Gabrielli (Capo Polizia): le carceri sono luogo privilegiato per il radicalismo Ansa, 18 giugno 2016 "Il luogo privilegiato" per il radicalismo, e quindi per il terrorismo, è rappresentato dalle carceri, "e se non cogliessimo questa peculiarità e non creassimo un sistema armonico ci perderemmo per strada molte opportunità di costruire un percorso di prevenzione". Queste le parole del nuovo capo della polizia, prefetto Franco Gabrielli, che - intervenendo alla cerimonia di chiusura dell’anno accademico 2015-2016 della Scuola di Perfezionamento delle forze di polizia - ha aggiunto: "Il fatto che l’Italia non sia stata, a differenza di altri Paesi, bersaglio di attentati terroristici di matrice fondamentalista è solo frutto di una congiuntura temporale favorevole, è solo per questo che non è stata toccata". "Pertanto - ha ribadito Gabrielli - ancor più importante il lavoro di prevenzione di un fenomeno che per molti anni caratterizzerà la nostra esistenza". Nel suo intervento, inoltre, Gabrielli ha sottolineato che la Scuola di Perfezionamento costituisce una ulteriore occasione di "arricchimento dell’esperienza professionale" per i suoi partecipanti, a partire dal fatto che sia una scuola interforze di polizia. Ed ha ricordato per l’appunto che, come prefetto di Roma, uno degli elementi più significativi "è stata la grande sintonia trovata nel contesto delle forze di polizia" che ha coordinato e con le quali ha lavorato. "Questa è la vera ricchezza, queste articolazioni delle forze territoriali davano senso e compiuta espressione del lavoro". Interpreti e traduttori, ok del governo alle nuove norme per i processi penali stranieriinitalia.it, 18 giugno 2016 Nomine più semplici, assistenza gratuita, riassunti orali, interpretariato a distanza, elenco nazionale. Ecco cosa prevede il decreto appena approvato dal Consiglio dei Ministri. Cambiano le regole per interpreti e traduttori che assistono cittadini stranieri coinvolti in procedimenti penali. Un decreto legislativo approvato ieri definitivamente dal Consiglio dei Ministri prevede procedure semplificate per le nomine e nuove norme per l’assistenza gratuita. Disciplina poi i casi in cui, col consenso dell’imputato, potrà essere prevista la traduzione orale di una sintesi degli atti. Via libera anche all’utilizzo di interpreti a distanza, in videoconferenza, per telefono o via internet. Infine, presso il ministero della Giustizia, verrà istituito l’elenco nazionale degli interpreti e traduttori iscritti negli albi di tutti i tribunali italiani. Ecco come nel comunicato del Consiglio dei Ministri vengono illustrati i contenuti principali del decreto legislativo approvato ieri: "Il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente Matteo Renzi e del Ministro della giustizia Andrea Orlando, ha approvato, in esame definitivo, un decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 32, di attuazione della direttiva 2010/64/UE sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali. Nello specifico il provvedimento punta a semplificare la disciplina del conferimento dell’incarico all’interprete e al traduttore, alleggerendo le incombenze dei soggetti coinvolti e permettendo risparmi sui costi di spostamento. In particolare, viene previsto che, nei casi in cui l’interprete o il traduttore risieda nella circoscrizione di altro tribunale, il giudice possa chiedere al giudice delle indagini preliminari del luogo di residenza dell’ausiliario di procedere per rogatoria alle attività di identificazione, ammonimento e conferimento di incarico. Vengono anche dettate le regole che attuano il diritto al colloquio con il difensore assistito gratuitamente dall’interprete, prevedendo che nei casi che legittimano l’assistenza gratuita dell’interprete a spese dello Stato l’imputato abbia diritto a un colloquio soltanto in riferimento al singolo atto da compiere, salvo che si ravvisino particolari esigenze collegate all’esercizio del diritto di difesa. E che, nel caso di soggetti indagati o imputati non abbienti, le spese spettanti anche per l’interprete e il traduttore rimangono comunque a carico dello Stato. Inoltre viene previsto che nel caso di particolari situazioni di urgenza (ad esempio, nelle ipotesi di incidente probatorio disposto con urgenza ed abbreviazione dei termini ordinari per imminente pericolo di vita del testimone), in assenza di una traduzione scritta prontamente disponibile degli atti per i quali è obbligatoria, l’autorità giudiziaria ne disponga, con decreto motivato, se ciò non pregiudica il diritto di difesa dell’imputato, la traduzione orale anche in forma riassuntiva, dandone atto in apposito verbale. Inoltre, la traduzione orale, anche in forma riassuntiva, degli stessi atti processuali potrà sempre sostituire quella scritta in tutti i casi in cui lo stesso imputato rinunci espressamente alla traduzione scritta, purché consapevole delle conseguenze di tale rinuncia, anche per avere a tal fine consultato il difensore. È introdotta poi la possibilità di utilizzare gli strumenti di comunicazione a distanza, quali videoconferenza, telefono o internet, per garantire l’assistenza dell’interprete. Presso il Ministero della giustizia sarà infine istituito l’elenco nazionale degli interpreti e traduttori iscritti negli albi dei periti di ogni tribunale". Orlando: "il Csm nomini i capi in base all’efficienza" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2016 Mentre a Roma il ministro della Giustizia Andrea Orlando e il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri discutono di "videoregistrazioni ad alta definizione" per evitare di rifare da capo i processi nei quali, strada facendo, cambia uno dei giudici del collegio, a Napoli il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e altri componenti del Consiglio verificano che nelle aule di udienza mancano sia gli impianti di registrazione che quelli per le videoconferenze. Dal capoluogo partenopeo viene rilanciato l’allarme per la carenza di risorse, che blocca l’esecuzione di ben 50mila sentenze; Orlando fa sapere che metterà al lavoro i suoi ispettori per accertare le cause, ma a sua volta rilancia la teoria secondo cui l’inefficienza non è figlia soltanto della carenza di risorse ma soprattutto della mancanza di buoni capi degli uffici, capaci di gestire le risorse esistenti. "Il contrasto alla criminalità organizzata non si fa solo con la repressione e l’introduzione di nuovi reati, ma con le capacità organizzative - dice durante un convegno organizzato da Unitelma a Roma sulla riforma del sistema penale e le proposte della Commissione Gratteri. È fondamentale come funziona il processo come funzionano le carceri, le cancellerie, gli uffici giudiziari. E qui c’è il tema di chi guida gli uffici giudiziari e di come il Csm fa le nomine. Una questione che non può più essere sottaciuta. Nomine e capacità organizzative vanno legate in modo più stringente che in passato, valorizzando il curriculum". Orlando dice che il Csm deve valorizzare chi sa produrre efficienza e innovazione di carattere organizzativo e cita -come "punto di non ritorno per il funzionamento della giurisdizione" raggiunto in questi ultimi due anni - "le analisi delle performance dei Tribunali: il ministero per la prima volta non ha detto quanto dura un processo in media o quanto arretrato c’è, ma ha detto quali erano le performance in ogni singolo Tribunale", scoprendo che non sempre coincidono con piante organiche al completo di personale. "Mi auguro che questa banca dati non sia utilizzata solo dai giornalisti ma soprattutto dal Csm per valutare come il capo di un ufficio ha lavorato in precedenza, quali siano le sue attitudini organizzative e i risultati che ha portato a casa". Al Convegno, coordinato dal consigliere giuridico del Quirinale Ernesto Lupo, ha partecipato anche il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo ("Un provocatore intelligente", lo ha definito Gratteri) che stavolta ha puntato il dito contro la "poca serietà" del processo penale italiano, a differenza del "resto del mondo occidentale". "In Italia le aule di giustizia sono come suk arabi - ha detto - mentre negli Stati Uniti le udienze sono celebrate in religioso silenzio. Altrove il processo è una cosa seria, tant’è che il 90% degli imputati si dichiara colpevole e sceglie i riti alternativi, mentre in Italia c’è sempre la speranza di non scontare la pena". Si è parlato, ovviamente, di prescrizione e il ministro ha ribadito che "il punto d’intesa tra Pd e Ncd (che lavorò alla ex Cirielli) non è facile anche se il confronto in atto è un riconoscimento implicito che è importante modificare l’istituto". Orlando ha anche annunciato che, per contrastare ancora di più la lotta ai reati ambientali e alle frodi alimentari, "è già pronto un ddl" che, fra l’altro, estende la pena a frodi "massive" di obiettiva e rilevante gravità, messe a punto in contesti organizzati che fanno leva sulla complessità delle filiere e sulla disintermediazione delle fasi di produzione in aree geografiche anche molto distanti. Scettico (per non dire contrario), invece, sulla proposta di Gratteri di estendere il più possibile l’uso delle videoconferenze nel processo, non solo per la partecipazione a distanza di ogni imputato ma anche per consentire agli avvocati di partecipare all’udienza dal proprio studio, nonché di prevedere delle videoregistrazioni ad alta definizione (che consentano di cogliere anche piccole smorfie o rossori dei testimoni) per evitare che, se strada facendo cambia il collegio, il processo debba ricominciare da capo. Quanto all’Agenzia dei beni confiscati, Gratteri ricorda che le sue proposte prevedono che abbia sede presso la presidenza del Consiglio (per interfacciarsi con tutti i ministeri) e che sia presieduta da un manager, non da un prefetto. Idea entrata "in un provvedimento approvato dalla Camera" ha ricordato Orlando, escludendo che l’Agenzia possa essere sotto il ministero dell’Interno. Nicola Gratteri: "il pm dev’essere più popolare dei super-boss" di Errico Novi Il Dubbio, 18 giugno 2016 Processi a distanza, deposizioni videoregistrate per evitare che i teste debbano tornare in udienza in caso di sostituzione del giudice, agenzia per le confische a Palazzo Chigi: sono alcune delle proposte della commissione presieduta dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Che ne parla a un convegno organizzato da Unitelma e dice: "Fiction come Gomorra sono il male della lotta alle mafie". Di solito le commissioni ministeriali si riuniscono una mezza dozzina di volte, poi il presidente mette giù una relazione, la invia al ministro, al più viene audito una tantum alle Camere e la cosa si estingue lì. Ma Nicola Gratteri non fa il burocrate. Le "proposte normative" della sua commissione sulla "lotta, anche patrimoniale, alla criminalità organizzata" sono pronte da oltre un anno e mezzo e non si dissolvono in un’erudita relazione: l’attuale procuratore di Catanzaro ne ha fatto un vero e proprio articolato, una "riforma pronto uso" del codice Antimafia. Continua a fare audizioni in Parlamento, a sollecitare a