il primo arresto, formulato con l’accusa del reato di omicidio stradale, risale a pochi giorni dopo l’entrata in vigore della legge. Il 27 marzo era toccato a un uomo di Somma Vesuviana, già privato della patente nel 2011, finire ai domiciliari per aver provocato la morte di un ragazzo che guidava un’auto contro cui s’era scontrato frontalmente. Nel frattempo lo hanno seguito almeno in otto, protagonisti di incidenti fatali per altrettante vittime. Quattro a maggio: a Pontedera, a Perugia, a Macerata e alle porte di Napoli. Lo stesso numero nella prima metà di giugno: a Empoli, a Viterbo, a Pescara e a Monza. Infine tre nell’ultimo weekend. Agli episodi di Taranto e Firenze, occorre infatti aggiungere l’arresto di un 19enne che sabato sera alle porte di Siracusa ha perso il controllo di una Bmw e provocato la morte dell’amico Seby Miceli, 18 anni. Il conducente è risultato positivo all’alcol test: da qui l’ok alle manette. I numeri risultano in linea con le stime diffuse dall’Osservatorio Il Centauro-Asaps (Associazione Amici della Polizia Stradale), secondo cui tra il 2014 e il 2015 sono stati all’incirca centocinquanta i reati che sarebbero passati in giudizio con l’accusa di omicidio stradale Che cosa rischiano i responsabili di questo delitto? Prima dell’introduzione della legge 41, il periodo massimo di reclusione era fissato a sette anni. Oggi, invece, il soggiorno in carcere può essere esteso a diciotto anni, se il conducente provoca la morte di più persone o il decesso di una e le lesioni (anche lievissime) di uno o più passeggeri. Non esisteva nemmeno l’arresto in flagranza di reato, adesso obbligatorio in presenza delle aggravanti (uso di alcol e droghe) e consentito anche nel caso in cui il responsabile dell’incidente si sia fermato e abbia prestato soccorso. Visti i presupposti, i protagonisti degli ultimi episodi di Taranto, Firenze e Siracusa rischiano fino a quindici anni di reclusione e la revoca della patente anche per tre decenni. Arresti domiciliari confermati anche in assenza di braccialetti elettronici di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2016 Corte di Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 31 maggio 2016 n. 23011. Ai fini dell’applicabilità della custodia cautelare in carcere in deroga alla regola generale di cui al comma 2-bis dell’articolo 275 del Cpp, che la esclude in tutti i casi in cui il giudice, operata una valutazione prognostica, ritenga che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni, non può farsi rientrare la circostanza che siano indisponibili gli apparecchi elettronici di controllo ex articolo 275-bis del Cpp. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 23011 del 2016. Tale situazione, secondo i giudici della sesta sezione penale, non integra infatti l’ipotesi derogatoria contemplata sempre nel comma 2-bis dell’articolo 275 del Cpp, secondo la quale "gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell’articolo 284, comma 1, del Cpp": è evidente l’ontologica eterogeneità fra la mancanza di un domicilio ove disporre la misura domestica, che appunto deroga alla preclusione all’applicazione della misura intramuraria - circostanza ascrivibile all’indagato/imputato, seppure spesso incolpevolmente - e l’indisponibilità degli strumenti di controllo previsti dall’articolo 275-bis del Cpp, invece dovuta a una carenza delle dotazioni della pubblica amministrazione. Da queste premesse, la Corte ha annullato senza rinvio l’ordinanza che, nell’aver sostituito la misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari con la forma di controllo del braccialetto elettronico, aveva peraltro previsto che la misura gradata non fosse eseguita laddove si fosse accertata l’indisponibilità del braccialetto, in tal caso con il ripristino automatico della misura carceraria senza necessità di ulteriore provvedimento giudiziario; la Cassazione ha direttamente disposto gli arresti domiciliari senza mezzo di controllo. In tema di applicazione della misura cautelare - In tema, si vedano sezioni Unite, 28 aprile 2016, Lovisi, laddove si è affermato che il giudice sia nel momento di prima applicazione della misura cautelare sia nel caso di sostituzione della misura, ove ritenga applicabile quella degli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico, deve verificarne la disponibilità e, in caso negativo, escluso ogni automatismo nella scelta di applicare la misura della custodia in carcere ovvero quella degli arresti domiciliari semplici, deve applicare quella ritenuta idonea, adeguata e proporzionata in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto. In altri termini, l’accertata mancata reperibilità del dispositivo, impone al giudice una rivalutazione della fattispecie concreta, alla luce dei principi di adeguatezza e proporzionalità di ciascuna delle misure, in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto. È una chiara indicazione nel senso che le carenze dell’amministrazione, non in grado di avere un numero sufficiente di braccialetti elettronici, non può risolversi in danno della persona: nell’ipotesi di constatazione della carenza del dispositivo, non vi è cioè alcun automatismo applicativo (in particolare, è escluso che debba automaticamente e obbligatoriamente applicarsi la custodia in carcere), ma è imposto al giudice di rinnovare l’apprezzamento sull’idoneità della misura pertinentemente applicabile, proprio alla luce della circostanza di fatto della indisponibilità del dispositivo. In esito a tale rinnovato apprezzamento, potrà giustificarsi, nel concreto, l’applicazione della custodia in carcere, ove in positivo dovesse ritenersi l’inidoneità degli arresti domiciliari semplici a soddisfare le esigenze cautelari, ovvero potrà applicarsi quest’ultima più gradata misura, ove la carenza del mezzo di controllo sia ritenuta superabile e non pregiudizievole nell’ottica prevenzionale. Non basta la parola dell’agente per condannare il detenuto di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2016 Non è sufficiente la sola testimonianza dell’agente penitenziario che si dichiara vittima di una aggressione per condannare il detenuto indicato come responsabile. Lo ha stabilito il Tribunale di Frosinone, con la sentenza del 15 marzo 2016 n. 766, assolvendo l’imputato "quanto meno ai sensi dell’articolo 530, 2 comma, c.p.p. non essendosi raggiunta la prova". Il detenuto infatti era stato imputato per resistenza a pubblico ufficiale "perché usava violenza nei confronti dell’Assistente Capo della Polizia Penitenziaria consistita nel colpirlo al volto con un pugno nel mentre lo stesso compiva un atto del suo ufficio consistito nel servizio di vigilanza ed accompagnamento dei detenuti presso la sala colloqui"; e per "lesioni", aggravate da una serie di circostanze, avendo l’agente riportato un "trauma contusivo" giudicato guaribile in tre giorni. Per il tribunale tuttavia "l’istruttoria non ha consentito di giungere a risultati appaganti in ordine alla sussistenza di elementi concreti idonei a corroborare l’ipotesi accusatoria". Infatti, "la prova testimoniale espletata nel corso del dibattimento non può considerarsi sufficiente a supportare una decisione in termini di affermazione della penale responsabilità dell’imputato". Fra l’altro, osserva il tribunale, la ricostruzione della vittima non coincide nemmeno con quanto precedentemente da ella riferito. E cioè che mentre riaccompagnava nella stanza il detenuto, in compagnia di un collega, lo stesso gli sferrava un "pugno/schiaffo". E che soltanto con l’ausilio di altri colleghi, intervenuti immediatamente, riusciva ad immobilizzarlo mentre continuava "a dimenarsi, sbracciarsi e divincolarsi" riportando a sua volta, lesioni personali all’avambraccio destro". Ora, osserva la sentenza rifacendosi alla giurisprudenza di Cassazione, è vero che con riferimento alla testimonianza della parte offesa, le relative dichiarazioni "possono essere valutate dal giudice al fine del suo libero convincimento; e tuttavia, è pure noto che, laddove la testimonianza della persona offesa costituisca l’unico elemento acquisito a carico dell’imputato la sua valutazione da parte del giudice deve essere particolarmente rigorosa in ordine alla consistenza ed attendibilità della stessa, che, di norma, deve essere suffragata da elementi di riscontro ulteriori ed esterni ad essa". "È stato anzi sottolineato - prosegue la sentenza - che la parte civile e l’offeso dal reato non sono semplici terzi rispetto al rapporto processuale penale, avendo essi anche un interesse personale che può alterare, anche inconsciamente, il dato obiettivo, sia per una malintesa esigenza di giustizia sia per il bisogno inconscio che sia trovato ad ogni costo il colpevole, sia per altre motivazioni proprie della vittima del reato... sicché l’unico elemento sicuro e rigoroso deve essere addotto dal controllo degli altri elementi esterni che confermano l’accusa". Sulle modalità del possesso del denaro sussiste la differenza tra peculato e truffa di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2016 Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 2 maggio 2016 n. 18177. La differenza tra la truffa e il peculato va individuata nel fatto che nel primo caso il possesso e la disponibilità del denaro per fini istituzionali costituiscono un antecedente della condotta criminosa, mentre nella truffa l’impossessamento della res è l’effetto della condotta illecita. Lo hanno chiarito i giudici della Suprema corte con la sentenza n. 18177 del 2016. Differenza tra peculato e truffa - Costituisce affermazione consolidata quella secondo cui l’elemento distintivo tra il peculato e la truffa aggravata ai sensi dell’articolo 61, numero 9, del Cpva individuato con riferimento alle modalità del possesso del denaro o di altra cosa mobile altrui oggetto di appropriazione. È ravvisabile, quindi, il peculato quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio si appropri del denaro o della cosa mobile altrui di cui abbia già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio; è