In carcere da rieducati, ecco i paradossi del "residuo di pena" di Tiziana Colluto Il Fatto Quotidiano, 17 giugno 2016 Le carceri italiane sono già affollate ma al loro interno ci sono 19mila i detenuti che devono scontare un residuo inferiore ai tre anni e che avrebbero diritto alla misure alternative, se solo venissero accordate. In una lettera al Fatto Quotidiano un detenuto nel carcere di Lecce racconta cosa si prova a tornare in cella a 14 anni dai reati commessi, nel pieno del reinserimento sociale. Il cortocircuito è tema ignorato, spesso con la scusa dei fondi. "Bisogna lavorarci - dice il garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma - e preferire i progetti controllati alla detenzione, anche per i costi". "Ritornare in carcere quando si è già rieducati è insensato. È giusto che io debba scontare questa pena, ma esistono altre misure per chi ha già deciso di ravvedersi da tempo. Ecco perché io, educatamente, mi ribello a questo sistema". È il detenuto Andrea Bufano a scrivere, "da una delle celle della casa circondariale di Borgo San Nicola, a Lecce". Una lunga lettera al fattoquotidiano.it per raccontare cosa si prova quando fuori, da anni, ci si è rifatti una vita nella legalità piena e si è costretti all’improvviso a tornare dentro, rischiando di scivolare in una vecchia storia. È il paradosso dei residui di pena. Per molto tempo restano sospesi nel limbo del sistema decisionale; poi, diventano un definitivo, la richiesta di pagare il conto, di tornare dietro le sbarre. Con il rischio di un effetto boomerang tipico dei casi in cui si sradica una persona dal percorso lecito che ha costruito. "Non si tratta di rinunciare alla sanzione - riflette Mauro Palma, garante nazionale per i detenuti - ma di trovare altre forme più utili alla sicurezza complessiva, perché il carcere spesso non garantisce il maggiore inserimento sociale, bensì aumenta il rischio recidiva". Nessun censimento e tempi biblici per le alternative - "Poi, un giorno, la giustizia si è ricordata che ho un debito da saldare per un reato commesso nel 2001 e così, nel pieno della mia redenzione, composta da decespugliatore e penna, sono stato nuovamente arrestato: un vero trauma! Non mi è stato concesso nulla, nessun affidamento ai servizi sociali. Dunque, devo vegetare in carcere, dove l’ozio prende il sopravvento. E questo nonostante io abbia già una regolarissima richiesta di lavoro e una condotta esemplare". Andrea Bufano, 38 anni, è in cella dal dicembre scorso, per una rapina commessa quattordici anni prima. L’udienza per decidere l’eventuale affidamento in prova è stata fissata per settembre. "Passano mesi prima che venga valutata una richiesta simile - confermano da Antigone, l’associazione che da trent’anni si batte per i diritti e le garanzie nel sistema penale - e questo è un problema che sfugge ai piani alti. L’amministrazione penitenziaria non censisce questi casi, ma a noi capita spesso, durante le visite negli istituti, che gli stessi direttori ci facciano notare la difficoltà di essere chiamati a reinserire gente che fuori era già socialmente integrata, tanto da chiederci un aiuto nel sollecitare il Tribunale di Sorveglianza. Si tratta spesso di persone accusate di reati minori, rimesse in libertà dopo aver scontato la misura cautelare e riportate in cella a distanza di molto tempo, quando arriva l’ordine di esecuzione". La giustizia 14 anni dopo, nel pieno del riscatto - "Non è la prima volta che perdo la mia libertà - racconta Bufano - ma è il primo arresto da persona ravveduta. Nel 2006, quando ero ai domiciliari, ho deciso di intraprendere un nuovo percorso per una vita migliore e nel 2008 ho concluso la prima tappa, ossia quella con il Sert. Ne ho iniziata un’altra ancora più dura: quella per il reinserimento sociale. Ho fatto tutto da solo con le mie forze, mi sono inventato di tutto, ma trovare lavoro era una vera utopia. Nonostante ciò, sono andato avanti: avevo deciso di dire basta con la droga, con l’azzardo, con l’illegalità e con tutte le mie dipendenze croniche". La sua è stata, per sua stessa ammissione, una vita di eccessi: tra la fine degli anni ‘90 e il 2001 mette a segno cinque rapine in banca, nel Riminese. Per sette anni, fino al 2008, alterna carcere, domiciliari e affidamento in prova. Nel 2005, finisce nuovamente dietro le sbarre per possesso di cocaina. Poi, viene scarcerato grazie all’indulto. Da allora, cambia strada. Nel 2013, però, un’invasione di campo durante la partita Lecce-Carpi gli costa l’accusa di minacce e resistenza aggravata a pubblico ufficiale e viene rinchiuso per un mese e mezzo nella Dozza di Bologna. Il suo avvocato Giuseppe Milli riesce a dimostrare la sua innocenza, attraverso un video rimasto per mesi nel cassetto della Digos di Lecce e mai visionato dal pm, ma che avrebbe potuto scagionarlo subito. Dunque, l’assoluzione. "Ma per quell’arresto - spiega Bufano - ho perso tutto: lavoro e fidanzata. Mi è stato convalidato in base ai miei precedenti penali. Per questo ho deciso di combattere la morte civile e il pregiudizio, non quello della gente, bensì della giustizia verso chi, come me, ha fatto degli errori, ha pagato, ma viene condannato per sempre". Ne è nata un’autobiografia, "Neve a giugno", scritta tra un lavoro saltuario da giardiniere e una costante attività di volontariato nella cura del verde pubblico del comune di residenza, Martano (Le). Quel libro è diventato arma di riscatto personale e strumento di dialogo sociale: "Incredibilmente sono stato contattato dalle scuole, ben undici licei del Salento, da centri culturali, Comuni e altri enti, per raccontare di come cambiare vita sia possibile. Ho messo il mio vissuto a disposizione dei più giovani". E ha funzionato. Fino al 4 dicembre. La Cassazione, infatti, ha deciso: Bufano deve scontare un residuo di pena di tre anni, un mese e 17 giorni e pagare una multa da 15mila euro. "Io vorrei solo che qualcuno mi rispondesse: cosa si deve fare più di quello che ho fatto io per dimostrare di essersi ravveduti? Io rispetto la sentenza - è scritto nella lettera - ma chiedo che chi decide mediti a livello umano, guardando non solo ciò che una persona ha commesso in un passato remoto, ma anche ciò che è ora". Alternative per pochi, eppure per chi non è in cella recidiva allo 0,79% - Non c’è solo Andrea. È stata Antigone a dare voce, nel suo webdoc Insidecarceri, alla storia simile di un uomo ristretto a Montacuto, ad Ancona. "Sono qui per un fatto risalente a 21 anni fa - ha raccontato. Sono stato arrestato nel 1995, per decorrenza dei termini sono uscito nel ‘96 e da allora non ho più commesso reati. Nel 2012, mi è arrivato il definitivo di sei anni e dieci mesi. Nel frattempo cosa ho fatto? Ho aperto una pasticceria, ho ceduto una pizzeria, poi una rosticceria, ho formato una famiglia, ho una figlia di cinque anni. Ma il magistrato di sorveglianza non si è chiesto cosa io avessi fatto di buono e non ha pensato che forse era meglio che restassi a lavorare, perché ormai la riabilitazione me la sono fatta da solo. Invece, mi hanno mandato in carcere per riabilitarmi". "Galere d’Italia", il XII Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, dice che sono in tutto 19mila i detenuti che devono scontare un residuo inferiore ai tre anni e che avrebbero diritto alla misure alternative, se solo venissero accordate. Per chi ha scampoli di pena superiori al triennio, invece, non c’è possibilità di evitare la cella, almeno fino a quando il definitivo non si riduce sotto quella soglia. Eppure, i numeri sulla recidiva del reato durante le misure alternative sono incoraggianti: solo lo 0,79 per cento torna a delinquere. Sono 29mila, al momento, le persone che stanno affrontando la pena detentiva non in carcere: un terzo è ai domiciliari; 12mila sono in affidamento in prova; 6mila ai lavori di pubblica utilità; 724 in semilibertà. Il Garante: "meglio un progetto controllato della pena, ma i servizi sociali sono senza risorse" - "Le misure alternative non sono attenuazioni della misura carceraria, ma tappe di un percorso. C’è anche un nodo costi: se investo in queste, i frutti li vedrò più avanti, perché evito più facilmente la recidiva e avrò in futuro meno carcerati da mantenere". Parola di Palma, il garante dei diritti dei detenuti. Spiega: "L’elemento sanzionatorio va affermato, ma non dev’essere per forza la pena detentiva. È meglio avere un percorso controllato con restrizioni, per evitare il totale distacco da ciò che si è faticosamente costruito fuori". Quello dei residui di pena è un cortocircuito proprio dei Paesi con maggiori garanzie: "in base alla mia esperienza europea - continua Palma - un sistema che non ti considera in esecuzione penale fino a sentenza definitiva ti espone maggiormente al rischio che la giustizia giunga in ritardo. Questo è il punto: se c’è un provvedimento che arriva a compimento abbastanza presto, l’interruzione con ciò che si era fuori può essere utile, altrimenti bisogna potenziare la comprensione di ciò che è stato fatto nel frattempo". È un tema al vaglio del Ministero della Giustizia? "Nello specifico - risponde il Garante - non è un argomento su cui si sta lavorando, mentre si sta valutando nei termini generali dell’accelerazione dei tempi della giustizia. Bisognerà intervenire, però, sulla progettualità sanzionatoria, dando effettiva possibilità di seguire i detenuti. Diversamente, le misure alternative diventano solo un modo per scaricare il problema su un altro sistema, quello dei servizi sociali, ricco di professionalità ma poverissimo di risorse". L’ergastolo ostativo, ovvero l’inferno della speranza Il Dubbio, 17 giugno 2016 Abolire il carattere incostituzionale dell’ergastolo ostativo in quanto pena perpetua senza possibilità di riesame. Di questo si è discusso nel convengo che si è svolto ieri a Milano nel carcere di Opera. Il convegno dal titolo "L’inferno della speranza. Riflessioni sull’ergastolo ostativo" è stato organizzato dalla Camera Penale di Milano "Gian Domenico Pisapia", dal ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Provveditorato Regionale per la Lombardia e ovviamente dall’istituto penitenziario di Opera. Diversi i focus di approfondimento nei quali si è sviluppato il convegno. In mattinata ci sono stati gli interventi di Mauro Palma, il Garante nazionale dei detenuti; Luigi Pagano, ex vice capo del Dap e attualmente provveditore della regione Lombardia; Maria Brucale, avvocato e rappresentante della Commissione carcere della Camera penale di Roma e Valentina Alberta, avvocato della Camera penale di Milano. Il dibattito poi si è concentrato sulla non conformità con la Costituzione e la Convenzione europea dei dritti dell’uomo. A svolgerlo sono intervenuti Andrea Pugiotto, professore di diritto costituzionale; Davide Galliani, professore di diritto pubblico e Roberto Chenal, giurista presso la Cedu. Nel pomeriggio c’è stato un confronto tra gli operatori che hanno dibattuto sulle proposte per superare l’ergastolo ostativo. Nel corso del convegno è stato presentato il docufilm dal titolo "Spes contra spem - liberi dentro" del regista Ambrogio Crespi. A presentare il film è stata Rita Bernardini del Partito Radicale. Si tratta di un documentario che racconta le storie di nove ergastolani del carcere di Opera di Milano. Un racconto di speranza attraverso il quale queste persone spiegano perché hanno sbagliato, rivolgendosi ai giovani affinché non facciano un errore come il loro. Ricordiamo che in Italia abbiamo due diversi tipi di ergastolo: quello "ordinario" e quello "ostativo". Il primo concede al condannato la possibilità di usufruire di permessi premio, semilibertà o liberazione condizionale; mentre il secondo, essendo invece un regime di eccezione, nega al detenuto ogni beneficio penitenziario, a meno che non sia un collaboratore di giustizia. Una condanna a morte, però facendoti restare vivo. Minorenni in cella: sono di meno, ma discriminati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 giugno 2016 Sono 457 (414 uomini e 43 donne) ospitati in sedici istituti. Fuoco ai materassi, danneggiamento di tutte le suppellettili, lesioni alle guardie penitenziarie. Nella serata del 31 maggio, al carcere minorile del Pratello a Bologna, c’è stata una rivolta in piena regola. Dodici le persone denunciate - 11 nordafricani e un italiano - per la protesta. I giovani dovranno rispondere di incendio, danneggiamento, lesioni, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Cinque sono i minori e sette i maggiorenni. La presenza di detenuti maggiorenni è possibile per effetto del decreto legge 92/2014, convertito in L. n. 117 dell’11.08.2014, che ha modificato l’art. 24 del decreto legislativo n. 272 del 1989, innalzando da 21 a 25 anni la permanenza nel circuito penale interno per i soggetti che abbiano commesso reati da minorenni. La rivolta scatenata nel carcere minorile è frutto di un disagio che cresce sempre di più. Il carcere del Pretello, nel 2012, era stato già al centro di una inchiesta giudiziaria che mise in luce un sistema di