Quelle migliaia di studenti che ogni anno entrano in carcere per capire Ristretti Orizzonti, 1 giugno 2016 Anche quest’anno la redazione di Ristretti Orizzonti, in collaborazione con il Comune di Padova, la fondazione Cariparo e la Casa di reclusione, ha organizzato La Giornata conclusiva del progetto "Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere". Stamattina le sale del cinema MPX si sono riempite di oltre 500 studenti e insegnanti delle scuole superiori e delle scuole medie che quest’anno hanno partecipato al progetto. Hanno portato i loro saluti Vera Sodero, Assessore alle Politiche sociali del Comune di Padova, ed Enrico Sbriglia, provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per il Triveneto. Questo progetto ha come obiettivo la prevenzione dei reati e dei comportamenti a rischio. Quando si parla di sicurezza ormai le prime cose che vengono in mente sono la militarizzazione del territorio e l’inasprimento delle pene. Contrariamente a questa logica, il progetto cerca di fare prevenzione attraverso la conoscenza ravvicinata del carcere. Per questa ragione, al centro del progetto è l’incontro tra chi sta vivendo in prima persona l’esperienza della detenzione, e i tanti ragazzi che, per i propri comportamenti trasgressivi, si trovano spesso sul filo dell’illegalità e credono di essere al riparo dal carcere. Alla giornata conclusiva non sono mancati nemmeno altri protagonisti di questo progetto: gli agenti della polizia penitenziaria, che ogni giorno accompagnano dentro le classi rendendo fluide le operazioni di accesso nell’istituto, il Direttore della Casa di Reclusione, il Commissario, il personale dell’area educativa, la segretaria Marisa Busato, che con passione segue il progetto e risolve ogni problema pratico. E i detenuti, gli ex detenuti e i volontari della redazione di Ristretti Orizzonti. La mattinata si è aperta con la proiezione contemporanea del film "A testa alta" di Emmanuelle Bercot (Francia, 2015) e del film "Una volta nella vita" di Marie-Castille Mention-Schaar (Francia, 2016) in due sale diverse. Così un maggior numero di ragazzi ha potuto guardare due film che completano il percorso fatto. Le classi hanno lavorato infatti su diversi temi, come il disagio minorile, la giustizia penale minorile, percorsi di vita dei detenuti e riflessioni sui reati e sulle pene, l’evoluzione della struttura penitenziaria in Italia, le diverse figure professionali che operano in carcere. Un ampio spazio è stato dedicato anche alla scrittura. Per stimolare la creatività la redazione ha bandito anche un concorso, affidando allo scrittore Romolo Bugaro il compito di scegliere e premiare gli scritti più originali realizzati dai ragazzi. E Romolo Bugaro ha dato ai ragazzi alcuni consigli molto preziosi sulla scrittura e sull’importanza del raccontare e del raccontarsi. Romolo Bugaro, avvocato e scrittore, nel suo ultimo libro Effetto domino, considerata una pietra miliare, nella letteratura veneta perché ricostruisce magistralmente i meccanismi che muovono un’economia senza remore e guide certe, descrivendo un mondo spietato e squilibrato che, come dice Goffredo Fofi, lancia in alto alcuni e schiaccia altri. Alla fine è arrivato il momento della premiazione dei migliori elaborati individuali prodotti nell’ambito del progetto dagli studenti. A conferire i premi agli studenti autori dei testi vincitori è stato lo scrittore stesso. • Primo premio per il vincitore della sezione "Scrittura - scuole medie superiori", Maria Chiara Zaniolo, 4G Istituto Scalcerle: un tablet • Premio per il secondo classificato della sezione "Scrittura - scuole medie superiori" Niccolò Orlando, 4BE Liceo Marchesi-Fusinato: una macchina fotografica digitale • Premio per il vincitore della sezione "Scrittura - scuole medie inferiori" Giacomo Gatto, 3° scuola media Falconetto: un tablet • Premio per il secondo classificato della sezione "Scrittura - scuole medie inferiori", Eleonora Circella, 3B scuola media Falconetto: una macchina fotografica digitale Nonostante le molte difficoltà di un progetto impegnativo (più di 150 incontri, nelle scuole e in carcere, molti incontri anche con magistrati di Sorveglianza e mediatori penali), anche quest’anno più di seimila studenti vi hanno partecipato. In gruppi di due classi alla volta si sono incontrati e sono entrati in carcere, non per fare una specie di visita allo zoo, ma per ascoltare le testimonianze, storie finite male, vite distrutte da scelte sbagliate. I ragazzi hanno potuto anche confrontarsi sulle proprie convinzioni costringendo con le loro domande severe i detenuti a sperimentare profonde riflessioni sul loro passato. Ma soprattutto i ragazzi hanno cominciato a rimettere in discussione le proprie certezze e a fare qualche riflessione in più sulla fragilità dell’essere umano, sull’importanza di chiedere aiuto e sulla difficoltà di "pensarci prima" quando ci si trova in difficoltà. Consolo (Dap): il piano per dismettere le carceri storiche non è una privatizzazione Ansa, 1 giugno 2016 Cedere penitenziari storici in cambio di strutture nuove, all’avanguardia, che possano assicurare migliori condizioni detentive e quindi favorire il recupero dei detenuti, in linea con gli indirizzi degli Stati generali sull’esecuzione penale. Il piano di Cassa Depositi e Prestiti, che al momento riguarda San Vittore, Regina Coeli e Poggioreale, è al vaglio del ministero della Giustizia. Ma non si tratta assolutamente di una privatizzazione, e più che di una vendita si dovrebbe trattare di una "permuta", a cui si provvederebbe solo dopo tutte le verifiche del caso e soprattutto dopo un’"interlocuzione con gli enti locali e le amministrazioni interessati". A precisare il quadro è il capo del Dap Santi Consolo. Via Arenula cederebbe alla Cassa i tre penitenziari, solo quando ci sarà "un’offerta reale e effettiva di strutture più adeguate alle esigenze del trattamento penitenziario, che creino maggiore benessere di tutti i soggetti del mondo carcerario e garantiscano pari ricettività, senza comportare oneri finanziari". Un progetto che nel suo obiettivo, l’umanizzazione delle carceri, ha sicuramente l’endorsement del Colle. L’idea comunque non è assolutamente quella di una privatizzazione. "L’interesse pubblico è che il reinserimento avvenga nel modo migliore" , un obiettivo che non può essere assicurato dai "privati che hanno finalità di lucro", spiega Consolo. Così come è esclusa una cessione immediata: "queste tre strutture ospitano attualmente 3mila detenuti. E avendo una popolazione carceraria superiore ai posti disponibili non possiamo permetterci di ridurre la capienza, soprattutto in aree complesse, come Roma, Milano e specialmente Napoli". Il progetto fa comunque discutere. Frena Antigone, l’associazione che si batte per i diritti dei detenuti: "bisogna usare cautela nello spostare un carcere dal centro della città alla periferia perché spesso è successo di creare carceri-ghetto, abbandonate, mal servite, dove familiari e volontari vanno con difficoltà e dunque si mettono a rischio i diritti delle persone". Sulla cessione di San Vittore si dividono i candidati a sindaco di Milano. Se Stefano Parisi del centrodestra sottoscrive l’idea su cui ragiona il governo, Giuseppe Sala , candidato per il centrosinistra, sostiene che la priorità è "trovare una soluzione per mettere a posto" il penitenziario. "Il carcere di San Vittore resti dove è per favorire il rapporto tra la comunità penitenziaria e il resto dei cittadini", chiede a sua volta Marco Cappato, presidente dei Radicali italiani. E sulla vendita di Poggioreale il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, osserva: in un Paese democratico la priorità è "dare diritti a chi diritti non ha e anche a chi ha violato il diritto". I penitenziari storici sono il simbolo di "un ideale: la città che include in sé il luogo della pena". Se si pensa di sostituirli con nuove carceri fuori dal tessuto urbano, bisogna progettare "collegamenti agevoli, strade privilegiate di accesso"; altrimenti - avverte Giovanna Di Rosa, presidente facente funzioni del tribunale di sorveglianza di Milano - tutto questo si traduce per i detenuti in "un’ulteriore marginalizzazione". E la Fns-Cisl chiede di non chiudere Regina Coeli "visto che l’istituto, ristrutturato da poco, funziona". Elezioni amministrative. Quel voto oltre le sbarre, un diritto che non va ostacolato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 giugno 2016 Ogni volta che si avvicinano le scadenze elettorali, ritorna l’annoso problema sulla difficoltà dei detenuti a esercitare il diritto di voto. I radicali, ancora una volta, si sono mossi affinché questo diritto venga esercitato senza intoppi e attraverso il rispetto delle procedure all’interno delle patrie galere. In particolare si sono attivati i radicali di Cosenza in occasione delle amministrative che si terranno domenica 5 giugno. Per questo motivo, già lo scorso 7 maggio, all’esito di una visita ispettiva effettuata da una delegazione dei radicali alla Casa Circondariale "Sergio Cosmai" di Cosenza, il capo delegazione Emilio Quintieri, aveva scritto una nota ai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del ministero della Giustizia, al Provveditorato Regionale di Catanzaro ed alla Direzione dell’Istituto Penitenziario di Cosenza, lamentando di aver riscontrato che non erano ancora state messe in atto le procedure per consentire ai cittadini detenuti di poter esercitare il diritto di voto alle prossime elezioni amministrative. Durante la visita, numerosi sono stati i detenuti a chiedere informazioni su come poter votare nel luogo di reclusione visto che sono sprovvisti anche della tessera elettorale. Infatti, i detenuti in custodia cautelare e quelli condannati in via definitiva per reati sentenziati come "non ostativi", sono cittadini aventi pieno diritto al voto e possono votare direttamente presso l’istituto penitenziario ove verrà allestito un seggio speciale. Considerata l’imminenza delle elezioni, il radicale Quintieri, ha ritenuto opportuno segnalare la problematica al commissario prefettizio del comune di Cosenza Angelo Carbone, al responsabile dell’ufficio elettorale comunale Leonardo Corina nonché al dirigente dell’ufficio elettorale provinciale, vice prefetto Francesca Pezone ed al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Calabria, Salvatore Acerra, invitandoli, ognuno per la parte di rispettiva competenza, ad adoperarsi con urgenza affinché venga garantito a tutti i detenuti aventi diritto di poter scegliere il proprio Sindaco ed i propri rappresentanti in Consiglio comunale. Grazie alla sollecitazione dei radicali è arrivata la risposta del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che ha comunicato di aver trasmesso, a tutti i provveditorati regionali dell’amministrazione penitenziaria, un provvedimento relativo alle indicazioni necessarie da diramare a tutti gli istituti penitenziari circa le elezioni amministrative del prossimo 5 giugno. In realtà lo stesso identico problema si era verificato anche alle recenti consultazioni riguardanti il referendum del 17 aprile scorso. Tant’è vero che si era attivato il nuovo Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, scrivendo una lettera al capo dell’amministrazione penitenziaria e allertando tutti i garanti regionali affinché vigilassero e fornissero tutte le informazioni necessarie per l’accesso al diritti di voto. Il diritto di voto, dietro le sbarre, è sempre risultato difficile da applicare per via della burocrazia. Non è un caso che alle elezioni, in media, votano solo il 10 per cento dei detenuti perché esercitare il diritto di voto è, in sostanza, assai complesso: comprende una serie di passaggi burocratici che coinvolgono, oltre al detenuto elettore (che deve essere munito di tessera elettorale), il direttore dell’istituto di pena, il sindaco del luogo di residenza e il sindaco del luogo di detenzione. Tutte procedure da svolgere in tempi stretti e che chiamano in causa diverse istituzioni ma che sono propedeutiche all’allestimento dei seggi nelle carceri ed è per questo che i radicali di Cosenza avevano chiesto di attivarsi per rendere quanto più celeri le pratiche da sbrigare. Ma non tutti i detenuti hanno il diritto al voto: rimane inapplicato nei confronti di chi sta scontando una pena superiore ai 5 anni. Anche per i giudici della corte europea è giusto. Con una sentenza definitiva del 2012, la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che la legge italiana che nega il diritto di voto a chi è stato condannato a una pena di oltre cinque anni non viola la convenzione europea dei diritti dell’uomo. La sentenza emessa da Strasburgo va in senso contrario a quella con cui il 18 gennaio del 2011 l’Italia era stata condannata per la violazione della libertà di voto dei detenuti. Secondo i giudici, che hanno accolto le tesi presentate dal governo italiano nel ricorso contro la prima sentenza, la legge italiana non impone, come invece era stato stabilito nella prima sentenza, una restrizione generalizzata, automatica e indiscriminata del diritto di voto dei detenuti. "La legge italiana, nel definire le circostanze in cui un individuo può essere privato del diritto di voto, mostra che l’applicazione di questa misura è legata alle circostanze particolari di ogni caso e che vengono presi in considerazione fattori come la gravità del reato commesso e la condotta del detenuto", viene sottolineato nella sentenza. Ma soprattutto i giudici europei hanno tenuto conto, nell’assolvere l’Italia, che una volta scontata la pena, l’ex detenuto, attraverso la norma che regola la riabilitazione, può riottenere il diritto di voto. Ma prima di allora no, la democrazia per l’interdetto può venire tranquillamente sospesa. I penalisti italiani contro l’ergastolo ostativo: "una condanna fino alla morte" Il Dubbio, 1 giugno 2016 Da oggi nei penitenziari italiani i detenuti sono in sciopero per protestare contro l’ergastolo ostativo. Alla mobilitazione hanno aderito una serie di associazioni umanitarie. Sull’ergastolo ostativo è scesa in campo anche l’Unione Camere penali che lo definisce "una condanna fino alla morte". I penalisti italiani in un comunicato spiegano come "una simile condizione detentiva rientri nell’orizzonte costituzionale di una pena finalizzata alla rieducazione del reo è, con tutta evidenza, un’incognita". L’Unione Camere Penali, con il suo Osservatorio Carcere, da sempre si è battuta per l’abolizione, evidenziando che "la pena perpetua equivale a una condanna a morte che è vera e propria tortura perenne nell’ipotesi, frequente, che al reo venga applicato il regime del "carcere duro" ex art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario". Per i penalisti "mobilitarsi per l’abolizione dell’ergastolo ostativo è, pertanto, un dovere etico e giuridico". Una strada indicata chiaramente dai recenti lavori degli "Stati Generali dell’Esecuzione Penale". Il Tavolo numero 16, di cui è stato coordinatore il Responsabile dell’Osservatorio Carcere Unione Camere penali, nell’occuparsi