ravvisabile, invece, la truffa aggravata qualora l’agente, non avendo tale possesso, se lo procuri fraudolentemente, facendo ricorso ad artifici o raggiri, in funzione della condotta appropriativa del bene. Alla condotta di peculato può affiancarsi anche una condotta fraudolenta, finalizzata, però, non a conseguire il possesso del denaro o della cosa mobile, ma a occultare la commissione dell’illecito ovvero ad assicurarsi l’impunità: in tale ipotesi, deve ravvisarsi il peculato, nel quale, di norma, rimane assorbita la truffa aggravata, salva la possibilità, in relazione a specifici casi concreti, del concorso di reati, stante la diversa obiettività giuridica, la diversità dei soggetti passivi, il diverso profitto, il diverso momento consumativi (tra le altre, sezione VI, 6 maggio 2008, Savorgnano). In altri termini, ricorre il reato di peculato quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio si appropri del denaro o della cosa mobile altrui di cui abbia già il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio o servizio; versandosi sempre in tema di peculato quando l’agente ponga in essere anche una condotta fraudolenta che non incida, però, sul possesso del bene, nel senso di conseguirne la disponibilità, ma abbia la sola funzione di mascherare, almeno all’apparenza, la commissione del delitto. Ricorre, invece, la truffa aggravata ex articolo 61, numero 9, del Cp quando l’agente, non avendo il possesso del bene, se lo procuri fraudolentemente in funzione della contestuale o successiva condotta appropriativa (sezione VI, 13 dicembre 2011, Zedda). Intralcio alla giustizia: sussiste con minacce a far dichiarare il falso al pm o al difensore Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2016 Reati contro l’amministrazione della giustizia - Intralcio alla giustizia - Modalità - Pressioni e minacce esercitate su soggetto che abbia reso dichiarazioni nella fase delle indagini preliminari. È configurabile il delitto di intralcio alla giustizia anche con riferimento alle pressioni e alle minacce esercitate su colui che abbia reso dichiarazioni accusatorie nella fase delle indagini preliminari al fine di indurlo alla ritrattazione in vista dell’acquisizione, da parte sua, della qualità di testimone nel celebrando dibattimento. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 18 dicembre 2015 n. 50008. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Intralcio alla giustizia - Delimitazione dell’ambito soggettivo delle potenziali parte lese - Portata della locuzione di cui al comma 1 dell’articolo 377 cod. pen. Ai fini di un’esatta delimitazione dell’ambito soggettivo delle potenziali parti lese del delitto di intralcio alla giustizia di cui all’articolo 377 del codice penale, la locuzione indicata al comma 1 di "persona chiamata a rendere dichiarazioni dinanzi all’autorità giudiziaria" è tale da non limitarne l’applicabilità ai soli testimoni citati a deporre dinanzi al giudice, ma anche a quelli convocati dal pm nel corso delle indagini preliminari. È vero, tuttavia, che l’aggettivo "chiamata" evoca la situazione che una convocazione, formale o meno, scritta od orale, sia stata ricevuta, quella in esame costituendo figura di reato connotata precisamente dalla qualificazione soggettiva della persona offesa. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 21 aprile 2015 n. 16635. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Subornazione - Minaccia - Caratteri - Necessità di una minaccia grave - Esclusione. Integra il reato di cui all’articolo 377, terzo comma, cod. pen., qualsiasi condotta minacciosa posta in essere al fine - non raggiunto - di far commettere al soggetto passivo uno dei reati indicati nel primo comma del predetto articolo 377 (false dichiarazioni al pubblico ministero o al difensore, falsa testimonianza, falsa perizia o interpretazione), indipendentemente dalla gravità della minaccia. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 10 aprile 2015 n. 14862. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Delitto di intralcio alla giustizia - Elemento soggettivo - Dolo - Offerta o promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero - Reato di intralcio alla giustizia in relazione alle ipotesi di cui agli artt. 371 bise 372 cod. pen. Integra il delitto di intralcio alla giustizia previsto dall’articolo 377 cod. pen. in relazione alle ipotesi di cui agli art. 371-biso 372 cod. pen., secondo la fase procedimentale o processuale in cui viene posta in essere, la condotta di chi offre o nel promette denaro o altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero al fine di influire sul contenuto della consulenza, anche quando l’incarico a questi affidato implica la formulazione di giudizi di natura tecnico-scientifica. • Corte cassazione, sezioni Unite, sentenza 12 dicembre 2014 n. 51824. Reato di estorsione: necessario il dolo specifico per procurare a sé o ad altri il profitto Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2016 Reati contro il patrimonio - Esercizio di un preteso diritto - Estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni - Discrimen. L’esercizio di un preteso diritto - anche se oggetto di contestazione - integra il reato di cui all’articolo 393 del codice penale soltanto qualora la pretesa esercitata violentemente non appaia del tutto esorbitante e pretestuosa rispetto a quella vantata nella realtà, configurandosi, in tal caso, il delitto di estorsione. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 29 febbraio 2016 n. 8096. Reati contro il patrimonio - Criterio distintivo tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni - Elemento materiale - Esclusione - Elemento soggettivo - Rilevanza esclusiva. Il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona e quello di estorsione si distinguono non per la materialità del fatto, che può essere anche identica, ma per l’elemento intenzionale. Per l’imputabilità del delitto di estorsione è necessario il dolo specifico che consiste nel fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto; proprio tale fine deve sempre formare oggetto, in sede di merito, di accurata indagine, e ciò particolarmente nel casi di tentativo, perché soltanto con questa ricerca si può accertare veramente sia la direzione degli atti compiuti dall’agente che il fine perseguito; tanto più che, spesso, l’affermazione di voler esercitare un opinato diritto o di agire per un motivo diverso da quello di trarre profitto dall’azione o dall’omissione imposta al soggetto passivo, non è che un pretesto per mascherare l’estorsione. Considerato che, come rilevato in dottrina, la "doloscopia" non è stata ancora inventata, e che quindi il dolo può essere tratto solo da dati esteriori, che ne indicano l’esistenza, e servono necessariamente a ricostruire anche il processo decisionale alla luce di elementi oggettivi, analizzati con un giudizio ex ante, appare evidente che le forme esteriori della condotta, e quindi la gravità della violenza e l’intensità dell’intimidazione veicolata con la minaccia, non sono momenti del tutto indifferenti nel qualificare il fatto in termini di estorsione piuttosto che di esercizio arbitrario ai sensi dell’articolo 393 del cp. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 22 ottobre 2015 n. 42643. Reati contro il patrimonio - Estorsione - Esercizio arbitrario delle proprie ragioni - Criterio distintivo - Elemento psicologico - Configurabilità. I delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e di estorsione si distinguono in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella consapevolezza della sua ingiustizia. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 22 settembre 2015 n. 38397. Reati contro il patrimonio - Estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni - Criterio distintivo - Elemento intenzionale - Rilevanza esclusiva. I delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e di estorsione (la cui materialità è descritta dagli articoli 393e 629 codice penale nei medesimi termini) si distinguono in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue - come nel caso di specie - il conseguimento di un profitto nella consapevolezza della sua ingiustizia. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 16 settembre 2014 n. 37869. Grida d’amore per il mio detenuto di Roberto Zicchitella pagina99, 20 giugno 2016 Sono fidanzate, mogli e amiche. Le loro voci, dalla terrazza sotto il Faro, arrivano al cuore di chi sta dentro al carcere di Regina Coeli. Il carcere di Regina Coeli è una città nella città, abitata da un migliaio di persone, che resta invisibile e silenziosa. Noi liberi di qui e loro prigionieri di là, oltre il muro. Solo di tanto in tanto arriva qualche rumore. Le grida e gli incitamenti durante le partite di pallone fra detenuti, quando godono dell’ora d’aria. In passato, in occasione di qualche protesta, il fragore della "battitura", cioè lo sbattere, tutti insieme, di oggetti contro le sbarre della cella. Per il resto, silenzio. Un silenzio che si fonde con quello che regna in questo angolo di Trastevere lontano dagli schiamazzi della movida. Qui i rumori sono pochi. Le grida dei gabbiani, all’alba così intense. In estate, l’ossessivo frinire delle cicale. A mezzogiorno il colpo di cannone dal Gianicolo. Ma ogni tanto, il pomeriggio o la sera, il silenzio è squarciato da una voce di donna. Il primo grido è sempre un nome di uomo. Ripetuto all’infinito, magari in attesa di una voce di risposta. Poi arrivano le dichiarazioni d’amore: "Amò, te vojo beneeee", "Nun te lasciooooooo", "Sei la mia vitaaaa". Sono le donne dei carcerati. Compagne, mogli, fidanzate, amiche. Donne che, per qualche problema burocratico o per le misure restrittive della libertà alle quali sono sottoposti i loro congiunti, non possono accedere ai colloqui in carcere. Donne che urlano magari per una comunicazione urgente, oppure perché le cose da dirsi sono tante e i colloqui non bastano mai. Per urlare, si affacciano dalla terrazza