abusi di potere da parte delle guardie penitenziarie. Secondo l’accusa avrebbero picchiato un giovane detenuto per poi rinchiuderlo, con le manette ai polsi, in una cella da cui avevano tolto le ante delle finestre. Ma non solo, ci sarebbe stata l’omissione di denuncia nei confronti di uno stupro di due ragazzini ai danni di un altro. Il carcere minorile assomiglia sempre di più a quello per gli adulti. Soprattutto questo di Bologna, e più volte la garante dei detenuti del comune, Elisabetta Laganà, aveva chiesto la chiusura dell’istituto penitenziario minorile. Aveva già denunciato la situazione fatiscente del carcere: celle simili o peggiori di quelle degli adulti, continue infiltrazioni e un’area cortile non pienamente utilizzabile. "La convivenza tra giovani di fasce di età molto diverse - aveva sostenuto Laganà - è difficile. C’erano dei progetti, finiti nel nulla, che prevedevano delle sezioni per gli adulti". All’inizio dell’anno, la deputata indipendente Mara Mucci era andata ad ispezionare il carcere di Pretello e aveva denunciato la situazione degradante del penitenziario minorile. A gennaio risultavano 22 detenuti, numero massimo di capienza; anche se ogni tanto si sfora perché la chiusura per restauro dell’Istituto penitenziario minorile di Firenze ha aumentato il bacino di riferimento di quello di Bologna. Stesso incremento è determinato, come già spiegato, a causa dall’innalzamento dell’età massima dei detenuti, portata da 21 a 25. Tra le mura di questa struttura alloggiano così ragazzi provenienti per lo più da est Europa e nord Africa, italiani ed etnie rom. Ma che cos’è il carcere minorile e perché dovrebbe essere diverso da quello per gli adulti? È’ un luogo di detenzione dei minori condannati per un reato commesso - oppure in attesa di giudizio - ed è separato dal carcere dei maggiorenni. La struttura è resa necessaria dal fatto che soltanto il minore di quattordici anni non è penalmente punibile, mentre il tribunale per i minorenni può infliggere, a chi ha compiuto i quattordici anni e non ha ancora raggiunto la maggiore età, anche pene detentive. Con la riforma del processo minorile del 1989 si è cercato di tenere i giovani il più possibile lontani dal carcere, sostituendolo con misure alternative (affidamento a servizi sociali, istituti di semilibertà, comunità). A causa dei tagli nei confronti dei servizi sociali, comunità terapeutiche e il mancato automatismo per le pene alternative visto che sono sempre a discrezione dei magistrati di sorveglianza, la riforma non ha purtroppo raggiunto i suoi obiettivi di rieducazione che mira al completo superamento della detenzione minorile. Un ruolo fondamentale per far intraprendere una adeguata riforma l’ha giocato la Convenzione europea sui diritti umani, la quale recita: "Un modello di giustizia minorile agile e veloce pensato per un contesto istituzionale di forte presenza di servizi educativi del territorio a cui fare ricorso in alternativa al giudizio. Un modello basato sulla rapida uscita dal circuito penale e sul concetto di responsabilizzazione del minore anche attraverso forme di confronto con la vittima". Un dato positivo - da quando è stato introdotto il nuovo codice di procedura penale per minorenni - però c’è stato. Secondo il terzo rapporto dell’associazione Antigone sugli istituti penali minorili, "Ragazzi fuori" i detenuti erano 8.521 nel 1940, 7.100 nel 1950, 2.638 nel 1960, 1.401 nel 1970, fino a scendere a 858 nel 1975. Oggi sono 457, 414 uomini e 43 donne, ospitati in sedici istituti. Accanto a questo dato però vi sono dati sconfortanti: c’è un’accentuata discriminazione nei confronti dei ragazzi del mezzogiorno e gli immigrati. Nel sud Italia vi è un certo numero di ragazzi e ragazze italiane con sentenza definitiva tenuti nelle carceri minorili fino al 21° anno di età per essere poi trasferiti nelle carceri per adulti. Per queste persone la giustizia minorile non prevede tentativi di "recupero", bensì accentua la funzione di criminalizzazione svolta dal carcere preparando un’esistenza fatta di continui ingressi nelle patrie galere. Poi c’è la carcerazione dei minori immigrati. A parità di reato, i minori immigrati sono più spesso condannati, ricevono molto più frequentemente misure cautelari detentive, rimangono per più tempo in carcere, mentre con molta meno frequenza sono destinatari di misure diverse, quali ad esempio il collocamento in comunità-alloggio o in casa-famiglia. Comunità che per fortuna, con il passare degli anni, risultano in forte espansione. I collocamenti in comunità sono passati dai 1.339 del 2001 ai 1.987; e il ricorso alla "messa alla prova" è aumentato quasi di quattro volte ? dai 7.688 del 1992 ai 3.261 del 2014. Il carcere minorile ha lo stesso identico problema di quello per gli adulti, e non solo per quanto riguarda la discriminazione e l’aumento della percentuale dei baby-detenuti di provenienza straniera: secondo un rapporto di Antigone, come per gli adulti, anche i detenuti minorenni reclusi, in gran parte, stanno dentro non a scontare la pena, ma in attesa di giudizio: il 61,6% del totale è in carcerazione preventiva. Carceri: Report annuale del Forum nazionale dei giovani di Domenico Letizia* L’Opinione, 17 giugno 2016 Nella giornata del 15 giugno ho partecipato come neo-componente del gruppo di lavoro "Carcere e diritti umani" del Forum nazionale dei giovani alla presentazione del Report annuale sui diritti umani e sulla condizione degli istituti penitenziari italiani. L’evento, svoltosi presso il Centro congressi Roma Eventi ha visto, tra gli altri, la partecipazione del sottosegretario di Stato alla Giustizia, onorevole Cosimo Maria Ferri; il Capo Dipartimento della Gioventù e del Servizio civile nazionale, consigliere Calogero Mauceri; l’avvocato Giuliana Barberi della Commissione Formazione del Consiglio nazionale forense; l’avvocato Michele Vaira, presidente nazionale Aiga; l’avvocato Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere Penali e i professori del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre, Antonella Massaro e Marco Ruotolo. L’evento è stato coordinato dall’avvocato Luigi Iorio del Partito Socialista e del Forum nazionale dei giovani e dalla portavoce nazionale del Forum, Maria Cristina Pisani. Il moderatore è stato il giornalista Giampiero Marrazzo. La Pisani ha incentrato l’attenzione sulla problematica delle condizioni delle carceri e della giustizia ribadendo che "il sistema carcerario troppo spesso è interpretato solo dal punto di vista punitivo e non riabilitativo e non consente ai giovani che vivono il periodo di detenzione di intraprendere un percorso educativo che possa portarli non solo a comprendere gli errori commessi sul piano dei princìpi e dei valori, ma che possa anche insegnare loro a valorizzare le proprie potenzialità, le proprie competenze, l’avvio o il proseguimento dei loro percorsi di studi o lavorativi più affini e inclini alle attitudini e aspettative di ognuno, così da poter garantire loro un futuro migliore". Inoltre, il Forum avvierà numerose visite nelle carceri italiane con la realizzazione di attività di formazione all’interno degli istituti di pena, avviando da subito un canale di comunicazione con le istituzioni competenti e immaginando attività pilota che possano rappresentare delle buone prassi da attivare, successivamente, su tutto il territorio nazionale. Particolare attenzione è stata dedicata al Report pubblicato dal Forum e curato dall’avvocato Luigi Iorio, evidenziando le carenze che l’impianto penitenziario italiano riporta sotto molteplici profili. La presenza del sottosegretario Cosimo Maria Ferri ha permesso di evidenziare alcune problematiche in alcune strutture penitenziarie del territorio nazionale, come Reggio Calabria, e le condizioni della struttura di Santa Maria Capua Vetere nel casertano. Particolare attenzione è stata posta alla problematica dei sordomuti nelle carceri, alla figura dell’interprete per abbattere i problemi di comunicazione e ai meccanismi populistici che si incontrano nell’avviare una discussione sull’amnistia e l’indulto. *Consiglio direttivo di "Nessuno tocchi Caino" e componente della Lidu Medicina penitenziaria: la Fimmg approva documento per definire un nuovo contratto nazionale quotidianosanita.it, 17 giugno 2016 Per il sindacato c’è in ballo la possibilità di permettere alla popolazione detenuta la stessa libertà di scelta del medico curante assicurato ai cittadini all’esterno delle carceri. Proposta l’attivazione di corsi di formazione specifici per diventare medici penitenziari e che attrezzino i nuovi arrivi a far fronte alla complessità del ruolo. Fare uscire dal guado di una riforma rimasta a metà la sanità penitenziaria, garantire dignità professionale e riconoscimento normativo ai circa 2.000 medici che lavorano nelle carceri, assicurare ai 53.873 detenuti nelle carceri, di cui 18.000 stranieri, il rispetto di un effettivo diritto alle cure uguale per tutti a livello nazionale. È stato questo il filo conduttore dell’Assemblea di settore della medicina penitenziaria aderente della Fimmg che si è tenuta a Roma presso l’Hotel Sheraton di viale del Pattinaggio alla presenza del Segretario Nazionale, Giacomo Milillo. Risultato finale dell’incontro l’approvazione del documento base per la firma di un accordo contrattuale capace di superare la situazione d’incertezza attuale dovuta ai ritardi nel traghettare alla responsabilità dei servizi sanitari regionali la tutela delle salute dei detenuti così come previsto dalla legge del 2008. "Vogliamo portare a compimento la riforma oggi ridotta ad uno spezzatino di soluzioni regionali tutte diverse tra loro che produce ingiustizie per gli operatori ed inefficienza nell’assistenza erogata - spiega l’esecutivo del settore penitenziario della Fimmg; per superare i ritardi occorre realizzare un modello unico in tutte le regioni italiane, con le identiche condizioni contrattuali per tutti i medici che vi lavorano e cosi assicurare uniformità di cure a livello nazionale. In questo senso le nostre proposte vanno oltre la semplice rivendicazione contrattuale e si fanno carico di assicurare un salto qualitativo al sistema proponendo di strutturare in forma permanente quelle che oggi sono sperimentazioni in corso in Toscana negli Istituti Penitenziari di Massa e Volterra". In gioco la possibilità di permettere alla popolazione detenuta la stessa libertà di scelta del medico curante assicurato ai cittadini all’esterno delle carceri. Ogni detenuto può scegliere il suo medico in base ad un rapporto fiduciario, indicandolo tra quelli in servizio nell’istituto. Per la Fimmg è un percorso di civiltà fattibile e a costo zero, realtà unica nel panorama internazionale ed in ossequio alle indicazioni della Oms. All’estremo opposto, fa notare il sindacato, di quanto sta accadendo in Sicilia, ultima tra le regioni a recepire il Dpcm, a ben otto anni di distanza, ove ancora si lavora ad ipotesi organizzative e dove è messa a rischio la qualità dell’assistenza in atto garantita da figure professionali con esperienza pluridecennale che non vedono chiaro il loro futuro professionale. Altro elemento indispensabile per garantire il salto di qualità necessario è quello formativo. La proposta è quella di varare corsi di formazione specifici per diventare medici penitenziari e che attrezzino i nuovi arrivi a far fronte alla complessità del ruolo. I medici penitenziari infatti devono aver competenze diverse, articolate e approfondite per quanto riguarda, solo per citarne alcune, le tecniche dell’emergenza, la psichiatria, l’infettivologia, le tossicodipendenze, la medicina legale. "Per recuperare e garantire efficacia ed appropriatezza delle cure il sistema deve essere in grado - sottolinea la Fimmg - di erogarle in modo uniforme in tutte le carceri a prescindere dalle Regioni in cui sono ospitate. I detenuti e le detenute infatti spesso vengono spostati da un istituto all’altro con il cambio del modulo assistenziale, ogni vota diverso. Questo crea un oggettivo abbassamento del livello di assistenza a scapito dei cittadini detenuti". Il documento contrattuale approvato dall’assemblea dei medici penitenziari Fimmg nasce quindi con l’obiettivo di colmare questi ritardi e di colmare una riposta equa ai bisogni dei medici ed ai circa 54mila detenuti presenti nelle carceri italiane. Allungare la prescrizione è un’inciviltà. Canzio contro le toghe giustizialiste di Rocco Todero Il Foglio, 17 giugno 2016 Nel corso del dibattito organizzato dal Foglio sui confini della giustizia, tenutosi all’Ara Pacis a Roma e moderato dal direttore Claudio Cerasa, il Primo Presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio ha espresso la sua autorevole opinione sui termini di prescrizione dei reati affermando, senza alcuna ambiguità, che prolungarne la durata sarebbe un’inciviltà bella e buona. Senza mai lisciare il pelo a giustizialisti, manettari, e giocolieri del circo mediatico giudiziario, il dott. Canzio ha ricordato che l’imperativo categorico di un paese moderno (anche