ogni intervista o convegno l’adozione dei suoi suggerimenti, come un padre che non abbandona la sua creatura. Lo fa anche alla "giornata di studio" organizzata presso la Cassa forense da Unitelma, l’ateneo telematico della Sapienza. Dove si concede una battuta sulle fiction alla Gomorra, che "sono il male" della lotta alle mafie. E batte su un tasto in particolare: "Dobbiamo conquistare il consenso di cui oggi gode la criminalità organizzata". Si spieghi meglio… La mafia è ossessionata dal consenso popolare. Nelle intercettazioni i boss ne parlano di continuo, si preoccupano di dare risposte sociali. Se non seguissero questo schema non sarebbero mafie. È la lezione di Diego Gambetta, il sociologo italiano che ?insegna mafia a Oxford... Noi, i magistrati, lo Stato, dobbiamo avere questa preoccupazione: essere credibili e dare risposte alla gente comune. Sa cosa significa? Lo dica. Non stare esclusivamente dietro ai reati di mafia, perseguire tutto. Anche i furti e le piccole truffe. Chi denuncia questi reati deve avere risposte, perché quella stessa persona domani andrà a denunciare un’estorsione. Davigo dice che le misure anticorruzione varate finora non servono a niente. Lei dice la stessa cosa di quelle già messe in campo contro la criminalità? Dico che c’è un passaggio chiave: bisogna velocizzare il processo. In realtà alcune delle nostre proposte sono già state recepite nel ddl di riforma penale, ora all’esame del Senato. Altre andranno a modificare il codice antimafia. C’è una cosa che considero prioritaria: superare la norma che impone di ripetere l’escussione dei testimoni in caso di trasferimento di uno dei giudici del collegio. Ma così viene negato il principio dell’oralità, che è un cardine del processo. E invece no, perché tutte le deposizioni sarebbero registrate. Non solo in audio ma anche in video, in modo che il nuovo giudice possa riguardare tutto senza il bisogno di far tornare i testi in aula. Gli avvocati ricordano che il giudice si fa un’idea sull’attendibilità di una deposizione anche dall’espressione del teste. Con il video può vedere se il soggetto suda o arrossisce. Perché considera decisivo l’uso della tecnologia? Perché la prima causa di prescrizione dei processi è la ripetizione delle prove in caso di sostituzione del giudice. E perché il processo in videoconferenza potrà essere comunque usato anche in altri casi in modo da risparmiare ed evitare evasioni. L’articolo in cui abbiamo previsto questo sistema per tutti i detenuti di alta sicurezza è entrato appunto nel ddl di riforma penale già a Montecitorio. Anche l’avvocato può seguire a distanza, con una web cam, dal suo studio. Mentre partecipa in video all’udienza può consultare le sentenze della Cassazione dal pc. Non sono misure che ledono il diritto di difesa? No. Oltre a evitare rischi di fuga e a risparmiare almeno 70 milioni l’anno sulle traduzioni dalle carceri, si otterrebbe un altro risultato: evitare la concentrazione di 20-30 boss che seguono l’udienza nella stessa gabbia e stringono alleanze. Non può lamentarsi: il governo ha seguito una parte non piccola dei suoi suggerimenti. È così. Gli inasprimenti di pena per il 416 bis li abbiamo proposti noi. Lo schema del voto di scambio politico-mafioso viene sempre dal nostro articolato. Nel codice Antimafia entrerà anche l’accentramento a Palazzo Chigi dell’agenzia per le confische. A guidarla dovrà essere un manager, non un magistrato. Spesso le aziende confiscate falliscono, perché sono gestite male. E così certo lo Stato non accresce la propria credibilità A proposito di immagine: cosa pensa di serie tv come Gomorra? Fanno il bene o il male della lotta alla criminalità organizzata? Il male. A cominciare dal film Il padrino, il peggior danno che la cinematografia avvia potuto arrecare in termini di approccio alla conoscenza della criminalità mafiosa. Tutto ciò che è fiction fa male alla lotta alle mafie. Crea eroi del male, induce a inneggiare a loro e qualcuno finisce per seguire quelle icone. "Dopo 33 anni non è cambiato nulla. Il tormento di Enzo è stato inutile" di Francesco Straface Il Dubbio, 18 giugno 2016 Francesca Scopelliti ha presentato il libro con le lettere di Tortora. Trentatrè anni. Tanto è trascorso dall’arresto di Enzo Tortora, ma le sue Lettere a Francesca, scritte in carcere e raccolte in un volume presentato ieri nei locali della Camera di Commercio di Roma, sono di "estrema attualità", come ha sottolineato il presidente dell’Unione delle camere penali Beniamino Migliucci. L’autore delle missive, lette dall’attore Enzo Decaro, il celebre giornalista e presentatore televisivo, di colpo chiamato a rispondere di accuse gravissime: associazione camorristica e spaccio di droga. La compagna, Francesca Scopelliti, ha ricordato che la loro era "una storia d’amore piuttosto recente. La separazione forzata fu ancora più dolorosa perché originata da un obbrobrio giuridico, un’infamia ingiustificata, la protervia di due magistrati della Procura di Napoli, che volevano a tutti i costi un colpevole. Più emergeva che Enzo era una persona perbene e non si trovavano riscontri, più i giudici si accanivano alla ricerca di nuovi pentiti. I media lo hanno subito condannato, ma lui è stato un grande esempio, dimettendosi da parlamentare europeo per proseguire la battaglia sulla giustizia giusta". Il drammatico errore giudiziario sembra però non avere insegnato nulla: "La tristezza più grande è che ci si è fermati a trent’anni fa: il sistema penale-carcerario è rimasto immutato, nessuno è corso ai ripari. I malesseri che Enzo denuncia nelle sue lettere vivono nella nostra quotidianità. Il ministro della Giustizia dovrebbe tenere conto della sua storia". Presenti due testimonial d’eccellenza, Giuliano Ferrara, che ha firmato anche la prefazione del volume, ed Emma Bonino, che da decenni si batte sul tema. L’ex direttore del Foglio ha evidenziato che dalle lettere emergono "amore, umanità, personalità, il rapporto con la sorella, le figlie e soprattutto la compagna. La verità è che il "pentito dire" e il partito preso si erano appropriati del meccanismo giudiziario e lo trascinavano verso il basso, dove erano schiacciati Tortora e molti altri cittadini, come i famosi omonimi, che furono arrestati e detenuti a Poggioreale, distrutti da un’indagine che ha dato luogo a un processo che definire discutibile è un eufemismo grave". Anche Ferrara ha acceso i riflettori sull’assenza di provvedimenti conseguenti: "Un referendum sollecitò l’introduzione della responsabilità civile dei magistrati, ma poi non si intervenne in modo significativo e non vi è stata la separazione delle carriere, per cui uomini come Falcone si erano spesi. Purtroppo tutte le classi dirigenti fanno un patto con i giudici, perché ne hanno paura. Il caso Tortora evidenziò per la prima volta l’onnipotenza della magistratura". "All’epoca i giornali dopo l’arresto non furono certo innocentisti - ricorda con amarezza la Bonino. I Radicali, Biagi e Sciascia le uniche voci fuori dal coro. Da allora Marco Pannella e Rita Bernardini non hanno mai interrotto una battaglia che oggi deve continuare. La conseguenza d’altronde è il disastroso stato delle carceri. Per riaffermare pienamente lo Stato di diritto attendiamo ancora le grandi riforme, come l’obbligatorietà dell’azione penale. Enzo ha insegnato ai giovani cos’è la dignità, non arrendendosi mai, neppure nei momenti di sconforto. Purtroppo abbiamo perso la memoria e la vista, guardiamo solo l’ombelico". Migliucci ha aggiunto che il libro "non è solo una testimonianza di rabbia, dolore e sofferenza ma offre tanti spunti. Dalla separazione delle carriere al pubblico ministero collegato al giudice, dalla gestione dei pentiti alla custodia cautelare, che da "extrema ratio" si è trasformata in carcerazione preventiva. La condotta successiva a quando ha ottenuto Enzo giustizia e le sue lettere lanciano un messaggio e la speranza che il Paese possa migliorare. Questo dramma deve portare a una riflessione collettiva sulla presunzione d’innocenza, sull’esecuzione della pena e sul carcere, inteso come risocializzazione e rieducazione e non come vendetta. Temi che saranno sostenuti dagli avvocati penalisti, mentre l’assenza della politica oggi è colpevole e imbarazzante". Ha fatto discutere, in particolare, la mancata concessione di una sala in Senato, giustificata dall’assenza di "finalità istituzionali". "Spero non sia stata dettata dal passato di magistrato del presidente Grasso. Sarebbe un’ulteriore ferita" ha commentato con amarezza la Scopelliti. Ad attenuare il caso la lettera inviata dall’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: "Enzo Tortora ha subito torti e sofferenze. Indagini e sanzioni penali non sono state fondate su basi probatorie adeguate. Problemi di sistema e di clima che restano ancora aperti". Non basta la parola dell’agente per condannare il detenuto di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2016 Non è sufficiente la sola testimonianza dell’agente penitenziario che si dichiara vittima di una aggressione per condannare il detenuto indicato come responsabile. Lo ha stabilito il Tribunale di Frosinone, con la sentenza del 15 marzo 2016 n. 766, assolvendo l’imputato "quanto meno ai sensi dell’articolo 530, 2 comma, c.p.p. non essendosi raggiunta la prova". È la stampa, bellezza! di Francesco Lo Piccolo felicitapubblica.it, 18 giugno 2016 La vicenda Dalema-Repubblica, le affermazioni "pur di cacciare Renzi sono pronto a votare anche Raggi", affermazioni subito smentite dall’interessato ma confermate dal giornale, rivelano ancora una volta la brutta china del nostro giornalismo. L’ennesima dimostrazione che sempre più il giornalismo è pettegolezzo, sguardi dal buco della serratura, casi e retroscena per fare polemiche. Non mi ci riconosco in alcun modo e quasi ho vergogna a dire che sono un giornalista. Ben altro è stato il mio lavoro quando ho cominciato su una bellissima Lettera 22, quando il pc era di là da venire e quando i pezzi venivano dettati per telefono, punteggiature comprese. E così oggi ci troviamo in balia del marketing, di prime pagine che sembrano vetrine di un negozio di abbigliamento, di "parole d’ordine", di parole e immagini che invece di informare assolvono al solo compito di "formare" opinioni, tendenze e mode uguali per tutti, dove tutti sono individui senza testa, individui acefali, obbedienti in una perfetta società disciplinata e disciplinare, come diceva e con buona ragione Michel Foucault. Ho preso dalla mia libreria un vecchio libro di Giorgio Bocca, il libro si intitola "È la stampa, bellezza!", lo sfoglio, il pensiero corre a quella volta che lo conobbi, trentasei anni fa. Su un altro scaffale ecco alcuni saggi-reportage di Ryszard Kapuscinski, un altro grande giornalista, penso a una sua frase: "Nelle dittature ci si serve della censura, nelle democrazie della manipolazione". Bocca, Kapuscinski… autori che consiglio, soprattutto oggi. Per capire da dove siamo partiti e dove siamo arrivati. Davvero un brutto punto di arrivo nel quale si inventano notizie e si manipolano i