degli ostacoli normativi al trattamento individualizzato, ha evidenziato come "la pena deve essere giusta e la pena giusta è solo quella non contraria alla Costituzione, giungendo pertanto alla conclusione dell’abolizione dell’ergastolo ostativo". L’Unione Camere penali nel loro comunicato Si ricordano le parole di papa Francesco che "ha equiparato l’ergastolo ostativo alla pena di morte". Ma viene sottolineata anche la presa di posizione del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha definito un "imperativo morale" la riflessione "sui temi cruciali dell’abolizione universale della pena di morte e sull’ergastolo ostativo". I penalisti evidenziano che lo stesso Capo dell’Amministrazione Penitenziaria "ha pubblicamente comunicato di avere espresso parere favorevole all’abolizione dell’ergastolo ostativo". Il comunicato dell’Unione delle Camere penali si concludi con un auspicio: "Ben venga, dunque, la mobilitazione contro l’abuso della pena senza scampo". Lotta al terrorismo, cappellani e imam collaboreranno nelle carceri italiane di Franca Giansoldati Il Messaggero, 1 giugno 2016 La lotta contro il terrorismo richiede una attenzione particolare al settore carcerario, dove spesso avanza nell’indifferenza generale la radicalizzazione islamica. È con questo scenario che i cappellani carcerari di tutta Europa hanno organizzato a Strasburgo un summit per fare il punto su cosa si può fare per vigilare meglio, per collaborare con le altre confessioni, e per aiutare gli stessi detenuti a non scivolare nelle maglie del terrore. "La radicalizzazione non è una questione marginale, anzi. Nelle carceri ha a che fare con la coesione sociale. I nostri governi europei riflettono da tempo su questo problema, così come le organizzazioni internazionali!" ha detto monsignor Paolo Rudelli, Osservatore permanente della Santa Sede al Consiglio d’Europa. I cappellani cattolici si sono impegnati ad offrire un contributo specifico assieme ai responsabili delle altre confessioni. In alcuni casi la collaborazione già esiste, in altri casi dovrà essere rafforzata. "Non si tratta solo di combattere la radicalizzazione, ma di proteggere la dignità umana di chi è in carcere". I diritti umani sono il terreno comune sul quale iniziare a lavorare. I 60 partecipanti, provenienti da 23 Stati, hanno offerto diversi punti di vista e casi specifici di sostegno. Nel carcere di Dozza, a Bologna, per esempio, l’insegnamento della Costituzione italiana ad un gruppo di detenuti islamici ha aperto uno scambio con altri detenuti di fede cattolica, aiutando l’integrazione degli stranieri. Un esempio positivo che è stato esposto da padre Ignazio de Francesco e Yassin Lafram, coordinatore della comunità islamica bolognese. Vietato fumare, ma in carcere la legge Sirchia è sospesa di Nicola Grolla linkiesta.it, 1 giugno 2016 Nella Giornata mondiale senza tabacco (31 maggio), gli istituti detentivi rimangono l’unico luogo chiuso dove è tollerato farsi una sigaretta: "D’inverno si crea una cappa che sembra la nebbia di Londra". C’è un luogo in cui la legge Sirchia del 2003 è sospesa. Non c’è una statistica ufficiale, ma quando si entra in un carcere la sensazione è che i detenuti abbiano perso molti diritti eccetto quello di fumare. A tredici anni dall’entrata in vigore della normativa, gli istituti detentivi sono l’unico luogo chiuso in cui è ancora consentito fumarsi una sigaretta. Nel 2013, il medico pisano Francesco Ceraudo ha pubblicato sulla rivista Ristretti Orizzonti gli unici dati disponibili: "Nei rilievi determinati dall’Agenzia regionale di sanità della Toscana, il 70,2% dei detenuti (regionali, ndr) fuma, mentre il consumo di tabacco tra la popolazione libera è del 23,2%". Non solo. "Il consumo medio giornaliero di sigarette - scrive Ceraudo - è pari a 21,7 tra i detenuti e a 13,6 per chi sta fuori". Insomma, "in carcere è veramente difficile smettere di fumare". In un contesto ambientale in cui la noia e lo stress si accompagnano a situazioni di sovraffollamento e traumi personali, la sigaretta diventa la prima "compagna" di detenzione e il carcere diventa anche il luogo in cui si inizia a fumare. Una situazione già denunciata dal Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria) in un comunicato del 2012. A pesare, in particolare, la situazione a cui sono sottoposti gli agenti di polizia penitenziaria durante il servizio: "Il personale che lavora nelle sezioni detentive alla stregua dei detenuti non fumatori, è costretto a respirare per 8,9 ore al giorno il fumo passivo emanato dai detenuti". Nello stesso documento il Sappe punta il dito contro il Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap): "L’unica cosa che hanno fatto i signori dirigenti è stata quella di emanare una circolare, inapplicata, in cui si invita a dividere i detenuti fumatori da quelli non fumatori cosa impossibile, considerato il sovraffollamento delle carceri e la mancanza di un qualsiasi spazio". Il riferimento è quello a una circolare del 2004 che riprende i contenuti di un testo del 1994 dal titolo Il fumo nell’ambiente carcerario. Tutela dei detenuti non fumatori in cui si riconosce il problema ma, in attesa di "una regolamentazione della materia" in cui vengano stabiliti principi generali di riferimento validi per tutti gli istituti di pena, "si raccomanda alle Direzion per quanto possibile, di far soggiornare in celle separate i detenuti che chiedono di non convivere con i fumatori". "Ai detenuti non possiamo dire niente perché sono legalmente autorizzati a fumare dallo Stato italiano", denuncia Federico Pilagatti, segretario regionale Sappe della Puglia. Nel 2013, Piligatti ha dato voce alla famiglia di un collega di 43 anni morto per tumore ai polmoni nonostante non avesse mai toccato una sigaretta in vita sua: "Il 6 giugno ci sarà la seconda udienza al tribunale amministrativo di Lecce e se a fine anno riusciremo ad avere giustizia nei confronti dello Stato si tratterà di una sentenza storica a livello Europeo". Nel 2015, la Gran Bretagna è corsa ai ripari. Per evitare possibili cause di risarcimento, ha esteso il divieto di fumo ai detenuti e fornito a quest’ultimi la possibilità di utilizzare il cerotto alla nicotina. "Il paradosso - continua Pilagatti - è che nelle varie sezioni del carcere sussiste il divieto di fumo. In segreteria, in mensa, in infermeria per esempio non ci si può accendere una sigaretta, ma lo si può fare in cella e in molte aree comuni. Una situazione che d’inverno, quando le finestre sono chiuse per il freddo, diventa insostenibile. Anche a causa dei fumi di cottura, si crea una cappa che sembra la nebbia di Londra". Per dare un segnale forte, il Sappe della Puglia è pronto a un passo ulteriore: "Stiamo aspettando la scadenza del trentesimo giorno previsto dall’articolo 328 comma 2 del codice penale che dà tempo un mese allo Stato per mettere mano a questa situazione. Poi partiranno le denunce per omissioni in atto d’ufficio, lesioni colpose e omicidio colposo. Perché i danni del fumo passivo - conclude Pilagatti - non si vedono subito, ma sono più pesanti di quelli causati da una sigaretta. Molti colleghi non arrivano alla pensione e chi ci arriva muore poco dopo per gli effetti a lungo termine". Nonostante il regolamento penitenziario stilato nel 2000 faccia diretto riferimento alle "attività di medicina preventiva", la difficoltà di agire sul tema del tabagismo in carcere ha trovato riscontro anche durante gli Stati Generali dell’esecuzione penale conclusi il 18 aprile scorso. Nel documento finale, la parola "fumo" ricorre solamente due volte entrambe per sottolineare "l’imprescindibile e prioritaria necessità, ai fini della tutela della salute e del benessere psico-fisico in carcere, sia in favore dei ristretti che in favore dei lavoratori, che gli spazi della pena siano conformi a requisiti minimi di vivibilità e abitabilità". D’altra parte, però, fumare rappresenta un atto di massima libertà (anche per chi sta fuori dal carcere) alla faccia della salute e del portafogli, soprattutto da quando la normativa anti-fumo si è fatta (a ragione) più stringente e persuasiva. Il 20 maggio, per esempio, è entrata in vigore la normativa europea 2014/40 con cui i pacchetti di sigarette cambiano formato (addio al pacchetto da dieci) e diventano sostanzialmente anonimi. In tredici paesi europei, Italia compresa, il 65% delle confezioni si ricopre di immagini e scritte che avvertono il consumatore sui danni alla saluti causati dal fumo, il logo passa sulla parte inferiore mentre dagli spazi laterali scompaiono le indicazioni relative a nicotina, catrame e monossido di carbonio contenuti. A questo restyling si accompagnano anche nuovi luoghi vietati. Niente più "stizza" in auto se a bordo ci sono donne incinte o minori, stop alla "paglie" post-esame universitario nelle strutture ospedaliere e scordatevi di accendervi la "cicca" fuori da un reparto di ginecologia, ostetricia e neonatologia mentre si attende di scoprire se il proprio figlio è maschio o femmina. Se proprio non si resiste a una boccata di tabacco, meglio farlo in un luogo aperto e disabitato. Divieti e raccomandazioni che valgono ancor di più durante la Giornata mondiale senza tabacco (31 maggio). Istituita nel 1988 per celebrare il quarantesimo anniversario della fondazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), l’evento invita ogni anno i fumatori ad astenersi dal consumare tabacco per almeno 24 ore e decidere una volta per tutte di smettere. In Italia, la data è anche l’occasione in cui l’Istituto superiore di sanità presenta il report annuale sul fumo. In attesa delle cifre del 2015, la quota di fumatori italiani si attesta sui 10 milioni: tanti quanti sono gli abitanti delle province di Roma, Milano e Napoli messi assieme. Il fumatore tipo è uomo (25% della popolazione maschile italiana fuma contro il 16% delle donne) con un età compresa fra i 25 e i 60 anni e consuma in media dalle 10 alle 14 sigarette al giorno. Uno zoccolo duro che ancora persiste in una pratica che costa allo stato 6 miliardi di euro all’anno in spese per la cura e la prevenzione delle malattie causate dal tabagismo e fa circa 700 mila morti all’anno in tutta Europa. Certo, dal 1975 (prima data utile della serie storica Doxa) a oggi il numero di fumatori si è sostanzialmente dimezzato e soprattutto fra le donne si è registrato un calo del 2% nel biennio 2012-14. Trend incoraggianti, sostenuti dalla conferma che le campagne d’informazione anti-fumo costituiscono la ragione più forte per smettere: il 70% degli intervistati che hanno smesso di fumare, l’hanno fatto proprio per la maggiore consapevolezza dei danni provocati dal fumo o per problemi di salute. Ma come fare ad abbattere la quota di fumatori? "Con la prevenzione, da finanziare con parte delle accise applicate ai tabacchi" risponde Biagio Tinghino presidente della Società italiana di tabaccologia. E se questo non bastasse, si può sempre far ricorso ai medicinali. "Personalmente mi sono speso per divulgare l’efficacia della citisina, un farmaco povero che può essere preparato direttamente dal farmacista - afferma Tinghino. L’uso di citisina non solo abbatte il costo da sostenere per un intero trattamento tradizionale che può arrivare a 300-400 euro, ma in quanto estratto del maggiociondolo è un prodotto totalmente naturale". C’è poi la questione della sigaretta elettronica: "Può rappresentare sicuramente uno strumento utile per smettere di fumare, ma solo se inserito all’interno di un progetto di cura gestito da un professionista. I numeri - ricorda Tinghino - su questo parlano chiaro: negli ultimi cinque anni si sono registrati un milioni i fumatori di sigaretta elettronica a cui tuttavia non hanno fatto da contraltare un milione di fumatori in meno". Più facile sparare per difesa. Un milione di firme per il sì alla nuova legge di Liana Milella La Repubblica, 1 giugno 2016 L’Italia dei Valori deposita oggi le sottoscrizioni al Senato per il testo di iniziativa popolare: i cittadini devono aver la possibilità di reagire. A Ravenna 23mila. A Viterbo 19.950. A Trento 5.200. A Saluzzo 3.200. A Lanciano 3.500. A Porcia 2.690. A Calvisano 2.600. A Carpi 2.500. Ad Azzano Decimo 2.228. Ad Arzignano 2.100. A Niscemi 1.987. A Monselice 1.982. A Cervinara 1.560. Un milione di firme per cambiare la legge sulla legittima difesa e fare una legge che non mandi in galera chi spara per difendersi e lo costringa pure a risarcire il ladro se, com’è accaduto, il cane lo ha morso. Un milione, e questi sono i Comuni - mescolati tra Nord e Sud - dove i cittadini sono entrati in municipio per dare il proprio nome certificato. "Un milione per adesso, ma il numero potrebbe crescere ancora, c’è tempo fino al 16 agosto" dice il segretario dell’Idv Ignazio Messina che oggi porterà la sua piramide di scatoloni in Senato, dal presidente Piero Grasso, e chiederà che la legge d’iniziativa popolare proposta dal suo piccolo gruppo sia messa in calendario per superare le diatribe politiche che invece, alla Camera, bloccano la modifica della legittima difesa. L’ultimo scontro documentato tra Pd, alfaniani e Lega il 21 aprile, il ddl che torna in commissione Giustizia. Poi più nulla. Il responsabile Giustizia del Pd David Ermini il 28 aprile presenta un testo con un articolo. Ma nel calendario di giugno della Camera la legittima difesa non figura all’ordine del giorno. Né la commissione Giustizia è riuscita a riprendere in mano il dossier. Anche perché non c’è alcun accordo politico. Eppure, tra le tante nuove leggi possibili, forse poche come questa sono popolari. Lo dimostra la raccolta di firme dell’Idv che per la sua mole ha spiazzato perfino gli organizzatori. Ha pure messo in imbarazzo la Lega, che della legittima difesa ha fatto un cavallo di battaglia per anni. Ma Messina rivela: "So che Salvini diceva di non firmare per noi, ma molti dei suoi l’hanno fatto perché me lo hanno anche detto". Cosa chiede Idv, ma soprattutto come si è arrivati a un milione di firme. La proposta è semplice. Innanzitutto punire più severamente la violazione del domicilio, oggi da 1 a 3 anni, domani da 2 a 6 anni, per cui è più probabile che il ladro resti dentro. Poi il boccone grosso: via l’eccesso colposo di legittima difesa, per cui spesso chi spara finisce sotto inchiesta. Via anche il risarcimento al rapinatore se finisce pure danneggiato nella sua "azione". La cronaca, che Idv riporta in un dossier, non è certo avara di esempi: un pensionato spara in aria perché trova un ladro nella sua casa di campagna e finisce sotto inchiesta per "esplosioni pericolose". Un commerciante scopre il rapinatore nel suo negozio, lo chiude dentro, si precipita dai Cc e viene denunciato per sequestro di persona. Un cane morde il ladro e chiede al derubato il risarcimento dei danni. Sono storie come queste, di cui sono ricche le pagine delle cronache, che hanno spinto 900mila italiani - le altre 100mila firme le ha raccolte Idv coi gazebo - a entrare in Comune e sottoscrivere per la legge d’iniziativa popolare. Lo hanno letto sul web