di quello che volesse introdurre la sospensione della prescrizione dopo la sentenza di condanna di primo grado) è rappresentato dalla ragionevole durata del processo, la cui realizzazione pratica, senza giri di parole, il Primo Presidente affida al legislatore ma soprattutto all’autorganizzazione della giustizia, vale a dire alla responsabilità di chi appartiene all’ordine giudiziario. Un monito, quello del dott. Canzio, quanto mai opportuno e tempestivo, rivolto evidentemente a chi nel mondo delle istituzioni, della politica e della cultura a ogni piè sospinto non ha di meglio da fare che proporre l’allungamento dei termini di prescrizione per sopperire all’ingiustificabile inefficienza di un apparato statale che non riesce a concludere tre gradi di giudizio nemmeno dopo 7 anni e mezzo (termine di prescrizione previsto per l’ipotesi di processo per abuso d’ufficio), o dopo 12 anni e mezzo (per il peculato), o dopo 15 anni (per la concussione) e persino neanche dopo 17 anni e mezzo (per l’associazione a delinquere). Un avvertimento, quello di avere come faro la ragionevole durata del processo, che sottintende la consapevolezza che il giudizio è già una pena, un fardello che sconvolge la vita quotidiana, ma che tuttavia nella prospettiva del Presidente della Cassazione sconta il limite di non prevedere la continuità dei termini di prescrizione (senza alcuna interruzione) per l’ipotesi in cui lo Stato venga meno all’impegno di concludere celermente l’esercizio dell’azione penale e l’intero processo. Al dott. Canzio si deve anche il merito di avere introdotto nel dibattito all’Ara Pacis il tema dell’attività di prevenzione dello Stato nei confronti della criminalità organizzata per mezzo delle interdittive antimafia e della legislazione di contrasto alla corruzione. Due strumenti che secondo il Primo Presidente hanno mostrato tutta la loro efficienza nel tenere lontano il malaffare nella realizzazione degli appalti pubblici. Un posizione questa che si colloca davvero ai confini della giustizia, se solo si considera che l’interdittiva antimafia e la nomina di amministratori straordinari anticorruzione (in sostituzione di quelli voluti dai legittimi proprietari delle imprese) possono essere comminate in conseguenza del semplice avvio di un’indagine penale e non già in esito a una sentenza di condanna, sebbene di primo grado. Un’attività di prevenzione che anticipa eccessivamente la soglia di protezione del bene pubblico tutelato dalle norme penali a discapito delle libertà individuali, della proprietà privata e del diritto ad esercitare un’attività economica imprenditoriale. Una preoccupazione, quella di evitare pericolose commistioni con la criminalità organizzata, che deve in ogni caso passare il vaglio di un pubblico processo all’interno del quale un sospetto, un’ipotesi se non diventano certezza si tramutano automaticamente in soprusi, ingiustizie, che producono troppo spesso pregiudizi economici irreparabili. Come se non bastasse lo Stato, tutte le volte che esercita l’attività di prevenzione antimafia e anticorruzione, non si limita a espellere dal mercato delle commesse pubbliche le imprese sul cui inquinamento criminale non ha alcuna certezza, ma omette altresì di restituire al mercato, ad altri operatori economici sulla cui onestà non nutre alcun dubbio, la realizzazione degli appalti commissariati, cosicché la Pubblica amministrazione e la burocrazia prendono il posto dell’impresa privata. Forse occorrerebbe ritornare sui propri passi. "Stop alle lotte tra pm e nuovi concorsi più facili" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 17 giugno 2016 Vietti presenta lo schema di progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario. La Commissione di studio incaricata l’anno scorso dal ministro Andrea Orlando di predisporre uno "schema di progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario" ha concluso ieri, con qualche mese di anticipo, il suo lavoro. Davanti alla sesta commissione del Consiglio superiore della magistratura, l’ex vice presidente Michele Vietti e attuale capo del citato organismo ministeriale, in audizione secretata, ha per la prima volta esposto le sue proposte di modifica. Nulla di eclatante. Solo un leggero restyling delle attuali norme primarie e secondarie. In particolare le riforme Castelli del 2006 sull’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, sulla disciplina dell’accesso in magistratura e sulla temporaneità degli incarichi direttivi e semi-direttivi. Leggi varate quando il secondo governo Berlusconi era ormai ai titoli di coda. Con la speranza, neppure tanto celata, che, ad esempio per quanto concerne l’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, "accentrando" il potere nelle mani di una sola persona, si potesse governare meglio l’attività inquirente nel Paese. Speranza vana, come si è visto. Le Procure sono in questi anni diventate terreno di scontro fra il capo ed i suoi aggiunti e sostituti. Sul punto, Milano, con la battaglia all’ultimo esposto al Csm fra Bruti Liberati e Robledo, ha fatto storia. Vediamo in concreto, comunque, cosa cambia. Per quanto concerne l’ufficio del pubblico ministero, si prevedono dei "provvedimenti con cui i procuratori stabiliscono i criteri di organizzazione dell’ufficio". E anche si puntualizzano "i criteri di assegnazione dei procedimenti ai procuratori aggiunti e ai sostituti". Mai più, quindi, lotte per i fascicoli fra magistrati o casi in cui la polizia giudiziaria "scelga" il pm preferito con cui lavorare. Oltre a ciò, un rinnovato ruolo di coordinamento e vigilanza da parte del procuratore generale della Corte di cassazione al fine di "favorire l’adozione di criteri organizzativi omogenei e funzionali dei procuratori della Repubblica" Per l’accesso in magistratura, la Commissione Vietti parte da una constatazione: il concorso in magistratura è ormai il concorso pubblico più gettonato nel Paese. Anche alla luce del fatto che per la magistratura non è in vigore il blocco del turn over che esiste da anni in tutti gli altri settori del pubblico impiego. Mentre si discute se è il caso di indire, addirittura, ulteriori concorsi straordinari per magistrati, l’ultimo concorso per personale amministrativo dei tribunali risale a circa venti anni fa. Per superare le "difficoltà di organizzare prove d’esame con un numero sempre crescente di candidati" e comunque far fronte all’impellente bisogno di magistrati, si modificherà l’esame, attualmente troppo "teorico", prevedendo una prova pratica costituita dalla redazione di una sentenza. Oltre a ciò si eliminerà il merito nella partecipazione agli stage che garantiscono un accesso diretto alla prove di concorso. Attualmente è necessario avere un voto di laurea non inferiore al 108/110. Nota dolente la valutazione di professionalità. Constatato l’appiattimento verso l’alto, quasi tutti i magistrati hanno valutazioni eccelse, in particolare quelli che concorrono per un posto da direttivo, si prevede una nuova valutazione di professionalità dopo la VII da effettuarsi sei anni dopo. Infine la possibilità, in via anticipata rispetto alla scadenza quadriennale, da parte del Csm di un momento valutativo "qualora l’ufficio di appartenenza evidenzi gravi disfunzioni organizzative addebitabili al dirigente". Uno spauracchio per i capi degli uffici che per i primi quattro anni dormivano sonni tranquilli, consci che nulla e nessuno li avrebbe toccati. Omicidio stradale, pm spaccati sul prelievo forzato del sangue di Marco Menduni Il Secolo XIX, 17 giugno 2016 Dopo il caso Genova c’è chi frena: è contro la Costituzione. Dice il Procuratore capo di Genova Francesco Cozzi: "Se non si ha niente da nascondere, basta soffiare nell’etilometro". Il tema sul piatto è quello della nuova legge sull’omicidio stradale, ma anche sulle lesioni gravi e gravissime che un comportamento scriteriato al volante può provocare. Cozzi, nelle linee guida della procura, ha esposto un principio: chi si rifiuterà di eseguire l’alcoltest, subirà un prelievo di sangue obbligatorio. Anche contro la sua volontà. Stop, quindi, al tentativo di sottrarsi alle proprie responsabilità rifiutandosi di eseguire il più semplice degli esami. La nuova legge lo prevede, anche se è obbligatorio il via libera di un magistrato, di un pm. L’autorizzazione può arrivare anche "per via orale" (s’immagina per telefono) alle pattuglie che intervengono, anche se va poi confermato per iscritto. Ma l’esempio della procura genovese è seguito in tutta Italia? Oppure si rischia un’applicazione di questa norma del codice penale a macchia di leopardo? A sganciare una bomba sul cammino della nuova legge, per quanto attiene i test sull’alcol in corpo, è stata per prima la procura di Trento. Con una lunghissima circolare il procuratore capo Giuseppe Amato ha illustrato tutti i suoi dubbi. La conclusione di Amato: è possibile disporre prelievi di capelli, di peli e di mucosa orale, ma non di sangue. Si va contro l’articolo 13 della Costituzione, quello sull’inviolabilità della libertà personale. Un caso isolato? Anche Adelchi D’Ippolito, procuratore aggiunto a Venezia, incalza: "Ho molte perplessità su una legge passata sull’onda di emozioni fortissime". Il procuratore della Repubblica di Lecce Cataldo Motta spiega: "La legge sull’omicidio stradale è scritta male e presenta profili di illegittimità costituzionale". Anche lui fa la sua circolare, e spiega che eventuali prelievi forzati devono essere eseguiti "nell’alveo della legittimità costituzionale e nel rispetto dei diritti della persona". In ogni caso, chi ha provocato l’incidete dev’essere avvisato della possibilità di esser assistito da un avvocato. Di fiducia, se è in grado di arrivare in un’ora, o d’ufficio. Altre procure si sono fatte, invece, minori rovelli. Via libera a Udine ("il prelievo con un ago provoca solo una lieve sofferenza"), a Sondrio ("i problemi di conflitto con l’articolo 13 sono già stati risolti dalla nuova legge") e, appunto, a Genova. Esiste, quindi, la possibilità che di fronte a un incidente dalle gravi conseguenze chi si rifiuta di fare l’alcoltest si trovi ad affrontare conseguenze differenti, determinate dal luogo e dall’orientamento della relativa procura? Sì, esiste. La direzione nazionale della Polizia stradale, a Roma, sfodera in questo frangente la diplomazia: "In realtà siamo solo nella prima fase di applicazione delle norme sull’omicidio stradale ed è fisiologico che su alcuni dettagli ci siano delle interpretazioni differenti. L’impostazione generale delle nuove norme è però solida e non sta determinando particolari difficoltà". E sull’alcoltest rifiutato? "Per ora ci stiamo limitando a catalogare i vari orientamenti delle procure". Tradotto: il caso sarà proposto al governo solo quando la geografia interpretativa dei pm sarà più ampia e più chiara. Più difficile, però, la situazione per chi deve operare sul campo. Anche perché, al di là dell’aumento delle pene, la precedente legge comportava minori difficoltà. Mentre se prima dell’omicidio stradale un automobilista si rifiutava di eseguire il test automaticamente aveva il massimo della pena, ora la polizia deve contattare l’autorità giudiziaria che dia l’ok per portare la persona in ospedale per il prelievo. Di fronte a un ulteriore rifiuto, si apre la questione di quanto sia il massimo di forza utilizzabile per obbligarlo al prelievo stesso, rischiando anche di violare la Costituzione. Un dilemma non ancora chiarito. Enzo Tortora, trentatré anni fa l’arresto a "orologeria" di Valter Vecellio Il Dubbio, 17 giugno 2016 Ventotto anni fa, stroncato da un tumore che forse ci sarebbe stato ugualmente, ma che certamente è esploso per via del calvario patito, Enzo Tortora ci lasciava. Tortora lo incrocio a Bologna, quando ancora pasticcio di giornalismo, e divido il mio tempo tra esami di legge e in quello che ancora oggi credo sia chiamato angòl di cretén o cantàn d’inbezéll a raccogliere firme per referendum radicali che i bolognesi sottoscrivono a migliaia, in barba al Pci di allora che li boicotta. Tra i giornali, allora come ora, Il Resto del Carlino e per un pò Il Foglio, che non è quello di Giuliano Ferrara, ma lo sfortunato tentativo editoriale di Luigi Pedrazzi ed Ermanno Gorrieri, per rompere appunto il monopolio del Carlino; e contemporaneamente nasce Il Nuovo Quotidiano, anch’esso effimero; e diretto appunto da Tortora. Un periodo di schermaglie e polemiche, perché Il Nuovo Quotidiano è addirittura più conservatore del Carlino. Poi altre storie ed esperienze, fino al giorno dell’arresto, con quelle accuse infamanti: affiliazione alla camorra, spaccio di cocaina. Di quell’"affaire" mi sono occupato fin dal primo momento; e fin dal primo momento, senza dubbi ed esitazioni, innocentista, con pochissimi altri: Piero Angela, Giacomo Ascheri, Massimo Fini? "Affaire Tortora", ma non solo: che in realtà si tratta di centinaia di persone arrestate (il "venerdì nero della camorra", siamo nel giugno del 1983), per poi scoprire che sono finite in carcere per omonimia o altro tipo di "errore" facilmente rilevabile prima di commetterlo; ma no: si è voluto dare credito, senza cercare alcun tipo di riscontro, a personaggi come Giovanni Pandico, Pasquale Barra ?o animale, Gianni Melluso. Ho visto decine e decine di volte le immagini di quel maxi-processo, per "montare" i miei servizi per il Tg2, e decine e decine di volte quella convinta requisitoria del Pubblico Ministero che a un certo punto pone una retorica domanda: "Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza?". E quali gli elementi di colpevolezza che emergevano durante il paziente lavoro di ricerca delle prove di innocenza? N-E-S-S-U-N-O. E per capirci: nessuno significa nessuno. Che fosse qualcosa di simile allo scespiriano regno di Danimarca lo si capisce fin dalle prime ore: lo arrestano nel cuore della notte, lo trattengono nel comando dei carabinieri di via Inselci a Roma, fino a tarda mattinata, lo fanno uscire solo quando sono ben sicuri che televisioni e giornalisti sono accorsi per poterlo mostrare in manette. Già quel modo di fare è sufficiente per insinuare qualche dubbio, qualche perplessità. Ancora oggi non sappiamo chi diede quell’ordine che porta alla prima di una infinita serie di mascalzonate. E veniamo al perché tutto ciò è accaduto, si è voluto accadesse. Forse una possibile risposta sono riuscito a trovarla, e a suo tempo, sempre per il Tg2, riuscii a realizzare dei servizi che non sono mai stati smentiti, e ci riportano a uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo. Per la vita di Cirillo viene chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro si trova, anche se durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la "stecca". A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un "ritorno". Il "ritorno" si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta è costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa, non sono più in condizione di farlo, sono tutti morti ammazzati: da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo, a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice, che ha un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e, tra gli altri, Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, mai più ritrovato. Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli. Che l’arresto di Tortora costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. Lo si sia fatto in buona o meno buona fede, cambia poco. Le "prove", per esempio, erano la parola di Giovanni Pandico, camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo interrogano diciotto volte, solo al quinto si ricorda che Tortora è un cumpariello; e Pasquale Barra: un tipo che in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia per sfregio l’intestino. Con le loro dichiarazioni danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti "pentiti": curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. C’è poi un numero di telefono trovato in un’agendina di una convivente di un capo clan. Sotto la T, leggono Tortora; in realtà quel nome corrisponde a Tortona, riscontrarlo è facile, basta comporre il numero. Non lo fa nessuno. C’è poi un documento importante che rivela come vennero fatte le indagini, ed è nelle parole di Silvia Tortora, la figlia. Le chiedo di rispondere con un sì o con un no alle mie domande. Quando suo padre viene arrestato oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra c’era altro? "No". Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista? "No, mai". Intercettazioni telefoniche? "Nessuna". Ispezioni patrimoniali, bancarie? "Nessuna". Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre? "Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. È risultato che erano di altri". Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove? "Nessuna". Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia, con che prove? "Nessuna". Chi lo ha scritto è stato poi condannato? Qualcuno ha chiesto scusa per quello che è accaduto? "No". A legare il riscatto raccolto per Cirillo, i costruttori, compensati poi con gli appalti, e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della direzione antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati "pentiti a orologeria"; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale. È in questo contesto che nasce "il venerdì nero della camorra", che in realtà si rivelerà il "venerdì nero della giustizia". Nessuno dei "pentiti" che ha accusato Tortora è stato chiamato a rispondere per calunnia. I magistrati dell’inchiesta hanno fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Anni dopo il pubblico ministero accusatore di Tortora dice di aver agito in buona fede e chiede scusa. Diamo pure credito alla "buona fede", anche se subito viene in mente quella terrificante figura di magistrato magistralmente descritta da Leonardo Sciascia in "Una storia semplice"; forse, quel pubblico ministero è ferrato in italiano come il magistrato di Sciascia. La questione, comunque, va ben al di là della buona fede di un singolo. Stroncato dal tumore, Enzo ha voluto essere sepolto con una copia della Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: "Che non sia un’illusione". Sta a noi fare in modo che non lo sia. Liliana Ferrara alla Corte d’assise di Palermo: "ecco chi voleva la modifica del 41bis" di Francesca Mariani Il Tempo, 17 giugno 2016 "Non c’è dubbio che sul 41 bis il ministro della Giustizia Claudio Martelli e il suo successore, Giovanni Conso, ebbero una diversità di approccio: il primo visse da vicino la tragedia della scomparsa di Giovanni Falcone e si battè per l’introduzione del carcere duro e per il suo mantenimento inmodo inflessibile e rigoroso. Il secondo sopportava il 41 bis senza mai gradirlo veramente perché come tutti i giuristi non vedeva di buon occhio l’applicazione di misure di prevaricazione che non fossero inserite nel codice penale. Comunque a me Conso non ha mai detto di volerlo togliere". A raccontarlo alla Corte d’assise di Palermo, impegnata a Roma nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, è stata ieri Liliana Ferraro, subentrata nell’estate del 1992 a Giovanni Falcone alla direzione generale degli Affari penali del dicastero di via Arenula e rimasta in sella fino al 1993 quando alla guida del ministero si sono alternati prima Martelli e poi Conso. Il rapporto con entrambi i ministri fu all’insegna della "collaborazione e della stima reciproca" ma di sicuro il passaggio di testimone segnò un sostanziale cambio di indirizzo politico nell’applicazione del41 bis. "Quando nel novembre del 1993 - ha detto la ex dirigente ministeriale rispondendo alle domande del pm Roberto Tartaglia - non furono prorogati 334 provvedimenti di carcere duro, compresi che ormai la linea tracciata da Falcone era stata disattesa. Non ricordo chi me lo disse ma all’epoca mi fu argomentato che si trattava di alleggerire la situazione nelle carceri. In quel periodo io stessa manifestai lamia contrarietà perché in un appunto scrissi che togliere il 41 bis sarebbe stato un segnale stupido e contraddittorio rispetto a quanto era stato fatto e deciso prima". La vicenda giudiziaria ha conosciuto varie fasi. La Procura palermitana ha imbastito l’indagine sospettando una trattativa Stato-mafia portata avanti nell’ombra da pezzi delle forze dell’ordine sotto Scopertura di alcuni personaggi delle istituzioni di allora e da rappresentati della criminalità organizzata siciliana. I magistrati hanno parlato di una negoziazione portata avanti nel periodo successivo alla stagione delle stragi del ‘92 e ‘93 (ma secondo altre fonti già precedentemente) per giungere all’accordo. Ovvero, da una parte la cessazione degli atti di sangue da parte della mafia. E dall’altra, lo Stato si sarebbe impegnato a garantire una attenuazione delle misure previste dal 41 bis, dal regime del carcere duro che tanto dà fastidio ai boss in galera, rendendo quasi impossibile contatti con l’esterno. La depenalizzazione del reato non elimina in sede penale gli effetti civili previsti di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2016 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 16 giugno 2016 n. 25062. La depenalizzazione del reato di ingiuria non comporta che il danneggiato non debba essere risarcito sul fronte civile e né che debba essere instaurato un altro giudizio in sede civile. Questo il principio di diritto espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 25062/2016. La Corte in particolare si è trovata alle prese con una vicenda in cui era intervenuta una condanna per ingiurie e per minacce. Nel frattempo sulla base dell’articolo 12, comma 1, del Dlgs 7/2016 il reato di ingiurie era stato depenalizzato trasformandolo in illecito amministrativo e come tale sanzionabile. È bene ricordare che la sentenza non era ancora divenuta irrevocabile. Sulla base di questi elementi la Corte ha precisato che sarà poi il giudice civile a condannare la parte al pagamento di una sanzione pecuniaria civile che per espressa previsione di legge va devoluta alla Cassa delle ammende. L’articolo 11 delle preleggi - Se così non fosse, secondo la Corte, verrebbe mortificato l’interesse della parte civile che comunque ha un diritto a essere risarcito. A tal proposito è stato evidenziato come permanga il diritto al risarcimento a chi si è costituito parte civile anche a seguito dell’abrogazione del reato trovando applicazione non l’articolo 2 del codice penale ma l’articolo 11 delle preleggi. Pertanto ne deriva che le obbligazioni civili derivanti dal reato abrogato non cessano in quanto per il diritto del danneggiato al risarcimento trovano applicazione i principi generali sulla successione delle leggi stabiliti dal richiamato articolo 11 delle preleggi. Una diversa interpretazione - si legge nella sentenza - finirebbe per violare l’articolo 24 della costituzione in quanto risulterebbe compromesso il pieno esercizio del diritto di difesa del danneggiato, che dovrebbe così instaurare un nuovo giudizio avanti al giudice civile al fine di soddisfare i suoi diritto con totale vanificazione della scelta di far valere la pretesa risarcitoria in sede penale. La ragionevole durata del processo - Verrebbe poi anche leso il principio di ragionevole durata del processo (ex articolo 111 della Costituzione) dal momento che la necessità di trasferire la domanda risarcitoria in sede civile costringerebbe il danneggiato a promuovere l’azione per ottenere una nuova pronuncia sia sull’an debetaur che sul quantum. In fin dei conti, pertanto, anche il giudice penale è legittimato a riconoscere il risarcimento del danno per gli illeciti civili commessi prima dell’entrata in vigore del Dlgs 7/2016, salvo che il processo sia stato definito. Avvocati, parcella indebita: la sentenza non è titolo esecutivo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2016 Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 16 giugno 2016 n. 12387. La sentenza d’appello che riformando la decisione di primo grado faccia sorgere il diritto del cliente alla restituzione degli importi pagati al legale, a titolo di compenso professionale, non costituisce però titolo esecutivo se non contiene una espressa statuizione in tal senso. Per rientrare in possesso di quanto indebitamente corrisposto al professionista, l’assistito dovrà dunque attivare un "autonomo giudizio" oppure "proporre la sua domanda in sede di gravame". Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 16 giugno 2016 n. 12387, accogliendo il ricorso di una società che in primo grado era stata condannata a pagare a un legale 212mila euro per le prestazioni svolte. Secondo l’avvocato a fronte di un contratto di consulenza per assistere l’azienda nell’attività di ordinaria amministrazione, che prevedeva un compenso fisso e prestabilito, egli aveva prestato la propria opera professionale "in relazione ad operazioni che esorbitavano dalla convenzione, e segnatamente nelle operazioni di concentrazione del gruppo, e di successivo scorporo dallo stesso" per cui aveva diritto al pagamento delle ulteriori competenze. La Corte di appello, successivamente, ribaltò la decisione del Tribunale accogliendo il ricorso della Spa. A questo punto la società ha adito la Cassazione perché il giudice di secondo grado aveva "omesso di provvedere sulla domanda di restituzione della somma di 211.919,98 euro, corrisposta dai soccombenti in esecuzione della sentenza, benché la stessa fosse stata proposta tout court nell’atto di appello". La doglianza è stata accolta dalla Suprema corte che nell’indicare la doppia strada del giudizio autonomo o dell’impugnazione l’ha giustificata affermando che depongono in tal senso sia "evidenti ragioni di economia processuale", sia, come indicato da un precedente di legittimità, "l’analogia con quanto stabilito negli artt. 96, comma 2, e 402, comma 1, cod. proc. civ., rispettivamente per le esecuzioni ingiuste e per la pronuncia revocatoria" (n. 19299/2005). Sia, infine, il principio per cui, in caso di omessa pronuncia, da parte del giudice di primo grado, su una delle domande introdotte in causa (ove non ricorrano gli estremi di una reiezione implicita della domanda o di un suo assorbimento nella decisione di altro capo che da essa dipenda), "la parte istante ha la facoltà alternativa di far valere l’omissione in sede di gravame ovvero di azionare la pretesa in un separato processo". E, precisa la sentenza, qualora la parte si determini in quest’ultimo senso, "non le sarà opponibile il giudicato derivante dalla mancata impugnazione della sentenza per omessa pronuncia, perché la rinunzia implicita alla domanda di cui all’articolo 346 c.p.c., ha valore processuale e non anche sostanziale" (n. 11356/2006). Tale principio, conclude la Corte, è spendibile nel caso affrontato "in ragione del fatto che il giudice d’appello, con riferimento alla domanda di restituzione delle somme pagate in esecuzione della sentenza di primo grado impugnata, opera come giudice di primo grado". Per cui, non avendo la Corte d’appello provveduto sulla domanda di restituzione, l’impugnazione principale deve essere accolta. E, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, il Collegio ha deciso la causa nel merito condannando l’avvocato alla restituzione dell’intera somma corrispostagli. Bocciata invece l’"impugnazione incidentale tardiva" perché, conclude la Corte, essa "da qualunque parte provenga, è inammissibile quando l’interesse alla sua proposizione non possa dirsi insorto per effetto dell’impugnazione principale". Roma: suicidio nel carcere di Rebibbia, un detenuto albanese di 50 anni si impicca cinquequotidiano.it, 17 giugno 2016 Ieri pomeriggio a Roma un detenuto albanese di 50 anni del reparto G9 del carcere di Rebibbia si è impiccato in cella. Si tratta del primo detenuto deceduto nel carcere romano NC Rebibbia di quest’anno. L’uomo lavorava presso l’azienda torrefazione del caffè, interna al penitenziario, e pochi giorni fa aveva deciso di non voler più tener fede all’impegno. Poi si è tolto la vita. Al momento del suicidio era solo in cella perché i compagni erano fuori per altri motivi. Si indaga sulle cause del decesso. Trapani: l’autopsia non svela le cause della morte in cella del 27enne Denis Sabani p24.it, 17 giugno 2016 Non è ancora chiaro com’è morto, la notte del 13 giugno, al carcere di Trapani, il 27enne pregiudicato castelvetranese di origine macedone Denis Sabani. Dall’autopsia eseguita dal professor Paolo Procaccianti non è emerso, infatti, il motivo del decesso. Per questo, l’avvocato Giacomo Frazzitta, difensore di Sabani nei processi davanti il Tribunale di Marsala, ha chiesto che venga effettuato un accertamento tossicologico. Il giovane detenuto, infatti, a quanto pare, aveva problemi di tossicodipendenza e un quadro clinico abbastanza complicato. E infatti Frazzitta aveva chiesto il trasferimento di Sabani in una comunità di recupero, ma la richiesta non era stata accolta. Mentre era in carcere, intanto, Denis Sabani aveva avviato l’istanza civile per riconoscere il figlio che due anni fa aveva avuto dalla sua compagna. Ad assisterlo, in questo caso, è stata l’avvocato Roberta Tranchida. Una serie di complicazioni burocratiche connesse allo stato di detenzione non avevano, però, ancora consentito il riconoscimento del bambino. Parma: denuncia dal carcere "troppe celle-pollaio nell’Alta sicurezza" parmaquotidiano.info, 17 giugno 2016 Il garante dei detenuti di Parma Roberto Cavalieri denuncia criticità nel reparto di Alta Sicurezza del carcere di via Burla. Secondo il garante ci sono troppi detenuti, tenuti come polli in poche celle. La problematica era emersa già un anno fa, quando questo reparto ospitava 29 detenuti che vivevano, in gran parte scontando pene all’ergastolo, senza speranza di benefici, più due detenuti ricoverati presso il centro clinico. Oggi la situazione è peggiorata: si contano 36 detenuti, dei quali tre in isolamento perché rifiutano di essere collocati in sezione in cella con gli altri detenuti in quanto di diritto (spesso per problematiche sanitarie) spetta a loro una cella singola. Altri tre si trovano ricoverati presso il centro clinico penitenziario. Cavalieri ha inviato una lettera alle autorità penitenziarie chiedendo di cambiare le cose, testo sottoscritto da decine di detenuti. Fra i casi più problematici, si segnalano cinque celle sono occupate da detenuti in condivisione con un altro compagno che, nonostante l’età avanzata anche ultra settantenne, viene fatto dormire sul letto a castello in alto. Cinque detenuti sono iscritti a corsi universitari e due sono studenti privatisti di scuola superiore: la cella singola servirebbe per riuscire a studiare, ma non ce l’hanno. "Chiedo apertamente alle SS.VV. - scrive il garante Cavalieri - di volere prendere in considerazione il reparto in questione come un luogo di applicazione, vera, dei principi ispiratori non solo delle norme che regolano la vita detentiva e che riconoscono ai detenuti diritti inalienabili ma anche di questo "nuovo" corso voluto dalla Amministrazione penitenziaria e dal Ministero della Giustizia oramai varato con i risultati ottenuti dal lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale. A tal fine si chiede di volere interrompere la destinazione di altri detenuti a questo reparto e nel contempo di voler considerare con la massima disponibilità le istanze di trasferimento presentate dai detenuti finalizzando queste azioni alla riduzione del numero dei reclusi e al conseguente miglioramento delle condizioni di vita degli altri detenuti e del personale coinvolto nella loro gestione". Vibo Valentia: lettera dal carcere "nel penitenziario calpestati i diritti umani" ilvibonese.it, 17 giugno 2016 Una denuncia forte che getta ancora di più un’ombra sul sistema carcerario italiano e apre uno spaccato desolante sulla Casa circondariale vibonese. Quella arrivata in redazione è una lettera firmata da un detenuto calabrese che per ovvi motivi ha chiesto di rimanere anonimo. I problemi che solleva sono, tuttavia, reali. L’incipit della missiva è un pugno allo stomaco: "Qui viene calpestato ogni minimo e dignitoso diritto umano. Siamo sottoposti ad una costante tortura psicologica che sempre di più cresce a causa dei ripetuti atteggiamenti minacciosi che si subiscono". Insomma, una situazione che, qualora rispondesse a verità, nulla avrebbe a che fare con la funzione correttiva dell’istituzione carceraria. Il nostro lettore, che chiameremo con il nome di fantasia di Alfredo, entra nel dettaglio della denuncia: "La totale assenza di operatori disposti ad un dialogo costruttivo ci obbliga ad abbandonarci alle pressioni degli organi penitenziari, quando dovremmo essere tutelati e garantiti da figure professionali che "esercitano" nel rispetto dei nostri diritti. Tutto gira intorno ad un meccanismo di solidità che accomuna sia gli operatori (educatrice, psicologa ecc.) che l’amministrazione penitenziaria, trovandoti in uno scaricabarile che provoca solo malessere in ognuna di noi". Tutto ciò è vissuto come "una violenza psicologica che rischia di farti cadere in una profonda depressione essendo chiusi nelle "celle" per due ore al giorno con due volte a settimana nella socialità, senza avere alternativa. Siamo privi di attività culturali, sociali, sportive ed affettive". I familiari dei detenuti, poi, sono costretti "ad attendere fuori dalla struttura per delle ore senza una copertura che li ripari dall’acqua, vento, nebbia, neve e caldo torrido in estate. Le sale per i colloqui sono fatiscenti e prive di riscaldamento in inverno e di condizionatori in estate. La scelta dei canali tv è limitata a tre al massimo sette reti". I disagi riguarderebbero anche il servizio di refezione: "I pasti sono immangiabili al punto tale che siamo soventi costretti a comprare prodotti alimentari a prezzi astronomici. Con il risultato che quando sei costretto ad assentarti per presenziare alle udienze o se vieni trasferito altrove ti lasciano senza soldi provocandoti forti disagi all’arrivo al nuovo istituto. Qui - ha aggiunto Alfredo - non si fa altro che violare diritti e dignità delle persone, giocando con l’equilibrio mentale dei detenuti". Infine, una doverosa precisazione: "Non ho mai avuto alcun rapporto disciplinare e ho sempre tenuto una condotta esemplare, frequentando ogni attività prevista dalla legge e che gli altri istituti svolgono. Al carcere di Vibo Valentia, invece, non c’è nulla. Ci sono soltanto violazioni e abusi. Siamo in una situazione drammatica e insopportabile. Aiutatici ad essere più umani". Livorno: "chiudete il mattatoio del carcere di Gorgona", i cittadini in piazza di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 17 giugno 2016 Sino al 2014 il macello era chiuso, assieme all’avvio di un progetto straordinario di pedagogia della non violenza. A Gorgona, l’ultima isola carcere e colonia penale agricola dell’arcipelago toscano, nel 2014 è nato un progetto straordinario di pedagogia della non violenza. Un direttore illuminato, Carlo Mazerbo (oggi trasferito) e un veterinario altrettanto illuminato, Marco Verdone (anche lui trasferito) hanno deciso di chiudere il macello. Una decisione che è anche la risposta a una domanda: è giusto che uomini, che in quel penitenziario stanno scontando pene anche per reati gravissimi di sangue, tornino ad esercitare la violenza macellando gli animali? Con la nuova amministrazione il macello è stato riaperto (è accaduto a Pasqua) e il sangue è tornato a scorrere sull’isola-carcere. La storia, che è stata raccontata sul Corriere della Sera dalla scrittrice Susanna Tamaro, ha contribuito ad aprire un nuovo dibattito suscitando polemiche e accuse. La macellazione però è continuata e sabato 18 giugno a Livorno ci sarà una manifestazione per chiudere il vecchio macello e riprendere quel percorso educativo abbandonato. Ore 10.45: presidio davanti ai Quattro Mori - L’iniziativa, organizzata da associazioni e gruppi animalisti ma anche da singoli cittadini che appoggiano la protesta (tra i quali il sindaco di Livorno, Filippo Nogarin) si svolgerà in piazza, alle 10.45 con un presidio davanti ai Quattro Mori, il monumento di Livorno davanti al porto Mediceo e infine dalle 13 alle 14 con un incontro pubblico nella Sala Simoncini di Scali Finocchietti 4. Sono già centinaia le persone che hanno annunciato la loro presenza. Durante l’incontro sarà ricordata la pubblicazione della "Carta dei diritti degli animali di Gorgona" che portò ad alcuni eventi simbolici come "provvedimenti di grazia" degli animali custoditi nella fattoria, tra i quali la maialina Bruna, diventata poi protagonista di un libro per bambini. La Carta è stata poi disattesa dalla nuova amministrazione penitenziaria che ha riaperto il macello. Gli animalisti - "Abbiamo più volte cercato di interloquire con la nuova direzione del carcere di Gorgona per chiedere un tavolo di confronto e la riattivazione del progetto-percorso - spiegano i portavoce di Essere Animali, Lav e Ippoasi, tra le associazioni promotrici dell’iniziativa -, ma nonostante numerosi contatti, migliaia di firme raccolte, interrogazioni parlamentari e un appello pubblico firmato da importanti esponenti del mondo giuridico, della cultura e dello spettacolo, la direzione del carcere ha costantemente opposto una "resistenza passiva" alle nostre istanze, rinviando per mesi un incontro con noi e in seguito non rispondendo alle richieste di chiarimenti e di poter svolgere una visita che le erano state formulate come da accordi". Il veterinario - Il veterinario Marco Verdone ricorda gli anni formidabili vissuti sull’isola e quegli animali domestici che hanno avuto un ruolo importantissimo. "Mucche, pecore, capre, maiali, galline, da produttori di alimenti sono diventati "soggetti di una relazione", - sottolinea Verdone, animali in grado di suscitare empatia, conoscenza e senso di responsabilità. Li ho sempre curati vedendoli come ‘esseri senzientì che come tutti noi hanno diritto di vivere, vivere bene e di morire in modo degno. Gli abbiamo sempre assicurato una grande libertà di movimento e la possibilità di esprimere le loro caratteristiche etologiche. Abbiamo capito, con l’aiuto di tante altre persone, che il loro ruolo di cooperatore della rieducazione non può terminare con la morte in un macello. Un’opportunità dall’alto valore etico e rieducativo da non farsi sfuggire". Santa Maria Capua Vetere (Ce): carcere senz`acqua, dai politici solo promesse Cronache di Caserta, 17 giugno 2016 Il sottosegretario alla Giustizia Ferri ha espresso profonde preoccupazioni per il disagio dei detenuti nel penitenziario. Letizia: "Spero in un agosto più sereno per i reclusi della struttura". Si è svolta a Roma, alla presenza del sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri la presentazione del Report annuale sui Diritti Umani e sulla condizione degli istituti penitenziari realizzato dal Forum Nazionale Giovani, di cui la portavoce nazionale è Maria Pisani. Durante i lavori si è avuto anche un incontro tra i membri del Gruppo di lavoro del Forum Nazionale dei Giovani "Carceri e Diritti Umani" di cui è componente anche