fatti. Qualunque fatto purché sia singolare e emotivamente coinvolgente, basta che sia ad effetto. Basta che scateni risse e divida tra chi dice sì e chi dice no, tra chi la pensa in un modo e chi in un altro. Mentre l’unica cosa che conta è fare audience e vendere giornali e far instupidire la gente davanti alla tv. E convincere. In barba ad ogni più elementare diritto ad avere informazioni e non veline, notizie confermate da fonti, notizie utili e responsabili. Che notizia è mai quella di far dire a Tizio cose che non ha mai detto? "Che giornalismo è - annota sulla sua pagina Fb Ritanna Armeni - quello che fa montare servizi televisivi dove i due morti di Parigi uccisi da un presunto jihadista vengono collegati (pur non essendoci nessun collegamento) con le manifestazioni di piazza contro il Jobs acts?". Che informazione è mai quella di scrivere nei titoli che a Orlando sono stati uccisi 50 gay? Come se non fossero persone. Come se non fossero ragazzi e ragazze. No, non è questo il giornalismo, non è per niente questa l’informazione. Mi sembra più facile e più giusto chiamarla informazione di regime, operazione Minculpop 2. Informazione "macchina del fango" senza alcun rispetto per chi finisce nell’ingranaggio… Penso al caso Boffo e più indietro nel tempo penso a Tortora accusato nel 1983 da un pentito e poi assolto dopo 8 mesi di carcere passati in cella a soffrire mentre era innocente, mentre sui giornali si scriveva che c’erano prove certe. Penso ai titoli dei giornali tra aprile e maggio 2007 sul caso della scuola materna di Rignano culminato con l’arresto di maestre e bidella e per le quali il pm aveva chiesto 12 anni di carcere. Sui giornali si scriveva che erano diavoli, orchi… che bevevano il sangue dei bambini… tutte assolte. Penso al caso Yara Gambirasio e a titoli tipo "arrestato l’assassino: ha 44 anni, è padre di 3 figli", o alle foto di Bossetti in manette. Già colpevole sui giornali prima della sentenza. Penso all’arresto di Stefano Binda in carcere da gennaio di quest’anno perché accusato di aver ucciso trent’anni fa Lidia Macchi. In carcere in attesa di giudizio pur non essendoci rischio di inquinamento probatorio, pur non essendoci pericolo di reiterazione del reato. Anche lui come Bossetti già condannato sui giornali. Penso alle centinaia di pagine e di servizi televisivi pieni di intercettazioni telefoniche, non più strumento di indagine, ma arma eccezionale in mano a certi magistrati e a certi giornalisti per inquinare la lotta politica. Per interessi di parte. Altro che conoscenza, verità, informazione. L’espansione del potere giurisdizionale ha alterato l’equilibrio tra i poteri di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 18 giugno 2016 Giovanni Fiandaca in un lucido scritto è intervenuto sulla questione della giustizia enfatizzata dalle polemiche degli ultimi giorni e dalle dichiarazioni del Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati nonché di un componente del Consiglio Superiore. "La polemica" dice Fiandaca "riaccende i riflettori sulla politicizzazione della magistratura". In verità questa polemica che dura da lungo tempo ha portato ad uno scontro tra potere politico e potere giudiziario. Fiandaca auspica che si "sviluppi un corale e meditato dibattito sul modello di giudice adeguato ai nostri tempi". Rispondo al suo autorevole invito e ripropongo una mia analisi sul ruolo del magistrato nel secolo XXI che sfugge certamente ad un "preconcetto critico o ad una preconcetta difesa". Una presa di posizione pregiudiziale alimenta una polemica inutile perché legata ad una concezione della giurisdizione completamente superata e per questo la magistratura si accanisce a chiudersi in se stessa, a costituirsi come casta che non ammette critiche di nessun tipo. Se la magistratura avesse la consapevolezza del suo nuovo ruolo nello Stato e nella società contribuirebbe ad elaborarlo e aiuterebbe il legislatore a disciplinarlo: ma non accetta discussione. La novità degli ultimi anni riguarda dunque il ruolo del giudice nella società moderna, profondamente diverso da quello degli anni in cui è stata varata la Costituzione repubblicana, e dunque la funzione "nuova" della giustizia che ne deriva non consente di avere ancora come riferimento normativo e sistematico "l’ordine autonomo" della magistratura come previsto dalla Costituzione. I magistrati alimentano l’equivoco della cultura della giurisdizione che deve essere patrimonio anche "del Pubblico Ministero e della impossibilità di distinguere il suo ruolo da quello del giudice, sostenendo che la pubblica accusa ha un ruolo indipendente, ed è parte integrante della giurisdizione. Il giudice è andato acquisendo in Italia, un potere che non appartiene alla tradizione del nostro stato di diritto perché il significato nuovo della giurisdizione ha superato il dettato costituzionale che indicava la magistratura come "ordine" neutro, "bocca della legge". Il rapporto istituzionale si è rotto perché il potere legislativo non è stato in grado di prendere atto di queste profonde modifiche e di intervenire per "regolare" quel potere. Ogni potere non può non essere riconosciuto e appunto "regolato", mentre la magistratura, pur esercitando un "potere" per la assoluta preminenza che ha assunto la giurisdizione ha continuato ad essere inevitabilmente - organismo corporativo: una contraddizione che determina anomalie e contrasti. Questo ruolo è maturato lentamente in questi anni con l’indifferenza del legislatore: il Parlamento ha approvato leggi sempre più imprecise e generiche per assegnare un ruolo di supplenza alla magistratura, la quale non si sente più sottoposta alla legge, ma sta "di fronte alla legge", per ripetere una splendida espressione di un vecchio giurista come Mastursi. Quando il Parlamento, per fare un altro esempio, prevede il reato di "traffico di influenze illecite", costruito sul nulla e dà al magistrato il massimo di discrezionalità per definire la fattispecie del reato a suo piacere, siamo alla follia legislativa che determina inevitabilmente conflittualità e rapporti cattivi tra le Istituzioni. Quando i costituenti scrissero la Costituzione la magistratura era altra cosa e la giustizia aveva un valore autonomo e residuale nel senso che la certezza del diritto e delle norme, in un preciso contesto codicistico, garantiva la terzietà del giudice, la sua scontata imparzialità e la sua estraneità rispetto alle passioni politiche. La espansione del potere giurisdizionale ha alterato l’equilibrio tra i poteri così come l’aveva concepito Montesquieu. È questa la questione della giustizia in Italia che Fiandaca indica nel suo scritto come conclusione di una lunga riflessione. È doveroso dunque prendere atto del nuovo ruolo che esercita la magistratura, e anziché demonizzarla, disciplinarla per realizzare un nuovo equilibrio tra i poteri e quindi, un rinnovamento reale dello Stato. Bisognerebbe dunque modificare la Costituzione per far "cambiare verso" all’Italia, come ripete fino alla noia Matteo Renzi ma la magistratura sa che il potere politico e legislativo è reticente e timoroso. Dunque l’accresciuto rilevo della giurisdizione nelle democrazie moderne è un fenomeno nuovo rispetto ad un passato caratterizzato da una netta separazione tra i paesi di civil law e le esperienze judicial activism, e cioè da un processo di compensazione che deriva dalla incapacità delle organizzazioni politiche a rappresentare e soddisfare le istanze sociali, sempre più complesse, molteplici e differenziate, mentre il potere giurisdizionale funziona come un canale complementare rispetto a quello politico. Già Weber aveva in qualche modo segnalato il rischio di un’operazione di trasposizione del modello americano in seno a istituzioni giudiziarie coltivate nel mito del formalismo giuridico. E Schmitt, a sua volta, si chiedeva se, ponendosi i magistrati come "custodi della Costituzione" cosi come in Italia si vuole che sia, non si rischiasse di produrre" non una qualche giurisdizione della politica, ma una politicizzazione della giurisdizione". Il fatto è che questa nuova funzione dei magistrati resta inserita nel contesto di una cultura "attivistica" dello Stato, e dunque priva di quel controbilanciamento normativo culturale che è costituito da una società forte, che chiede e pretende il rispetto dei propri diritti. In Francia e in altri Paesi Europei è stato adottato un efficace sistema di checks and balance, e in Italia il protagonismo del giudiziario è l’effetto di più profondi cambia- menti politico - istituzionali, che determinano, come sostiene finanche Stefano Rodotà, che lamenta "continui attraversamenti dei confini tra giustizia e politica, che ingenuamente qualcuno continua a ritenere fissati una volta per tutte". Il processo di "politicizzazione" della magistratura è, infatti, al centro del dibattito da più di trent’anni, ad indicare che un progressivo abbandono della condizione di potere "neutrale", ha significato per il giudiziario l’assunzione di un ruolo conflittuale nei confronti del potere politico". È estremamente importante trarre alcune conseguenze da queste valutazioni che debbono appunto tener conto del contesto nazionale ed europeo nel quale operano. Nel secolo scorso tutti i paesi democratici hanno registrato una espansione dei propri compiti. Dalle originarie funzioni d’ordine degli Stati liberali: difesa, ordine pubblico, giustizia, fisco si è passati a interventi dello Stato in moltissimi altri settori, compresa l’erogazione di servizi. Sono cresciute di conseguenza le funzioni pubbliche di regolazione delle attività umane e questa tendenza, lungi dall’esaurirsi, mostra anzi una vocazione all’ulteriore espansione. Le società democratiche cercano tuttavia di controllare questo processo su due versanti. Il primo è quello del rapporto tra autorità e libertà, dunque tra Stato e cittadini. Il secondo è quello del rapporto tra i poteri pubblici, alla ricerca di un equilibrio nel quale nessun potere deve assumere un predominio sugli altri. Friedman ha mostrato come lo strumento più adatto per assicurare l’equilibrio tra i poteri sia la predisposizione di un sistema di checks and balances, ossia di un sistema di controlli e contrappesi in virtù del quale ciascun potere pubblico limita gli altri ed è dagli altri limitato. L’originaria concezione della separazione dei poteri elaborata da Montesquieu non è più oggi - ammesso che lo sia stata un tempo - pienamente operativa. Essa è integrata, nei sistemi costituzionali moderni più avanzati, dalla concezione di una parallela connessione tra i poteri, in funzione di coordinamento e controllo reciproco. Ciò è avvenuto in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti ma non nel nostro Paese. Nessuno può negare che gli ambiti di discrezionalità interpretativi che il giudice è chiamato a gestire dipendono come si è detto anche dalla a sistematica e spesso generica formulazione delle norme da applicare. Non si tratta dunque di riportare il ruolo della Magistratura verso modelli anacronistici del passato, ma soltanto di stabilire le regole per il nuovo ruolo