oppure sui manifesti affissi in municipio. È accaduto pure che in un paesino della Val d’Aosta tutti i 500 abitanti, sindaco compreso, abbiano firmato. E tutto in tempi sorprendentemente rapidi: il 18 febbraio Idv deposita in Cassazione la legge che viene pubblicata sulla Gazzetta ufficiale. Basterebbero 50mila firme. Ma il 20 aprile, quando Idv manifesta sotto Montecitorio - come farà anche oggi prima di andare al Senato - le firme sono già 250mila. "Tantissime" chiosa allora Enrico Costa, il ministro della Famiglia di Ncd, che da tempo di batte per una nuova legge. Tant’è che va in piazza. Un altro mese, e le firme esplodono. Quando la notizia del prossimo deposito al Senato si diffonde c’è gente che manda la firma autenticata da un notaio, pagando di tasca propria 150 euro, direttamente a Idv. Un partito che conta oggi 1 deputato e 2 senatori. Un dettaglio per chi vive drammaticamente nelle nostre città la paura di un’aggressione in casa. "Tutti da condannare per Magherini" di Riccardo Chiari Il Manifesto, 1 giugno 2016 Omicidio in San Frediano. Il pm Bocciolini chiede nove mesi di reclusione per tre carabinieri, e dieci mesi per un altro militare dell’Arma responsabile di aver scalciato il giovane, già prono a terra e immobilizzato dagli altri sul selciato gelido. Impedendogli di respirare. "Se lo avessero messo a sedere, invece che lasciarlo sdraiato, Riccardo Magherini non sarebbe morto. I carabinieri avevano l’obbligo della sua incolumità, mentre hanno contribuito alla sua morte". Le parole del pubblico ministero Luigi Bocciolini arrivano forti e chiare in aula di udienza. Ricordano molto da vicino quello che hanno sempre detto i familiari del giovane e il loro legale Fabio Anselmo: "Un fatto è certo, se Riccardo quella notte non avesse incontrato i carabinieri, oggi sarebbe ancora vivo". Un atto di accusa corroborato da numerosi dati di fatto emersi nel corso del dibattimento. E confermato dal pm Bocciolini, che alla fine della sua requisitoria ha chiesto la condanna a nove mesi di reclusione, per omicidio colposo, per i carabinieri Stefano Castellano, Davide Ascenzi e Agostino Della Porta; e la condanna a dieci mesi, per omicidio colposo e percosse, nei confronti di un quarto militare dell’Arma, Vincenzo Corni, che sferrò un paio di calci a Magherini quando era a terra ammanettato. Fra i responsabili della morte del quarantenne Riccardo, stroncato da un "arresto cardiaco" in Borgo San Frediano nella gelida notte fiorentina del 2 marzo 2014, nelle pieghe di un violento fermo di polizia, almeno secondo il pm c’è anche la volontaria Claudia Matta della Croce rossa. "Lei non avrebbe praticato le manovre di rianimazione che forse avrebbero potuto salvarlo", annota Bocciolini. Che nella ricostruzione della tragedia non ha considerato probante, a discolpa, la deposizione di un’altra volontaria Cri, Janeta Mitrea, anch’essa imputata e per la quale il pm ha chiesto l’assoluzione, dato che "stava medicando uno dei carabinieri". Eppure la deposizione di Janeta Mitrea era stata precisa: "La mia collega due volte chiese ai carabinieri se era possibile togliere le manette, ma le risposero che era pericoloso. E per mettere il saturimetro si è dovuta far spazio fra due carabinieri. Uno di loro era a cavalcioni su Magherini". A conferma, Gian Aristide Norelli, il medico legale che effettuò l’autopsia sul giovane, avrebbe poi spiegato alla corte che la posizione in cui era costretto Magherini (prono a terra sul selciato gelido, mentre era in camicia, ndr), con uno dei carabinieri a cavalcioni su di lui, aveva reso ancora più difficile la respirazione, già affannosa a causa di una sindrome da eccitazione delirante. Fino a provocare l’arresto cardiaco. Eppure Riccardo Magherini, conosciuto in tutto il quartiere di San Frediano, marito e padre felice, non era un violento. Dagli esiti dell’autopsia è emerso che aveva assunto cocaina. Ma anche in quella tragica notte, mentre vagava urlando in Borgo San Frediano, non aveva aggredito nessuno. A confermarlo almeno un centinaio di testimoni. Certo, aveva dato un pugno a una vetrina, fracassandola. E aveva rubato il cellulare di un negoziante. Ma quando era entrato nell’auto di Sara Cassai, scambiandola per un taxi, era sceso non appena lei gli aveva chiesto di uscire. "Aveva gli occhi della paura", ha ricordato Cassai. Andava solo tranquillizzato. Come le altre udienza, la requisitoria è stata seguita dai familiari di Magherini e da decine di amici e conoscenti. Fuori dall’aula su uno striscione c’era scritto: "Riky, hai chiesto aiuto e hai trovato la morte". Alla fine c’era delusione, non per le richieste di condanna quanto per le pene ritenute esigue. "La vita di una persona vale più di nove mesi di condanna - hanno detto il fratello Andrea e il padre Giorgio Magherini - ma confidiamo nella giustizia". Domiciliari anche senza braccialetto Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2016 Corte di cassazione, sentenza 31 maggio 2016, n. 23011. Sì ai domiciliari anche se non è disponibile il braccialetto elettronico. La "ratio" dell’articolo 275 comma 2 -bis del Codice di procedura penale contro l’abuso della custodia in carcere è quella di "evitare ogni inutile contatto con la realtà carceraria a coloro i quali, all’esito del giudizio, non dovranno espiare la pena in carcere". Accolto il ricorso di sette indagati per resistenza a pubblico ufficiale nei confronti dei quali, in sostituzione della originaria custodia in carcere, era stata disposta la misura meno afflittiva dei domiciliari con il controllo del braccialetto elettronico. Misura che non venne applicata nei tempi previsti per l’indisponibilità del braccialetto. La difesa dei sette indagati ha fatto ricorso in Cassazione sostenendo, tra l’altro, l’"illegittimità e l’incostituzionalità della condizione apposta alla sostituzione della custodia cautelare in carcere al materiale reperimento di braccialetti". Falso in bilancio a prova di criteri tecnici di Franco Roscini Vitali Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2016 Corte di cassazione, Sesta sezione penale, sentenza 31 maggio 2016 n. 23011. Sussiste il delitto di false comunicazioni sociali se, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, il redattore del bilancio se ne discosta consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo a indurre in errore i destinatari dello stesso. Le norme che stabiliscono i criteri di redazione del bilancio sono contenute nel Codice civile e nelle direttive comunitarie, mentre i criteri tecnici generalmente accettati sono ufficializzati dai soggetti "certificatori": Organismo italiano di contabilità e, a livello internazionale, International financial reporting standard. È questo il principio di diritto enunciato dalla sentenza 22474 delle sezioni unite della Cassazione, depositata il 27 maggio scorso, che contiene l’analisi delle precedenti sentenze e pone fine all’incertezza sorta a seguito delle stesse. L’incertezza circa la rilevanza del "falso valutativo" è sorta perché la riforma di cui alla legge 69/2015 ha cancellato, negli articoli 2621 e 2622 del Codice civile, l’inciso "ancorché oggetto di valutazioni" con riferimento ai fatti materiali. Per i giudici la finalità della legge 69/2015 è stata quella di ripristinare una significativa risposta sanzionatoria ai fatti di falsità in bilancio, ritenendosi non adeguato il precedente assetto repressivo, con il fine di ripristinare la "trasparenza societaria". A questo fine, tra l’altro, ha eliminato le "soglie di rilevanza", scandite da precisi riferimenti percentuali, al di sotto delle quali la falsità diveniva, per previsione legislativa, "quantità trascurabile" e sostituito le stesse con il principio di "rilevanza". A parere dei giudici, è eccessiva l’enfatizzazione data alla soppressione del riferimento alle valutazioni: pertanto, sarebbe paradossale chiedersi quale sia il significato delle parole soppresse, senza interrogarsi sul significato della frase come risulta dopo la citata soppressione. Nessuna norma può essere presa in considerazione isolatamente, ma deve essere valutata come componente di un "insieme", tendenzialmente unitario e le cui "parti" siano reciprocamente coerenti. Il Codice civile detta le norme di redazione del bilancio negli articoli 2423 e seguenti dai quali si evince che il bilancio è un documento dal contenuto essenzialmente valutativo la cui funzione è principalmente informativa/comunicativa. I destinatari dell’informativa (lettori del bilancio) devono essere posti in grado di effettuare le loro valutazioni, vale a dire di valutare un documento già in sé di contenuto valutativo. Ma, continuano i giudici, tale "valutazione su una valutazione" non sarebbe possibile (ovvero sarebbe aleatoria) se non esistessero criteri - obbligatori e /o largamente condivisi - per eseguire tale operazione intellettuale. Dunque, "sterilizzare" il bilancio con riferimento al suo contenuto valutativo significherebbe negarne la funzione e stravolgerne la natura: chiarito questo, appare evidente l’errore che intende contrapporre "i fatti materiali", da esporsi in bilancio, alle valutazioni, perché un bilancio non contiene "fatti", ma "il racconto" di tali fatti. E un fatto, per quanto "materiale", per trovare collocazione in bilancio, deve essere "raccontato" in unità monetarie e, dunque, valutato: soltanto ciò che è già espresso in euro, essenzialmente cassa e banche, non necessita di tale conversione. In definitiva, condividendo le sentenze 890/2016 e 12793/2016, i giudici evidenziano che se si accedesse alla tesi della non punibilità del falso valutativo, si sarebbe in presenza di un’interpretazione abrogativa del delitto di false comunicazioni sociali e il corpus normativo di cui alla legge 69/15, denominato "Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio", finirebbe per presentare una significativa falla nella trama costruttiva, prestandosi ad una lettura depotenziata proprio nella parte che dovrebbe essere una delle più qualificanti, ovvero la trasparenza aziendale. Corte Ue: "Vietare il velo alle dipendenti è legittimo anche nel settore privato" di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2016 Corte di giustizia europea, conclusioni dell’Avvocato generale nella causa C157/15. Il datore di lavoro privato può vietare, ai propri dipendenti, di indossare il velo islamico e altri segni religiosi visibili senza incorrere in una discriminazione. Il principio di neutralità religiosa e ideologica, infatti, giustifica una misura di questo genere che è conforme al diritto Ue. È l’Avvocato generale della Corte di giustizia dell’Unione europea, Kokott, a scriverlo nelle conclusioni depositate ieri (causa C-157/15). È il primo caso di questo genere arrivato a Lussemburgo (pende anche un altro ricorso). A rivolgersi agli euro-giudici, la Corte di cassazione belga, alle prese con un ricorso di una dipendente di un’impresa che fornisce servizi di sicurezza, licenziata perché si era rifiutata di lavorare priva del velo islamico. Di qui la controversia con l’azienda, con i tribunali nazionali di primo e secondo grado che hanno dato torto alla donna. La Cassazione, prima di pronunciarsi, ha chiamato in aiuto Lussemburgo. Secondo l’Avvocato generale, le cui conclusioni non sono vincolanti ma sono generalmente seguite dalla Corte, non è in contrasto con la direttiva 2000/78 sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, recepita in Italia con Dlgs n. 216/2003, la decisione di un datore di lavoro privato di vietare, in via generale, l’esibizione di simboli religiosi (conclusione analoga a quella raggiunta, nel settore pubblico, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza Ebrahimian contro Francia). La direttiva - osserva Kokott - punta alla creazione di ambienti di lavoro non discriminatori, vietando in modo assoluto ogni atto di questo genere, ma ammettendo talune disparità di trattamento necessarie al perseguimento di un obiettivo legittimo e in presenza di alcuni requisiti. Come la finalità dell’azienda che punta a rafforzare la neutralità religiosa e ideologica. Passaggio obbligato, in questa direzione, il no ai propri dipendenti che non possono indossare simboli religiosi, politici e filosofici sulla base di un regolamento interno codificato proprio per rafforzare l’attuazione effettiva dei princìpi perseguiti, primo tra tutti la neutralità in materia religiosa. Una finalità legittima e necessaria all’attuazione della politica aziendale che - osserva l’Avvocato generale - è anche proporzionale, perché non procura un eccessivo pregiudizio sui legittimi interessi dei lavoratori ed è applicabile in maniera generale e del tutto indifferenziata, tant’è che include anche il divieto di "indossare segni visibili di una convinzione politica o filosofica". Se è vero che il divieto di mostrare simboli religiosi può costituire un’ingerenza nella liberà di religione garantita dall’articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali, è anche vero che, se rivolta verso ogni simbolo visibile, non ha carattere discriminatorio. D’altra parte, un’azienda - osserva Kokott - "può optare per una rigorosa neutralità religiosa e ideologica" e, quindi, "esigere dai propri dipendenti, nell’ambito del proprio potere discrezionale imprenditoriale garantito dalla Carta Ue, quale requisito per lo svolgimento dell’attività lavorativa, un modo di presentarsi corrispondentemente neutrale sul luogo di lavoro". Soprattutto per le attività in cui il lavoratore è a contatto con la clientela. Anche per evitare che la collettività abbia l’impressione che la convinzione religiosa o politica ostentata in pubblico dal dipendente sia imputabile all’azienda. Divorzio, lo stato di bisogno per il mancato versamento dell’assegno va provato di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2016 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 31 maggio 2016 n. 23010. L’auto riduzione dell’assegno mensile da parte dell’ex coniuge non è sufficiente per dedurne il patimento di uno "stato di bisogno" da parte della moglie e dei figli atto a configurarne la responsabilità penale per "violazione degli obblighi di assistenza". Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 31 maggio 2016 n. 23010, accogliendo sotto questo profilo il ricorso del precedente marito. Il ricorrente, un ex manager di una nota casa automobilistica, che era arrivato a guadagnare 180mila euro l’anno, era stato condannato dalla Corte di appello di Milano a due mesi di reclusione "per essersi sottratto ai doveri di coniuge separato e padre di due minori riducendo l’importo dell’assegno di mantenimento mensile da 4.000,00 a 800,00 euro, facendo quindi mancare i mezzi di sussistenza". Proposto ricorso, l’ex marito aveva sostenuto, fra l’altro, l’assenza di motivazione circa lo stato di bisogno; il fatto che il contributo fosse stato ridotto solo per pochi mesi - da gennaio a luglio 2009, e infine che la moglie aveva 25mila euro di risparmi. La Suprema corte non ha creduto alla stato di momentanea indigenza dell’obbligato, sia per gli alti guadagni passati che per le attività presenti (la proprietà di una serie di società di consulenza), anche considerato che aveva ripagato il debito nei confronti della moglie, ed ha dunque ritenuto che "del tutto legittimamente era stato dedotto che egli fosse nella concreta possibilità di adempiere ai suoi obblighi di corresponsione dei mezzi di sussistenza". Tuttavia, prosegue la Corte, la sentenza di condanna non risulta "adeguatamente motivata in merito allo stato di bisogno della moglie e dei figli minori". E ciò sia per la breve durata, soli 7 mesi, della riduzione della cifra versata che per i risparmi "di un certo rilievo economico" della donna. I giudici dunque hanno accolto il ricorso con rinvio alla Corte territoriale che dovrà accertare "l’effettività dello stato di bisogno della moglie e dei figli minori dell’imputato durante il ristretto periodo temporale in cui ha ridotto l’importo versato a 800 euro mensili". Reati fallimentari, la bancarotta riparata Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2016 Bancarotta fraudolenta - Bancarotta riparata - Condizioni - Configurabilità - Rilevanza del momento di manifestazione del dissesto - Esclusione. La bancarotta "riparata" si configura, determinando l’insussistenza dell’elemento materiale del reato, quando la sottrazione dei beni venga annullata da un’attività di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell’impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento, non rilevando, invece, il momento di manifestazione del dissesto come limite di efficacia della restituzione. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 5 febbraio 2016 n. 4790. Bancarotta fraudolenta - Società ammessa al concordato preventivo - Distrazione successiva di somme - Bancarotta fraudolenta patrimoniale post-fallimentare - Sussistenza - Restituzione e rientro della somma distratta - Bancarotta riparata - Esclusione. La distrazione di somme da una società ammessa al concordato preventivo configura un’ipotesi di bancarotta fraudolenta post-fallimentare in relazione alla quale la restituzione della somma distratta non realizza una forma di cosiddetta bancarotta riparata, poiché, per determinare l’insussistenza della materialità del reato, l’attività di segno contrario che annulla la sottrazione deve reintegrare il patrimonio dell’impresa prima della dichiarazione di fallimento o del decreto che ammette il concordato preventivo, evitando che il pericolo per la garanzia dei creditori acquisisca effettiva concretezza. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 22 dicembre 2015 n. 50289. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Bancarotta riparata - Condizioni - Sottrazione di beni annullata da un’attività di segno contrario - Configurabilità. La bancarotta riparata si configura, determinando l’insussistenza dell’elemento materiale del reato, quando la sottrazione dei beni venga annullata da un’attività di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell’impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento, così annullando il pregiudizio per i creditori o anche solo la potenzialità di un danno. Sussistono, pertanto, gli estremi della bancarotta per distrazione, e non quelli della bancarotta riparata, qualora l’attività restitutoria o riparatoria sia posta in essere in epoca successiva alla dichiarazione di fallimento per iniziativa del curatore. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 15 dicembre 2014 n. 52077. Bancarotta fraudolenta - Socio amministratore autore delle condotte distrattive - Cessione delle quote sociali - Manleva da parte dell’acquirente per i debiti pregressi - Bancarotta "riparata" - Configurabilità - Esclusione. Non si configura bancarotta "riparata" nel caso in cui il socio e amministratore che abbia posto in essere condotte distrattive, ceda prima del fallimento le proprie quote, ottenendo dall’acquirente manleva per i debiti pregressi nei confronti della società, compresi quelli derivanti dalle sottrazioni illecite. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 2 luglio 2013 n. 2851. Comunicato su sciopero collettivo detenuti da Associazione per i diritti dei detenuti Yairaiha Onlus Ristretti Orizzonti, 1 giugno 2016 Da oggi migliaia di detenuti in tutta Italia saranno in mobilitazione per denunciare l’abuso giuridico dell’ergastolo "ostativo", quello comminato ai sensi del famigerato 4bis. L’ergastolo ostativo è quella pena che condanna un uomo ad essere "cattivo per sempre" col fine pena segnato sul foglio matricolare 31/12/9.999, mai, cancellando per sempre la speranza e la dignità. Quella pena che Papa Francesco ha definito "pena di morte viva", portandolo ad abolire l’ergastolo nello Stato Vaticano e a sollecitare più volte nel corso del suo mandato ad una revisione di questa aberrazione. Ma le sollecitazioni affinché venga superata questa enormità vengono da più parti: diverse sentenze della Corte Costituzionale, della Corte Europea dei Diritti Umani e della Cassazione sanciscono l’incostituzionalità dell’art. 4Bis laddove nega, illegittimamente, a migliaia di condannati di poter beneficiare delle misure alternative e dei diritti fondamentali e costituzionali dell’uomo, art. 27 compreso. Nega quindi la possibilità di avere una pena che non sia semplice vendetta e che tenda a "rieducare" il detenuto per "restituirlo" alla società. Con dignità. E "la dignità coincide con l’essenza stessa della persona, non si acquista per meriti e non si perde per demeriti, non è un ‘premio per i buonì e quindi non può essere tolta ai ‘cattivì…" con queste semplici ed efficaci parole Gaetano Silvestri , presidente emerito della Corte Costituzionale, critica il meccanismo premiale che accompagna il 4bis e che pone la collaborazione quale elemento imprescindibile ai fini dell’ottenimento dei benefici penitenziari per i condannati per reati associativi. E ancora contro la clausola che il sistema giudiziario pone come condizione sine qua non per l’ottenimento dei benefici penitenziari (la collaborazione, art. 58ter) si è espresso Franco Corleone, garante dei detenuti in Toscana, facendo notare come "non tutti gli ostativi lo siano per loro volontà, ma spesso non sono nelle condizioni di collaborare", aggiungendo poi che "la lotta alla mafia si fa sul territorio non in cella". E molto spesso l’inesigibilità della collaborazione e la mancanza di collegamenti con le organizzazioni di appartenenza non vengono riconosciuti perché la magistratura di sorveglianza si basa su relazioni di polizia datate. Ed anche su questo punto è più volte intervenuta la Corte Costituzionale stabilendo che "i collegamenti (dei condannati) con le organizzazioni di appartenenza devono essere attuali e dimostrabili e non, come spesso accade, stereotipati". Da oggi, quindi, migliaia di detenuti cercheranno di far sentire le proprie ragioni con uno sciopero collettivo a cui hanno aderito finora i detenuti nelle carceri di: Catanzaro, Rossano, Vibo Valentia, Saluzzo, Sulmona, Paola, ma abbiamo contezza che sono molte di più quelle che hanno aderito e che in alcune è stata impedita la raccolta firme. La raccolta firme a sostegno della mobilitazione e dell’appello prosegue. Registriamo, inoltre, l’adesione e il sostegno dell’Osservatorio Carcere delle Camere penali Italiane, dell’Unione Camere Penali Italiane, della Camera Penale "Fausto Gullo" e dell’Osservatorio Carcere di Cosenza, Rifondazione Comunista, Eleonora Forenza (europarlamentare PRC), Osservatorio sulla Repressione, CPOA Rialzo, Comitato Prendocasa Cosenza, Comitato di quartiere "Piazza Piccola", Movimento Disoccupati Calabresi e tanti altri, tantissimi docenti e ricercatori Unical, centinaia di liberi cittadini. L’elenco completo delle adesioni avremo cura di inviarlo al Ministro della Giustizia affinché sappia che i detenuti in sciopero non sono soli e che il superamento di tutte le forme di tortura, non solo dell’ergastolo, sono un interesse collettivo che oltrepassa tutti i cancelli. Emilia Romagna: Garante Desi Bruno incontra Sinappe, convergenze su custodia aperta di Jacopo Frenquellucci Ristretti Orizzonti, 1 giugno 2016 Per la figura di garanzia dell’Assemblea legislativa si è instaurato un "positivo rapporto di confronto". Un "confronto positivo" che ha portato a una "sostanziale convergenza di opinioni per quanto riguarda alcuni degli interventi da attuare per dare pienezza di significato al modello detentivo a custodia aperta": nei giorni scorsi la Garante regionale delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, ha incontrato i rappresentanti del sindacato di Polizia penitenziaria della sigla Sinappe. Erano presenti il segretario regionale, Gianluca Giliberti, il segretario provinciale di Parma e una delegazione della segreteria provinciale di Bologna, composta da segretario e vice segretario provinciale e segretario locale. Nel corso dell’incontro sono state affrontate le principali questioni che caratterizzano gli istituti penitenziari regionali, valutando molto positivamente il rapporto di confronto che si è instaurato. I rappresentanti della sigla sindacale hanno rimarcato l’esigenza di aggiornamento professionale, alla luce dell’attuale realtà penitenziaria e delle ultime modifiche alle modalità custodiali, ritenendo fondamentale potersi confrontare con tutte le figure che operano all’interno del carcere, nell’intento di migliorare l’ambiente di lavoro e le condizioni detentive con azioni sinergiche che rifuggano da inutili proclami ed iniziative dal forte impatto mediatico ma difficilmente gestibili. Sostanziale convergenza di opinioni per quanto riguarda alcuni degli interventi da attuare per dare pienezza di significato al modello detentivo a custodia aperta: la possibilità di permanere all’esterno delle camere di pernottamento va necessariamente coniugata con l’incremento delle attività trattamentali perché i detenuti possano impiegare utilmente il tempo della reclusione; inoltre, va supportata l’attività della Polizia penitenziaria attraverso un congruo adeguamento dell’organico e la dotazione di strumenti di controllo di remoto affinché, attraverso la videosorveglianza, possa compiutamente dispiegarsi la cosiddetta vigilanza dinamica prevista nelle circolari dipartimentali. Sarebbe inoltre necessario adeguare gli organici delle aree educative ed amministrativo-contabili, per rendere effettive le iniziative trattamentali e liberare il personale di polizia penitenziaria impiegato in compiti non istituzionali. Con riferimento all’istituzione delle sezioni detentive ex art. 32 del regolamento di esecuzione della Legge penitenziaria, destinate ad accogliere quei detenuti dotati di una pericolosità e di una tendenza alla prevaricazione tali da dover essere gestiti con maggiore attenzione custodiale, i rappresentanti sindacali ritengono non più differibile l’apertura, anche per la tutela dei colleghi impiegati nei reparti detentivi e di tutti gli altri operatori da possibili aggressioni o sopraffazioni; d’altro canto, la Garante considera che tali sezioni detentive, laddove istituite, debbano, in ogni caso, caratterizzarsi come luoghi congrui dal punto di vista degli spazi e degli ambienti, anche fornendo possibilità di accesso alle attività scolastico - formative e/o ricreative e/o culturali, previa attenta valutazione, garantendo al detenuto la possibilità di avere contatti costanti con tutte le figure professionali che sovrintendono al trattamento. In questo senso, l’Ufficio del Garante ha da poco inviato una nota al Provveditorato regionale per avere un riscontro relativo all’organizzazione e alla gestione delle sezioni detentive a custodia chiusa, laddove istituite negli istituti penitenziari regionali.Sempre con riferimento al modello detentivo a custodia chiusa, l’auspicio della figura di garanzia dell’Assemblea legislativa è che, laddove intervengano evidenti segnali di partecipazione all’attività rieducativa, il giudizio di pericolosità possa essere rivalutato anche prima del periodo temporale di sei mesi previsto dalle circolari dipartimentali, agevolando la progressione trattamentale del detenuto. Trapani: la precarietà delle carceri in Sicilia, situazione a Favignana e Castelvetrano tp24.it, 1 giugno 2016 È una questione mai risolta quella del sovraffollamento delle carceri italiane e non fa eccezione la Sicilia. A lanciare l’allarme sulla situazione delle case circondariali dell’Isola, nei giorni scorsi ci ha pensato l’associazione Antigone che si occupa dei diritti e delle garanzie nel sistema penale italiano e promuove dibattiti sul modello di legalità penale e processuale del nostro Paese e in particolare raccoglie e divulga informazioni sulla realtà carceraria, per sensibilizzare la società al problema anche attraverso l’Osservatorio nazionale sull’esecuzione penale e le condizioni di detenzione. I problemi delle carceri siciliane non riguardano solo la capienza e la vivibilità degli spazi a disposizione dei detenuti ma anche la qualità della vita, e gli aspetti del lavoro, la formazione, l’igiene e la salute. Dall’ultimo rapporto del Ministero della Giustizia emerge che su 23 carceri in Sicilia, 12 sono sovraffollate e fra queste i due istituti catanesi, quello di Siracusa, Piazza Armerina, Gela, Caltanissetta, Augusta, Agrigento, Termini Imerese, Giarre, Sciacca e Castelvetrano. E fra questi i peggiori sono Augusta (455 detenuti su una capienza di 372), Termini Imerese (99 contro 84), Giarre (64 contro 58) e quello catanese di Piazza Lanza (341 contro 313). La situazione in provincia di Trapani, per quel che riguarda la distribuzione dei detenuti negli istituti di Favignana e di Trapani è migliorata rispetto al passato. A Favignana sono detenute 90 persone su una capienza di 94. A Trapani, invece, i detenuti sono 355 su una capienza totale di 358. Risulta tra i dodici carceri siciliani sovraffollati quello di Castelvetrano che, su una capienza massima di 44 detenuti ne ospita, invece, 59. Nella struttura di Trapani rispetto al passato e alla visita fatta da Antigone, la situazione è sicuramente migliorata. Il numero dei detenuti ora è nella norma, le segnalazioni riguardavano soprattutto la carenza di personale e degli agenti di custodia, problemi che continuano a persistere. Per quel che riguarda la formazione, vi è la presenza all’interno della struttura di corsi organizzati da enti di formazione esterni. Si va dai corsi di cucina, al restauro del legno, Falegnameria, ecc. Nel carcere di Favignana i detenuti frequentano il corso di scuola media secondaria. Come attività di formazione professionale nell’ultimo periodo è stato attivato un corso di artigianato artistico gestito da un ente di formazione palermitano. Per quanto riguarda le attività lavorative sono gestite dall’amministrazione penitenziaria e impiegano 53 detenuti su due turni. A Castelvetrano la situazione rispetto all’ultimo rapporto di Antigone non è cambiata molto, il sovraffollamento persiste e la stessa struttura non è adeguata, ha spazi angusti e poca luce. Anche qui vengono organizzati dei corsi di