l’attivista casertano Domenico Letizia (nella foto), membro del Consiglio Direttivo di Nessuno tocchi Caino, della Lega Italiana per i diritti dell’Uomo e del Comitato Italiano Helsinki per i diritti umani. Durante il dibattito con l’intervento dell’avvocato Luigi Iorio, del Partito Socialista Italiano e del Forum Nazionale dei Giovani, è stata descritta la situazione della struttura penitenzia ria di Santa Maria Capua Vetere. Iorio ricordando la recente visita ispettiva di Domenico Letizia, presente ai lavori, con il senatore Vincenzo D’Anna presso la struttura penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere, ha elencato i risultati di tale monitoraggio, pubblicati anche sul sito del Forum Nazionale dei Giovani. Nella struttura, secondo quanto riportato dalla direzione, sono presenti più di 940 detenuti di cui quasi 200 tossicodipendenti e solo 50 sono seguiti dal Sert. In media inoltre, vi sono cinque detenuti in ogni cella che, secondo i dati della Direzione, è strutturata in venti metri quadrati compresi di bagno e piccola cucina. Inoltre, i detenuti denunciano la mancanza di medicinali, la sistematica assenza del personale medico sanitario e solo un’eretta e mezza di aria al giorno. Mancano poi specialisti medici come gli oculisti. La direzione sta tentando di rendere agibili alcune piccole palestre, ma lamenta la mancanza di finanziamenti e di macchinari. In tutta la struttura sono presenti soltanto otto educatori. Il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri ha espresso profonde preoccupazioni per la sistematica mancanza di acqua potabile registrata, promettendo a Letizia e lorio di affrontare urgentemente nei prossimi giorni la problematica avviando le procedure per la risoluzione del problema. "Spero dice Domenico Letizia in un agosto più sereno per i detenuti della struttura". Dai politici solo promesse dopo la protesta dei penalisti del Foro sammaritano. Alghero: "Vita da detenuto", aperta la sezione museale nella Casa della memoria di Tramariglio sassarinotizie.com, 17 giugno 2016 "La Giunta ha creduto al progetto museale di conservazione della memoria in un’area a forte valenza ambientale quale è il Parco di Porto Conte, convinti dell’importanza di mettere insieme non solo attrattori ambientali ma anche culturali e di turismo sostenibile per valorizzare i territori. Pertanto abbiamo recuperato in brevissimo tempo le risorse della vecchia programmazione Fesr, che diversamente sarebbero andate perdute. La volontà politica è di proseguire nella direzione di valorizzare il vantaggio competitivo insito nella qualità e varietà degli attrattori ambientali come riportato anche nei contenuti del nuovo Programma operativo 2014/2020". Lo ha detto l’assessore della Difesa dell’Ambiente Donatella Spano, nel suo intervento di ieri, ad Alghero, per l’inaugurazione della sezione multimediale e interattiva "Vita da detenuto", nel Museo della memoria della Casa di lavoro all’aperto di Tramariglio Agente di Custodia Giuseppe Tomasiello. L’esperienza è un positivo esempio di buona amministrazione tra diverse istituzioni, secondo l’esponente dell’Esecutivo che ha parlato anche della necessità di nuovi strumenti normativi per i parchi e di un confronto sempre aperto per superare le criticità. "Una delle criticità maggiori risiede nell’approvazione dei piani dei parchi, quali documenti essenziali in sinergia con gli altri per un territorio votato allo sviluppo. La Regione - ha concluso l’assessore Spano - dovrà avere una parte più attiva all’interno della governance dei parchi: non soltanto un soggetto finanziatore ma un attore che concorre con le altre istituzioni alla programmazione". L’Assessorato della Difesa dell’Ambiente è stato il soggetto attuatore di una specifica linea del Por Fesr 2007-2013 per cui sono state stanziate risorse per 834.800 euro. La cifra è stata destinata celermente al completamento delle attività di digitalizzazione dei documenti degli archivi storici delle tre ex-colonie penali di Tramariglio, Asinara, e Castiadas, svolta con il significativo contributo di detenuti appositamente formati. Chieti: "Dipingere ai confini della società", la mostra al palazzo della provincia chietitoday.it, 17 giugno 2016 In esposizione i quadri di un detenuto e di un ex detenuto della casa circondariale di Chieti. Carlo e Tamerlano dal carcere alle mostre. Si intitola "Dipingere ai confini della società" l’esposizione di opere che verrà inaugurata venerdì 17 giugno a palazzo della Provincia. Un evento voluto dall’associazione Culturale Fare Abruzzo, presieduta dall’avvocato Simona Di Iorio, in collaborazione con la direzione della Casa Circondariale di Chieti. In mostra le opere dei due artisti, uno ancora in carcere l’altro, ex detenuto. "L’idea della mostra è nata proprio da alcune incantevoli tele che Tamerlano D’Amico affisse nella sala avvocati del carcere di Chieti - raccontano Di Iorio e la dottoressa Basilisco, responsabile dell’area educativa della casa circondariale di Madonna del Freddo - La storia intrecciata dal D’Amico con il carcere di Chieti è una storia sino ad oggi a lieto fine: l’artista al termine della pena detentiva ha donato al carcere diverse opere ed in varie circostanze, anche recenti, ha collaborato per l’allestimento di alcuni spettacoli". Carlo Di Camillo invece, attualmente detenuto nella casa circondariale di Chieti, è un autodidatta che ha iniziato a dipingere durante la detenzione "per non morire di inedia tra le pareti di una cella" dice. Passa le sue giornate in carcere a dipingere, a ritoccare le sue opere, a pensarne di nuove. "Il carcere di Chieti non è un esempio di architettura moderna - aggiungono Di Iorio e Basilisco - gli spazi non sono molti, ma la passione e la serietà con la quale le persone che lavorano nell’istituto, con le diverse professionalità credono nel lavoro che svolgono ha reso possibile recuperare una stanza per adibirla completamente a laboratorio dell’artista, che sconta la pena dipingendo. L’associazione Voci di dentro, attiva da più di un decennio nel carcere di Chieti, gli consegna costantemente il materiale per dipingere". Verso la terza guerra del Golfo di Antonio Tricarico Il Manifesto, 17 giugno 2016 In attesa di una rivoluzione energetica il Mediterraneo rimane al centro dei grandi conflitti per il controllo del petrolio. Legambiente ha pubblicato un breve dossier intitolato "Signori della guerra, signori del petrolio", gettando uno sguardo allo scacchiere siriano e mediorientale. Una lettura quanto mai netta e semplice, ma tristemente vera e difficile da contestare, di come da decenni, e forse nel corso dell’ultimo secolo in buona parte di esso, le guerre hanno trovato una loro principale motivazione nel controllo delle risorse dell’oro nero. È comunque legittima, e condivisibile, la domanda a cui l’associazione ambientalista cerca di rispondere. Perché da dopo le crisi petrolifere degli anni 70, e soprattutto negli ultimi venti anni, abbiamo avuto una recrudescenza dei conflitti per il petrolio? La risposta guarda ad un paradosso, ossia che l’utilizzo di petrolio in realtà non sta aumentando significativamente come in passato: solo il 5 per cento in più al 2020 ed un altro aumento analogo fino al 2040, anno in cui le rinnovabili secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia potrebbero superarlo. Quindi, se si vuole, il significativo spostamento verso le rinnovabili negli ultimi anni sta diminuendo l’importanza relativa del petrolio, che finalmente volgerebbe al termine. Allo stesso tempo, però, dopo la sbornia di investimenti in fonti non convenzionali di petrolio e gas, il prezzo del greggio è tornato molto basso e probabilmente rimarrà tale per un pò. Perciò pochi saranno i nuovi investimenti. Uno sguardo più attento sul conflitto multiplo in Siria ci dice che proprio petrolio e gas creano e disfanno schieramenti, generando sempre più entropia geopolitica e conflitti nella regione. Sin dal 2011, diversi studi hanno esplicitato il potenziale di idrocarburi di tre giacimenti al largo delle coste siriane. Nel 2014 l’esercito Usa ha affermato che tali risorse sono parte di un sistema più ampio di giacimenti nel Mediterraneo orientale, che rappresenta un’opportunità per ridurre la dipendenza europea dal gas russo e rafforzare l’autonomia energetica di Israele. "Una volta risolto il conflitto siriano, le prospettive per la produzione offshore siriana sono molto alte", a scriverlo è Mohammed El-Katiri, consigliere del ministero della difesa degli Emirati Arabi Uniti ed ex capo ricercatore dell’Advanced Research and Assessment Group (Arag) del ministero della difesa britannico. Ma il progetto occidentale va in rotta di collisione con l’obiettivo di Assad e dei suoi due principali sostenitori, Russia ed Iran, secondo cui la Siria dovrebbe divenire "un centro di trasbordo tra la Russia e l’Iran da un lato e l’Europa dall’altro" - nelle parole di Nafeez Ahmed, Direttore esecutivo dello Institute for Policy Research and Development. Da cui la proposta del gasdotto "sciita", Islamic Gas Pipeline, che collegherebbe Iran, Iraq e Siria per poi essere esportato in Europa escludendo la Turchia, da cui transita invece il gas azero e del Caspio. La Russia ha quindi ottenuto licenze esplorative offshore al largo della Siria per la Soyuz Nefte Gas nel 2013 e poi recentemente sospeso l’idea del Turkish Stream che avrebbe portato il gas russo in Europa - dopo che i governi europei avevano boicottato il progetto South Stream dalla Russia alla Bulgaria, come rappresaglia contro l’occupazione della Crimea. Come se non bastasse un terzo progetto "sunnita" di gasdotto è stato avanzato dal Qatar, passando per Arabia Saudita, Giordania, Siria e Turchia - con il beneplacito di Washington. Dentro uno scenario così intricato si definiscono gli schieramenti: gli sciiti con il gasdotto dall’Iran, i sunniti con il gasdotto dal Qatar, gli occidentali e la Russia alla ricerca di spazi per i giacimenti già individuati. In un quadro del genere, tutt’altro che stabile e duraturo, si capisce bene perché a un certo punto l’Occidente ha appoggiato i ribelli, senza mai però premere l’acceleratore fino in fondo, ha attaccato l’Isis solo per contenerne l’espansione e lo stesso sul fronte opposto ha fatto la Russia, come se ci fosse un disegno che punta alla disgregazione territoriale della Siria e dell’Iraq in aree di influenza ben distinte. E fin qui, qualcuno dirà che il grande gioco del petrolio continua come in passato, seppur con un maggior numero di pretendenti. Ma se poi si guarda a come l’Isis si è inserito con astuzia in questo gioco tramite un sistematico contrabbando di petrolio permesso dalla Turchia in una logica di controllo sunnita delle vie del petrolio e dei giacimenti, allora emerge con chiarezza imbarazzante che nessuno ha davvero interesse a distruggere l’Isis fino in fondo. In fin dei conti gli Usa ed i suoi alleati lo vogliono contenere - anche Obama ha usato in passato queste parole - e la stessa Russia lo vede utile per impedire alle forze occidentali di sbarazzarsi di Assad. E poi vi sono i paesi arabi che lo finanziano, da cui la guerra sul prezzo del petrolio tra l’Opec dominato da questi paesi per "affamare" la Russia e contenere, invano però fino ad oggi, la nuova autonomia energetica statunitense basata sullo shale gas e oil. In attesa di una rivoluzione energetica - che si spera non riproduca una simile geopolitica anche nel settore delle energie rinnovabili - il Mediterraneo rimane ancora il centro della grande guerra per il petrolio, quasi inesorabilmente fino all’ultimo barile. Ecoreati, l’unione fa la forza di Ermete Realacci Il Manifesto, 17 giugno 2016 Il Parlamento ha varato la riforma delle agenzie ambientali, una legge importante e attesa da anni che riordina l’intero sistema dei controlli e che va a completare il lavoro svolto sui reati ambientali in questa legislatura. Con quel provvedimento, varato lo scorso anno, sono stati messi in campo strumenti di repressione che, ad un primo bilancio, si sono rivelati molto efficaci: secondo i dati di Legambiente sono oltre mille i procedimenti avviati grazie alle nuove figure di reato. Oggi è più facile contrastare disastri come quelle della Terra dei Fuochi, di Seveso, di Bussi, di Casale Monferrato, della Caffaro di Brescia. Basti pensare che prima dell’approvazione degli ecoreati il disastro ambientale veniva punito come "disastro innominato" mentre l’inquinamento era trattato come "getto pericoloso di oggetti". La repressione e la prevenzione hanno però bisogno di verifiche e controlli. Oggi le agenzie ambientali operano in un regime di grande frammentarietà. Quelle meno attrezzate spesso faticano a confrontarsi in modo paritario con i grandi gruppi industriali, come nel caso dell’Ilva di Taranto o del’Eni e della Total in Basilicata. Con la riforma si potenziano le strutture, si adottano i Livelli Essenziali di Prestazioni Tecniche Ambientali (Lepta), si avvia un coordinamento nazionale affidando all’Ispra un ruolo centrale e si istituisce il Sistema Informativo