sotto il Faro, il punto della passeggiata del Gianicolo in linea d’aria più vicino alle mura di Regina Coeli. Le voci di queste donne, a volte spinte dalla brezza, scivolano sulle chiome degli alberi e vanno a spegnersi oltre le mura del carcere, filtrano nelle celle e scaldano i cuori di chi sta dentro. Un pomeriggio due giovani donne si sono affacciate dalla terrazza con tre bambini e per un paio d’ore tutti e cinque hanno gridato il loro affetto ai loro uomini e padri rinchiusi a Regina Coeli. Per un certo tempo, anni fa, una donna straniera, forse una Rom, si è esibita in lunghi monologhi recitati con voce cupa, come un estenuante basso continuo. Forse raccontava fatti di casa, magari erano sfoghi pieni di rimproveri per l’uomo che si era cacciato nei guai lasciandola sola. A volte questi monologhi strappano il sorriso. Come quella sera d’estate in cui una donna gridò la sua pazza idea: "Amò, te lancio er telefono con la fune, così ci parliamo". Oppure quando le due amiche con i figli, vedendo passare un’auto dei carabinieri, hanno intimato ai bambini: "State zitti, avete strillato troppo e adesso arrivano le guardie". Viene in mente, a parti rovesciate, una scena memorabile di Nella città l’inferno, un film del 1958 ambientato nel carcere femminile delle Mantellate (ora dismesso). La detenuta Anna Magnani, insieme a un’altra carcerata, si arrampica davanti a una finestra e grazie a uno specchietto osserva il mondo di fuori. Scorge un uomo in strada ed esclama: "Anvedi che fusto!". Poi, non sapendo chi sia, la Magnani prova ad attirare la sua attenzione gridando a squarciagola nomi a caso, nella speranza di azzeccare quello giusto: "Mariooo, Giuliooo, Vittoriooo, Pierooo". Invece gli uomini, dalle celle, non li senti quasi mai rispondere. Ma immagini il tumulto nei loro cuori. "I carcerati, comunque, sentono vicino il respiro della città", assicura don Vittorio Trani, da 38 anni cappellano di Regina Coeli. Come venga percepito questo respiro lo raccontò bene il musicologo antifascista Massimo Mila, rinchiuso lì durante il Fascismo: "Drizzandosi sulla punta dei piedi in quel tal punto del "passeggio" si scorgono di sfuggita i pini a ombrello del Gianicolo. E spiccando un salto s’intravede, laggiù a sinistra, il terrazzo d’una casa privata: un giorno, su quel terrazzo, si videro pure dei bimbi, che giocavano. La vita il mondo, la libertà! Bah! Meglio non pensarci". L’imbarazzo istituzionale per Enzo Tortora di Beniamino Migliucci e Francesco Petrelli (Ucpi) camerepenali.it, 20 giugno 2016 Il diniego dell’Ufficio del Presidente Grasso all’utilizzo di una sala del Senato, opposto ad una ex senatrice della Repubblica per la presentazione di un libro che riguarda la terribile vicenda giudiziaria di Enzo Tortora, non sembra una cosa buttata lì a caso ma proprio la concretizzazione di una certa aria che oramai da tempo spira nel Paese, una prospettiva nella quale i mali antichi e presenti della giustizia non son cosa di cui parlare seriamente: non sono forse ferite da mostrare in un contesto istituzionale. Pare davvero strano che l’Ufficio del Presidente del Senato, che è la seconda carica dello Stato, dove transitano e si dirimono questioni di non piccolo rilievo, nel negare l’utilizzo di una sala del Senato ad una ex senatrice della Repubblica, giustifichi la grave decisione con motivazioni non meditate. La cosa sembra ancora più strana se oggetto di quella mancata concessione sia la presentazione di un libro che riguarda la terribile vicenda giudiziaria di Enzo Tortora, e le responsabilità di un intero sistema processuale e carcerario. L’inequivoca dizione della lettera presidenziale nella quale si fa riferimento alla estraneità della presentazione del libro alle "finalità istituzionali del Senato" non sembra una cosa buttata lì a caso o, peggio, per errore, ma proprio la concretizzazione di una certa aria che oramai da tempo spira nel Paese, una prospettiva nella quale i mali antichi e presenti della giustizia non son cosa di cui parlare seriamente. Non sono forse ferite da mostrare in un contesto istituzionale. Meglio i luoghi comuni, gli aumenti di pena indiscriminati, l’abolizione dell’appello e della prescrizione. Meglio i populismi consolatori. Che la vergogna di una guerra dello Stato contro un cittadino innocente ed inerme non insozzi le falde del sommo laticlavio... La successiva smentita pare davvero un rimedio rabberciato. C’è da credere che se fosse stata quella la ragione - la candidatura di Francesca Scopelliti alle elezioni amministrative del comune di Milano - la si sarebbe indicata certamente a seguito di quella meditata "delibera", magari prospettando il rinvio di qualche giorno della presentazione. Pare che vi sia un intero "Collegio di Questori" che "delibera" in proposito con "formule standard" senza tuttavia riuscire ad impedire simili esiti imbarazzanti. E questo certo non ci consola. Consolano invece, in tutto questo, le parole del Presidente Napolitano che di quell’evento e della "bella e forte decisione di rendere pubbliche" quelle lettere, ha colto l’altissimo valore politico e istituzionale, perché volto a denunciare "problemi di sistema e di clima che restano ancora aperti che andrebbero affrontati con coerenza e con determinazione per realizzare un esercizio dell’attività giudiziaria realmente rispondente ai principi della nostra Costituzione". Napoli: lavoro e agricoltura nel carcere di Secondigliano nasce progetto "Campo Aperto" di Giancarlo Bottone internapoli.it, 20 giugno 2016 Trasformare gli spazi del carcere in uno strumento utile per la collettività, trasformare i detenuti in agricoltori esperti migliorandone personalità e condizione: sono questi gli obiettivi del progetto "Campo Aperto: lavoro e agricoltura biologica nel carcere di Secondigliano", progetto voluto dall’esperienza ventennale della cooperativa sociale "L’uomo e il Legno", che ha sede nel quartiere napoletano di Scampia. Pomodori del Piennolo del Vesuvio, melenzana lunga napoletana, zucchine San Pasquale: sono solo alcuni dei prodotti tipici locali coltivati dai 5 detenuti del penitenziario di Secondigliano, ora assunti e regolarmente retribuiti dalla cooperativa. Sono quattro mesi infatti che la cooperativa ha deciso di rilevare un progetto di agricoltura già esistente nella struttura da diversi anni ma che la precedente associazione non è riuscita a sostenere e a far decollare. Ortaggi freschi e completamente naturali che nascono dai 2 ettari di terreno che si trovano all’interno della struttura e che potranno essere distribuiti sia nei canali commerciali tradizionali che nei gruppi di acquisto solidali, ovviamente con la formula a "Km 0": tutto ciò con l’unico fine di garantire la futura sostenibilità del progetto e di incrementare l’occupazione di più detenuti. Ma la cooperativa vuole fare di più: sistemare le tre serre esistenti nel carcere e sostituire l’attrezzatura ormai vecchia e quasi inutilizzabile. Per questo motivo è stata avviata una raccolta fondi con l’obiettivo di raggiungere la cifra di 15mila€: sarà possibile fare donazioni libere fino al 30 Giugno, accedendo facilmente alla piattaforma online a questo indirizzo. Banca Etica, inoltre, avendo selezionato e preso a cuore il progetto, si è impegnata a fare anch’essa una sottoscrizione, a patto che dalla raccolta fondi si raggiunga almeno il 75% della somma richiesta. Supporteranno il progetto anche l’Associazione Libera, la FederConsumatori e la cooperativa sociale la Roccia, che collaborerà nella realizzazione dei gadget "ricompensa" grazie anche alla manodopera di persone svantaggiate. "Con la presente proposta cerchiamo di provare a dare una risposta concreta al bisogno di lavoro salariato espresso dai detenuti, in considerazione del fatto che il sistema penitenziario, caratterizzato da sovraffollamento, incremento dei suicidi e degli atti di autolesionismo, non sempre riesce a garantire ai detenuti un autentico percorso di riabilitazione. La proposta progettuale, inoltre, intende anche sensibilizzare la comunità locale sui temi della detenzione anche per prepararla ad accogliere tutti coloro che, in uscita, hanno bisogno di accoglienza e sostegno per potersi reinserire. Garantire ai detenuti un impegno stabile e quotidiano, inoltre, è fondamentale per valorizzarne le competenze e le energie in vista del successivo reinserimento nel tessuto sociale, oltre che per diminuire l’impatto sociale ed emotivo della restrizione della libertà. Questo secondo obiettivo, infine, è ancora più significativo nel caso che i detenuti siano ergastolani per i quali sarà possibile, attraverso il lavoro, produrre un beneficio per il mondo esterno e trarne vantaggio in termini di autostima e di riflessione sul proprio vissuto". Trieste: suicida agente di Polizia penitenziaria originario di Pescara Comunicato Sappe, 20 giugno 2016 Un poliziotto penitenziario di 32 anni in servizio alla Casa Circondariale di Trieste si è tolto la vita poco prima di prestare servizio. A darne notizia è Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Sembra davvero non avere fine il mal di vivere che caratterizza gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, uno dei cinque Corpi di Polizia dello Stato italiano", aggiunge il leader del Sappe, che ricorda come "nel 2015 furono 10 i casi di suicidio nelle file della Polizia Penitenziaria". Ancora oscure le cause che hanno portato l’uomo, sposato e padre di due figli, che prestava servizio nelle sezioni detentive, ma Capece sottolinea come sia importante "evitare strumentalizzazioni ma fondamentale e necessario è comprendere e accertare quanto hanno eventualmente inciso l’attività lavorativa e le difficili condizioni lavorative nel tragico gesto estremo posto in essere dal poliziotto. Non può essere sottaciuto ma deve anzi seriamente riflettere la constatazione che negli ultimi 3 anni si sono suicidati più di 40 poliziotti e dal 2000 ad oggi sono stati complessivamente più di 100, ai quali sono da aggiungere anche i suicidi di un direttore di istituto (Armida Miserere, nel 2003 a Sulmona) e di un dirigente generale (Paolino Quattrone, nel 2010 a Cosenza). Non sappiamo se era percepibile o meno il disagio che viveva il collega che si è ucciso. Quel che è certo è che sui temi del benessere lavorativo dei poliziotti penitenziari l’Amministrazione Penitenziaria è in grosso affanno e in colpevole ritardo, senza alcuna iniziativa concreta". Sgomento Giovanni Altomare, segretario regionale Sappe del Friuli Venezia Giulia: "Era un ragazzo d’oro e nulla faceva presagire la tragedia. Sono sconvolto". Il pensiero del SAPPE va "alla moglie, ai figli, ai familiari, agli amici e ai colleghi del nostro collega. A loro va il nostro pensiero e la nostra vicinanza", conclude commosso e affranto Capece. Napoli: carcere minorile di Nisida, la "paranza dei bimbi" scatena la rissa, feriti tre agenti di Irene De Arcangelis La Repubblica, 20 giugno 2016 Lite tra 12 giovani reclusi durante una partita di calcetto nell’istituto. L’accusa del sindacato: "La presenza di chi è già maggiorenne sta creando problemi". NON sono ancora adulti, non sono più ragazzini. Li chiamano "giovani adulti". Magari hanno genitori rivali tra loro, tutti hanno vissuto la strada e il crimine. C’è il rapinatore al suo primo colpo che può salvarsi e c’è quello che fin da piccolo ha respirato la camorra in casa. Storie diverse tra loro, tutte di emarginazione. Cambia solo il livello di pericolosità anche all’interno di un carcere minorile. Tutti sullo stesso campo di calcetto a Nisida per una partita, fa parte del cosiddetto "trattamento" dei giovani detenuti. È lì che scoppia la rissa. Botte tra due che si allarga a tutti i giocatori. E nel caos di dodici ragazzi che se le danno di santa ragione a pagare sono tre agenti della polizia penitenziaria. Feriti, seppur in modo non grave, finiscono in ospedale. Prognosi di sette giorni. Va a verificare quanto accaduto il dirigente del Centro giustizia minorile della Campania Giuseppe Centomani, ma intanto il sindacato punta il dito contro un temibile gruppo napoletano al centro della cronaca nell’ultimo anno. È quello della "paranza dei bambini" di Forcella, quello dei giovanissimi boss protagonisti di una sanguinosa faida negli ultimi due anni. Poi neutralizzati con gli arresti. Piccoli capoclan, insieme a ragazzini vicini al crimine ma anche lontani dalle dinamiche della criminalità organizzata. Infine il bilancio parla di una rissa tra dodici ragazzi, di cui alcuni con familiari nella camorra di Forcella, della Sanità, di Ponticelli e di Secondigliano e tutti già maggiorenni. Un solo minorenne coinvolto, 17 anni. Nessuno di loro ferito. Cattiva gestione di strutture carcerarie che oggi, con il nuovo regolamento, ospitano ragazzi (oramai adulti) fino ai venticinque anni? Tema caldo, mentre solleva la polemica il sindacato Uspp (Unione sindacati di Polizia penitenziaria) della Campania proprio su quella gestione che, per il segretario Ciro Auricchio per "la presenza dei "giovani adulti" (minori di 25 anni, ndr) sta creando notevoli problemi di gestione e la compromissione del modello di "trattamento" minorile. Perché questa volta si tratta di elementi di spicco della camorra". Adulti e ragazzi, piccoli criminali e camorristi in erba. La rissa, per il sindacato degli agenti penitenziari, sarebbe esplosa proprio per questo. Perché all’interno di un carcere prevalgono le stesse regole della strada. E dunque, per l’Uspp, i ragazzi così grandi e quelli con reati di associazione mafiosa non dovrebbero stare con gli altri. Strade per il recupero molto diverse. Fatto sta che due giorni fa erano tutti insieme sullo stesso campo di calcio a Nisida. E tra i giocatori, per il sindacato di Polizia penitenziaria, c’erano anche quelli del blitz del giugno 2015 a Forcella, finiti in manette dopo aver versato sangue, dopo la morte del loro giovane boss, il diciannovenne Emanuele Sibillo. In quel blitz c’erano molti minorenni anche con accuse pesanti. Che dunque pur clienti standard di un carcere minorile vengono ora considerati troppo pericolosi per stare con gli altri a condividere i programmi del cosiddetto "trattamento". "I poliziotti intervenuti per sedare la rissa - spiega Auricchio - sono stati presi a calci e a pugni, perché anche per i soggetti così pericolosi la gestione è morbida". Alternativa sarebbe separare i ragazzi per fasce di età e per reati commessi. "I reati sono tanti e sono casi complicati. Che facciamo? Nonli possiamo isolare tutti - interviene Francesco Cascini, a capo del dipartimento di Giustizia minorile - Il recupero va fatto in una comunità per sfruttare al massimo la socialità. Queste cose (la rissa, ndr) possono succedere, accade anche tra adolescenti non reclusi. Anche se il problema non va sottovalutato e bisogna lavorare di più sui ragazzi vicini alla criminalità organizzata. Per ora teniamo già separati i più piccoli dai ragazzi più strutturati e vicini alla criminalità organizzata. Sicuramente sui cinquantacinque ragazzi ospiti di Nisida si può fare qualche separazione, ma senza eccedere, altrimenti saranno condannati all’isolamento. Si rischia di rendere più difficile il recupero. D’altra parte - conclude Cascini - tra i 21 e i 25 anni la legge permette di mandare questi ragazzi in un carcere per adulti, ma se noi tentiamo sempre di trattenerli nelle strutture minorili è proprio per raggiungere quel recupero necessario". Cuneo: il Garante dei detenuti "diteci se e quando Alba potrà riavere il carcere" di Cristina Borgogno La Stampa, 20 giugno 2016 Appello del Garante comunale a oltre cinque mesi dalla chiusura. "Il carcere "Giuseppe Montalto" dev’essere restituito alla città moderno e sicuro per ospiti, agenti, educatori e volontari. Informateci su modalità e tempi certi circa la sua riapertura". Il Garante comunale dei detenuti, Alessandro Prandi, scrive al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria nazionale e al provveditore regionale, Luigi Pagano, per chiedere notizie della casa circondariale di Alba, chiusa a gennaio in seguito a un’epidemia di legionella. Dopo settimane in cui sembrano essersi spenti i riflettori sul caso che aveva mosso politici e istituzioni - tra cui a marzo il ministro Enrico Costa e lo stesso Pagano che avevano parlato di "uno stanziamento di 2 milioni e lavori appaltati entro giugno", Prandi (nominato garante poco prima del trasferimento dei 122 detenuti) cerca di riportare il "Montalto" all’attenzione di enti e opinione pubblica. "Nulla si sa sulla reale entità dell’investimento e i tempi. Un vuoto che lascia spazio a ogni sorta di speculazione (tra le voci che anche una possibile trasformazione in centro d’accoglienza, ndr)". Intanto sono sempre disponibili i volontari di Caritas e l’associazione Arcobaleno, "tanto che alcuni continuano a far visita ai detenuti negli attuali luoghi di reclusione" aggiunge Prandi. Il vigneto è seguito da un gruppo di detenuti che si spostano da Fossano ad Alba, ma secondo il garante "c’è il rischio di ritrovarsi con una struttura abbandonata e deteriorata, oltre al disagio arrecato al personale". E conclude: "Ben poche delle persone ospitate ad Alba hanno avuto l’opportunità di proseguire i percorsi formativi, scolastici e lavorativi e pare caduta nel vuoto anche la mia richiesta di andare a fondo su eventuali responsabilità in una vicenda che ha messo a repentaglio in modo grave la salute di detenuti e lavoratori". Mantova: confronto all’ex Opg di Castiglione, le nuove Rems centro della riforma Gazzetta di Mantova, 20 giugno 2016 Un confronto aperto sulla nuova realtà delle Rems a fronte della chiusura degli opg. Si è tenuto martedì scorso, per iniziativa della direzione strategica e del Sitra dell’Asst di Mantova, e ha visto protagonista Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale dei collegi Ipasvi, che ha visitato la struttura e incontrato il personale dipendente del sistema polimodulare di Rems Provvisorie di Castiglione. Barbara Mangiacavalli ha sottolineato il ruolo fondamentale che i professionisti sanitari svolgono nel trasformare lo spazio fisico in un luogo di cura, oltre alla ricchezza e al valore del lavoro in équipe multidisciplinare, che presuppone una compartecipazione di tutte le figure professionali - medici, infermieri, educatori, tecnici della riabilitazione psichiatrica, psicologi, assistenti sociali, oss - nella costruzione del percorso assistenziale di presa in carico della persona ma anche di ogni identità professionale, superando i confini di ognuno, al fine di mettere al centro i bisogni di salute della persona. La Mangiacavalli ha, infine, visitato ogni struttura del sistema polimodulare Rems provvisorie di Castiglione delle Stiviere, incontrando direttamente il personale dipendente in servizio ed i pazienti nello svolgimento delle attività riabilitative quotidiane. I pazienti hanno voluto omaggiarla con un rinfresco organizzato dal laboratorio "Mani in pasta" ed un fiore in vaso creato dal laboratorio di découpage. Salerno: associazioni in rete per salvare le vecchie carceri di Barbara Cangiano La Città di Salerno, 20 giugno 2016 Parco storico Sichelgaita e Hortus Magnus pronte a scendere in campo per il recupero degli "edifici mondo" lasciato nel degrado. Fare sistema. Per sensibilizzare i cittadini, educandoli al valore di un recupero memoriale che passa per la conoscenza. Per raccogliere fondi. E perché no, per stanare qualche "mecenate" che possa correre in supporto della parte pubblica e salvare dalla polvere i quattro ex conventi che furono adibiti a carcere maschile e carcere femminile. Clotilde Baccari, anima dell’associazione Hortus Magnus e del Parco storico Sichelgaita, è tra le prime a rispondere all’appello lanciato dal presidente dell’Ordine degli architetti per il recupero dei cosiddetti "Edifici mondo", situato nella parte più suggestiva, ma anche più degradata, del centro storico cittadino. Il recupero come ricchezza. "Il recupero della città antica è la nostra ricchezza - spiega - per questo è indispensabile che tutti siano coinvolti. Bisogna