formazione, tra i quali quello di pittura, informatica e giornalismo. Per il lavoro, invece, c’è quello interno dell’amministrazione penitenziaria e quello di alcuni detenuti, pochi, che collaborano con aziende esterne. Molte sono, dunque, le carceri inadeguate in Sicilia e inadeguato e dispendioso, secondo l’allora Governo guidato da Mario Monti, era il carcere di Marsala che nonostante le polemiche e le proteste di politici e sindacati di categoria è stato l’unico carcere siciliano ed unico in Italia ad essere stato chiuso. Se da un lato la decisione del Governo nazionale era volta al risparmio, dall’altro, secondo il sindacato Uilpa ha determinato l’emigrazione di 50 dipendenti in altre strutture e un maggiore sovraffollamento negli altri istituti penitenziari della provincia di Trapani, alimentando una situazione già ampiamente compromessa a causa della carenza di mezzi, della mancanza di personale e di risorse economiche. In generale - ritornando al rapporto annotato da Antigone - le celle delle carceri siciliane sono sottodimensionate, 3,8 per 3,7 metri con bagno incluso e parecchie di queste ospitano fino a 3 detenuti, sistemati in letti a castello a 3 piani, con condizioni di vivibilità molto basse. "Al limite delle dimensioni minime previste dalla Corte europea dei diritti umani - dichiara l’ex parlamentare Pino Apprendi, referente di Antigone in Sicilia -. Quasi nessun carcere ha un mediatore culturale ed è carente anche la dotazione di medici e psicologi". Da pochi giorni Giovanni Fiandaca, l’ordinario di diritto penale dell’università di Palermo chiamato da Rosario Crocetta alla guida dell’autorità che vigila sulle condizioni di vita dei carcerati si è insediato nel suo ufficio di Garante dei detenuti e tra qualche giorno inizierà un calendario di visite per verificare di persona le condizioni di vita all’interno dei penitenziari siciliani. Fiandaca ha già in mente delle priorità da promuovere come l’istruzione, la formazione professionale e le attività lavorative. "Bisogna creare una rete virtuosa fra i sistemi dell’istruzione, della sanità, della formazione e dello sviluppo economico per rinvenire quante più risorse possibili - afferma Fiandaca -. Bisognerà fare ricorso ai fondi europei. In una prospettiva volta alla rieducazione dei detenuti, l’istruzione, e più in generale l’attività formativa e culturale, sono strumenti fondamentali". Altro importante punto da verificare, secondo Fiandaca, è il funzionamento dei servizi sanitari all’interno degli istituti. Vigevano (Pv): carcere sovraffollato, il caso finirà in Parlamento La Provincia Pavese, 1 giugno 2016 In carcere il rischio sovraffollamento è dietro l’angolo. A lanciare l’allarme sono l’onorevole Alan Ferrari (Pd) e Silvia Grossi, responsabile regionale Pd per i diritti, che ieri hanno visitato la struttura dei Piccolini. "Il sovraffollamento si è intensificato nell’ultimo mese - dicono Ferrari e Grossi. Il carcere di San Vittore sta "sfollando" verso la nostra provincia. Ad oggi i detenuti sono 413, ma la capienza è di 230 posti. Di questi 413 (di cui 72 donne), 93 sono italiani e ben 330 hanno pene definitive lunghe. Oggi si riesce a mantenere il trend di due detenuti per cella, ma arriveranno altri detenuti da altri istituti, anche perché la legge 199, la cosiddetta "svuota carceri", non funziona per i tempi lunghi della burocrazia". Sottodimensionato il personale. "Ci sono solo sei infermieri che turnano - proseguono Ferrari e Grossi - un medico di guardia e uno psichiatra e, nelle fasce notturne, non ci sono infermieri. Su 413 detenuti, 403 sono in terapia, perché tossicodipendenti, e gli infermieri faticano a somministrare la terapia quotidiana. Gli agenti dovrebbero essere 265, invece sono 210, di cui 18 distaccati in altre sedi. Non bastano i sottufficiali, che sono il raccordo tra polizia penitenziaria e direzione. Non può continuare così". Problemi anche alla struttura: l’impianto elettrico non è a norma e ci sono importanti infiltrazioni d’acqua. Grossi sta scrivendo un dossier da consegnare in Regione sulle carceri lombarde, Ferrari porterà il caso in Parlamento. Catanzaro: salute negli istituti penitenziari, illustrati i dati dell’Asp catanzaroinforma.it, 1 giugno 2016 "Garantire i livelli essenziali di assistenza ai detenuti della nostra provincia, come facciamo con gli altri cittadini del territorio, non è affatto facile, ma l’Azienda Sanitaria - ha spiegato il direttore generale Giuseppe Perri - ha investito molto per assicurare una sanità al passo con i tempi e, soprattutto, di qualità". I dati presentati durante la conferenza stampa sono, infatti, alquanto significativi. 12.410 ore di assistenza medica H24, 178 ore settimanali di assistenza specialistica (psichiatria, radiologia, odontoiatria, chirurgia, infettivologia, ortopedia, oculistica e altre branche), 23.592 ore mensili di assistenza infermieristica, servizio di fisiokinesiterapia, utilizzo di nuovi farmaci, informatizzazione dei servizi, tele cardiologia: sono solo alcune delle offerte messe in campo dall’Asp per garantire la salute dei detenuti. Insomma, un’attività di rilievo, implementata nell’ultimo anno grazie al costante monitoraggio delle attività effettuato dal referente per la salute negli istituti penitenziari, dott. Antonio Montuoro. Alla conferenza stampa, con Perri e Montuoro erano presenti il responsabile sanitario della Casa Circondariale, Luigi Cugnetto, e il responsabile dell’Istituto penale per i minori, Costantino Laface. "Dal 2008 ad oggi - ha spiegato Montuoro illustrando il rapporto del 2015 - tanto è stato fatto per garantire l’uguaglianza del diritto alla salute dei detenuti. Relativamente alla Casa Circondariale "Ugo Caridi" nella quale sono ospitati oltre seicento detenuti, l’Asp assicura attualmente un responsabile sanitario, 6 medici ex Sias, 6 medici di continuità assistenziale, 19 medici specialisti, 19 infermieri, oltre a tecnici della riabilitazione psichiatrica e fisioterapisti. Uno impegno davvero importante portato avanti con il fattivo contributo della direzione della Casa Circondariale "Ugo Caridi". Montuoro, si è quindi soffermato sui nuovi servizi di tele cardiologia, degli analizzatori di emocromo ed enzimi cardiaci e della possibilità per i detenuti di effettuare screening per il carcinoma del colon retto. Tutto ciò anche con la collaborazione dell’azienda ospedaliera "Pugliese-Ciaccio" con la quale l’Asp, in tale settore, mantiene un rapporto simbiotico. Potenza: studenti a scuola di... libertà, incontri nel carcere Gazzetta del Mezzogiorno, 1 giugno 2016 Con l’incontro con le detenute della sezione femminile della casa circondariale di Potenza, si è concluso il programma della terza edizione di "A scuola di libertà: le scuole imparano a conoscere il carcere", al quale hanno partecipato complessivamente oltre 110 alunni e docenti delle seconde, quarte e quinte classi degli Istituti di Istruzione Secondaria della città di Potenza: il Liceo Linguistico "Leonardo Da Vinci", l’Istituto Professionale Servizi per l’Ag ricoltura e lo Sviluppo Rurale "Giustino Fortunato" e l’Istituto Istruzione Superiore "Francesco Saverio Nitti". Durante l’incontro con le detenute, preceduto dagli interventi del Comandante Aldo Lista della casa circondariale di Potenza, del Commissario Arianna Bosso, della Responsabile dell’A re a Pedagogica Sonia Crovatto e dal Presidente della Conferenza Regionale Volontariato Giustizia Francesco Cafarelli, che hanno illustrato come si svolge la "giornata tipo" e le attività sia dei detenuti che degli operatori penitenziari e dei volontari, le alunne guidate dall’Educatrice Angela Benemia, dal Commissario Arianna Bosso, dall’Ispettrice Mariangela Tirico, dal Presidente dell’Associazione di Volontariato In e Out, Vincenza Ruggiero e dalla Prof.ssa Patrizia Spinillo, hanno svolto con le detenute il gioco del bingo. Le detenute sono state premiate con prodotti per l’igiene personale, forniti dal Panathlon International Club di Potenza. Nel primo dei tre incontri, quello presso l’Aula Magna del Liceo Linguistico Leonardo Da Vinci, con la partecipazione di oltre 120 alunni di tutti e tre gli Istituti Superiori, il Presidente della Conferenza regionale volontariato Francesco Cafarelli, dopo aver affrontato il problema della vittima del reato, ha spostato la riflessione dei partecipanti anche sul diritto agli affetti delle persone private della libertà personale, un diritto riconosciuto da tutti fondamentale e sostenuto da leggi e consensi, ma che in realtà non trova completa applicazione e necessita, in quanto fondamentale, di tutela. Al dibattito con gli alunni, seguito alla visione di filmati e condotto secondo modalità interattive e di comunicazione efficace, hanno preso parte, oltre a Cafarelli, le insegnanti Carmela Frammartino, Maria Rosaria Sabina, Milena Lasaponara, Assunta Tozzi e Gianni Marino dell’Ipsasr "G. Fortunato", Pasqualina Satriano e Rosa Rago dell’Iis Francesco Saverio Nitti, Patrizia Spinillo e Maria Rosaria Buccianti del Liceo Linguistico "L. Da Vinci", Veronica Gerardi dell’Associazione di Volontariato Aics Lucania Cpc, Giusy Loffredo dell’Asd Ludolandia. Il secondo incontro invece si è tenuto presso la sezione maschile penale. Gli alunni della quinta classe dell’Istituto "Giustino Fortunato" hanno scambiato idee ed emozioni sul pianeta carcere e giustizia, poi è seguito un incontro di calcio a 7 tra i detenuti e gli alunni che, tanto per cronaca, si è concluso con il risultato di parità: 7 a 7. Per l’occasione sono stati consegnati dall’Aics alla Casa Circondariale di Potenza completi da calcetto e palloni da calcio a disposizione dei detenuti. Con questa iniziativa, la Conferenza Volontariato Giustizia ha voluto mettere a confronto la società civile con le Istituzioni Penitenziarie e della Giustizia, con i detenuti, con gli operatori di giustizia e i volontari. Salerno: detenuti dell’Icatt di Eboli in scena per finanziare il loro periodico La Città di Salerno, 1 giugno 2016 Al "Ferrari" di Battipaglia la compagnia "Canne pensanti" formata dai ragazzi dell’istituto ebolitano, in collaborazione con l’associazione "Mi girano le Ruote", in scena per raccogliere fondi a sostegno del progetto di giornalismo sociale. Si alza il sipario all’Istituto "Ferrari" di Battipaglia. In scena i ragazzi dell’Icatt in collaborazione con l’associazione "Mi girano le Ruote". Passione, talento, determinazione: sono questi i tratti distintivi delle "Canne Pensanti", compagnia teatrale dell’Istituto a custodia attenuata per il trattamento delle tossicodipendenze, diretto dalla dottoressa Rita Romano, che sabato 11 giugno 2016 calcherà il palcoscenico del "Ferrari" con la commedia "Purchè sia purè", la cui regia è curata da un ospite dell’istituto, Massimo Balsamo. Promotrice dello spettacolo teatrale è l’associazione di promozione sociale "Mi Girano le Ruote", presieduta da Vitina Maioriello. Scopo della serata è raccogliere fondi a sostegno del progetto di giornalismo sociale curato da "Mi girano le Ruote" e dagli ospiti del’Icatt che ha portato alla nascita del periodico "Diversamente liberi". I giovani detenuti, sotto la guida dei volontari dell’associazione e della presidente Maioriello, frequentano assiduamente un laboratorio di giornalismo ed hanno costituito una vera e propria redazione tesa ad elaborare uno strumento di natura sociale confezionato dietro le sbarre. Attraverso di esso si vuole aiutare gli ospiti dell’ Icatt a voltare pagina, a scriverne una nuova per proporre una diversa lettura di se stessi e ricostruire un’identità forse persa. L’appuntamento è per sabato 11 giugno, alle 20 presso l’Istituto "Ferrari" insieme a "Mi girano le ruote" ed il partner più colorato del progetto "Diversamente Liberi", la Murga Los Espantapajaros, che aprirà la serata con la sua musica, colori ed allegria, "perché insieme - sottolinea la Maioriello - si è pronti a vivere intense emozioni". Per info sulla serata: 3314182348. Teramo: l’impegno della Chiesa evangelica in carcere "non cerchiamo dei proseliti" Il Centro, 1 giugno 2016 Il pastore Cosimo Angelo Bleve, ministro di culto della Chiesa evangelica di San Benedetto del Tronto e Teramo da circa 12 anni ogni giovedì si reca nella casa circondariale Le varie sezioni compresa quella femminile si incontrano in orari diversi per svolgere la funzione religiosa. Attualmente tra le varie sezioni ci sono circa 40 simpatizzanti. Spesso il ministro di culto è accompagnato dal volontario Giuseppe Giuliano per suonare con la chitarra, o da altri volontari che entrano in modo sporadico. Il canto gospel è stato spesso protagonista nelle mura del carcere grazie all’Asaf Gospel Choir formato dai membri della chiesa evangelica di Teramo e San Benedetto del Tronto, che negli ultimi anni ha portato un po’ di gioia a reclusi attraverso canto e testimonianze di vite. La lettura della Bibbia comunque è l’attività principale. Non si cercano proseliti o adesioni, ma il rinnovamento della persona, in linea con quanto prevede l’ordinamento penitenziario che definisce il carcere come un luogo di rieducazione. La Bibbia tratta gli uomini tutti allo stesso modo, tutti sono peccatori e hanno bisogno di conversione. La Chiesa evangelica grazie al lavoro svolto si è guadagnata la fiducia degli operatori del carcere aprendo le porte a vari volontari e dando la possibilità di svolgere seminari sulle violenze sessuali, sul perdono, la proiezione di film. L’associazione "Il germoglio", costituita nel maggio del 2012 è divenuta così il braccio operativo della Chiesa evangelica. Da alcuni anni la signora Margita D’Eugenio, volontaria dell’associazione "Il germoglio", si occupa costantemente del magazzino che distribuisce in maniera gratuita vestiario, indumenti intimi, saponi e shampoo ai reclusi che hanno bisogno. La signora Margita, inoltre, insieme ad altri volontari si occupano di accompagnare i detenuti in permesso premio. L’associazione organizza progetti di lavoro e volontariato all’esterno per permettere ai detenuti di uscire dal carcere e riabilitarsi con la società. La Chiesa evangelica non smette di lavorare anche quando i detenuti sono messi in libertà. Infatti vari sono i detenuti che frequentano la chiesa di San Benedetto grazie anche alla casa di accoglienza Filemone nella città di Tortoreto. "La religione ci aiuta a guardare avanti" Le testimonianze di chi inizia un percorso di fede a Castrogno: "Un conforto e una speranza per noi reclusi". Mi chiamo F.S.. Ho 46 anni, sposato mi trovo in carcere dal 2006 per gli errori commessi in un momento buio della mia vita. In carcere ho riflettuto tanto sulla mia vita precedente e grazie alla mia famiglia, all’istituzione carceraria ho intrapreso un percorso, anche spirituale, che mi ha portato a cambiare completamente. La detenzione comporta una serie di privazioni, tante sofferenze, ma soprattutto tanti rimpianti. La sofferenza si affronta con una grandissima forza d’animo, ma i rimpianti... tra di essi c’è la scuola. Da quando sono in questo istituto però ho avuto l’opportunità di frequentarla. Se