che correttamente Fiandaca ci consiglia di approfondire. Bisogna cioè prendere atto che il potere giudiziario ha, nella società contemporanea, un ruolo, come si è detto diverso da quello che aveva nello Stato liberal borghese, e far evolvere questo nuovo ruolo nel quadro costituzionale, in modo non separato da quello degli altri poteri, ma connesso e coordinato? Innanzi tutto, occorre che anche il potere giudiziario si svolga in un quadro di responsabilità dei giudici la quale, sia ben chiaro, non è in contrasto con l’indipendenza costituzionale della Magistratura. La legittimità di una magistratura indipendente si basa, quindi, non sulla sua rappresentatività democratica, ma, su forme di responsabilità e soprattutto sul fatto di doversi conformare ai caratteri tipici del procedimento giurisdizionale: primi fra tutti la parità delle parti e la terzietà e imparzialità del giudice. In questo contesto il riconoscimento di un nuovo ruolo adeguato ad un nuovo potere giudiziario è essenziale per realizzare l’equilibrio e l’armonia tra i poteri. Toscana: lezioni universitarie via skype in carcere, così i detenuti potranno laurearsi Redattore Sociale, 18 giugno 2016 A settembre un importante incontro tra Università, istituzioni e amministrazioni penitenziarie per definire e rilanciare il sistema di educazione universitaria in carcere, come richiesto dal garante dei detenuti della Toscana Franco Corleone, che analizza la situazione regionale. Università per i detenuti, a settembre si terrà in Toscana un importante incontro fra Università, istituzioni e amministrazioni penitenziarie per definire e rilanciare il sistema di educazione universitaria in carcere, come richiesto dal garante dei detenuti della Toscana Franco Corleone, che ha presentato pochi giorni fa la sua relazione annuale. "L’idea è quella di permettere ai reclusi di seguire con più facilità i corsi universitari, innanzitutto attraverso spazi più adeguati dentro le carceri, ma poi anche attraverso la possibilità di seguire le lezioni via skype collegandosi alle aule dell’Università", una possibilità, quest’ultima, che difficilmente si trova nelle carceri italiane. All’incontro parteciperanno responsabili dei poli universitari di Firenze e Prato, Siena, Pisa, Bologna, Torino e Padova. Nella relazione, Corleone inizia con una nota positiva, dicendo che si sta registrando una diminuzione dell’aumento dei detenuti: "Il trend in Toscana è simile con circa 3.300 presenze rispetto alla punta di 4.500 di cinque anni fa. Addirittura in Toscana si è lievemente sotto la capienza regolamentare, mentre in Italia mancano ancora circa quattromila posti". Però, sottolinea, "alcuni istituti penitenziari in Toscana sono ancora sopra la capienza regolamentare (Firenze Sollicciano, San Gimignano, Pisa, per citare i casi più macroscopici), mentre altri ospitano meno detenuti rispetto alle possibilità". Secondo Corleone "è indispensabile una grande riforma orientata al reinserimento sociale dei reclusi". E poi, sulle criticità più pesanti: "Tante sono le ferite aperte: il diritto all’affettività, un nuovo modello di architettura penitenziaria, il lavoro in carcere, le misure di sicurezza, i tossicodipendenti e la legge sulle droghe, la formazione del personale, solo per citarne alcune. Poi ancora una nota positiva: "Nelle relazioni precedenti è stato prevalente il carattere di denuncia di situazioni intollerabili da tanti punti di vista. Quest’anno voglio rimarcare, e sono soddisfatto di ciò, il fatto che le criticità sollevate sono state prese in considerazione e sono stati avviati gli interventi di risanamento". Importante, secondo il garante, anche "istituire case della semilibertà in città, per immaginare nuovi luoghi per la detenzione femminile che rappresenta il 3,5% della popolazione detenuta e non può essere la versione in sedicesimo del carcere maschile". Emilia Romagna: la Garante dei detenuti ai volontari "siate interlocutori di tutte le parti" Ristretti Orizzonti, 18 giugno 2016 Nell’evento conclusivo del corso di formazione, Desi Bruno, figura di garanzia dell’Assemblea, invita il terzo settore "a fortificarsi ancora di più". Il volontariato "deve sapersi fortificare, così da porsi come valido interlocutore degli altri diversi attori istituzionali all’interno del mondo del carcere", a partire dall’importanza della conoscenza dei protocolli, sia a livello nazionale che regionale, e delle circolari, da quelle succedutesi nel tempo sui circuiti penitenziari alla più recente sui detenuti dimittendi. L’invito arriva da Desi Bruno, Garante regionale delle persone private della libertà personale, che la scorsa settimana è intervenuta durante l’incontro conclusivo del corso formativo per i volontari penitenziari dell’Emilia-Romagna, "Diritti e dignità nell’esecuzione della pena". Nell’affrontare il tema della collaborazione e della formazione congiunta tra le diverse figure presenti in carcere, la Garante ha innanzitutto considerato gli operatori della Polizia penitenziaria, richiamando il recente incontro sollecitato dal sindacato di categoria Sinappe, con cui si è confrontata sulla gestione della vita detentiva, che, ricorda "non deve essere ispirata a una sicurezza fine a sé stessa, ma bisogna sia funzionale all’umanizzazione e alla risocializzazione e sia sempre più affidata alla presenza e all’impegno delle molte espressioni volontaristiche della società civile". A seguire, si è discusso il rapporto con gli educatori, ponendo in evidenza l’avvertita necessità di un maggior confronto e una migliore definizione in merito al ruolo degli educatori e a quale debba essere il contenuto dell’attività trattamentale. Si è infine evidenziata la situazione interna al volontariato, caratterizzato dalla necessità di maggiore comunicazione e coordinamento tra le differenti realtà associative che operano nel mondo del volontariato, per cui si sono sollecitate una proficua condivisione delle esperienze realizzate e una diffusa partecipazione alle iniziative organizzate nelle carceri e sul territorio. "Diritti e dignità nell’esecuzione della pena" si è articolato in tre momenti, progettati dalla Conferenza Regionale Volontariato Giustizia, insieme con l’Ufficio del Garante regionale dei detenuti, per socializzare la disciplina sull’umanizzazione della pena e rafforzare il ruolo dei volontari nell’esecuzione. Gli obiettivi principali sono stati di approfondire le circolari sul tema della dignità e umanità in carcere, discutere i concetti di tutela dei diritti non solo dei detenuti ma anche dei familiari e dei volontari, sostenere l’impegno dei cittadini attivi all’interno del sistema dell’esecuzione penale, e infine condividere le competenze e le buone prassi esistenti a livello nazionale. Umbria: protocollo Dap-Polo Museale per attività detenuti nella Rocca Albornoziana Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2016 Il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Toscana e l’Umbria, Giuseppe Martone e il Direttore del Polo Museale dell’Umbria, Marco Pierini, hanno sottoscritto, nei locali della Rocca Albornoziana di Spoleto, un protocollo di intesa per la promozione di iniziative congiunte dirette alla valorizzazione e alla tutela del patrimonio culturale ed archivistico, favorendo il coinvolgimento dei detenuti in attività di formazione e inserimento lavorativo, intra ed extra-moenia, e in attività culturali, artistiche e scolastiche, quali strumenti e veicoli di conoscenza e crescita personale. Lo rende noto il Dap - Dipartimento amministrazione penitenziaria. La Rocca Albornoziana, oggi prestigiosa sede museale, dal 1814 al 1982 ha ospitato l’istituto penitenziario cittadino. Con la sottoscrizione del Protocollo - prosegue la nota - si mantiene un legame simbolico e fattuale con il mondo del penitenziario, rendendo visibili le tracce di questo passato attraverso l’allestimento, in uno spazio appositamente dedicato, di testimonianze con le quali mostrare la vita della reclusione che, nelle sue diverse espressioni attraverso i secoli, testimonia con grande forza anche i segni dell’evoluzione storica della società. Prevista anche la realizzazione di attività culturali e artistiche rivolte sia all’interno che all’esterno dell’istituto penitenziario; l’attivazione presso la Casa di reclusione di Spoleto di attività laboratoriali strutturate e finalizzate alla produzione di parte del marchandising destinato ai siti che costituiscono il Sito seriale Unesco Italia Langobardorum; la realizzazione di percorsi educativi e proposte culturali rivolte alle scuole; la concessione gratuita all’Amministrazione penitenziaria degli spazi della Rocca Albornoziana per l’organizzazione di eventi. Napoli: 50mila sentenze ineseguite; giustizia nel caos, interviene il ministro Orlando di Dario Del Porto La Repubblica, 18 giugno 2016 Abbiamo un numero abnorme di sentenze non eseguite. Un dato grave, che incide sia sulla sicurezza, perché ci sono persone che dovrebbero essere arrestate e non lo sono, sia sul piano economico". Il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini legge la documentazione predisposta dal presidente della Corte d’Appello Giuseppe De Carolis e scuote il capo: il caso, anticipato da "Repubblica", dei 50mila verdetti divenuti irrevocabili ma tuttora fermi negli scaffali per mancanza di personale amministrativo piomba sul tavolo dell’incontro tra i capi degli uffici giudizi ari napoletani e la delegazione dell’organo di autogoverno dei magistrati, composta da Legnini e dai consiglieri Antonello Ardituro, Lucio Aschettino e Francesco Cananzi. Si muove anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che fa sapere di aver chiesto all’ispettorato di via Arenula "di svolgere accertamenti per individuare tutte le cause che, nel distretto di Napoli, hanno generato il problema di decine di migliaia di sentenze ineseguite". Il resoconto parla di 30mila sentenze di condanna non impugnate dopo il giudizio di appello e dunque ormai definitive. Di queste, 12mila prevedono che l’imputato sconti la pena in carcere. Invece i condannati sono tuttora a piede libero, non c’è traccia della decisione sul casellario giudiziale, non sono state riscosse le spese processuali ne confiscati i beni sotto sequestro. Altri ventimila provvedimenti sono di assoluzione o prescrizione, in questo caso l’imputato ha diritto alla restituzione di beni eventualmente sequestrati e all’iscrizione nel casellario giudiziale della conclusione favorevole del procedimento. "Non è possibile - sottolinea Legnini - che a fronte di un impegno straordinario da parte dei magistrati si arrivi al prodotto finale, cioè alla sentenza, che non può essere portato a termine". Questa situazione, ribadisce il vice presidente del Csm, "non è riconducibile a responsabilità dei magistrati, ma alla carenza di mezzi e di personale. Ma questi numeri - aggiunge - ci inducono ad assumere iniziative. Ce ne interesseremo noi e se ne stanno già occupando il presidente della Corte d’Appello e il procuratore generale Luigi Riello". Il dato, ricorda il presidente De Carolis, "era rimasto a lungo