essere capaci di remare nella stessa direzione per riuscire a valorizzare un patrimonio che rischia di morire nel degrado. Si dice che sia stato fatto molto per la città, ma in verità questo molto non si vede in maniera così evidente, soprattutto in certe aree che sono ancora abbandonate". Da tempo il Parco storico Sichelgaita, di concerto con gli architetti, sta promuovendo incontri dedicati a personaggi o edifici che hanno fatto la storia di Salerno: "Nelle tracce del nostro passato c’è tutta la ricchezza di una cultura millenaria che non può essere perduta - sottolinea Baccari - Le vecchie carceri ne sono un esempio lampante, perché parliamo di un complesso conventuale di grande pregio storico-artistico". I progetti. Un "alveare" che i progetti selezionati durante il concorso internazionale di idee bandito nel 1997 dal Comune, poteva diventare un attrattore turistico di pregio assoluto. Sejima e Nishizawa (premio Pritzker 2010) interpretarono il percorso verso gli antichi monasteri come un filo rosso fatto di punti di sosta e tappe successive. Gli altri due progetti vincitori di Manuel De Las Casas e Antonio Monestiroli, ridisegnavano invece il convento di San Francesco, San Pietro a Majella e San Giacomo, palazzo San Massimo e il convento di Santa Maria della Consolazione come un insieme unitario. L’obiettivo era quello di spezzare l’isolamento di questa parte del centro storico e migliorarne l’accessibilità con nuovi impianti di risalita e parcheggi d’interscambio, recuperando piazze e punti di osservazione, aprendo percorsi alternativi attraverso cortili e giardini e creando quindi le condizioni per il risanamento e la rinascita di un luogo dimenticato da decenni. Progetti che, secondo il presidente degli architetti, sono ancora attuali ed applicabili. Associazioni in campo. "Noi siamo disponibili a scendere in campo con le nostre associazioni - ribadisce Baccari - ma per riuscire a portare a casa un risultato occorre fare sistema. Bisogna creare una rete che lavori prima sull’informazione, poi sulla sensibilizzazione e dunque sulla ricerca di fondi per il recupero delle strutture. Confidiamo molto nell’impegno del sindaco Vincenzo Napoli, una persona colta, dotata di grande amore per la sua città. Siamo certi che saprà individuare una soluzione". Per il presidente di Hortus Magnus, l’intera area degli ex conventi, che si snoda da via Santa Maria della Consolazione a via San Massimo, potrebbe essere trasformata in "uno spazio storico per l’individuo e la comunità", partendo da piccoli gesti quotidiani per cancellare immondizia e inciviltà che caratterizzano quella parte alta della città. Le proposte. "Il Comune potrebbe garantire degli sgravi sulle tasse a quei cittadini virtuosi che decideranno di adottare un vicolo o una piazza, tenendolo pulito e dotandolo di verde pubblico. Sarebbe già un primo passo per il risanamento della zona. Quanto al recupero strutturale degli edifici storici, oltre all’impegno dell’Ordine degli architetti e delle associazioni, lanciamo un appello per individuare un "mecenate" che abbia il coraggio di aiutare l’amministrazione in questo progetto, sapendo di contare sull’appoggio della cittadinanza". Larino (Cb): presto il prelievo di dna ai detenuti ristretti nel carcere di Emanuele Bracone termolionline.it, 20 giugno 2016 La Casa circondariale di Monte Arcano a Larino si conferma all’avanguardia e dopo innumerevoli iniziative di carattere sociale, per favorire inclusione e successivo reinserimento dei detenuti nella società aderisce a un importante protocollo scientifico, quella che realizzerà la prima banca dati nazionale del Dna, in cui schedare il codice genetico dei detenuti. Il penitenziario diretto da Rosa La Ginestra a breve contribuirà a questo programma, avviato nelle carceri capitoline di Rebibbia e Regina Coeli, con quest’ultima casa di reclusione che ha avviato la raccolta dati, decollata con l’entrata in vigore del regolamento attuativo della legge istitutiva. L’esame riguarda il prelievo di una mucosa dal cavo orale. A dare notizia del primo prelievo è stato il Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Una volta raccolto, il campione viene inviato al Laboratorio centrale per la banca dati nazionale del Dna istituito presso il Dap a Rebibbia e dotato di macchinari robotizzati per le varie fasi di tipizzazione del profilo genetico. Successivamente sarà mandato alla Banca dati nazionale istituita presso il Dipartimento di pubblica sicurezza. Non si potrà entrare in possesso del codice genetico in modo indiscriminato. Il prelievo potrà essere fatto solo a detenuti per reati non colposi per i quali è consentito l’arresto facoltativo in flagranza, arrestati in flagranza di reato o sottoposti a fermo di indiziato di delitto. Esclusi tutti i reati non violenti, come illeciti societari o tributari. L’accesso ai dati contenuti nella Banca dati è consentito alla polizia giudiziaria e all’autorità giudiziaria esclusivamente per fini di identificazione personale, nonché per le finalità di collaborazione internazionale di polizia. A seguito di assoluzione con sentenza definitiva perché il fatto non sussiste, perché l’imputato non lo ha commesso o perché il fatto non costituisce reato, è disposta d’ufficio la cancellazione dei profili del dna e la distruzione dei relativi campioni biologici. Il controllo è esercitato dal Garante per la privacy. Quarant’anni il termine massimo per cancellare il profilo, 20 quello per distruggere il relativo campione biologico. Ad annunciare la novità a Larino è stato il commissario capo della Polizia Penitenziaria Francesco Maiorano in occasione della celebrazione del 199esimo anniversario del Corpo. Venezia: detenuto protesta e vuole baciare il direttore La Nuova Venezia, 20 giugno 2016 Il tentativo è fallito ma ha sfasciato una cella. Agente della Penitenziaria con una sospetta tubercolosi. Ennesimo episodio di violenza nel carcere di Santa Maria Maggiore: un detenuto tunisino ha sfasciato le suppellettili della sua cella, dove era rinchiuso con un altro carcerato. Probabilmente per protestare, ma non è chiaro il motivo. È stato trasferito dopo alcuni giorni e ora si trova in un altro penitenziario, anche perché il giorno appresso allo sfascio della cella lo stesso detenuto ne ha combinata un’altra. Durante la riunione del Consiglio di disciplina che affrontava ciò che era accaduto il giorno precedente avrebbe cercato di abbracciare e addirittura baciare il direttore del carcere, Immacolata Mannarella, che naturalmente ha cercato di sottrarsi a quella che avrebbe potuto trasformarsi in una vera e propria aggressione. Non è la prima volta che accade, spesso quando la protesta è un atto individuale i detenuti si rivolgono alle suppellettili della loro cella e spaccano tutto quello che possono, mettendo nei guai anche loro compagni di detenzione che magari nulla hanno a che fare con l’esplosione di violenza. A intervenite tocca agli agenti, che prima di tutto devono calmare il detenuto. Grande preoccupazione, intanto, serpeggia tre gli agenti della Polizia penitenziaria in servizio a Venezia: a uno di loro, infatti, è stata diagnosticata una sospetta tubercolosi, che in tutta evidenza deve essere stata contratta a causa di un contatto ravvicinato con un detenuto. Gli agenti sono quotidianamente a contatto con i detenuti, anche quelli stranieri, molti dei quali provengono da paesi sottosviluppati in cui la tubercolosi ancora non è stata debellata e ne sono portatori. Si tratta di un batterio che colpisce in particolare i polmoni e si trasmette facilmente, basta un colpo di tosse, e gli agenti sono spesso a contatto ravvicinato con i detenuti non solo all’interno di Santa Maria Maggiore, soprattutto durante i trasferimenti, all’interno dei motoscafi o dei furgoni, quando vengono portati nelle aule del Tribunali o spediti in altri penitenziari. Se davvero fosse così, significa che altri agenti sono a rischio, ma lo sono soprattutto i compagni di cella di colui che è arrivato a Santa Maria Maggiore già malato. Infine, continua il servizio di piantonamento negli ospedali di Venezia e Mestre per due detenuti ricoverati nei rispettivi reparti psichiatrici. Dovrebbero essere internati nella Residenza per l’esecuzione della pena dei malati di mente (Rems) di Nogara, ma i posti sono insufficienti e così ben 16 agenti ogni 24 ore devono essere distaccati per questo servizio. Giornata mondiale del rifugiato: ogni minuto 24 sfollati, il 2015 anno record di Rosalba Castelletti La Repubblica, 20 giugno 2016 Il rapporto dell’Unhcr: "Oltre 65 milioni le persone in fuga", quasi sei milioni in più rispetto al 2014. È il più alto numero dall’indomani della seconda Guerra Mondiale. Ogni minuto dell’anno passato ventiquattro persone sono state costrette ad abbandonare la propria abitazione per fuggire dall’inferno delle guerre, da persecuzioni, torture, pulizie etniche o stupri di massa, consegnando al 2015 il record più triste. Quello del più alto numero di persone forzate a cercare rifugio all’estero o in un’altra regione del proprio Paese. Oltre sessantacinque milioni. Quasi sei milioni in più rispetto al 2014. Il più alto numero dall’indomani della seconda Guerra mondiale. Così tanti che, se vivessero nella stessa nazione, sarebbe il 21° Stato più popoloso al mondo. Più dell’Italia. Con oltre la metà degli abitanti sotto i 18 anni. Lo racconta "Global Trends 2015", il rapporto diffuso oggi dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) nella Giornata mondiale del rifugiato. Dietro i numeri, volti e storie di sofferenza, ma anche di speranza. Come quella di Saifur e Shamsur Rehman. Due fratelli afgani nati e cresciuti a Surkhab, un villaggio-rifugio pachistano, che lo scorso anno hanno finalmente conosciuto la patria da cui i loro genitori erano dovuti fuggire. Saifur, 11 anni, vuole diventare ingegnere, Shamsur, due anni più grande, vorrebbe fare il cardiologo. "Faremo la nostra parte per ricostruire l’Afghanistan. Vediamo il nostro Paese per la prima volta e