nell’adolescenza avessi avuto la stessa dedizione e passione per la conoscenza, probabilmente la mia vita sarebbe stata diversa. La gioia più grande della mia vita ora, però ,è il mio percorso spirituale, il mio avvicinamento a Dio, avvenuto due anni fa, grazie ad un detenuto che non smetterò mai di ringraziare. Mi accompagnano in questo percorso un volontario Luciano Limoncelli e padre Joseph. Mi sento come se fosse caduta una trave dai miei occhi e vedessi per la prima volta cosa è il bene e cosa è il male. Ogni giorno ringrazio Dio che, tramite il sacerdote mi accoglie quotidianamente e mi perdona, soprattutto mi ha ridonato la gioia di vivere, offrendomi una seconda possibilità. La gioia che sento interiormente è mille volte più grande della sofferenza , sono più comprensivo e più disponibile verso gli altri detenuti, cerco di trasmettere agli altri ciò che ho avuto io. Vivo serenamente anche il rapporto con i miei familiari, ai quali trasmetto la mia gioia interiore. Quando uscirò dal carcere il mio desiderio più grande è quello di trovare un lavoro onesto per poter ricompensare i sacrifici e le sofferenze che ho provocato ai miei familiari per gli errori commessi e riscattarmi ai loro occhi. Alle persone libere vorrei dire che la libertà è un bene immenso che ci è stato donato e bisogna apprezzarlo, custodirlo e che la vita è un bene prezioso che va speso per fare del bene, per essere misericordiosi verso i più deboli e i più bisognosi . Mi chiamo V.M. e sono detenuto nel carcere di Castrogno, dove sto studiando la Bibbia con i Testimoni di Geova. A dire il vero studiavo con i Testimoni di Geova quando ero ragazzo insieme alla mia famiglia. Pensando a quei momenti mi torna in mente quanto fosse bello vivere certe esperienze con la mia famiglia. Poi iniziai a frequentare cattive compagnie che col passare del tempo mi hanno portato a fare quello di cui oggi non sono fiero. Questo è il mio grande rammarico, ed è per questo che ho iniziato di nuovo a studiare la Bibbia. Oggi mi sento bene con me stesso, trovo la forza per andare avanti, e il mio desiderio, una volta finito di scontare la pena, è quello di continuare ciò che avevo lasciato da giovane, appunto continuare a studiare la Bibbia ed inserirmi di nuovo tra i testimoni di Geova Mi chiamo Idioza Monday, sono detenuto nella casa circondariale di Castrogno e da due anni ho iniziato a studiare la Bibbia con i Testimoni di Geova. Sono sempre stata una persona religiosa che frequentava la chiesa. Da quando sto studiando la Bibbia sto imparando a mettere in pratica i consigli biblici, che mi stanno aiutando a capire i veri valori della vita, come la famiglia e il rispetto degli altri. Mi rendo conto solo ora che se avessi riflettuto prima su ciò che dice la Bibbia, non avrei commesso i reati per cui sto scontando ora questa pena. Ho capito che vedevo la vita da un altro punto di vista, ora invece sto capendo i miei errori, proprio con l’aiuto della lettura e della riflessione, pertanto ringrazio tutti coloro che mi stanno aiutando a cambiare il modo di vivere. Sono Giuseppe Emidio Di Tillio ed anch’io sono recluso nella casa circondariale di Castrogno. Anch’io porto la mia testimonianza insieme ai testimoni di Geova iniziata nel 2009 con lo studio della Bibbia. La sua lettura attenta mi ha portato a scoprire un mondo nuovo, mi ha insegnato a vivere. Conoscere le verità della Bibbia mi rende une persona felice, perché mi aiuta a vivere seguendo valori e atteggiamenti positivi che prima non conoscevo o non volevo riconoscere. Grazie a questa lettura attenta e continua riflessione ho ritrovato la pace interiore. Sono Victoria Ofebe, vengo dall’Africa, Nigeria, sono l’ultima di sette fratelli e sono in Italia da 23 anni, da 4 anni sono in carcere per sfruttamento della prostituzione, anche se mi reputo innocente. La Bibbia mi ha aiutato in tanti modi, a capire la gioia, la pazienza, l’amore, soprattutto l’amore. Mi ha insegnato l’amore e il perdono, e sono sicura che l’amore mi farà uscire dalla prigione. Mi dà la forza per andare avanti; infatti quando penso alla mia triste vicenda sono arrabbiata, mi chiudo in me stessa, non sopporto nessuno. Leggendo alcuni versetti della Bibbia ritrovo serenità e tranquillità. Continuerò a studiarla perchè è la mia parola di vita, ho fede nella giustizia divina, ho fiducia in Dio, nella sua bontà, l’unica fonte di pace e di forza interiore per andare avanti. La Bibbia allontana da me brutti pensieri, mi ha cambiata in meglio, è la mia libertà. Mi chiamo Rodriguez Diaz, vi voglio parlare della mia esperienza in carcere: qui la convivenza e i rapporti sono molto difficili, spesso generano sofferenza. Si può affrontare la sofferenza cercando di sfruttare le poche possibilità che il carcere offre: la religione, il lavoro manuale in cella, il lavoro nell’istituto. Io oltre al lavoro, ringrazio tanto il cielo perchè ho avuto il tempo e la fortuna per scoprire Geova. Sono fedele ad un Dio invisibile che però si è manifestato attraverso dei segni per me importanti, la mia famiglia vicino e il mio cambiamento interiore. Mi sento di essere tornato alla vita. Mi chiamo Alfredo Nisi e sto scontando una pena nel carcere di Teramo. Ho vissuto la mia vita come vagabondo è sempre pieno di me stesso. Durante il mio percorso carcerario ho cercato di rivedere la mia vita, soprattutto pensando alla mia famiglia Al mio arrivo nella casa circondariale di Teramo un detenuto, una vecchia conoscenza della mia vita precedente, mi ha invitato a partecipare all’incontro della chiesa evangelica nella cappella del carcere. Da allora, ogni giovedì, aspetto con desiderio di partecipare all’incontro o di avere un colloquio con il pastore Bleve. Piano piano mi sono ritrovato a contatto con una realtà a me sconosciuta. Avevo sempre sentito parlare di Dio, ma il mio credere era altalenante, soprattutto a causa della vita che conducevo. Attraverso questi incontri ho imparato ad avvicinarmi a Dio in modo diretto. Mi è stato insegnato a pregare parlando direttamente con Dio e devo dire che funziona. Ogni sera e ogni mattina rivolgo a Dio una preghiera, a volte anche in dialetto napoletano, e mi sembra che Dio mi capisca. Negli ultimi tempi Dio mi sta rispondendo in modo miracoloso, ogni volta che parlo con lui accade quello che ci siamo detti. Nel tempo mi sono visto cambiato, è caduto quel sorriso di superiorità nei confronti degli altri. Prima mi sentivo spento mentre ora sprizzo gioia e sono capace di relazionarmi con gli altri. La vita sta cambiando, ho iniziato a frequentare la scuola incoraggiato dall’area educativa e dall’insegnante Giuseppina. Non so cosa accadrà ancora, ma adesso che ho imparato a pregare e ho visto che Dio risponde mi sento più tranquillo e vedo una luce all’orizzonte. Palermo: Vivicittà al Pagliarelli, il recupero sociale passa anche dallo sport blogsicilia.it, 1 giugno 2016 Si è svolta ieri mattina presso la Casa circondariale Pagliarelli di Palermo, una camminata ludico-motoria inserita nel quadro del Vivicittà 2016, manifestazione podistica organizzata dall’Uisp, che si è disputata lo scorso 3 aprile in 45 città italiane e 9 all’estero. A Palermo, il Vivicittà quest’anno ha rappresentato un importante appuntamento di "sport per tutti", al quale hanno preso parte in migliaia. Circa 2.800 gli iscritti alla camminata ludico motoria, con una grande presenza di bambini accompagnati da genitori e parenti, mentre oltre 900 sono stati gli atleti impegnati nella competitiva. Come già avviene in altre città italiane, la Uisp di Palermo insieme alla Uisp Sicilia, hanno voluto "trasferire" l’esperienza del Vivicittà, all’interno di una casa circondariale, in particolare quest’anno quella del "Pagliarelli". Obiettivo, promuovere lo sport all’interno di una realtà che necessita di una particolare attenzione, per contribuire al recupero sociale delle persone. A dare il via alla camminata, la direttrice del carcere Francesca Vazzana; in tutto 45 i detenuti coinvolti, chi correndo, chi "al passo", si sono cimentati su un percorso di 3 chilometri. Alla cerimonia di premiazione hanno preso parte, tra gli altri, agli agenti della polizia penitenziaria, il loro Comandante Giuseppe Rizzo, il Presidente della Uisp Sicilia Fabio Maratea, il Commissario della Uisp Palermo Manuela Claysset e il Commissario della lega Atletica leggera Aldo Siracusa. Sono stati premiati i primi tre classificati, nell’ordine Giacomo La Rosa, Maurizio Picone e Daniele D’Angelo. Riconoscimenti anche al più giovane, Salvatore Monaco e al meno giovane del gruppo, Gaspare Leone. La manifestazione, che ha visto la preziosa collaborazione della Dott.ssa Puleo e di coloro che sono impegnati per il recupero sociale dei detenuti, è stata sicuramente un punto di partenza per dare giusta continuità (nel futuro) alla collaborazione tra l’Uisp e la casa circondariale dei Pagliarelli. Radio Carcere-Radio Radicale, di Riccardo Arena: "Carcere & Psicofarmaci?" Ristretti Orizzonti, 1 giugno 2016 A Poggioreale sono 740 i detenuti che assumono psicofarmaci o che sono malati di mente. A seguire: "Ciao Marco!" - I detenuti salutano Pannella con le loro lettere. Link: http://www.radioradicale.it/scheda/476576/radio-carcere-carcere-psicofarmaci-a-poggioreale-sono-740-i-detenuti-che-assumono Televisione. Sì, Gomorra in tv è il male, ma spinge a cambiare di Ilda Boccassini* La Repubblica, 1 giugno 2016 È già successo al Padrino di Francis Ford Coppola e al Romanzo criminale tratto dal libro di Giancarlo De Cataldo. Quando il crimine va in scena, puntuale si leva il coro di polemiche sul pericolo dell’emulazione. Ora il dibattito si scatena su Gomorra, la serie tv ispirata al libro di Roberto Saviano. La serie tratta da Gomorra ha riaperto il dibattito tra il bene e il male e il modo giusto per rappresentarlo. L’ideatore Roberto Saviano (che ne ha anche scritto i soggetti di serie e di puntata) è bersaglio di critiche violente e ingiustificate, dettate, a mio giudizio, anche da una non simpatia per l’uomo piuttosto che per il lavoro che svolge. Invidia? Gelosia? Sì, ma anche altro, purtroppo. Si dimentica che stiamo parlando di un uomo di 37 anni che a soli 26 è stato proiettato su un palcoscenico mondiale e nello stesso tempo "ingabbiato" senza avere scelto e preparato l’uno e l’altro. Costretto a vivere lontano dalla sua città e per lunghi periodi dal suo Paese, in questi dieci anni ha continuato a parlare e scrivere della sua terra con amore e rabbia, mai con rassegnazione. Il mio vissuto è diverso da quello di Roberto, non fosse altro per l’età, 67 a fronte di 37; però la vita ha messo entrambi di fronte alle sfaccettature del male. Ho dovuto lasciare Napoli 37 anni fa, vincitrice del concorso in magistratura, al momento della scelta delle sedi nessuna mi consentiva di rimanere a Napoli e dintorni. Scelsi Milano dove tutt’ora vivo e dove ho svolto quasi per intero la mia carriera. Ma in tutti questi anni sono rimasta visceralmente legata al sud, a Napoli, con un rapporto ambiguo, difficile, rabbioso e a volte logorante. Il mio lavoro mi ha costretto a confrontarmi con il male direi quasi quotidianamente e non sempre è stato facile capire se il bene "percepito" era reale e non il contrario; a volte ho vacillato schiacciata dalla cattiveria degli uomini, spesso mi sono stupita che il "cattivo" per definizione era meglio del buon cittadino. L’esperienza in Sicilia è stata devastante, la morte di Giovanni Falcone ha condizionato la mia vita, ma non guardo mai indietro, anche se la scelta di andare ad occuparmi della sua morte mi ha fatto toccare con mano il male assoluto e non solo quello dei mafiosi, fatti che mi porto dentro e che mi hanno segnato per sempre. Quando vacillo mi viene in soccorso proprio lui, Giovanni Falcone, la sua sapienza, la sua integrità, il suo coraggio di uomo normale. Rileggo i suoi scritti e faccio miei i suoi insegnamenti. Così scriveva Giovanni: "Ho imparato che ogni atteggiamento di compromesso - il tradimento o la semplice fuga in avanti - provoca un sentimento di colpa, un turbamento dell’anima, una sgradevole sensazione di smarrimento e di disagio con se stessi. L’imperativo categorico dei mafiosi di "dire la verità" è diventato un principio cardine della mia etica professionale, almeno riguardo ai rapporti importanti della vita. Per quanto possa sembrare strano la mafia mi ha impartito una lezione di moralità. Questa avventura ha reso più autentico il mio senso dello Stato. Confrontandomi con lo "Stato mafia" mi sono reso conto di quanto esso sia più funzionale ed efficiente del nostro Stato e quanto, proprio per questa ragione, sia indispensabile impegnarsi al massimo per conoscerlo a fondo allo scopo di combatterlo. Se vogliamo contrastare efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia...". Giovanni Falcone esortava ad analizzare il male, mettendo a confronto l’uomo comune e il mafioso, sottolineando che solo per quest’ultimo è basilare la cultura dell’appartenenza e la fedeltà a valori fondamentali: dignità, rispetto, onore, solidarietà. Valori per i quali i mafiosi sono disposti a morire. Di come Giovanni Falcone sia stato osteggiato in vita, invidiato per la sua intelligenza ed emarginato dalla magistratura che lo considerava e lo considera un corpo estraneo, non voglio spendere una parola: restano il suo lavoro, le sue analisi per chi ha voglia di capire. Anche la serie di Gomorra ci mette in guardia contro il male, ci spinge contro un muro, non ci fornisce alibi (tanto c’è il poliziotto buono, il pm antimafia, i preti antimafia etc...), ci costringe a guardarci dentro. Saviano (e gli autori che insieme a lui hanno scritto la sceneggiatura) ha capito che solo partendo dal male assoluto, dall’assenza di bene, può nascere il motivo autentico di rinnovamento. Ci invita a guardare con occhi sgombri da preconcetti e false ipocrisie e cioè che la realtà del sud, di Napoli, di Secondigliano, di Scampia... è anche quella rappresentata da Gomorra. Il degrado urbano non nasce dalla serie, preesiste. La capigliatura di Genny e degli altri giovani personaggi siamo abituati a vederla da anni non solo nei quartieri, nei rioni di Scampia, ma al Nord, in America, così come l’abbigliamento degli attori: Gomorra riproduce la realtà, altro che rischio di emulazione. Rappresentare il male non significa infangare il sud. Anzi, lo spirito della serie è proprio quello, lo ripeto, di rappresentare il male in tutte le sue sfaccettature per arrivare al rinnovamento. Non sarà certo la serie televisiva a scalfire la bellezza della mia città, della sua cultura, della sua storia, di cui tutti siamo fieri e orgogliosi. Non c’è bisogno di rappresentare il bene, perché sappiamo che esiste anche se a volte e troppo spesso il "buono" si è tramutato in "malamente" per opportunismo, ambizione, carrierismo e questo sì che fa male, altro che Gomorra. Ecco perché io sto dalla parte di Gomorra, che indaga il male per superarlo. Sono grata a Saviano che ci sta provando, riconoscente verso Stefano Sollima (e gli altri registi) e gli attori che si sono