Nazionale Ambientale. Il Presidente Mattarella ha più volte sollecitato giustamente un processo di semplificazione normativa. Sia la legge sugli ecoerati che il riordino delle agenzie sono anche la premessa indispensabile per una semplificazione che non significhi deregulation. Per fare questo occorre ridare credibilità, vigore e onore alle istituzioni dello Stato e alle politiche dei controlli. Legalità ed autorevolezza sono presupposti per rendere possibili scelte che aiutano il futuro, tutelano cittadini e territorio, favoriscono un’economia pulita. Il provvedimento nasce da una proposta di legge di iniziativa parlamentare a mia prima firma, poi unificata con quelle dei colleghi Alessandro Bratti (PD) e Massimo De Rosa (m5s). Il testo fu votato all’unanimità a Montecitorio due anni fa. Il mese scorso finalmente il Senato ha dato il via libera, ma con due piccole modifiche. E così la legge è tornata alla Camera per la terza lettura. Con l’impegno di tutti i gruppi in Commissione Ambiente e del relatore Filiberto Zaratti (Sel) vi è stato un esame rapido grazie al quale si è giunti presto in Aula al voto definitivo. Agli affezionati del bicameralismo perfetto vorrei segnalare questo esempio, ma se ne potrebbero citare tantissimi altri anche a parti invertite, per far riflettere sulla farraginosità di una procedura che mostra ormai i segni del tempo e che talvolta ostacola leggi importanti per il Paese. Il varo di questa riforma stimola anche una riflessione più generale su quale possa essere il ruolo dell’ambiente nell’economia e nella politica. Un recente studio illustrato da Ilvo Diamanti pone i termini "ambiente ed energie rinnovabili" in cima alla classifica delle parole considerate dagli italiani importanti per il futuro. Un segnale da cogliere, perché dice che i cittadini percepiscono i problemi dell’ambiente e le opportunità della green economy in modo più intenso di quanto sembri. Un trend che in Europa si è manifestato a volte anche in politica, con le recenti elezioni tedesche dove il verde Winfried Kretschmann ha vinto largamente le elezioni nel Baden Wuttenberg, uno dei Lander più popolosi e industriali della Germania. Oppure con l’elezione a presidente dell’Austria dell’ambientalista Alexander Van der Bellen, che ha stoppato quella che sembrava l’irresistibile ascesa dei nazionalisti di Norbert Hofer. Per rilanciare l’economia e l’occupazione e per un’idea di futuro condivisa, credo sia giunto il momento che in Italia, e nel Partito Democratico, si debba puntare ad un ruolo centrale di questi temi e fare della green economy la strada maestra per tornare a crescere con un’economia più a misura d’uomo. Un’opportunità concreta, ulteriormente stimolata dagli accordi della Cop21, per uno sviluppo che punti sulla qualità, sull’innovazione, sulla bellezza, sui diritti e sulla coesione dei territori. Egitto: caso Regeni, la procura contro Cambridge "quelle mail non chiariscono i dubbi" di Giuliano Foschini La Repubblica, 17 giugno 2016 La professoressa si è limitata a dire che il rapporto con Giulio era "sporadico". Irritazione dei magistrati: "Dichiarazioni unilaterali". Prima una dichiarazione di Cambridge rilasciata al sito Valigia Blu che smentiva "la non collaborazione con gli investigatori italiani". Poi una mail inviata dalla tutor di Giulio Regeni, la professoressa Maha Abdul Rahman, ai pm romani con la quale sosteneva di rispondere ai quesiti ai quali si era rifiutata di rispondere nella visita del 6 giugno scorso a Cambridge. "I problemi però rimangono" dicono da piazzale Clodio. Perché quelle risposte, secondo gli investigatori, non risolvono assolutamente i dubbi dei magistrati romani che non riescono ancora a comprendere quali sono state le modalità di ricerca e le precauzioni prese dall’ateneo inglese per accompagnare il lavoro di Giulio. "Le nuove dichiarazioni non aiutano a superare gli elementi di contraddizione - si spiega a piazzale Clodio - tra quanto detto dalla stessa teste in Italia il giorno dei funerali di Regeni e le altre risultanze investigative emerse successivamente dall’esame del pc di Giulio e, in particolare, dal contenuto di alcune sue mail". La docente, durante i funerali di Giulio a Fiumicello, si era rifiutata di mettere a disposizione dell’autorità giudiziaria i suoi computer e i suoi telefoni, a differenza di quanto fatto da tutti gli amici di Giulio. Lo stesso aveva fatto dieci giorni fa quando il pm Sergio Colaiocco, insieme con i genitori del ricercatore italiano, erano stati a Cambridge, scatenando le ire degli investigatori italiani. Il problema è che, a quanto risulta al momento alle indagini, la professoressa Rahman ha raccontato una serie di cose che invece non tornano. Ha detto a verbale, infatti, che i rapporti che aveva con Giulio erano "di tipo sporadico e che il coordinamento dell’attività di ricerca del ragazzo era affidato all’American University al Cairo". Circostanza che invece non risulta: Giulio era uno studente di Cambridge ed era stata la Rahman a invitarlo e affiliarlo all’American University. Per tutto il periodo della sua permanenza in Egitto, però, Giulio è rimasto in contatto con Cambridge ai quali inviava report del suo lavoro. "La rogatoria - ha precisato ieri la procura - era finalizzata a raccogliere dichiarazioni sull’attività e sulla ricerca di Giulio Regeni al Cairo e se quindi non fosse rivolta all’istituzione universitaria bensì a singole persone fisiche". I magistrati romani chiariscono, inoltre, che la procura "grazie alla collaborazione con le autorità inglesi ha contattato alcuni testimoni, tra cui la professoressa Abdul Rahman, attraverso i legali dell’università e con diversi giorni di anticipo, e che come noto tutti hanno scelto alla fine di non presentarsi all’autorità italiana". Gran Bretagna: aggredita e uccisa deputata laburista di Simone Pieranni Il Manifesto, 17 giugno 2016 Jo Cox, 41 anni, aggredita con coltello e arma da fuoco. Subito fermato un uomo di 52 anni. Secondo alcuni testimoni avrebbe assalito la vittima urlando "Britain first". Nessuna certezza sul movente, molta cautela della polizia. Sospesa la campagna per il referendum. Sulla Gran Bretagna che dibatte intorno all’ipotesi di rimanere o lasciare l’Unione europea, è piombato l’orrore di una morte - per omicidio - che ha portato a bloccare le campagne politiche referendarie: per onorare la vittima e per chiedersi, eventualmente, se il clima di tensione causato da questo duro e trasversale confronto non abbia qualche responsabilità su quanto accaduto ieri a Birstall, nei pressi di Leeds, West Yorkshire. Helen Joanne Cox, deputata laburista di 41 anni, impegnata sul tema dei migranti, della Siria e considerata una delle politiche "favorevoli" al "Remain", è stata uccisa dopo essere stata aggredita nel West Yorkshire, dove si era recata per un consueto appuntamento politico nel suo collegio elettorale, nei pressi della libreria della cittadina. Cox era nota per la sua posizione sull’immigrazione; uno dei suoi ultimi messaggi su Twitter sottolineava la rilevanza del tema "preoccupante", ma "non sufficiente da provocare l’uscita del paese dall’Europa". Mentre scriviamo non c’è ancora chiarezza né sulla dinamica dell’aggressione, né sul movente; le autorità che indagano sono apparse caute, perché nel paese serpeggia tensione e qualsiasi "bufala" potrebbe dare luogo a nefaste conseguenze. Quello che sappiamo per certo è quanto hanno raccontato i poliziotti in conferenza stampa: Joe Cox sarebbe stata prima accoltellata e poi raggiunta da tre colpi di pistola sparati quando era già a terra (ipotesi confermata da alcuni testimoni). L’aggressore sarebbe Tommy Mair, un uomo di 52 anni, fermato dalla polizia. Secondo alcune indiscrezioni, uscite subito dopo l’incidente, e pubblicate da alcuni media britannici (e con qualche ritrosia riportate anche su prestigiose testate come il Guardian) l’uomo avrebbe assalito la deputata al grido di "Britain first", che oltre ad essere uno slogan degli ultra-nazionalisti, è anche il nome di una formazione politica inglese di estrema destra nata nel 2011. La polizia, nella conferenza stampa durante la quale è stato dato l’annuncio della morte di Jo Cox, ha preferito non lasciarsi andare a considerazioni affrettate. Nessuna conferma - dunque - sullo slogan urlato e su potenziali moventi di natura "politica", benché sul web abbiano cominciato a girare fin da subito foto del presunto omicida ritratto in mimetica. Senza correre a conclusioni affrettate, però, come sottolineano network della sinistra britannica, il clima di tensione, specie sul tema dei migranti, ha portato al ritorno di un nazionalismo inglese che nel tempo ha già dato vita a fenomeni di attacchi individuali contro persone considerate "nemiche", come nel caso di Zack Davies, che sul finire dell’anno scorso ha ucciso un uomo solo perché "asiatico". Azione "ispirata" - a quanto pare - dalla sua adesione al National Action, gruppo neonazista britannico. Le autorità del West Yorkshire hanno dichiarato che oltre alla deputata laburista ci sarebbe un’altra persona ferita, ma non in fin di vita. Ovvie, come è lecito aspettarsi in questi casi, le reazioni partecipate del mondo della politica. La scomparsa della deputata laburista è stata definita "una tragedia" dal premier David Cameron, che su Twitter ha ricordato Cox come una deputata "impegnata e scrupolosa". Il premier, prima ancora che arrivasse la notizia del decesso, aveva già annunciato la rinuncia al viaggio a Gibilterra dove avrebbe dovuto tenere un comizio. In seguito Cameron ha espresso le sue condoglianze al marito Brendan e ai due figli piccoli della parlamentare. Proprio il marito di Jo Cox ha chiesto a tutti "unità contro l’odio", mentre il leader laburista Jeremy Corbyn, con il quale Cox era entrata in polemica sia sul voto per l’intervento militare in Siria (la deputata era favorevole) sia dopo le elezioni amministrative di quest’anno, in una lunga dichiarazione ha reso omaggio alla donna: "L’intero Partito laburista, la famiglia del Labour e sicuramente l’intero Paese sono scioccati dall’orribile assassinio di Jo Cox", ha affermato Corbyn. Tra i tanti, anche il leader dell’Ukip, l’euroscettico Nigel Farage, ha messo da parte le divisioni politiche, su tutte quella sul referendum per la Ue e si è detto "profondamente addolorato". Gran Bretagna: panico e violenza sul palcoscenico della storia di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 17 giugno 2016 La morte di Jo Cox piomba come un colpo di maglio sulla questione della permanenza o meno di Londra nell’Unione europea, su un dibattito ridotto a rissa. Parlano a tutti noi europei i colpi che hanno ucciso la deputata laburista Jo Cox, ieri pomeriggio, al culmine della sua campagna contro la Brexit, l’uscita dalla Ue.E ci interpellano ben al di là di quella frase rabbiosa che, riferita da due testimoni, dovrebbe far suonare un campanello d’allarme nelle teste di tutti i populisti e demagoghi di casa nostra: "Britain first!", prima la Gran Bretagna. Su quelle parole, che sarebbero state gridate dall’assassino avventandosi contro la Cox nel suo collegio elettorale di Leeds, già si discute, com’è ovvio, banale e prevedibile, litigando sulla loro stessa esistenza e sul loro senso ultimo. Il gruppo di estrema destra che ha eletto Britain First a propria ragione sociale spara contro la stampa: "Cercano disperatamente di coinvolgerci, noi non c’entriamo", si legge in un sito carico di simbologia fascistoide e di "notizie" tipo "i migranti musulmani bruciano con l’acido cinque ragazzini!". Non sarà la prima né l’ultima polemica insensata, come se ci fosse bisogno di una "rivendicazione" per capire, come se la storia di Jo Cox, ex attivista di Save the Children, impegnata nella difesa dei profughi della guerra siriana, in prima linea per il Remain di Londra nell’Unione, non indicasse una traccia precisa."L’immigrazione è una preoccupazione legittima ma non una buona ragione per lasciare l’Europa", scriveva Jo nel suo profilo Twitter, ragionando con la forza della moderazione: quel sentimento "churchilliano" che aveva dato impulso alla nazione pure dopo l’attacco islamista del 2005 a Londra, quando gli inglesi coprirono con teli bianchi le scene del crimine, anche per tutelare la dignità delle vittime, anche per non darla vinta in tv ai terroristi, anche per non esacerbare l’animo d’una comunità gravemente ferita. Tutto questo - dignità, coraggio, ragione - è stato spazzato via dalla Gran Bretagna e dall’Europa dei nostri giorni da una ventata di odio e di panico direttamente proporzionali alle cupe proiezioni sull’aumento dei flussi migratori. Una ventata che, va ricordato, sferza anche gli Stati Uniti dell’outsider Trump, mai così divisi ideologicamente di fronte a un attentato come davanti alla recente strage di Orlando. Ora la morte di Jo Cox piomba come un colpo di maglio sulla questione della permanenza o meno di Londra nell’Unione europea, su un dibattito che s’era ridotto a rissa, a scambio di segnali apocalittici, a muro contro muro, con