siamo davvero felici. Abbiamo solo una preoccupazione, che la guerra continua". Saifur e Shamsur sono tra i soli 201.400 rifugiati che l’anno scorso sono riusciti a tornare nel loro Paese d’origine. Per contro, quasi 12 milioni e mezzo di persone hanno dovuto lasciare la loro casa per mettersi in salvo da conflitti, persecuzioni, violenze e violazioni dei diritti umani. Oltre la metà, il 54 per cento, proveniva da soli tre Paesi: la Siria, al sesto anno di conflitto, con 4,9 milioni di profughi, e Afghanistan e Somalia, con 2,7 e 1,1 milioni, dove invece si combatte incessantemente rispettivamente da quaranta e trent’anni. "Sempre più gente viene forzata a lasciare la propria abitazione da guerre e persecuzioni ed è preoccupante di per sé, ma si moltiplicano anche i fattori che mettono a rischio i rifugiati ", dice l’Alto Commissario per i rifugiati Filippo Grandi. "In mare, un numero spaventoso di rifugiati e migranti muore ogni anno. Sulla terraferma, le persone che fuggono dalle guerre trovano la loro strada sbarrata dai confini chiusi". Se l’Europa fatica ad accogliere l’oltre un milione di persone che l’anno scorso ha raggiunto le sue coste via mare, più dell’86 per cento dei rifugiati si trova in Paesi a basso e medio reddito. In cima alla classifica dei Paesi ospitanti figurano Turchia, Pakistan e Libano seguiti da Iran, Etiopia e Giordania. Per questo, commenta Grandi, "oggi viene messa alla prova la volontà delle nazioni di lavorare insieme non solo nell’interesse dei rifugiati, ma nell’interesse umano collettivo, ma è lo spirito di unità che deve prevalere". In fuga, non solo dalla guerra di Vittorio Cogliati Dezza (Segreteria nazionale Legambiente) Il Manifesto, 20 giugno 2016 Clandestino, extracomunitario, migrante, profugo, richiedente asilo, rifugiato, sfollato….. In questi anni abbiamo assistito al fiorire di tanti termini diversi, più o meno politically correct. Tanti termini per indicare un solo fenomeno: milioni di persone che dolorosamente decidono di lasciare il proprio paese per cercare dignità e speranza di vita altrove. Oggi, in occasione della Giornata mondiale del rifugiato, voluta dall’Onu nel 2001 per celebrare il primo cinquantennio della Convenzione di Ginevra, dobbiamo porci la domanda: siamo sicuri che il riconoscimento dello status di rifugiato è oggi sufficiente per rispondere ai bisogni dei nuovi movimenti migratori? è possibile oggi fare netti distinguo tra chi fugge da persecuzioni e guerre, o da fame e povertà, o da catastrofi naturali e climatiche? Non sono domande retoriche, perché la risposta non è scontata. Solo pochi mesi fa la Merkel ha affermato perentoriamente che solo i profughi da guerre possono essere accolti in Europa. Ma i profughi per ragioni economiche e ambientali sono la grande maggioranza. A maggio in Germania, dove l’80% dei richiedenti asilo è di origine siriana, su 55.000 richieste, ne sono state accolte 20.000. In Italia invece, dove prevalgono gli arrivi dall’Africa subsahariana, nei primi sei mesi del 2016 su 40.000 richieste d’asilo lo status di rifugiato è stato riconosciuto solo al 4%, respinto il 60%, per la parte restante è stato riconosciuta la protezione sussidiaria e umanitaria. Nella divaricazione tra questi numeri sta l’impossibilità di affrontare il problema se si rimane vincolati alla figura del rifugiato. Una cosa è certa. Oggi non ci troviamo di fronte ad un’emergenza momentanea, provocata da fatti circoscritti, ma al ritorno ciclico di un fenomeno storico: le popolazioni umane migrano da milioni di anni, e questo è stato un potente fattore di arricchimento ed evoluzione della specie umana (v. il bel libro di V. Calzolaio e T. Pievani, "Libertà di migrare", appena uscito per Einaudi). Se non si tengono insieme le cause che provocano la scelta di emigrare sarà impossibile affrontare i nuovi scenari. Di fronte a cui non solo non ha senso opporsi con muri e pattugliamenti, ma neanche ha senso rimanere legati alle conquiste del Novecento, perché si rischia che il riconoscimento dello status di rifugiato, che pure fu un passo fondamentale di civiltà, finisca oggi per divenire scudo e giustificazione di politiche retrive e cieche, incapaci di affrontare con la necessaria lungimiranza la situazione. La Giornata mondiale del rifugiato deve essere l’occasione per riflettere sulla necessità e l’urgenza di mettere in campo processi nuovi, non di stampo emergenziale. Le nuove ondate migratorie non hanno una causa unica, ma derivano da un sistema profondamente intrecciato di iniquità, violenze, sfruttamento, catastrofi naturali, peggioramento delle condizioni climatiche, fame, povertà. È questo intreccio che ci ha portato a parlare di giustizia climatica e che ha bisogno di risposte nuove. Quello che ci viene chiesto è di ripensare all’idea stessa di comunità locale, in cui tutti coloro che abitano un territorio, nativi e immigrati, si sentano responsabili e coinvolti nella sua cura, anche attraverso la possibilità di esercitare il diritto di voto alle amministrative. A livello nazionale va cancellato il reato di clandestinità. L’Europa deve rivedere le regole dell’accoglienza e restituire al Mediterraneo il ruolo di cerniera tra culture e mondi che cooperano. Non possiamo più accettare diritti distinti tra chi fugge dal suo paese, va riconosciuta la figura del profugo ambientale e la giustizia climatica è la concreta direzione di marcia per ridurre il peso nefasto delle fonti fossili sia sulle condizioni di vita di milioni di persone, sia sulla diffusione di guerre che continuano ad essere provocate dalla lotta per il controllo delle fonti fossili. C’è un filo nero che lega guerre, traffico d’armi, accaparramento delle fonti fossili, che è alla base dello stravolgimento della vita di milioni di persone. Oggi la possibilità di uscire dall’era del fossile c’è. Sarebbe un grande contributo alla pace e a creare contrappesi alla necessità di emigrare. Profughi prigionieri nel limbo greco di Liana Vita Il Manifesto, 20 giugno 2016 Accordo Ue-Turchia. 60 mila persone sono bloccate da mesi nel paese in condizioni precarie e senza alcuna alternativa. Non arriva quasi più nessuno in Grecia via mare. E più nessuno attraversa i confini a nord, tranne i pochissimi che riescono a farlo ricorrendo ai trafficanti. E, ancora, pochissimi lasciano la Grecia nell’ambito delle nuove procedure previste a livello europeo. Non esistono cifre ufficiali del governo e le stime delle diverse organizzazioni non sempre coincidono. Di fatto, circa 60.000 persone provenienti per lo più dalla Siria, dall’Iraq, dall’Afghanistan sono, ormai da mesi, bloccate in Grecia: la maggior parte, 50.000, sul continente, in campi formali e non. Ce ne sono circa 50 sparsi nel paese. Il resto all’interno dei cinque hotspot allestiti sulle isole di fronte alle coste turche. Vivono tutti in condizioni materiali molto precarie ma soprattutto fiaccati dalla situazione di stallo che si è creata in seguito alla chiusura delle frontiere e all’intesa dei paesi Ue con la Turchia. E consapevoli ormai di essere intrappolati in quella che per loro Europa ancora non è. Hanno di fronte due alternative: aspettare di trovare i tanti soldi che servono per affidarsi ai trafficanti e provare con documenti falsi a lasciare la Grecia. Oppure aspettare di poter fare domanda d’asilo per poi riuscire a raggiungere regolarmente altre mete. Un’attesa che è destinata a durare mesi, probabilmente anni, date le condizioni in cui si trova il sistema asilo in Grecia. Una legge ancora debole, modificata ripetutamente - gli interventi più recenti lo scorso giovedì - e fortemente influenzata dalla linea politica attuale della Commissione europea, con un sistema d’accoglienza tutto da costruire. E una serie di limiti a livello procedurale che prefigurano nella prassi violazioni del diritto comunitario e della stessa normativa nazionale. Questo quanto emerso dalle testimonianze raccolte all’interno dei campi e dalle risposte dei rappresentanti istituzionali, degli avvocati e delle organizzazioni umanitarie, incontrati nel corso della missione di osservazione legale organizzata dall’Asgi nei giorni scorsi e che ha visto gruppi di esperti di diverse associazioni dislocati nelle zone maggiormente interessate dall’emergenza umanitaria. Sulla terraferma, il governo, dopo aver sgomberato molti dei campi spontanei e trasferito uomini, donne e tantissime famiglie con bambini all’interno di tendopoli o strutture fatiscenti e spesso di fortuna, gestite principalmente dall’esercito, dai primi di giugno ha deciso di avviare una massiccia procedura di pre-registrazione: coadiuvati dall’Easo, l’ufficio europeo di supporto all’asilo, e dall’Unhcr - entrambi fortemente presenti nella gestione dell’iter procedurale - i funzionari greci stanno procedendo a una sorta di censimento, una prima ricognizione dei dati di ciascuno prima di poter avviare le due fasi successive previste per la richiesta d’asilo. La speranza, o forse l’illusione, è di poter rapidamente implementare il meccanismo della relocation e trasferire in altri stati membri quanti più richiedenti. Anche perché, tragicamente, si tratta spesso di persone che hanno pezzi di famiglia in Germania e negli altri paesi del Nord Europa. E che complessivamente non coprono neanche un terzo della quota di richiedenti asilo che l’Agenda europea sulle migrazioni aveva sostenuto di voler redistribuire. Il timore è che i tempi saranno così lunghi che difficilmente prima di un anno le operazioni saranno completate. E l’offerta, in termini di servizi e di accoglienza, appare al momento inesistente. Quanto alle isole, dopo il 20 marzo, solo a chi proviene dalla Siria, una volta registrato, viene per il momento esaminata la domanda d’asilo in Grecia. Ma senza entrare nel merito della storia individuale: si valuta l’ammissibilità o meno della richiesta in vista dell’eventuale riammissione in Turchia. E la valutazione di fatto la fanno gli esperti dell’Easo, il cui ruolo diventa sempre più ingombrante. Finora sono state dichiarate