sommerso. Ora ne abbiamo preso atto e abbiamo avviato una sinergia con gli altri uffici per trovare una soluzione". Alla notizia dell’iniziativa disposta dal ministero, Ardituro replica: "Gli accertamenti sono inutili, la causa è chiara: mancanza di personale amministrativo". Nel distretto di Napoli, argomenta Legnini, "si concentrano tutte le criticità e le emergenze, ma anche le positività del sistema giudiziario italiano". Tanto che, rileva il procuratore generale Luigi Riello, "possiamo tranquillamente dire che Napoli è un’emergenza nazionale. Non è una guerra fra poveri, basta guardare i numeri: il carico di lavoro di un pm di Palermo è pari a un terzo di un pm di Napoli. Il solo tribunale di Napoli Nord abbraccia un territorio di un milione di abitanti. Prima i magistrati facevano la corsa per venire a la vorare qui, ora ci sono stati concorsi per Noia o Torre Annunziata che sono andati deserti. Ciò nonostante, ci sono dati positivi come lo straordinario lavoro delle Procure". Proprio il procuratore di Napoli Giovanni Colangelo ha lanciato un nuovo allarme: sta per scadere l’accordo con l’azienda umbra dove era stato trasferito l’archivio dell’ufficio: serve uno spazio di 10 mila metri per sistemare le carte. "Chissà, forse al posto delle eco-balle", stempera Legnini. L’auspicio dunque quello di poter ripartire dalle note positive per trasformare Napoli in un "laboratorio" per tutto il Paese. Negli uffici del distretto di Corte d’Appello, sottolinea Ardituro, "si registrano scoperture del personale amministrativo che vanno dal 20 al 40 per cento, ma è la stessa pianta organica ad essere insufficiente. Una situazione drammatica e allarmante, per giunta in un territorio caratterizzato da una realtà economica, sociale e criminale senza eguali". Cananzi ricorda che "i magistrati non intendono farsi scudo della carenza di personale, ma è innegabile che l’altissima produttività si inceppa quando si devono mettere in esecuzione i provvedimenti". Quella pro duttività, rimarca Aschettino, "che è in aumento in tutti gli uffici, un dato che onora i magistrati e va ascritto a merito anche dei capi degli uffici. Ma diventa tutto inutile se non si mettono in campo le risorse e il personale". Nel pomeriggio la delegazione ha visitato gli uffici di Aversa-Napoli Nord, il più giovane tribunale d’Italia "che si occupa del territorio con la maggiore densità criminale del Paese", evidenzia il consigliere Ardituro. "Atre anni dalla sua istituzione il tribunale manca ancora di strutture adeguate per la celebrazione dei processi penali", ha affermato il presidente, Elisabetta Garzo. Napoli: condannati in libertà, 12mila i casi di Fulvio Fiano Corriere della Sera, 18 giugno 2016 Le sentenze non vengono eseguite perché manca il personale. Nel distretto giudiziario di Napoli ci sono 50 mila sentenze definitive non eseguite, 20 mila di assoluzione e 30 mila di condanna. E tra le condanne 12 mila riguardano l’esecuzione di pene detentive. Migliaia di persone - con condanne oltre i due anni - dovrebbero essere in carcere e invece non ci sono i mezzi per dare seguito alle sentenze. Il ministro Orlando ha disposto l’invio degli ispettori. A volerla guardare in positivo si può mettere così: nei tribunali di Napoli (la sede centrale e quello di Aversa-Napoli Nord istituito tre anni fa) la tanto vituperata lentezza dei giudici produce sentenze a un ritmo più alto di quanto il sistema giustizia sia in grado di assorbire. Ma sui dati forniti dal presidente della Corte d’Appello, Giuseppe De Carolis, in una lettera al ministro Andrea Orlando e rilanciati ieri dal vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, il campanello d’allarme suona forte: "Nel distretto ci sono oggi 50 mila sentenze definitive non eseguite, di cui 20mila di assoluzione e 30mila di condanna", sottolinea Legnini. E tra le condanne, ribadisce De Carolis, "12mila riguardano esecuzione di pene detentive. Migliaia di persone che - se le condanne superano i due anni - dovrebbero essere in carcere e invece non ci sono i mezzi per dare seguito alle sentenze. Le soluzioni ci sono, ma occorre far presto". Il ministro Orlando ha già disposto l’invio degli ispettori: "Stiamo prevedendo una serie di misure di rafforzamento della presenza del personale di cancelleria, ma distretti che hanno uguali scoperture non hanno accumulato questo ritardo". "Una nuova ispezione è inutile. La causa è chiara: la mancanza di personale amministrativo", ribatte il consigliere del Csm, ed ex pm anticamorra, Antonello Ardituro. Navigando più in profondità nei dati, la situazione si aggrava. Intanto le condanne ineseguite riguardano spesso più persone alla volta, quindi il numero di "detenuti virtuali" va rivisto al rialzo. Poi c’è un fattore economico, sottolineato dal procuratore generale di Napoli, Luigi Riello: "Si parla anche di confische non eseguite, con il duplice aspetto che beni sotto sequestro restano a carico dello Stato per la gestione e non producono introiti con le possibili vendite. E mancata esecuzione significa anche mancato incasso delle pene pecuniarie". Le ragioni di questo disastro sono diverse. Il blocco delle assunzioni che risale al 1998, salvo quelli che Riello definisce "pannicelli caldi" forniti sporadicamente negli anni. Il Csm fa una stima tra il 20 e il 40% di personale mancante negli uffici. E quello che c’è, aggiunge De Carolis, "spesso non è formato a sufficienza o è calcolato su piante organiche stimate per carico di lavoro precedente alle ultime riforme". Una metafora del presidente della Corte d’Appello sembra efficace: "È come avere i chirurghi in sala operatoria senza il decisivo apporto degli infermieri". Le sentenze non eseguite nel 2009 erano 15mila. Sono quindi aumentate al ritmo di cinquemila l’anno. E sulla Corte d’Appello, competente per le delle esecuzioni, grava ora anche Napoli Nord, che include il territorio dei Casalesi, città come Caivano, la Terra dei Fuochi, e su cui gravita un milione di persone. Il neonato tribunale è già in apnea. "A Napoli si concentrano tutte le criticità ma anche le positività del sistema giudiziario per l’impegno dei magistrati che ci lavorano", sottolinea Legnini. "Il distretto giudiziario di Napoli è il più grande d’Italia - ragiona Riello - e nell’ultimo anno ha prodotto la cattura di 55 latitanti, il sequestro di beni per 1,3 miliardi di euro e, a conferma indiretta del lavoro svolto, un attentato sventato al procuratore Giovanni Colangelo. Siamo di fronte a un’emergenza nazionale, con magistrati frustrati e cittadini senza risposte". Perugia: la sottosegretaria alla giustizia Chiavaroli in visita al carcere di Capanne perugiatoday.it, 18 giugno 2016 Niente sembra essere fuori posto. La vita all’interno del carcere di Capanne scorre lenta come in tutte le case circondariali d’Italia, ma a differenza delle altre l’istituto di reclusione diretto da Bernardina Di Mario ha deciso di fare del principio della "rieducazione del detenuto" una ragione di vita. L’idea di rimanere immobili all’interno della propria cella, guardando la tv, non è contemplato. I detenuti si alternano infatti tra un’attività e l’altra. Ed è così che costruire piccoli souvenir o imparare un mestiere diviene a Capanne una regola perentoria. Un successo che ha lasciato piacevolmente stupita la sottosegretaria alla giustizia Federica Chiavaroli, accompagnata nel suo viaggio dal coordinatore regionale di Ncd-Aria Popolare Massimo Monni e dalla senatrice del Pd Nadia Ginetti. Non è un segreto che da tempo il guardasigilli Orlando stia pensando di modernizzare gli istituti penitenziari o di spostarli direttamente fuori dalle città. Un cambiamento da tempo nell’aria e che ben si sposa con il concetto di pena che il carcere di Capanne porta avanti. Esempio unico nel suo genere è l’azienda agraria del carcere. A coltivare i vasti appezzamenti di terra sono i detenuti, gli stessi che poi rivendono frutta e ortaggi ai cittadini. Basta una semplice mail per farsi consegnare direttamente a casa la merce. Prezzo esiguo e prodotti biologici assicurati. Nel reparto femminile si è invece deciso di insegnare un mestiere a tutte quelle donne che hanno intenzione di uscire dalla casa di reclusione e rifarsi una vita. La direttrice ha deciso, quindi, di aprire per loro un corso di sartoria. Ma c’è chi dentro al carcere riesce persino a studiare e conseguire la laurea, grazie ai tutor presenti. Dietro le sbarre c’è anche chi ha deciso di prendere parte a un corso di teatro e chissà che non diventi un nuovo protagonista di qualche film di Garrone che nel suo "Reality" fece recitare come attore protagonista un ergastolano. Undici degli ospiti di Capanne hanno invece costituito un gruppo per lo studio della Bibbia mentre in 15 hanno dato vita a una squadra di calcio. Insomma un piccolo microcosmo che ha come scopo principale quello di restituire alla società persone che evitino, una volta uscite, di vivere di espedienti, ma al contrario riescano a ricostruire la propria vita. Esperimento che a volte fallisce, ma che in altri casi risulta invece vincente. Messina: oggi manifestazione dell’Ugl Polizia penitenziaria contro il sovraffollamento antimafiaduemila.com, 18 giugno 2016 "Oggi, sabato 18 giugno, l’Ugl Polizia penitenziaria ha organizzato un presidio davanti al Carcere Gazzi di Messina, in via Consolare Valeria 2, dalle ore 11:00 alle ore 13:30, per protestare contro il sovraffollamento dei penitenziari siciliani, la carenza di personale e la mancata attuazione della rotazione dei dirigenti penitenziari". Lo rendono noto Antonio Solano, segretario provinciale dell’Ugl Polizia Penitenziaria di Messina, e Antonio Donato, componente della segreteria provinciale dell’Ugl Polizia Penitenziaria di Messina, spiegando che "abbiamo scelto di organizzare questa manifestazione davanti al Carcere Gazzi perché è un simbolo delle condizioni di insicurezza e di precarietà in cui sono costretti ad operare quotidianamente gli agenti, visto che, solo per fare un esempio, sono in attesa da tempo dello smaltimento di circa 250 metri quadrati di eternit presenti nella struttura. È inoltre paradossale - affermano - che da oltre un anno non ci sia acqua calda corrente per i poliziotti e gli ambienti destinati al personale femminile siano sprovvisti di servizi igienici, nonostante lo preveda la legge". "Con la nostra protesta - proseguono - chiediamo anche una valorizzazione delle professionalità in linea con circolari e disposizioni contrattuali, sia per il carcere di Messina che per tutti gli altri istituti penitenziari". Alla manifestazione interverranno l’On. Vincenzo Figuccia (Fi), deputato dell’Assemblea Regionale Siciliana, Alessandro De Pasquale, segretario generale Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Messina, segretario regionale Ugl Sicilia, Antonio Piazza, segretario regionale Ugl Polizia Penitenziaria Sicilia. A sostegno delle ragioni della protesta, parteciperanno alla manifestazione anche l’Associazioni Codici Sicilia, delegazione territoriale di Messina, con la responsabile Melita Cafarelli, l’associazione Diritti e tutele - AD&T