assunti una responsabilità immensa e lo hanno fatto con consapevolezza e talento. Tutti loro hanno avuto un coraggio nient’affatto scontato: hanno messo in scena il male e lasciato a noi il compito di decidere dove sta il bene. Guardiamo dunque avanti e liberiamoci dai falsi moralismi. *L’autrice è procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Milano Cinema. "Il permesso", quattro detenuti per Claudio Amendola rbcasting.com, 1 giugno 2016 Concluse le riprese de "Il permesso", film diretto ed interpretato da Claudio Amendola con Luca Argentero, Giacomo Ferrara e Valentina Bellè. Dopo sei settimane di lavorazione in tre diverse città italiane - Roma, Pescara e Latina - si sono concluse sabato le riprese de "Il permesso", film che Claudio Amendola ha diretto ed interpretato con Luca Argentero, Giacomo Ferrara e Valentina Bellè. Prodotto dalla CBFilm di Claudio Bonivento e Federico Carniel, "Il permesso" è tratto da un soggetto di Giancarlo De Cataldo che ne ha poi scritto la sceneggiatura con Roberto Jannone e Claudio Amendola e racconta quattro storie vere di detenuti, tre uomini e una donna, ai quali viene concesso dal Giudice di Sorveglianza un permesso di uscita dal carcere, della durata di 48 ore. I protagonisti sono Claudio Amendola nel ruolo di Luigi, Luca Argentero in quello di Donato, mentre Giacomo Ferrara e Valentina Bellè sono Angelo e Rossana. Il direttore della fotografia è Maurizio Calvesi, lo scenografo è Paki Meduri, il montaggio di Roberto Siciliano. "Il permesso" è un film corale ed è la storia di quattro detenuti durante le loro 48 ore di permesso che racconta la realtà di ciascuno di loro e di come questa li ha portati al carcere. I personaggi di questa storia sono raccontati con realismo, con le loro contraddizioni, le loro paure, la loro disperazione, la tentazione della fuga, ma il perno del film è nella sincerità dei sentimenti positivi di ciascuno di loro: l’amore di un padre per il figlio, l’amore per una donna, per gli amici, ma soprattutto la ricerca di una dignità personale e di un orgoglio perduti o forse mai esistiti. Quattro personaggi di età ed estrazione sociale differenti, tre uomini e una donna: Luigi, Donato, Rossana e Angelo. Luigi, cinquantenne, condannato per duplice omicidio è stanco e cerca pace, troverà la forza di agire solo grazie al desiderio di dare a suo figlio una vita diversa. Donato, 35 anni, è un condannato innocente e sta scontando la pena per coprire il vero colpevole. La rabbia lo porterà a cercare vendetta contro chi lo ha costretto al carcere e alla lontananza dalla donna che ama. Rossana, 25 anni, figlia di una diplomatica, arrestata per traffico internazionale di stupefacenti. Non si è mai adattata a una vita già disegnata. La sua ribellione l’ha portata all’opposto di quello che la sua famiglia voleva per lei. Angelo, circa 25 anni, è un ragazzo di borgata condannato per rapina, in carcere studia e tenta di costruirsi una nuova vita spinto dalla voglia di riconquistare la sua ex-fidanzata. Queste quattro storie si intrecceranno tra loro, in una ricerca intima dell’animo dei personaggi, contagiata e scossa dalla potenza dell’azione intorno ad essi. Unhcr: migranti, nel Mediterraneo 880 morti in una settimana, rotta Libia-Italia letale di Paolo Gallori La Repubblica, 1 giugno 2016 Diffusi i dati dell’Alto Commissariato Onu. Dall’inizio dell’anno i morti sono 2510, nello stesso periodo del 2015 erano 1855. La navigazione dal Nord Africa verso le coste italiane costata la vita a 2119 persone. Arrivati in Europa via mare in 203.981: tre quarti in prevalenza profughi siriani e afgani sbarcati in Grecia dalla Turchia prima dell’accordo tra Ankara e Ue, 46.714 migranti dall’Africa sub-sahariana giunti in Italia. L’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr) ha diffuso nuovi dati relativi alle vite umane inghiottite dal Mediterraneo la scorsa settimana a seguito dei ripetuti naufragi dei barconi carichi di migranti. Il bilancio, secondo l’agenzia Onu, è più pesante delle circa 700 persone annegate sin qui accertate: sulla base di informazioni tratte dai colloqui con i sopravvissuti, l’Unhcr aggiorna a 880 il numero di quei morti. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) stima addirittura più di mille vittime. Dall’inizio del 2016, le persone decedute nel tentativo di arrivare in Europa via mare dall’Africa o dalla Turchia sono 2510. Cifre che inducono il portavoce dell’Unhcr, William Splinder, a definire l’anno in corso "si stia rivelando particolarmente letale" per le rotta migratorie che passano dal Mediterraneo. Il paragone con il 2015 è immediato: nei primi cinque mesi dello scorso anno, le vittime delle migrazioni via mare erano 1855. Quest’anno, prosegue il dossier Onu, si sono imbarcate per l’Europa 203.981 persone. Per circa tre quarti in prevalenza profughi siriani e afgani che hanno compiuto la traversata dalla Turchia alla Grecia prima della fine di marzo, quando è entrato in vigore il controverso accordo Ue-Turchia che ha rallentato il flusso. Mentre 46.714 persone, soprattutto migranti dall’Africa sub-sahariana, costituiscono il flusso dalla Libia all’Italia, quasi lo stesso numero registrato l’anno scorso, come rilevato anche dal premier Matteo Renzi nella sua eNews. Ma il dato sulla traversata dal Nord Africa all’Italia rivela quanto essa sia la più pericolosa: vi hanno perso la vita 2119 persone sulle 2510 totali. Una spiegazione, osserva l’Unhcr, risiede nel fatto che dalla Libia partono imbarcazioni quasi sempre sovraccariche, vi trovano posto a bordo anche più di 600 persone, situazione non riscontrabile sulla rotta Turchia-Grecia. Più delle condizioni del Mar di Sicilia, sarebbe dunque l’assenza di scrupoli e la volontà di lucrare al massimo dei trafficanti di esseri umani a rendere la navigazione precaria e spesso tragica. Riguardo i tre naufragi noti da domenica scorsa, l’Unhcr ha appreso "dalle persone che sono arrivate ad Augusta in questo fine settimana, che altre 47 persone risultano disperse dopo che un`imbarcazione gonfiabile, partito dalla Libia con a bordo 125 persone, si è sgonfiata. Altre persone hanno riferito della scomparsa in mare di ulteriori otto persone che si trovavano su un’altra imbarcazione, e sono stati inoltre segnalati quattro morti a causa di un incendio divampato su ancora un’altra barca". Secondo le informazioni raccolte, l’Unhcr al momento si ritiene che la maggior parte delle imbarcazioni provenienti dalla Libia sia partita dall’area di Sabratah, a ovest di Tripoli. I sopravvissuti hanno raccontato di centri di raccolta e smistamento di migranti attivi in vari luoghi lungo la rotta che dall’Africa occidentale porta alla Libia, in particolare in Niger. Centri dove gli esseri umani rimangono per diversi mesi prima di essere imbarcati per l’Europa. Dalle testimonianze sono emersi molti racconti dei traumi subiti da donne violentate durante il viaggio o addirittura oggetto di traffico. "Alcune - spiega il portavoce Splinder - ci hanno raccontato di essere state ridotte in schiavitù sessuale in Libia". Si segnala anche un aumento negli arrivi di minori non accompagnati. Al momento, l’Unhcr non riscontra evidenze di un cambio di rotta significativo da parte di siriani, afgani o iracheni rispetto all’itinerario turco-greco a favore di quello del Mediterraneo centrale. Dove nigeriani e gambiani restano prevalenti, mentre somali ed eritrei, più comunemente associati ai movimenti di rifugiati, costituiscono rispettivamente il 9 e l’8% del flusso. Il portavoce dell’Unhcr conclude la disamina del fenomeno reiterando l’appello all’Ue perché stabilisca vie attraverso cui i rifugiati possano raggiungere l’Europa in modo legale, ed evidentemente più sicuro, definendo infine "vergognoso" che i Paesi dell’Unione abbiano proceduto al ricollocamento di meno di 2mila persone quando il piano annunciato lo scorso anno ne prevedeva 160mila. Intanto l’Unione europea interviene per stigmatizzare i ritardi nella distribuzione dei migranti: "Il ritmo della ricollocazione deve accelerare o la Commissione farà scattare procedure di infrazione", ha detto la portavoce, Mina Andreeva. Per questo, continua, "abbiamo mandato lettere di avvertimento" ai governi e "se necessario, non ci vergogneremo di esercitare i nostri poteri come guardiani dei trattati". All’Italia intanto la Commissione chiede chiarimenti legali ed operativi sugli hotspot. Migrati. Sgomberi a Ventimiglia, l’amara beffa della Storia di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 1 giugno 2016 "Potete non crederci, ma le migliori guide per passar il confine tra Italia e Francia, coloro che sanno gli anfratti di ogni monte, l’orario di ogni ronda, le novità di ogni comando di polizia, non sono ventimigliesi ma calabresi". Lo scriveva il 17 aprile 1953, sul Popolo, Giuseppe V. Grazzini, raccontando di immigrati dalla Calabria che, dopo aver passato clandestinamente il confine sui monti tra Ventimiglia e Mentone, avevano capito che quel mestiere di "passeur di clandestini" poteva essere fruttuoso. Molto fruttuoso. Ed è davvero un amaro scherzo della storia che il sindaco di Ventimiglia appena costretto dalle pressioni dei concittadini a sgomberare i clandestini parcheggiati nel suo comune, si chiami Enrico Ioculano. È calabro, il cognome. Originario dell’Aspromonte. E dice che probabilmente anche la sua famiglia ha avuto una storia di emigrazione. Perciò parla d’una scelta sofferta: "Noi non siamo quelli degli sgomberi, ci impegniamo per risolvere una questione umanitaria ma così non si può andare avanti, per noi e per i migranti". Chissà se gli stranieri decisi a raggiungere a ogni costo la Francia sanno che di lì, mezzo secolo fa, passavano gli italiani. Arrampicandosi in montagna per sfuggire ai carabinieri. Rischiando di precipitare nel vuoto al Passo della Morte, un punto pericolosissimo lungo il cammino della speranza che portava al Picco del Diavolo. L’ultimo italiano a cadere nel vuoto, per essere trovato la mattina dopo dal cane al guinzaglio del signor Fernand Delrue che passeggiava nel giardino della sua villa ai piedi della parete a strapiombo, si chiamava Mario Trambusti, aveva 26 anni, era un panettiere fiorentino. Era la notte di Capodanno del 1962. E lui era l’87° emigrante italiano morto al Passo della Morte prima che ci si sfracellassero curdi e rumeni, slavi e cinesi per una contabilità che arriverà a superare le 250 vittime. Qualche tempo prima era volata giù Rossana Orru, una ragazza sarda di 24 anni. Il "volo dei fenicotteri", lo chiamavano. E la fine arrivava quando ormai pareva fatta. "Il clandestino è portato a valutare solo le difficoltà della salita e non della discesa: la discesa è già Francia", scriveva Grazzini, "La discesa è già pace, lavoro, denaro. Viceversa è proprio la discesa, improvvisa, spaventosa, a piombo dopo aver doppiato la sottile lama di coltello della roccia, che ha dato purtroppo fondatamente il nome di morte a questo valico maledetto". La polizia blocca la marcia dei migranti di Maurizio Pagliassotti Il Manifesto, 1 giugno 2016 La protesta silenziosa dei 150 migranti in attesa di una destinazione. L’incubo è la Turchia. Nelle storie dei migranti di Ventimiglia c’è il moto perpetuo del loro peregrinare, il propellente che non li fermerà mai. Il posto di blocco dei francesi, i poliziotti italiani in assetto anti sommossa, l’indifferenza dei più e l’astio dei pochi, non sono che piccole, insignificanti tappe di un lungo calvario. Donne e uomini che parlano di bombe, razzie, stupri di massa, carestia, mancanza di acqua, barconi affondati e cimiteri di mare, apparentemente non provano nulla di fronte all’ennesima difficoltà del loro lungo viaggio che li porterà in un posto qualsiasi del mondo, con ogni probabilità migliore del luogo da cui sono fuggiti. "Diteci dove dobbiamo andare", ripetono. Il caso ha voluto che questi centocinquanta fra uomini, donne e bambini, giungessero a Ventimiglia. Il caso, perché loro non hanno idea di dove sia questa colorata località rivierasca: sanno solo che è vicina alla Francia, e la Francia e vicina all’Inghilterra. Due paesi che sono terre promesse, dove trovare amici, parenti, lavoro, normalità. Nel salone della chiesa di san Nicola, una struttura dall’architettura dura e spigolosa, nella notte di lunedì hanno deciso in un’assemblea che una marcia verso il confine poteva sensibilizzare animi anestetizzati. I migranti non capiscono il perché di questi blocchi in un’Europa che si dice priva di frontiere. Il resto, l’agitarsi per centocinquanta persone, è puro melodramma italo francese. Era sufficiente vedere lo striscione con cui ieri i migranti hanno attraversato le vie della cittadina ligure: un lenzuolo bianco, recante alcune scritte che invocavano i "fratelli e le sorelle ad aprire i confini in nome dei settecento morti annegati negli ultimi giorni". Sotto il primo caldo dell’anno, vestiti con giacconi invernali, sono partiti dalla parrocchia di padre Francesco, il missionario che due sere fa aveva aperto le porte della sua chiesa. Un corteo silenzioso, pacifico, che non voleva andare da alcuna parte, perché il confine francese dista quattro chilometri dal centro di Ventimiglia. Hanno percorso solo poche centinaia di metri, poi il passo del corteo ha trovato l’azzurro insormontabile dei reparti anti sommossa della polizia. Un’estetica tragicomica: in una stretta via di Ventimiglia un esercito vero fermava un esercito di derelitti digiuno, perché intento a fare lo sciopero della fame. Corpi prestanti, protetti da scudi, caschi, manganelli, di fronte a pantaloni lisi giubboni di lana, ciabatte da spiaggia. Una protesta priva di protesta, silenziosa, senza tensione, il tentativo di urlare al mondo "siamo qua, esistiamo. Non potete far finta di non vederci. Diteci dove dobbiamo andare". Ma nell’apatia generale il plotone dei migranti era prettamente ignorato dai più, perché ormai diventati parte dell’arredo urbano con cui si convive. Lontani dalle spiagge, relegati in vie secondarie: Ventimiglia non si scompone di fronte a un fenomeno ormai strutturale. Molti si angosciano, tanti portano vestiti, merendine, acqua, sapone e scarpe. Altri non vedono, ciechi. Nelle lunghe ore di stallo è stato più volte intimato ai profughi di tornare indietro, perché rischiavano l’identificazione e l’allontanamento forzato. Alcuni si sono spaventati: gira tra questi uomini e queste donne una nuova paura, dopo le infinite da cui sono scappati. Quella di essere imbarcati su una nave e spediti in un campo di prigionia in Turchia o Libia. Utilizzano questa frase "don’t want to be a prisoner in Turkey", non voglio essere un prigioniero in Turchia. Questa prospettiva, ricorrente, è temuta più della fame, dei colpi della polizia, del girovagare senza meta e senza scopo. E la voce gira, si inspessisce come una leggenda: amici finiti in Turchia a fare gli schiavi, rispediti indietro con il beneplacito dell’Europa. Di nuovo il mare da attraversare, per tornare indietro. Testimonianze dirette non ci sono, ma rimane l’incubo che da Ventimiglia si