ammissibili solo le domande di alcuni casi più vulnerabili, ma anche sui criteri di vulnerabilità la situazione è confusa visto che una famiglia con figli piccoli non è detto che vi rientri. La maggior parte delle decisioni sono state d’inammissibilità e sono state successivamente oggetto di ricorso da parte dei richiedenti. La Commissione indipendente che valuta l’appello ha finora ribaltato le decisioni considerando non sicuro il rientro in Turchia e accettando dunque la richiesta d’asilo in Grecia. Per questo le riammissioni verso la Turchia sono, almeno per il momento, ferme e il meccanismo di mobilità tra i due paesi contenuto nell’accordo di marzo evidentemente inceppato. Ma l’obiettivo prioritario di strozzare il flusso sulle coste turche è stato raggiunto. Il problema delle decine di migliaia di persone rimaste intrappolate riguarda ormai solo la Grecia dove per ora si va avanti per tentativi, in un contesto generale di confusione e mancanza totale di progettualità. E dove sulla carta, i diritti dei richiedenti asilo nelle diverse situazioni sembrano essere tutelati da una serie di garanzie. Guardando i fatti, l’impressione è che si navighi a vista in una sorta di tragica zona franca rispetto al diritto e alla tutela della dignità di quelle migliaia di persone. Massacro alla frontiera: 11 siriani uccisi dalle guardie turche di Chiara Cruciati Il Manifesto, 20 giugno 2016 Turchia. Tra loro 4 bambini e 5 membri della stessa famiglia. Sarebbero almeno 60 i rifugiati ammazzati al confine nel 2016 da Ankara. Che ieri celebrava la "politica delle porte aperte". Oggi si celebra la Giornata Mondiale dei Rifugiati. Ieri la Turchia l’ha celebrata a modo suo, prima con le parole e poi con le pallottole. In un comunicato il Ministero degli Esteri ha osannato quella che definisce la politica delle "porte aperte" a tutte le persone in fuga dall’oppressione "senza fare nessuna discriminazione". Ma mentre il Ministero ribadiva il presunto impegno di Ankara nella protezione dei profughi (2,7 milioni i siriani oggi in Turchia, nei campi profughi o da invisibili nelle grandi città), al confine sud l’esercito apriva il fuoco come fatto innumerevoli volte negli ultimi mesi: almeno 11 i siriani uccisi, tra loro 4 bambini. Stavano tentando di attraversare la frontiera vicino al villaggio di Khirbet al-Jouz, dopo la fuga da Jarabulus e Idlib. Cinque appartenevano alla stessa famiglia: Obaid al-Abo, di 50 anni, e i figli Amani, 21, Fatoum, 20, Walaa, 17, Waed, 15, e Hassan di soli sei anni. La moglie ed un altro figlio sono rimasti feriti. Secondo fonti locali, le guardie turche hanno "sparato in maniera indiscriminata contro famiglie che tentavano di passare il confine sabato notte". Alcune foto sono apparse sui social network: una mostrava una donna in lacrime con in braccio una bimba di due anni colpita allo stomaco, altre cadaveri a terra. Non si tratta di un evento sporadico: nel 2016 almeno 60 rifugiati siriani sono stati uccisi alla frontiera, oggi blindata, della Turchia: la politica delle porte aperte non esiste almeno da due anni, quando i kurdi di Rojava cominciarono una strenua resistenza per salvare Kobane dall’avanzata dell’Isis. La chiusura è stata ufficializzata ad agosto 2015: ai migliaia di siriani in fuga, prima da Rojava, poi da Aleppo e Idlib, Ankara ha impedito l’accesso fino a costruire vere e proprie barriere fisiche, muri e reti elettrificate. Pochissimi quelli che entrano. E chi ce la fa passa dalla brutalità della guerra civile a quella dell’esercito turco: l’11 maggio riportavamo su queste pagine dei video di Human Rights Watch che ha documentato arresti arbitrari, torture e pestaggi compiuti sui civili in fuga. Rapporti trattati come carta straccia dal presidente Erdogan che ha negato ogni accusa. Reazioni al massacro di ieri non ne sono arrivate. Dalla Turchia nessun commento ufficiale eccezion fatta per le dichiarazioni di un funzionario anonimo che ha negato: "Le voci secondo cui i soldati turchi hanno ucciso persone che provavano ad attraversare il confine nella provincia di Hatay non sono vere. La scorsa notte c’è stato un tentativo di passaggio illegale del confine ma nessuna pallottola è stata sparata contro la gente: dopo colpi di avvertimento, un gruppo di 7-8 persone è fuggito nel bosco". A parlare è anche la Coalizione Nazionale, principale gruppo di opposizione al presidente Assad, ampiamente finanziato e sostenuto da Ankara: in un comunicato esprime "sorpresa e condanna dopo questa terribile tragedia che contraddice l’ospitalità del governo turco". Una dichiarazione che non alcuna base, che definisce ‘tragedià una pratica ormai comune e che non dà all’evento la sua reale definizione, quella di crimine di guerra. Nelle stesse ore il Dipartimento di Stato Usa parlava dell’operazione in corso per la liberazione della città di Manbij, portata avanti dalle Forze Democratiche Siriane guidate dalle Ypg kurde, come di un’azione di successo grazie alla cooperazione con la Turchia. Dimenticando che le Ypg kurde sono oggi tra i nemici numero uno di Ankara, contro i quali Erdogan non lesina l’uso di missili e artiglieria pesante e minaccia di invadere il nord della Siria. App antisemita simula la vita degli ebrei ad Auschwitz; "gioco-parodia", ma è polemica di Alberto Custodero La Repubblica, 20 giugno 2016 Una app antisemita suscita l’indignazione del web, della politica e della comunità ebraica. Si chiama "Campo di Auschwitz Online". L’applicazione - per il sistema Android - è stata creata dalla Trinit.es, scuola professionale spagnola con sede a Saragozza, capoluogo della regione Aragona. Sulla home compare una grafica sinistra con la stella di Davide, la rotaia ferroviaria che si ferma davanti al lager sul quale campeggia la scritta Auschwitz concentration camp. Come sentinelle, ai lati della porta principale, compaiono due soldati in divisa Wehrmacht. Quindi, l’inquietante messaggio dal significato inequivocabilmente antisemita: "Vivere come un vero ebreo nel campo di concentramento Auscwhitz". L’app ha migliaia di download, e si definisce un gioco di ruolo, anche se non è specificato quale ruolo vien proposto al giocatore virtuale. L’applicazione è scaricabile, si accede fino a un certo punto, accompagnati da una colonna sonora ad hoc. Poi, ad un certo punto, si interrompe e in tanti, tra i commenti, lamentano la mancanza di connessione al server. Forse è persino intasata dai troppi accessi, visto il rimbalzo che l’app ha avuto su tutti i social, compreso Facebook. La Comunità Ebraica - che proprio domenica, giornata dei ballottaggi per le comunali, eleggerà il nuovo Consiglio dell’Ucei di cui è presidente da 10 anni Renzo Gattegna - è indignata, a pochi giorni dalle polemiche suscitate dalla pubblicazione, da parte de Il Giornale, del Mein Kampf. Proteste anche dalla politica: Fiano (Pd): "Mi fa orrore". Il deputato dem Emanuele Fiano, responsabile Sicurezza Pd, è "rimasto senza parole - ha commentato - a pensare che qualcuno possa inventare, poi scrivere e disegnare e poi vendere, una app ambientata dentro il più grande cimitero della storia del popolo ebraico". "Il lager di Auschwitz - ha aggiunto Fiano - è stato il più grande cimitero della storia del popolo ebraico, oltre che di gay, Rom, disabili, testimoni di Geova e oppositori vari". "Tutto ciò mi fa orrore - ha concluso il parlamentare dem - non smetterò mai di battermi, perché la banalizzazione della storia, che sia mossa da un disegno politico o da ignoranza, venga battuta con ogni mezzo lecito, magari per esempio vietando in Italia questa app". A stigmatizzare l’aberrante proposta di gioco ispirato all’Olocausto è anche il "portale dell’ebraismo", Moked, che suggerisce: "Per capire la pericolosità di questa operazione basta leggere i feedback di alcuni utenti". I commenti antisemiti. In effetti su Google Play, criticato per non avere un filtro attivo contro app ritenute offensive, sono rintracciabili commenti antisemiti feroci firmati con nickname da alcuni utenti che dicono di avere provato e persino apprezzato l’app. Messaggi agghiaccianti, come questo: "Le 5 stelle ve le dò quando lo fate funzionare, ero più emozionato di Adolf all’inaugurazione dei campi e invece (bestemmia, ndr), non parte". E, ancora: "Gioco che quando inizi non finisci più, una droga. Il problema é che ogni 20 minuti trovo il forno pieno e devo entrare a togliere la cenere. Invece il personaggio di Hitler é molto realistico.". E c’è chi dell’ironia si fa scudo per fare passare messaggi inequivocabili: "Esperienza davvero realistica, da provare sulla propria pelle. Ottima la parte in cui accendi i forni e parte "A ella le gusta la gasolina", chiaro riferimento ad Anna Frank. 