e il sindacato Sippe. Pesaro: tra carcere e città, il rugby pesarese diventa "extra" Ristretti Orizzonti, 18 giugno 2016 "L’Arte Sprigionata": cultura e sport offerti ai più piccoli attraverso il gioco. "Conoscere il rugby giocando" è il titolo del laboratorio sportivo organizzato per martedì 21 giugno - dalle ore 17:30 alle 19:00 - nel parco adiacente la biblioteca comunale San Giovanni in via Passeri a Pesaro; rivolto a bambine/i dai 6 ai 14 anni, l’appuntamento è aperto gratuitamente a chiunque e prevede un tradizionale "Terzo Tempo" trasformato in una merenda condivisa, arricchita da premi e gadget. Inserito tra le numerose attività della XIII edizione de "L’Arte Sprigionata - L’Errore", in svolgimento dal 20 al 22 giugno, il laboratorio punta ad offrire un pomeriggio divertente, trascorso all’aperto e in luogo di cultura; si è scelto il parco come luogo privilegiato per il gioco, ma anche come teatro per la formazione dei più piccoli, con l’intenzione di avvicinarli ai valori che il Rugby veicola: rispetto, condivisione, disciplina, partecipazione, divertimento. Nel corso dell’evento, sarà possibile correre, saltare e rotolare in tutta sicurezza, apprendendo i principi fondamentali del gioco; tecnici della "palla ovale" pesarese e i "piccoli grandi giocatori" dell’Asd Formiche Rugby Pesaro con i loro educatori, ne daranno dimostrazione, coinvolgendo i presenti. Ad animare l’iniziativa, anche lo staff del corso "Extra: il Rugby per rieducare" che, ogni sabato mattina, propone attività motoria e conoscenza del gioco ai detenuti della Casa Circondariale Pesaro - Villa Fastiggi; riscuotendo il patrocinio della Federazione Italiana Rugby con il supporto tecnico/logistico dell’Asd Pesaro Rugby, il progetto è totalmente autofinanziato e reso possibile dalla collaborazione volontaria di un nutrito gruppo di appassionati. Dal 27 febbraio scorso, la disponibilità di arbitri (Davide Gatta, Giacomo Gargamelli, Dario Merli), educatori (Andrea Nucci, Alberto Convertino, Vittorio Petretti, Luca De Angelis, Domenico Azzolini, Manuel Shao), tecnici locali (Giuseppantonio De Rosa, Marco Boccarossa, Annunzio Subissati, Ivan Federici), giocatori in attività (Andrea Salvatori, Matthias Canapini, Smail Jaouhari, Andrea Pozzi, Cristian Silvestri), allenatori nazionali (Massimiliano Zancuoghi, Ernesto Ballarini, Roland De Marigny), esperti di psico-motricità educativa (Pierpaolo Gambuti, Giancarlo D’Amen) operatori della comunicazione (Alessandro Vicario, Corrado Belli, Enrico Masi), valutatori (Matteo Diotalevi, Simone Mattioli) e fundraiser (Elena Storoni), dimostra la possibilità di uno sport veramente sociale, capace di sconfiggere pregiudizio e difficoltà. Fornendo opportunità di riscatto, speranza e alternativa. Soprattutto in carcere. Lucca: i segreti dello scienziato che parla con i serial killer di Paola Taddeucci Il Tirreno, 18 giugno 2016 Kent Kiehl, ospite di Imt a Lucca, ha ascoltato e studiato cinquecento criminali psicopatici negli Usa. Ha parlato con tremila criminali detenuti nelle carceri degli Stati Uniti. Tra loro anche cinquecento psicopatici, autori di orribili reati, che ha ascoltato ed esaminato per mesi, un pò come la recluta dell’Fbi Clarice Sterling con Hannibal Lecter nel "Silenzio degli innocenti", prima romanzo e poi celebre film del 1991. E anche lui, come Clarice, voleva capire cosa accade nella mente di un criminale. Il professor Kent Kiehl ci è riuscito, con metodi e risultati sorprendenti che hanno ribaltato l’immagine media dello psicopatico - estremizzata e sensazionalistica - diffusa a suo parere proprio da quel film. Neuro-scienziato di fama mondiale all’università del New Mexico di Albuquerque, Kiehl è stato chiamato dalla scuola Imt di Lucca ad illustrare i suoi studi: la conferenza, aperta al pubblico e incentrata sul rapporto tra neuroscienze e diritto penale, è in programma questa mattina alle 11,30 nella sede della scuola in piazza San Francesco. L’idea del professore è che la psicopatia, ben diversa dalla psicosi, sia un disturbo mentale prevenibile, sul quale incidono fattori genetici e ambientali. Deriva infatti da cause organiche, cioè alterazioni del cervello che regolano l’elaborazione emotiva, ma è associato a problemi in famiglia, sul posto di lavoro, con gli amici. Gli psicopatici - a parere di Kiehl - sono molto più numerosi di quanto si creda e non corrispondono all’immagine estremizzata che viene data nei film e in tv. "Solo uno su 150 - ha dichiarato in alcune interviste - mostra i classici segni clinici della malattia. Ciò significa che centinaia di migliaia sono fuori, tra la gente. La maggior parte non è violenta, ma arriva alla violenza e al crimine dopo una vita disturbata, nomade o disorganizzata". Non prova, però, empatia, sensi di colpa o rimorsi. "E lo psicopatico perfetto - ha riferito il professore - è ancora di più antisociale, totalmente privo di coscienza, affettivamente piatto. Lo si capisce quando si guarda negli occhi". Di sguardi anaffettivi il neuro-scienziato ne ha incontrati a centinaia dentro le carceri statunitensi. Questa ricerca, oltre che sui colloqui frontali con i detenuti, si è basata su un approccio innovativo. Per superare le ovvie limitazioni del regime carcerario, Kiehl ha fatto costruire appositamente una macchina di risonanza magnetica portatile montata su un camion, con il quale insieme ai suoi collaboratori ha girato la maggior parte delle prigioni americane, sottoponendo i carcerati a sofisticati esami cerebrali. Questi studi hanno portato alla realizzazione del Mind Mobile Mri System, grazie al quale sono stati raccolti i dati dell’attività cerebrale di circa tremila criminali: è il più grande database del mondo in questo campo, fondamentale per comprendere meglio quali strategie di prevenzione adottare e di grande importanza nel diritto penale. Proprio per questo il professore è molto attivo come consulente nelle aule dei tribunali statunitensi e come conferenziere nelle università di tutto il mondo. La sua visita alla scuola Imt di Lucca si inquadra nell’ambito della collaborazione esistente da anni con il gruppo di ricerca del professor Pietro Pietrini, direttore della scuola, studioso dei comportamenti umani e pioniere dell’introduzione delle neuroscienze in ambito forense e giuridico. Migranti, in Europa calano le nuove richieste di asilo. Fa eccezione la Germania Redattore Sociale, 18 giugno 2016 Nel periodo gennaio-marzo 2016, i richiedenti asilo nei Paesi europei sono stati 287.100, mentre nel trimestre ottobre-dicembre 2015 hanno toccato quota 426 mila. Il maggior numero di richieste arriva dai siriani (102 mila). Sono oltre un milione le richieste pendenti. Durante il primo trimestre del 2016 (da gennaio a marzo), sono 287.100 richiedenti asilo che hanno chiesto protezione internazionale negli Stati membri dell’Unione europea, un dato in calo del 33% rispetto al quarto trimestre del 2015 (quando sono stati registrate 426 mila richieste). Con oltre 102 mila richieste, i siriani sono rimasti la prima nazionalità, davanti a iracheni e afgani (entrambe con circa 35 mila richieste). Essi rappresentano i tre principali nazionalità di richiedenti asilo prima volta in gli Stati membri dell’Ue rispetto al primo trimestre 2016, pari al 60% di tutte le richieste. Sono questi i dati sull’asilo nell’Unione Europea che provengono da un rapporto pubblicato da Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione europea in occasione della Giornata mondiale del rifugiato (che si celebra il 20 giugno 2016). Sei su dieci chiesto asilo in Germania. Durante il primo trimestre 2016, il più alto numero di richieste è stato registrato in Germania (con quasi 175 mila richiedenti, il 61% del totale dei candidati negli Stati membri dell’Ue), seguita da Italia (22.300, 8%), Francia (18 mila, pari al 6%), Austria (13.900, il 5%) e Regno Unito (10.100, 4%). Tra gli Stati membri con un elevato numero di richiedenti asilo, i numeri nel primo trimestre 2016 rispetto al trimestre precedente sono scesi in particolare negli Stati membri nordici - Svezia (-91%), Finlandia (-85%) e Danimarca (-74%) - nonché nei Paesi Bassi (-72%), Belgio (-70%), Lussemburgo (-59%) e in Austria (-55%). Maggior numero di prime candidature rispetto alla popolazione. Rispetto alla popolazione di ciascun Stato membro, il tasso più alto di richieste durante il primo trimestre 2016 è stato registrato in Germania (2.155 candidature per milione di abitanti) e in Austria (1.619), davanti a Malta (904), Lussemburgo (888), Svezia (790), Cipro (749) e Ungheria (693). Dall’altra parte, le incidenze più basse sono state osservate in Slovacchia (3 candidati per milione di abitanti), Estonia (4), Romania (11), Lituania (13), Portogallo (14) e Lettonia (16). Nel primo trimestre 2016, ci sono stati in totale 565 richieste per milione di abitanti nell’Ue. Più di un terzo dei richiedenti asilo continuato ad arrivare dalla Siria. La Siria (36% di prime richieste) è rimasto nel primo trimestre del 2016 il principale paese di provenienza dei richiedenti asilo negli Stati membri dell’Ue. Dei 102.400 siriani richiedenti asilo nel corso del primo trimestre 2016, più dell’85% sono stati registrati in Germania (88.500). In totale, i siriani rappresentato la nazionalità principale dei richiedenti asilo in sette Stati membri dell’Ue. Iraq e Afghanistan (12% ciascuno del numero totale di richiedenti asilo) sono stati la seconda e la terza nazionalità dei richiedenti asilo. Dei 35 mila iracheni in cerca di protezione di asilo negli Stati membri dell’Ue nel periodo gennaio-marzo 2016, quasi i tre quarti (25.600) lo hanno trovato in Germania. Dei quasi 35 mila afgani, anche in questo caso più della metà sono stati registrati in Germania (19.800). Oltre un milione di richieste di asilo pendenti. Alla fine di marzo 2016, poco più di 1 milione di domande di asilo negli Stati membri dell’Ue erano sotto esame da parte dell’autorità nazionale responsabile. Un anno prima, alla fine di marzo 2015, le domande erano circa 560 mila. Con 473 mila domande pendenti alla fine del mese di marzo 2016 (il 47% del totale Ue), la Germania ha di gran lunga la quota maggiore, davanti a Svezia (147.300, 15%), Austria (84.500, 8%), Italia (60 mila, pari al 6%) e Francia (42.900, 4%). L’accoglienza rende migliori gli immigrati di Federico Fubini Corriere della Sera, 18 giugno 2016 Il numero dei detenuti stranieri aumenta ma una ricerca dimostra che, se li si regolarizzala loro tendenza a delinquere scende radicalmente. Una delle ragioni che porta tanti italiani a diffidare degli immigrati, soprattutto se irregolari, è che questi ultimi commettono molti più reati rispetto ai nativi. Non è un argomento infondato, ma una realtà innegabile. In tutti i Paesi europei la popolazione carceraria di stranieri è, in proporzione, un multiplo talvolta anche di decine di volte superiore alla quota degli immigrati sul totale degli abitanti. Gli stranieri finiscono più spesso in carcere, anche in Paesi dove lo stato di diritto è rigorosamente rispettato e protetto, semplicemente perché violano il codice penale più spesso. Per