possa partire alla volta di un vero inferno. Poi la stanchezza prevale abbracciata alla paura, l’armata dei migranti sa che il loro cammino è partito da molto lontano e terminerà molto lontano: nel tempo e nello spazio. Di fronte al forte dell’Annunziata, fuori dal centro storico, non è accaduto nulla. Tornano indietro, verso il loro terzo approdo: dopo il ponte sul fiume Roja, il cortile e il porticato della parrocchia di padre Francesco, giunge il tempo della Caritas. L’obbiettivo delle istituzioni italiane è allontanare i profughi dal confine; portarli sempre più verso est, lontano anche da stazioni ferroviarie di confine e soprattutto dai sentieri che scavalcando le impervie montagne liguri che si buttano a mare, e che scavalcano i posti di controllo italiani e francesi. La Caritas fornirà un pasto per la serata, mentre per il pernottamento l’attivismo del vescovo Antonio Suetta rende disponibili il seminario di Bordighera e la chiesa di Roverino. Domani il pellegrinaggio dell’armata dei migranti riprenderà, in attesa di sapere dove andare. Femminicidio. La tragedia di Sara. Non possiamo passare ad altro di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 1 giugno 2016 Buio era ed è il paesaggio attorno a lei. Dove non è tutto a posto. Dove nelle nostre famiglie crescono uomini che sembrano prigionieri di un codice che lavora nell’oscurità dei corpi e delle teste, che pretende possesso e chiama alla violenza. A volte - quando parli di "diritti delle donne", di quello che ancora non va in Italia - senti che attorno c’è una diffidenza nuova. Molti pensano che sia tempo di cambiare argomento, qualcuno lo dice apertamente. Meglio affrontare altre emergenze, discutere di altri diritti calpestati nel mondo. In fondo le donne hanno ottenuto tanto, anzi: tutto, come era giusto. Per questo parlarne è noioso, è un rito che si ripete per inerzia, non per necessità: i diritti delle donne sono acquisiti, scritti, inchiodati sulle mura delle nostre città e case. E a questo punto, se qualcuna non ce la fa, "è una questione di volontà". Forse non ti sei impegnata abbastanza. Lo dimostrano le storie di chi dirige imprese, vola su un’astronave, siede in Parlamento. Racconta Lorella Zanardo - che dai tempi del documentario su Il corpo delle donne attraversa tante scuole d’Italia con il suo passo di femminista gioiosa - come durante un incontro in università sia stata proprio una studentessa a invocare un cambio di contenuti: basta lezioni sul femminicidio, che è una cosa tremenda e inaccettabile, certo, ma noi siamo altro. Noi non siamo vittime, siamo forti, piene di progetti e di conquiste da raccontare. Poi leggi di Sara. Della sua energia, del suo desiderio di muoversi senza paura. Era una vittima predestinata Sara? Una ragazza di quelle non forti, con poca consapevolezza, una che ha scelto il fidanzato sbagliato o anche solo la strada sbagliata una domenica notte? No, Sara era una giovane donna come altre. Che sono fiduciose, che vogliono andare a vedere, andare avanti, cadere, rialzarsi, continuare, conoscere se stesse, mettersi alla prova, contare su di sé e sugli altri, sperare nella fortuna. Le cose - grandi, piccole - della vita. Non se l’è cercata, come incredibilmente viene ancora detto, scritto, pensato tra le righe. Ha avuto una storia che si è spaccata e ha cercato di uscirne, di sottrarsi alle ossessioni di un uomo che non sopportava i suoi no, che non sapeva amarla. E che domenica notte voleva punirla per aver abbandonato il territorio che lui aveva tracciato per loro, per sé. Il suo territorio. Sarebbe un sogno non dover più parlare di "violenza domestica", non dover più usare una parola come "femminicidio", che il computer ancora stenta a riconoscere e ogni volta è un nodo alla lingua. Come sarebbe un sogno non dover più registrare "il lieve aumento" delle donne che non riescono a tornare al lavoro dopo la maternità. Un sogno non doversi chiedere, ancora prima, come mai nei cinque anni successivi alla laurea le ragazze - rispetto ai coetanei maschi - vedano restringersi le chances di trovare un contratto e di essere remunerate secondo la media. Anche se erano studentesse migliori dei compagni. Davvero è tutto a posto? Il lavoro, il rispetto, il linguaggio? Abbiamo risolto - o almeno quasi risolto - ogni asimmetria culturale, corretto le leggi inefficaci, portato in pari le quote e le libertà, imparato il valore radicale della condivisione? Possiamo, finalmente, passare ad altro? Sara - romana, studentessa di economia, lavoratrice d’estate, ballerina, era una giovane donna italiana che tornava a casa, di notte, sull’auto della madre dopo aver incontrato il suo nuovo compagno. Quello buio era ed è il paesaggio attorno a lei. Dove non è tutto a posto. Dove nelle famiglie - le nostre famiglie - crescono uomini che sembrano prigionieri di un codice resistente ai cambiamenti, un codice che lavora nell’oscurità dei corpi e delle teste, che pretende possesso e chiama alla violenza. Dove la misura dell’amore assoluto non è la libertà che concedi all’amata ma quanto potere riesci a esercitare. Non possiamo passare ad altro. È troppo presto per annoiarsi e non è mai tempo per rassegnarsi. Droghe. Canapa, 7 piante a Ferrara non sono reato di Luca Morassutto Il Manifesto, 1 giugno 2016 Appare ormai chiaro che l’indirizzo emerso nella sentenza delle Sezioni Unite n. 28605/2008, cioè l’equazione proposta in forza della quale la coltivazione di cannabis comporta sempre un aumento della sostanza disponibile sul mercato, è sempre più spesso disatteso in quanto lontano dalla realtà che ogni giorno si respira nelle aule di giustizia. Anche se talvolta è stata riproposta (sent. n. 49476/2015 e sent. n. 3037/2016) sempre più spesso tanti tribunali di merito, da ultimo il Tribunale di Ferrara, sezione monocratica, con sentenza di assoluzione ex art. 530 primo comma del codice di procedura penale (siamo in attesa della pubblicazione della motivazione), abbracciano soluzioni di diritto ben diverse, forti anche di nuovi indirizzi giurisprudenziali degli Ermellini (le sentenze nn. 2548 e 5254 del 2016). Proprio il caso ferrarese offre una interessante occasione di riflessione. Tre studenti universitari erano tratti a giudizio per rispondere della coltivazione di sette piante di marijuana già giunte a maturazione. Dalla istruttoria dibattimentale era emerso come dalle indagini condotte non fossero emersi elementi utili a definire una attività di spaccio. Mancava qualsiasi indice attestante una attività di vendita o cessione di sostanza stupefacente (nessun confezionamento in dosi, niente denaro contante, nessun elenco nominativo di possibili clienti, una vita sociale dei tre imputati assolutamente modesta, nessun collegamento a possibili reti criminali cittadine). Il motivo, semplice, persino banale nella sua esplicitazione era che quei tre ragazzi coltivavano per un uso esclusivamente personale, sottraendosi così al rischio di comprare sostanza stupefacente da spacciatori, esponendosi così a possibili arresti, evitando di spendere - tra l’altro - notevoli somme di denaro. La realtà fattuale si andava quindi scontrando con il principio giurisprudenziale delle Sezioni Unite che, ancor oggi, suona un po’ troppo come massima etica più che esplicitazione di regola di diritto. Indubbiamente la partita viene giocata sul terreno dei grandi principi del diritto penale, in primis quello di offensività. La stessa Corte Costituzionale invita il giudice ad una lettura non solo in astratto ma anche in concreto di tale principio tanto che non possiamo interpretare l’offensività come funzionante a corrente alternata. In altre parole non possiamo ritenere corretto il relegare l’operatività di tale principio unicamente al caso in cui la pianta difetti di principio attivo. Dobbiamo anzi ritenere che il principio di offensività operi ogniqualvolta il bene giuridico protetto dalla norma non sia aggredito. Il bene giuridico in questione è la salute pubblica ed in difetto di qualsivoglia elemento utile a dimostrare tale aggressione non possiamo che concludere che per una doverosa assoluzione. Questo significa che pensare ad un uso personale del prodotto derivante da una coltivazione è non solo possibile ma anche logico. Certo, il problema risiede nel definire quali sono i parametri utili per determinare tale uso personale che dovranno presumibilmente arricchirsi (in termini di dato ponderale e numero di piante consentite) rispetto a quelli oggi presi in considerazione nel caso della mera detenzione di sostanza stupefacente ad uso personale. Quel che appare non più eludibile è il bisogno di un ripensamento generale della materia sia a fronte di un conflitto interno tra sezioni della Corte di Cassazione che lascia presagire o quantomeno non escludere un prossimo rinvio alle Sezioni Unite, sia per una rinnovata sensibilità della società rispetto al tema. Medio Oriente: Hamas va avanti, eseguite le prime tre condanne a morte di Michele Giorgio Il Manifesto, 1 giugno 2016 Gaza. Sono avvenute ieri all’alba. Il movimento islamico sostiene di voler combattere l’aumento della criminalità. La condanna dei centri per i diritti umani. Gli appelli dei centri per i diritti umani non sono serviti a nulla. Ieri all’alba a Gaza sono stati giustiziati tre dei 13 palestinesi condannati per omicidio e reati comuni di cui era stata annunciata l’esecuzione in tempi stretti dal premier di Hamas Ismail Haniyeh. Le esecuzioni sono avvenute nei pressi della sede centrale della polizia - non in pubblico come era stato annunciato inizialmente - alla presenza delle famiglie delle vittime che si sono rifiutate di perdonare e, quindi, di salvare la vita ai tre condannati: Mohammed Othman, Yousef Abu Shamla e Ahmad Sharab. Due sono stati impiccati, il terzo è stato fucilato. Il governo di Hamas afferma di voler dare una risposta all’aumento della criminalità. Il procuratore generale di Gaza ha precisato che i tre avevano compiuto crimini "terrificanti" e che la pena capitale costituirà un deterrente. Hamas ha scelto di ignorare il ruolo della presidenza dell’Anp che, secondo la legge palestinese alla quale il movimento islamico sostiene di far riferimento, deve ratificare le condanne a morte. Chi a Gaza si oppone alla pena di morte afferma che Hamas non deve giustiziare i condannati ma affrontare le cause sociali ed economiche, frutto del blocco israelo-egiziano, che hanno portato alla crescita del criminalità nella Striscia. Libano: per i minori detenuti del carcere di Roumieh una giornata di "calcio e libertà" di Mauro Pompili La Repubblica, 1 giugno 2016 Protagonista l’ex arbitro, oggi allenatore, Mister Renzo Ulivieri. La Cooperazione Italiana ha stanziato 700.000 euro per migliorare le condizioni di vita dei detenuti del più grande carcere libanese. Un istituto dove convivono adulti, minori e malati psichiatrici. Dei 150 ragazzi più della metà sono siriani. Il campo da calcio a cinque è piccolo e più che un rettangolo sembra un trapezio scaleno, le linee di fondo coincidono da un lato con un muro e dall’altro con un marciapiede. Il tutto assomiglia a quei campetti fantasiosi disegnati nelle piazze dove da bambini abbiamo consumato le scarpe e messo a serio rischio le articolazioni. Eppure si respira l’aria delle grandi occasioni, delle grandi sfide. Giocatori e pubblico ascoltano con partecipazione gli inni nazionali, libanese e italiano, e quando il Mister Renzo Ulivieri, arbitro d’eccezione, fischia l’inizio le due squadre danno vita a una partita tirata, dove la carica agonistica ha permesso di superare le carenze tecniche. Su questo terreno improbabile si sono affrontate la rappresentativa dei minori detenuti del carcere di Roumieh a Beirut e una selezione composta dal personale dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) e dall’UISP (Unione Italiana Sport Per tutti). Insieme detenuti adulti, minori e malati mentali. L’incontro, finito 7 a 5 in favore dei ragazzi di Roumieh, è stato realizzato nell’ambito di un progetto che vede la Cooperazione italiana impegnata per il miglioramento delle condizioni di vita all’interno di quello che è il più grande carcere libanese. "Roumieh ospita circa 3.500 detenuti - dice Hussein Fakih, responsabile del progetto per l’AICS - oltre ad essere sovraffollata la struttura è per così dire omnicomprensiva. L’edificio che ospita i 150 minori si trova nello stesso compound dei detenuti adulti e di quella che è chiamata la ‘Casa Blù. Uno stabile fatiscente, dove sopravvivono una quarantina di malati psichiatrici condannati per vari reati. Questa partita fa parte delle attività che stiamo realizzando con i minori, e non è stato un episodio isolato. La squadra che è scesa in campo era la vincitrice di un torneo interno che ha coinvolto un’ottantina di ragazzi, più del 50% dei detenuti minorenni". Gli allenatori italiani da anni impegnati in Libano. Renzo Ulivieri, presidente dell’Associazione Italiana Allenatori di Calcio, è stato arbitro e testimonial della partita, alla fine dell’incontro ha detto: "È stata un’esperienza bella, come lo è sempre il calcio. Quando ci si mette intorno a un pallone nascono emozioni che fanno superare disagi, dolori e difficoltà. Almeno per un attimo il gioco del calcio permette di sentirsi persone libere. Vedere questi ragazzi correre nel piccolo campo allestito dentro il carcere ci ha restituito il senso dell’iniziativa. Lo sport è importante in situazioni di crisi, la storia del calcio è piena di esempi significativi". L’associazione degli Allenatori non è nuova a esperienze di solidarietà in Libano. "Ogni anno - dice ancora il Presidente Ulivieri - nel periodo in cui ricorre l’anniversario del massacro di Sabra e Chatila veniamo a Beirut per realizzare nei campi dei rifugiati palestinesi corsi di formazione per allenatori. I nostri 18.000 associati sono persone che passano la maggior parte del loro tempo con i bambini e i ragazzi, anche per questo sono particolarmente sensibili e disponibili a impegnarsi in prima persona". Tanti i ragazzi siriani dentro le mura di Roumieh. La cooperazione Italiana ha stanziato 700.000 Euro per realizzare diversi interventi all’interno del carcere. "Le principali attività previste - dice ancora Hussein Fakih - riguardano la sicurezza e la qualità alimentare per i detenuti, la riabilitazione della struttura Casa Blu e un supporto al servizio medico, la fornitura di servizi di base per i detenuti con particolare attenzione ai minori rifugiati siriani che costituiscono quasi il 50% dei minori presenti a Roumieh". Un progetto ambizioso, che oltre a cercare di migliorare la qualità della vita nel carcere, punta anche a far sentire i detenuti, soprattutto i minori, un po’ più liberi, anche attraverso lo sport. "Con il piccolo torneo e la partita finale - ha detto Gianandrea Sandri, direttore dell’Aics di Beirut - si è realizzata una delle più significative esperienze di attività sportiva all’interno di un carcere in Libano. Uno dei nostri obiettivi è l’inserimento dello sport nelle attività curriculari dei detenuti, minori e adulti".