5 stelle se è Sammontana". "Dico questo perché non abbiamo a che fare con un pay-to-win capitalista, ma di un vero e proprio fiore all’occhiello del panorama videoludico odierno. Il comparto tecnico è semplicemente sublime, forte di un utilizzo impeccabile della Unreal Engine 4 Mobile e di un team di sviluppo rinomato a livello mondiale. La lore è molto ben curata, caratterizzata da una sofisticata ironia presente per tutta la durata del titolo (quando Anna Frank ha iniziato a scalciare ho tipo sputato un polmone dal ridere!). SS/10", si legge infine per mano di un giocatore (e sviluppatore?) più esperto. Si possono leggere persino consigli per implementare l’app, come questo: "Si dovrebbe cambiare la stella con una svastica... poi la grafica non è delle migliori e spesso va in crash, la durata del gioco è complessivamente un po’ corta ed amplierei un po’ le camere a gas e si dovrebbe aggiungere un Mussolini al posto della guardia con cui chiacchiera Hitler ma per il resto è un gioco fantastico". Cdec: "In crescita antisemitismo online". Per il Centro di documentazione ebraica contemporanea (con sede a Milano), preoccupa l’antisemitismo in rete, "dove è più facile origliare quel che si muove nella pancia del Paese, dove sempre più evidenti sono i rigurgiti antisemiti e antisionisti, con il ritorno di pregiudizi e stereotipi pesanti, caricature di profili ebraici simili a quelli che circolavano nella Germania nazista. E anche quando si denunciano i contenuti pericolosi ai gestori dei social network o dei siti Internet solo nel 20 per cento dei casi si riesce ad ottenerne l’oscuramento o la rimozione". Libano: i bambini perduti della valle della Bekaa di Alessandra Coppola Corriere della Sera, 20 giugno 2016 Sotto le tende piantate nei campi libanesi, tra lavori forzati e abusi, una generazione siriana a rischio. "Che cosa sono queste, le spalle?", chiede l’educatore indicandosi le cosce. "Nooooo!". "E questi come si chiamano?", ora punta le palpebre. "Occhiiiii!". "E se mi sposto qui?". "Nasoooo!". Sembra un gioco, si ride appena. Trenta bambini, due operatori sociali, una lavagna con il disegno di un maschio e di una femmina, una croce cerchiata tra le gambe: "Se vi toccano qui, non va bene; se un adulto vuole portarvi in bagno con lui, non ci andate". Lezione di difesa dagli abusi nel mezzo della Valle della Bekaa, tra i piccoli siriani come Ahmed, 11 anni da Aleppo, Noura, 9 anni, dalla periferia di Damasco, l’attenzione flebile, lo sguardo spento, i lineamenti già vecchi. I bambini più tristi che si possano immaginare.L’Unicef col finanziamento dell’Unione europea (114,45 milioni di euro nel triennio 2013-16) e l’aiuto di Ong locali tiene aperto qui un centro che ne soccorre a centinaia. Traumatizzati dalla guerra, malnutriti, ammalati per l’acqua sporca e le scarse condizioni d’igiene. E poi privati di un’istruzione, costretti a lavorare, abusati, venduti. Una generazione perduta tra i campi di grano, di tabacco, gli aranceti, le vigne. Per ogni raccolto una stagione, da marzo a ottobre. "Riusciamo a tenerli a scuola fino ai dieci, undici anni", dice un’educatrice. Poi in molti scompaiono, sfruttati come contadini da 7.000 lire libanesi, poco più di quattro euro per 12 ore al giorno. Nella valle, prima della guerra, erano gli adulti a cercare lavoro, gli stagionali siriani che varcavano una frontiera inesistente, venti chilometri più in là, e venivano ad arare e raccogliere. Adesso che su questa terra sono accampati a centinaia di migliaia - 1.048.000 ufficialmente, di cui 558 mila minori, dal 2015 Beirut ha smesso di concedere visti chiedendo all’Unhcr di non contarli più, la stima è di un milione e mezzo, che con i palestinesi rifugiati da sessant’anni arrivano a due milioni - in questa condizione precaria e "abusiva" è il proprietario a dettare legge, fissando salari da bambini, metà prezzo. E i genitori, senza regolare permesso di soggiorno (che al rinnovo costa 200 irraggiungibili dollari) o in alternativa con un impegno scritto a non lavorare (per non "portar via il lavoro" ai locali), a zappare mandano i figli. Quanti? Nel limbo libanese i numeri si confondono e si sovrappongono. Il dato che segnala l’Unicef è impressionante: 1,4 milioni di bambini "vulnerabili", "a rischio di esclusione e sfruttamento", contando 800 mila rifugiati siriani; 470 mila libanesi; 130 mila palestinesi. Per la gran parte concentrati nella Bekaa, che era già la regione più derelitta del Paese. "Vulnerabili" nel peggiore dei modi. Pure le statistiche locali sono avvilenti. Una ricerca dell’Ong Kafa prima della guerra stimava 1 su 6 i bambini vittime di abusi in Libano. Al Centro di Zahle empiricamente contano ogni mese una quindicina di casi, che avranno poi bisogno di speciale assistenza psicologica. Ma tanti altri sono spersi per la vallata, chiusi tra i teloni cerati dei campi o negli appartamenti fatiscenti dei villaggi. Bambini che non esistono perché spesso non sono stati registrati alla nascita (almeno 50 mila nel 2015 secondo l’Unhcr). I cui genitori ufficialmente non si trovano in Libano e non possono muoversi assediati dai check-point e dalla paura di essere scoperti. Irregolari, nascosti, ricattabili. In una struttura poco distante dell’Unrwa (agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi drammaticamente a corto di fondi) un profugo siriano, Salah El Radif, 53 anni, racconta di essere stato un costruttore a Damasco, di aver avuto abbastanza soldi per far arrivare il figlio in Norvegia, ma di aver adesso consumato tutti i risparmi. I suoi bambini sono un’eccezione. Maschi e femmine vanno in questa scuola ben tenuta (ancora grazie ai fondi Ue) con la maestra Hadieh che mostra le foto degli alunni eccellenti incorniciate da un cuore o raccolti tutti assieme in aula a ringraziare per i doni arrivati da Oriente: "Thank you Japan". I racconti peggiori sono fuori dalle strutture protette, dove per racimolare soldi e andare avanti si usano anche i bambini. Un uomo che aveva un debito con lo shawish, il "mediatore" siriano che si incarica di affittare i terreni libanesi su cui sorgono gli accampamenti, ha apertamente raccontato a Rosa Meneses del Mundo di avergli ceduto la figlia sedicenne per pareggiare i conti. I dossier scrivono di matrimoni precoci per un’adolescente siriana su cinque, se non di più. Tra i cartelloni pubblicitari riciclati come tende, in uno degli accampamenti della Bekaa che per Beirut non esistono ma che si contano almeno in 1.300, ci sono frotte di bimbe in tute colorate, sporche di fango fin sui capelli, in sandali o senza scarpe. Da quando hanno lasciato la Siria si lavano con l’acqua di un pozzetto mal scavato, i bisogni al cesso chimico, i tappeti come letti, non vanno più a scuola, e domani saranno ancora impantanate nella Bekaa. Verità per Giulio Regeni, l’Egitto Paese non sicuro di Luigi Manconi (Senatore del Pd) Il Manifesto, 20 giugno 2016 Mentre viene chiesto da più parti che quel paese sia dichiarato "non sicuro", come spiegare che il sito della Farnesina, alla voce Egitto, non contenga il minimo accenno alla sorte subita da Giulio Regeni. La forza letteraria e direi politica delle parole di Paola Regeni suscita ogni volta stupore e ammirazione. "Azioni, non commemorazioni": ha detto la madre di Giulio, il ricercatore italiano ucciso al Cairo, davanti alla Sottocommissione per i diritti dell’uomo del parlamento europeo, mercoledì scorso. Le commemorazioni non sono inutili, tutt’altro, ma si portano appresso, fatalmente, un che di rassegnato e di irreparabilmente consunto. Consummatum est: resta, e può persino rinnovarsi, la memoria, ma rischia di essere una memoria definitivamente esausta. Che può resistere come un simulacro, anche potente, ma non più vitale. E le "azioni"? Paola e Claudio Regeni, nella loro condizione di "genitori erranti nelle istituzioni" (così si sono definiti), hanno voluto, una volta ancora, pronunciare parole limpide e ineludibili, chiedendo al governo italiano e all’Unione europea di "aumentare la pressione sull’Egitto per ottenere un’indagine trasparente". E, ancora più concretamente, hanno sollecitato l’Italia a "dichiarare l’Egitto paese non sicuro"; a "sospendere l’attività interforze per il controllo e la repressione interna, l’invio di armi e apparati bellici"; e a "monitorare i processi contro attivisti, avvocati e giornalisti che si battono per la libertà in Egitto". Queste ed altre richieste evidenziano quanto sia drammaticamente ampio lo scarto rispetto ai comportamenti del governo italiano, che sembrano, nei confronti del regime egiziano, troppo spesso lenti fino all’inerzia e incerti fino all’acquiescenza. Com’era inevitabile, il presidente del Consiglio si è sentito sollecitato - poteva essere altrimenti? - e ha replicato con parole che, ahinoi, sono apparse esili e vaporose: "Nei prossimi giorni cercheremo di nuovo di capire quale sia lo stato dell’arte e l’aggiornamento della situazione, e sentiremo i genitori di Giulio". Risulta davvero troppo poco, troppo poveramente inadeguato rispetto a una tragedia di tale entità e significato, alle implicazioni che comporta sul piano interno e su quello sovranazionale, e a un atteggiamento - quello del regime egiziano - che riproduce una sua coerente e sorda ostilità. Sì, certo, il nuovo ambasciatore italiano al Cairo non si è ancora insediato e, dunque, resta formalmente "richiamato" nel nostro paese: ma a questo primo atto, risalente all’8 aprile scorso, non ne sono seguiti altri. Non dubito che il governo stia conducendo le sue iniziative e non nego che queste richiedano necessaria riservatezza, saggia prudenza e tempi opportuni, ma è fortissimo il rischio che tutto ciò venga inteso dall’interlocutore (il regime di Al-Sisi) come una forma di subalternità. Quali sono state e sono le "forme di pressione" che il ministro degli Esteri ha detto ripetutamente di voler esercitare? E, mentre viene chiesto da più parti che quel paese sia dichiarato "non sicuro", come spiegare che il sito della Farnesina, alla voce Egitto, non contenga il minimo accenno alla sorte subita da Giulio Regeni? Appena un particolare, ma che rivela l’eco stridula di un’ambiguità irrisolta. Nessuno, penso, può ritenere che il ruolo geo-strategico dell’Egitto verso la minaccia rappresentata da Daesh o l’importanza delle relazioni diplomatiche e commerciali tra i due paesi siano particolari trascurabili, ma la domanda vera è un’altra: è possibile che lo scenario politico-militare della regione e i legittimi interessi economici riducano la questione della tutela dei diritti fondamentali della persona (di Giulio Regeni e di migliaia e migliaia di anonimi egiziani) a una insignificante questione di dettaglio? Se così fosse, non si tratterebbe solo di una ulteriore e crudele frustrazione per i genitori di Regeni, bensì di una dichiarazione di resa del nostro governo e di un disastroso fallimento della politica tutta. Congo: arrestato un giornalista francese, corrispondente del canale Tv5 Monde internazionale.it, 20 giugno 2016 Alain Shungu, corrispondente del canale Tv5 Monde, è stato arrestato la sera del 18 giugno a Bétou, mille chilometri a nord della capitale Brazzaville. Durante le presidenziali di marzo, due giornalisti dell’Afp e uno di Le Monde sono stati aggrediti da quattro poliziotti in borghese all’uscita di una conferenza stampa di un candidato d’opposizione.