esempio, in Italia nell’anno duemila gli stranieri erano meno del 5% della popolazione ma i residenti stranieri nelle carceri rappresentavano quasi il 30% del totale dei detenuti. La stessa sproporzione si conferma in Olanda, in Grecia o in modo più attenuato in Germania, Finlandia o Spagna. La reazione più ovvia per ridurre il tasso di criminalità sarebbe dunque quella apparentemente più semplice. Chiudersi. Rendere l’immigrazione illegale. L’esperienza però insegna che molto spesso non funziona, o più probabilmente mai. Gli stranieri che vogliono arrivare in Italia senza permesso di lavoro lo fanno con un visto turistico, per poì restare illegalmente dopo che sarà scaduto; oppure ancora più numerosi sbarcano direttamente dalle zattere del Mediterraneo, appellandosi a un diritto di asilo che molto spesso non verrà loro riconosciuto. L’alto tasso di criminalità degli stranieri è il tipico fenomeno che non si governa semplicemente rendendo le migrazioni illegali. Serve qualche altra strategia, partendo da prove empiriche su cosa funziona e perché. Un contributo per molti aspetti illuminante arriva da due economisti, Giovanni. Mastrobuoni del Collegio Carlo Alberto e dell’Università di Essex e Paolo Pinotti dell’Università Bocconi, che hanno condotto un vero e proprio esperimento naturale grazie a due eventi quasi perfettamente concomitanti: l’amnistia dell’agosto del 2006, che ha fatto uscire dalle carceri circa ottomila persone, e l’ingresso di Bulgaria e Romania nell’Unione Europea il primo gennaio 2007, che ha permesso a molte migliaia di cittadini di quei due Paesi di diventare di colpo da "clandestini" in Italia a cittadini dotati pressoché di tutti i diritti (e i doveri) dei cittadini italiani. Mastrobuoni e Pinotti, quasi come in uno studio di laboratorio, confrontano il comportamento di due gruppi simili di detenuti stranieri irregolarmente presenti in Italia e poi scarcerati con l’amnistia dell’agosto 2006: circa ottocento rumeni e bulgari e circo 1.80o fra albanesi, bosniaci, croati, kosovari, macedoni, montenegrini e serbi. In altri termini ci sono persone con storie simili, l’immigrazione irregolare in Italia, e retroterra simili di emersione dal socialismo reale dell’Europa orientale e l’origine da Paesi candidati a entrare nell’Unione Europea. La differenza è la cesura dell’allargamento, perché il primo gennaio 2007 solo Romania e Bulgaria entrano nella Ue. Per questo il comportamento di questi due campioni di immigrati irregolari apre uno squarcio sulla realtà. Ciò che fa vedere, è che negli ultimi mesi del 2oo6 e nei primi del 2007 questi due gruppi di persone simili iniziano a comportarsi in modo diverso. Un certo numero di ex detenuti tornano a delinquere con reati economici (per esempio furto o truffa) e vengono rapidamente riarrestati. Tuttavia il tasso di ricaduta dei rumeni e dei bulgari si dimezza e oltre, anche se prima era in tutto simile a quello degli altri. Il messaggio è chiaro: non appena diventano regolari, dunque possono cercare lavoro legalmente, questi stranieri hanno nettamente ridotto la loro propensione a delinquere. Quelli che restano illegali invece no, continuano a delinquere come prima perché non vedono altre opportunità di guadagno. D’altra parte rumeni e bulgari mostrano dopo la regolarizzazione una tendenza a commettere più spesso reati non economici - risse e violenza sessuale - perché hanno più fiducia che comunque non saranno espulsi dal Paese. Tutti i crimini sono odiosi, alcuni più di altri, ma non c’è dubbio che i reati economici come il furto sono circa il 50% del totale dei crimini commessi in Italia. Sarebbe arrogante trarre lezioni a colpo sicuro da questa prova di laboratorio di Mastrobuoni e Pinotti. Ma essa ci ricorda una realtà: gli immigrati sono tanto meno nocivi e più utili alla società, quanto più l’Italia stessa saprà integrarli. Illudersi di tenerli fuori dalla porta, solo perché non hanno i documenti a posto, non è una soluzione. Medici senza Frontiere non ci sta di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 18 giugno 2016 L’Ong rifiuta 63 milioni di euro dall’Europa per protesta verso la politica dei respingimenti. Oberreit, segretario generale di Msf: "Il patto Ue-Turchia nega il concetto stesso di asilo". La parola shame, vergogna, ricorre più volte nel comunicato con cui ieri Medici senza Frontiere dà l’addio a tutti i finanziamenti, e alle relative collaborazioni con le istituzioni europee, per l’applicazione dell’accordo Ue-Turchia sui migranti. "Per mesi Msf ha denunciato la vergognosa risposta europea, concentrata sulla deterrenza invece che sulla necessità di fornire alle persone l’assistenza e la protezione di cui hanno bisogno", ha detto in conferenza stampa a Bruxelles Jérôme Oberreit, segretario generale internazionale di Medici Senza Frontiere, organizzazione premio Nobel per la pace 1999, per spiegare come è arrivato il gesto del gran rifiuto. Un gesto effettivamente eclatante perché - anche se la portavoce della Commissione Ue Margaritis Schinas è corsa a dire, cercando di ridimensionarne l’impatto, che "Msf non è un partner attuativo dell’aiuto umanitario in Turchia, né ha fatto richiesta di finanziamenti per le sue attività in Turchia, di conseguenza la decisione non colpirà alcuna attività umanitaria per i profughi in Turchia" - l’organizzazione ha deciso di rifiutare 63 milioni di euro che gli venivano dall’Unione europea e dagli stati membri. Si trattava, nel bilancio dello scorso anno, di 37 milioni di fondi provenienti dagli stati Ue e di 19 milioni di euro direttamente erogati dallle istituzioni comunitarie di Bruxelles. Il blocco dei fondi europei avrà effetto immediato e si applicherà ai progetti Msf in tutto il mondo. Il budget si ridurrà ma non intaccherà la solidità dell’Ong, visto che il 92 per cento dei fondi che gli consentono di fornire aiuti medici e servizi, dai soccorsi per le catastrofi naturali alla gestione di interventi di emergenza in zona di guerra, gli arrivano da risorse private, dai grandi mecenati alle piccolissime donazioni mensili di singoli cittadini. Il rifiuto di questi soldi è una pesante denuncia politica di tutta la politica europea sui migranti, imperniata appunto sull’accordo con la Turchia dello scorso 20 marzo. Il 49enne segretario generale Oberreit, che viene da esperienze decennali in Africa, lo ha detto chiaramente: il patto tra Europa e Turchia costituisce un precedente pericoloso per gli altri Paesi che ospitano rifugiati, come dimostra la proposta fatta settimana scorsa dalla Commissione europea di replicare la logica del patto in altri 16 paesi africani e mediorientali con i cosiddetti European compact. Questi accordi ispirati a quello con Erdogan - ha scandito Oberreit - "hanno l’unico scopo di negare il diritto d’asilo" e rischiano di bloccare in Eritrea, Afghanistan, Sudan e Somalia - i quattro paesi che forniscono la maggior parte del flusso di profughi insieme alla Siria - le persone in fuga dai conflitti armati. Il giudizio durissimo, senza appello, di Msf sull’accordo Ue-Turchia è che "mette in forse lo stesso concetto di rifugiato e asilo". E perciò Msf non risparmia neanche la Grecia, dove 50 mila profughi siriani sono ancora accampati in condizioni vergognose tra ruderi di palazzi e tende, in attesa di un improbabile ricollocamento nei paesi più sviluppati del Nord Europa o addirittura di essere rispediti indietro, oltre la frontiera turca ora tendenzialmente sigillata. "Chiediamo ai governi europei di rivedere le priorità: invece di massimizzare il numero di persone da respingere devono massimizzare il numero di quelle che accolgono e proteggono", ha chiesto Oberreit. "Il patto Ue-Turchia è stato presentato come una risposta umanitaria ed è questo che noi rifiutiamo perché in realtà si tratta di una risposta anti-umanitaria", ha aggiunto Aurelie Ponthieu, consigliera per le migrazioni di Msf. Ieri il ministro greco alle Migrazioni Ioannis Moulazas, prima di incontrare con Alexis Tsipras il segretario generale Onu Ban Ki-moon in visita di due giorni ad Atene e Lesbo proprio per verificare il rispetto dei diritti umani dei migranti bloccati in Grecia - ha reiterato in tv la richiesta ai vicini turchi di vigilare sulle frontiere e arrestare i migranti che intendono attraversarle, dopo che negli ultimi due giorni almeno 200 persone sono tornate a tentare la traversata dell’Egeo. Il Parlamento di Atene ha anche cambiato la costituzione della commissione preposta a rilasciare lo status di rifugiato: i due membri rappresentanti dell’Onu e della commissione nazionale diritti umani sono stati sostituiti con due magistrati. Ankara per tutta risposta ha arrestato 51 migranti - siriani e eritrei - in procinto di imbarcarsi per le isole greche. Tra questi 13 donne e nove bambini. Lady Pesc, Federica Mogherini ha detto che la Ue è pronta a sostenere missioni europee in Niger e Mali per cooperare con questi paesi a Sud della Libia a una "gestione integrata dei controlli alle frontiere". Ad Agadez in Niger - il più grande mercato per la tratta e i trafficanti di merce umana del continente - esistono già uffici di Frontex e si sta insediando una missione congiunta Ue-Unione africana. E mentre il Kenya, in ottemperanza alle nuove direttive di respingimento europee, ha deciso di chiudere il mega campo profughi di Dadaab ricacciando in Somalia 330 mila sfollati di vent’anni di conflitti tra i signori della guerra, in Mauritania rischiano lo stesso destino i 41 mila maliani che continuano a ingrossare il campo di Mbera. Obama ai funerali delle vittime del Pulse insiste sul controllo delle armi di Marina Catucci Il Manifesto, 18 giugno 2016 Con le braccia cariche di rose bianche Obama e il vice presidente Joe Biden sono arrivati ad Orlando per assistere ai funerali delle 49 vittime del Pulse. Il discorso di Obama è stato una conferma; dopo aver rinnovato l’impegno contro il terrorismo esterno ed interno ha afffrontato, ancora una volta, il tema del controllo delle armi: "Il dibattito sulle armi deve cambiare. Alle famiglie delle vittime non interessa la politica, e non interessa neanche a me - ha affermato Obama - Le famiglie delle vittime del Pulse dovrebbero essere le nostre famiglie, sono parte della famiglia d’America". Mentre, ancora una volta, si cerca di far ragionare quella parte di senato che non sente ragioni sul tema del controllo delle armi, emergono nuovi particolari riguardo Mateen e lo svolgimento del massacro. Molta dell’attività dell’uomo si svolgeva in rete: si auto fomentava con i video di Isis su YouTube, faceva ricerche su i "martiri" di cui poi parlava con i colleghi di lavoro operando un meccanismo di riconoscimento e mischiando fantasia e realtà nella costruzione di una narrativa autobiografica tutta sua. Si riteneva discriminato in quanto musulmano ma non frequentava la moschea, semmai la palestra, in modo ossessivo e imbottendosi di steroidi. Si delinea il ritratto di una personalità disturbata, con manie di persecuzione e narcisista. Dai controlli è risultato che durante il massacro, Mateen non ha mai smesso di controllare su Facebook e Twitter la posizione del Pulse nei tranding topics, per vedere se e quanto se ne stesse già parlando in rete. Dall’interno della discoteca aveva chiamato la moglie in modo frammentario, le aveva spedito sms, ad anche nei messaggi aveva chiesto "Hai guardato Facebook? Ne stanno già parlando?". Come anni fa il pazzo omicida voleva finire in televisione, Mateen cercava la mediaticità immediata dei social, voleva essere lui una di quelle "star del massacro" che tante volte aveva visto in rete. Questo scambio di comunicazioni con la moglie è ciò che potrebbe incriminare lei, al momento non si sa quanto fosse coinvolta o a conoscenza dei piani del marito ed è ciò che gli investigatori stanno cercando di assodare. Non è nemmeno chiaro se la frequentazione ripetuta del Pulse da parte del killer sia stata dettata dalla necessità di compiere dei sopralluoghi o se da pulsioni omosessuali con le quali era in conflitto, rimane il fatto, che a prescindere dalle cause, quest’uomo disturbato, è entrato in un negozio ed ha potuto acquistare un’arma militare, legalmente. Dolore britannico oltre il Brexit. Il killer simpatizzava con i neo-nazi di Leonardo Clausi Il Manifesto, 18 giugno 2016 Il killer della deputata Jo Cox aveva in casa paccottiglia nazista. Il lutto nazionale congela la campagna referendaria. L’omaggio di Cameron e Corbyn. Un paese in autoanalisi. È il momento del lutto nazionale. Attorno all’una di venerdì, esattamente a 24 ore dall’assassinio della deputata Labour Jo Cox da parte del 52enne Thomas Mair, una delegazione di Westminster composta dal primo ministro Cameron, il leader laburista Jeremy Corbyn, il deputato laburista di Leeds Hilary Benn e lo speaker della Camera dei Comuni, il conservatore John Bercow, si è recata nella piazza di Birstall, il piccolo centro dello Yorkshire occidentale che faceva parte della circoscrizione di Cox dove è stata assassinata, per rendere omaggio alla sua memoria. Il circo della campagna elettorale è fermo in un silenzio surreale, fino a domenica. Fermi gli autobus colorati, revocati i comizi, placate le liti, spenti i megafoni. Ci si risveglia come dopo una sbornia violenta. Impossibile credere che fino a poco prima le due fazioni referendarie giocassero ai pirati in mezzo al Tamigi, tra spruzzi d’acqua e bandiere. Tra qualche giorno tutto riprenderà, certo, ma non sguaiatamente come prima. Per ora si lascia che il dolore, pubblico e privato, eserciti la sua severa funzione relativizzante: ristabilire negli animi scossi la gerarchia fra le cose del mondo. Jeremy Corbyn ha chiesto e ottenuto da Cameron la riconvocazione del Parlamento lunedì per un tributo formale di tutti i deputati alla loro collega, uccisa mentre svolgeva la sua funzione istituzionale nella costituency surgery, l’udienza periodica che ciascun membro della camera bassa ha con i propri elettori per discutere richieste, segnalazioni, lamentele, appelli. Tutti i parlamentari sono stati ufficialmente invitati a rivedere le procedure della propria sicurezza. Entrambi i leader dei due maggiori partiti, visti assieme in questa rara occasione - Corbyn ha fatto campagna a favore del Remain evitando finora di apparire al fianco di Cameron - hanno definito l’omicidio un attacco alla democrazia. Ora, è il momento del rassemblement: forse lunedì il parlamento non si ritroverà schierato nel tradizionale schema maggioranza opposizione, ma con i deputati mescolati in segno di unità. David Cameron, ha rivolto il pensiero al vedovo di Jo - Brendan, che via social media ha detto: "Credeva in un mondo migliore per il quale combatteva tutti i giorni" - e ai suoi due figli piccoli, rimasti senza la madre, morta a 41anni vicino al suo paese. "Uccisa da un atto di odio nella città che amava e in cui è cresciuta", ha detto Corbyn. Jo Cox, eletta deputata nel collegio di Batley and Spen, si definiva una Yorkshire lass, una ragazza orgogliosa del suo Yorkshire, l’austera regione del Nord del paese dove era cresciuta. Era una laburista di centro, occupava lo scranno di Westminster da poco più di un anno; aveva votato per Corbyn alla segreteria, ma si era detta poi pentita di averlo fatto; aveva votato favorevolmente all’intervento militare britannico in Siria "su basi umanitarie". Proveniva da una lunga carriera nella Ong Oxfam, aveva lavorato per i rifugiati siriani e del Darfur ed era apertamente favorevole al Remain. Ultimamente aveva ricevuto minacce telefoniche, ha riportato il Times, ma la polizia non aveva ritenuto necessario proteggerla. Di Mair, il suo uccisore di origine scozzese, finora si sa che era un individuo solo, un disoccupato appassionato di giardinaggio che faceva volontariato. Era considerato mansueto dai vicini, ma era anche un simpatizzante dell’ultradestra razzista. Gli hanno trovato in casa paccottiglia nazi. Di certo l’omicidio è stato particolarmente efferato, molteplici coltellate e almeno tre colpi di pistola, non si capisce bene ancora se un residuato o auto-costruita. Molto si specula sul suo presunto grido "Britain first", slogan che è anche il nome di un’organizzazione dell’ultradestra, spora del Bnp e ai margini (ma ufficialmente sconfessata) dell’Ukip, al momento dell’omicidio. Tra i testimoni c’è chi lo conferma. Ma potrebbe anche aver urlato "Put Britain first", nel qual caso il riferimento diretto alla formazione fascionazionalista verrebbe meno, come il suo leader, Paul Golding, ha avuto tutto l’interesse a sottolineare. Nel frattempo è cominciata una dolorosa autoanalisi. A cinque giorni dal voto referendario, la Gran Bretagna si guarda allo specchio per capire dove stia davvero andando. Oltre che sulle modalità e causalità di questo omicidio, ci si interroga sul clima che lo ha prodotto: un clima aspro e, nelle ultime due settimane, particolarmente incattivito. Che s’innesta in una sempre maggiore ostilità - di lungo periodo - dell’opinione pubblica nei confronti dei propri rappresentanti. E dove la destra euroscettica, compresi i due conservatori a capo del Leave, Boris Johnson e Michael Gove - in queste ore in basso profilo - non ha esitato a soffiare sul fuoco del malcontento in quella che, al pari di Nigel Farage e di campioni della grettezza tabloid come il Daily Mail, veniva dipinta ormai regolarmente come l’"invasione", lo "sciame" migratorio contro il quale bisogna "riprendere il controllo" del proprio paese. Pattume retorico-nazionalistico sempreverde che ci si è deliberatamente lasciati sfuggire di mano finché sembrava assicurare, senza particolari sforzi, preziosi dividendi percentuali nei sondaggi. Egitto: dietro le sbarre del regime di Chiara Cruciati Il Manifesto, 18 giugno 2016 Una campagna raccoglie le storie dei prigionieri politici di al-Sisi, aumentati del 300% dai tempi di Mubarak. La paranoica dittatura dell’ex generale, intanto, costruisce l’undicesima prigione in 3 anni. Il regime egiziano ha bisogno di spazio per raccogliere gli effetti della repressione politica: spunta l’undicesima nuova prigione degli ultimi tre anni. Un record: fino al 2011 le carceri egiziane erano 42, ora sono 53 contando l’ultima che sarà costruita a Qalyubia. Un 26% in più che si spiega con un altro numero, quello dei prigionieri politici: se negli ultimi anni della dittatura Mubarak oscillavano tra 5 e 10mila, oggi - secondo Gamal Eid, direttore dell’Arabic Network for Human Rights Information (Anhri), lui stesso nel mirino del governo - oggi sarebbero 41mila. Un +300%. Difficile dare numeri certi. C’è chi alza l’asticella fino a 60mila, di cui 29mila membri (o sospetti tali) dei Fratelli Musulmani. Ma fare bilanci è quasi impossibile a causa della strutturale politica di sparizioni forzate documentate con difficoltà dalla società civile: nel 2015 l’Egyptian Commission for Rights and Freedom (Ecrf) era riuscita a contarne 1.841. Nel mare magnum delle prigioni egiziane sono state risucchiate decine di migliaia di persone su cui oggi una nuova campagna attira l’attenzione. "Voices behind Bars", voci dietro le sbarre, è stata lanciata mercoledì da 10 organizzazioni per i diritti umani, tra cui Anrhi e Ecrf, ma anche il noto Nadeem Center. Basta aprire il sito per capirne gli obiettivi: i volti e le storie di alcuni detenuti politici di al-Sisi sono là, uno in fila all’altro. Ci sono la giovanissima Sana Saif e suo fratello, il leader di piazza Tahrir Alaa Abdel Fattah, lo scrittore Ahmed Naji e l’avvocato Malek Adly. Ci sono i ragazzi del gruppo satirico Aftal al-Shawarea, i bambini di strada. E c’è Ahmed Abdallah, direttore dell’Ecrf e consulente della famiglia di Giulio Regeni, desaparecido del regime, barbaramente torturato e ucciso come tanti egiziani prima e dopo di lui. Per Abdallah Paola e Claudio Regeni avevano chiesto il rilascio immediato, ma sono trascorsi ormai due mesi dal suo arresto. Come ne sono passati quasi 5 dal giorno della scomparsa di Giulio. In entrambi i casi lo sdegno europeo è scemato, garantendo impunità al regime. Potrebbe dunque sorprendere la tenacia della società civile egiziana nel portare avanti campagne apparentemente invisibili agli occhi occidentali, ma estremamente pericolose per chi le conduce. Le accuse mosse ai prigionieri politici si ripetono come una litania, specchio della paranoia della dittatura: dal possesso di volantini che chiedono il rovesciamento del governo all’appartenenza a organizzazione terroristica, dall’incitamento alle violenze alla partecipazione a manifestazioni non autorizzate. Tutto coperto dall’ombrello soffocante della legge anti-terrorismo varata da al-Sisi. Non a caso il lancio della campagna coincide con il secondo anno di presidenza dell’ex generale, 24 mesi che hanno moltiplicato il numero di prigionieri politici. "Questo periodo, che non sarebbe mai cominciato senza le proteste di massa che hanno condotto alla cacciata dell’ex presidente Morsi, ha visto una repressione senza precedenti delle proteste pacifiche con un pacchetto di leggi che impone restrizioni a diritti e libertà", si legge nel comunicato della campagna. L’obiettivo è riempire il sito con le storie di centinaia di prigionieri, un archivio della dittatura, memoria digitale dell’autoritarismo militare. Ai volti si legheranno le analisi legali dei singoli casi, a dimostrazione dell’arbitrarietà della repressione e delle condizioni di vita nelle carceri egiziane: "Chi sceglie di esercitare i propri diritti è soggetto a detenzioni prima del processo e arresti punitivi e prolungati, sparizioni forzate, torture, diffamazione e minacce fisiche". Così la società civile prova ad entrare nelle celle di prigioni terrificanti: condizioni disumane e degradanti tra umiliazioni quotidiane, isolamento o celle sovraffollate, torture, carenza di cibo e igiene, caldo torrido d’estate e gelo d’inverno. E troppo spesso omicidi extragiudiziali, come Giulio. "La cosa più amara - scrive su al-Monitor il ricercatore Ahmed al-Buraj - è il silenzio della comunità internazionale. Eppure il budget di una sola prigione, quella di Jamasa, è di 100 milioni di dollari, cinque volte il bilancio del Ministero dell’Educazione e quello della Salute insieme".