prevalenza nei sondaggi della parte più emotiva, quella della rottura. Ieri la politica britannica ha trovato la decenza - prima di tutti, va detto, il fronte del Leave guidato dall’incendiario Boris Johnson - di sospendere le campagne referendarie mostrando un moto d’orrore infine bipartisan. Purtroppo l’orrore non basta più, soprattutto quando è postumo. L’assassino di Jo Cox, se le prime notizie sono confermate, parrebbe uno squilibrato che ha sparato con una pistola da museo. Ma il problema è che, in tempi così difficili, gli squilibrati possono pullulare. E la ventata di panico e odio che li proietta sul palcoscenico della storia viene alimentata da quei politici che pensano di avere - grazie a quel panico e a quell’odio - una cambiale da incassare. Non ci sono soluzioni facili di fronte a un fenomeno biblico come le migrazioni. Ma sostenere di averne, mettendo gli ultimi contro i penultimi con slogan perfettamente sovrapponibili a "Britain first", è una pessima idea e spesso una truffa (quasi mai chi ora si fa paladino dei poveri nostrani se n’è preoccupato prima che esplodesse la questione migratoria). Per capire che stiamo camminando tutti su un campo minato basta aprire i siti, anche di giornali italiani, e leggere i deliri complottistici e le infamie che persino la tragedia di ieri può suscitare. Aleggia uno spirito irrazionale da anni Trenta del secolo scorso. Se i populisti - europei e segnatamente italiani - lo capiranno e smetteranno di vellicarlo, il sacrificio di una giovane mamma inglese non sarà stato del tutto inutile. Gran Bretagna: la morte di Jo Cox e il veleno dell’odio di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 17 giugno 2016 La democrazia più semplice e più solida del pianeta scopre di non essere immune dalla violenza fanatica che sta segnando quest’anno terribile per il mondo libero. Sono gli ultimi arrivati nel giardino dell’orrore. Ma anche gli inglesi, ieri, ci sono entrati. L’attentato a Jo Cox - giovane parlamentare laburista al primo mandato, pulita e battagliera - non è solo un macigno insanguinato sulla strada del referendum del 23 giugno, quando il Regno Unito dovrà decidere se restare nell’Unione Europea. È la prova che la società aperta - The Open Society cara a Ralf Dahrendorf - sta impazzendo, con rassegnazione e metodo. La democrazia più semplice e più solida del pianeta - quella britannica - scopre di non essere immune dalla violenza fanatica che sta segnando quest’anno terribile per il mondo libero. Libero di soffrire, ormai. Libero di constatare che, tra noi, vivono individui per cui una convinzione giustifica un omicidio o una strage. "Britain First!", avrebbe gridato l’attentatore prima di colpire, secondo i testimoni. Una follia avvolta in una bestemmia. Se ami il tuo Paese lo onori, non lo insanguini. Jo Cox era tutto quello che si può chiedere alla politica. Quarantunenne al primo mandato parlamentare, impegnata su molti fronti, viveva col marito e i due figli in una chiatta sul Tamigi, vicino a Tower Bridge. Ogni tanto andava al lavoro alla Camera dei Comuni in gommone, col fuoribordo. Mercoledì l’aveva usato per opporsi, in maniera pacifica e spettacolare, alla "flottilla" dell’Ukip di Nigel Farage. Lui per Brexit, lei per Bremain. Jo Cox credeva all’Europa con passione. La passione che finora è mancata nel campo favorevole a restare nella Ue. La passione che, forse, l’ha condannata. Chi conosce il Regno Unito lo sa. C’è qualcosa di stoico nel modo in cui inglesi, gallesi e scozzesi affrontano il mondo e le sue prove. È ammirevole vederli lottare con le proprie emozioni, e vincerle; oppure cedervi, con immancabile, commovente imbarazzo. Speriamo che nei prossimi giorni i sudditi di Elisabetta sappiano mescolare cordoglio e calma. Quello che è accaduto è orribile. Ma sarebbe mostruoso se la decisione storica sull’Europa dipendesse da uno psicopatico con un cappellino bianco da baseball. Potrebbe accadere, purtroppo. Altre volte, nella storia recente dell’Occidente, fatti di sangue hanno segnato un voto. È accaduto in Spagna nel 2004 (attentato alla stazione di Atocha), potrebbe succedere negli Usa, dopo la strage di Orlando (il fanatico americano aveva un mitragliatore, il fanatico inglese un coltello e una pistola: anche questo non dovremmo dimenticare). Accadrà con questo referendum in Gran Bretagna? Impossibile dirlo ora. La nazione è sotto choc, qualsiasi previsione sarebbe prematura e irrispettosa. Era dal 1990 che un parlamentare britannico non veniva ucciso durante il mandato: allora fu il conservatore Ian Gow, assassinato dall’Ira (Irish Republican Army). Terrorismo nazionalista, quello. Follia omicida, quella di Thomas Mair, l’assassino di Jo Cox. Follia esplosa nello Yorkshire, regione generosa e ruvida, terra di lavoratori instancabili e accenti incomprensibili, il Bergamasco piovoso dell’Inghilterra. "In quest’epoca di pazzi ci mancavano gli idioti dell’orrore", cantava Franco Battiato nel 1981, quando l’Italia era sconvolta dal terrorismo. Gli idioti ci sono ancora: si sono moltiplicati, dispersi e diversificati. "L’odio non ha credo, non ha razza e non ha religione: è velenoso", ha detto Brendan Cox, il vedovo della parlamentare uccisa. Ha ragione. Non c’è logica, non c’è spiegazione, non c’è un movente degno di questo nome. C’è solo questo veleno che non risparmia nulla; neppure le democrazie, dove il dissenso si può esprimere in molti modi. Un veleno che colpisce gli umoristi (Charlie Hebdo) e i giovani (Bataclan), colpisce i viaggiatori (Bruxelles) e gli omosessuali (Orlando), colpisce i civili (Tel Aviv) e colpisce i poliziotti (Parigi, pochi giorni fa). Colpisce bestemmiando una religione, colpisce in odio a una minoranza, colpisce in nome di un’ossessione, colpisce contro un’opinione. Anche un’opinione pacifica come quella di Jo Cox: l’Europa è casa nostra, restiamoci. Gran Bretagna: Leave o Remain, la partita si gioca sui migranti di Alfonso Gianni Il Manifesto, 17 giugno 2016 Dentro o fuori. Conta poco l’incertezza sulla sorte della sterlina, conta di più quel che Brexit determinerebbe: nuove indulgenze dell’Unione europea verso la gran Bretagna. La deputata laburista, Jo Cox, uccisa in modo efferato nel suo quartiere da un cittadino inglese, trasforma in tragedia la drammatica campagna referendaria sulla Brexit. La sua morte ha fermato la propaganda elettorale spinta a pesanti livelli di violenza verbale e a un’estrema manipolazione dell’informazione pur di incendiare la mobilitazione al voto. Se la campagna elettorale si ferma di fronte al sangue di una parlamentare impegnata contro la Brexit, non si placa invece la fibrillazione dei mercati. Non è la prima volta che in Gran Bretagna si giunge ad una consultazione popolare riguardo ai rapporti fra Regno Unito ed Europa. Successe già il 5 giugno del 1975, quando - con un’affluenza per l’appunto d’altri tempi, il 64,2% degli aventi diritto - gli inglesi votarono per la permanenza nella Comunità europea con una maggioranza nettissima del 67,2%. Contavano su un’alleanza fra la parte maggioritaria del Labour Party di Harold Wilson (mentre la sinistra laburista era contro) e i conservatori di Margareth Thatcher. Questa volta tanto il quadro politico quanto il contesto economico sono completamente diversi e assai più drammatici. Qualunque sarà l’esito della consultazione del prossimo giovedì - le previsioni vedono ora in leggera maggioranza il Brexit - "il danno è già stato fatto", come ha dichiarato, tra gli altri, Joseph Stiglitz in riva al lago d’Iseo per la tradizionale Summer School dell’istituto fondato da Franco Modigliani. Il premio Nobel fa soprattutto riferimento all’economia. Non si può certamente dargli torto. Gli ultimi giorni sono un bollettino di guerra per i mercati finanziari. Le borse europee, come Parigi e Milano, sono in perdita. La borsa di Londra negli ultimi cinque giorni ha visto volatilizzarsi 100 miliardi di sterline. Ma anche quelle asiatiche e americane non se la ridono. Il pound si svaluta, toccando il minimo degli ultimi due anni, senza però favorire lo sviluppo delle esportazioni inglesi, contrariamente a quanto vorrebbe una troppo rozza vulgata. Gli spread aumentano e persino il titolo decennale tedesco finisce sotto zero. Ovvero per la prima volta nella storia si paga per prestare soldi allo stato tedesco, anche sulla distanza dei dieci anni. Per la verità quest’ultimo elemento non è solo dovuto al pericolo di Brexit, ma da quest’ultimo accentuato. Infatti il 75% dei bond della Germania con scadenza compresa fra 2 e 30 anni era già a tasso negativo. Si tratta di uno degli effetti collaterali dell’aumento della portata del quantitative easing deciso recentemente da Mario Draghi. Allo stesso tempo una delle conseguenze di quella stagnazione che alcuni economisti, come Summers e lo stesso Krugman, hanno definito "secolare". Al peggio non vi è mai fine e dunque la vittoria di Brexit potrebbe aggravare il triste quadro economico dell’intera Europa. Importa relativamente che le sorti per la sterlina sarebbero più incerte. Rischierebbe non solo la svalutazione, ma probabilmente anche l’uscita dallo status di valuta di riserva, che ora condivide con euro, dollaro e yen e che la moneta cinese vorrebbe ardentemente conquistare. Conta assai di più il fatto che Brexit determinerebbe con ogni probabilità nuove indulgenze da parte della Ue nei confronti della Gran Bretagna, per evitare che la fuoriuscita diventi rottura su tutti i fronti. È lo stesso Stiglitz, con un ragionamento un pò curioso, ad auspicare l’abbandono di uno "spirito di vendetta" da parte della Ue nei confronti dell’Inghilterra, che francamente mi riesce difficile vedere. Anzi, proprio per evitare un pronunciamento Leave nell’imminente referendum, il primo ministro Cameron nelle settimane precedenti aveva già ottenuto abbondanti concessioni, che proprio in queste ore vengono confermate dalla Corte del Lussemburgo. Quest’ultima, infatti, ha pienamente aderito alla tesi del governo inglese che non vuole riconoscere gli assegni sociali ai cittadini della Ue disoccupati e residenti nel Regno Unito, ma da meno di cinque anni. In altre parole gli immigrati sul suolo britannico dovrebbero prima dimostrare di avere contribuito alla ricchezza di quel paese. Se questa decisione porta analisti e allibratori a diminuire drasticamente le possibilità di vittoria di Brexit, rendendo quasi pari la contesa, risulta chiaro che ben più del danno economico conta quello politico. Si profila quindi per il dopo 23 giugno una lose-lose situation - per fare il verso agli inglesi - ovvero un quadro nel quale l’esito non è comunque positivo per l’Europa e i suoi popoli. Anche se la gravità non sarebbe la stessa. Se vincesse il Brexit, infatti, sarebbe ancora più difficile tenere in piedi non solo l’idea d’Europa, ma neppure la sua attuale crisalide. Ma sarebbe una botta da destra. Si comprende perfettamente, da un lato, la posizione filo Remain di Corbyn ("remain and reform") e quella filoBrexit di Farage, dall’altro. Spingerebbe ancora più avanti tutti gli sciovinismi, le pulsioni identitarie e xenofobe, quando non apertamente razziste delle quali abbiamo già segnali concretissimi in particolare nell’Europa nordorientale. Ma anche nel caso della vittoria di Remain verrebbe assestato un colpo non da poco al sistema di welfare inglese, in un quadro europeo che ne vede già la continua restrizione. Non è un caso che anche Brexit e Remain giochino la loro partita sulla pelle dei migranti, vero nodo umanitario, civile e politico che scuote dalle fondamenta la traballante costruzione europea. Un’altra dimostrazione palese - se ce ne fosse ancora bisogno - che un’Europa costruita neppure sull’economia, ma sulla moneta non può reggere. Etiopia: giro di vite del governo sui cortei, 400 morti e decine di migliaia di arresti La Repubblica, 17 giugno 2016 Le proteste e le repressioni - denunciate da Human Rights Watch - si riferiscono ad un periodo che va dal novembre al maggio scorso. Numerose manifestazioni dei contadini Oromo preoccupati per l’allargamento dell’area comunale di Addis Abeba che li avrebbe costretti ad abbandonare le loro terre. Le forze di sicurezza etiopi hanno ucciso più di 400 manifestanti, per lo più studenti, e arrestato decine di migliaia di persone durante le proteste diffuse nella regione Oromia. I fatti si riferiscono ad un dal novembre 2015. Lo riferisce Human Rights Watch (Hrw) in un rapporto pubblicato oggi. "Il governo etiope - si legge nella nota - dovrebbe sostenere con urgenza un’indagine credibile e indipendente sulle uccisioni, gli arresti arbitrari e numerosi altri abusi". Il rapporto di 61 pagine. Si sono avute brutali repressioni, uccisioni di manifestanti e arresti, in risposta alle proteste degli Oromo etiopi, un gruppo etnico diffuso in kenia e nella stessa Etiopia, dove rappresentano il 32% della popolazione (circa 24 milioni di persone), e sono il primo gruppo etnico, almeno secondo l’ultimo censimento del lontano 1994. La lingua degli Oromo ha lo stesso nome dell’etnia nella quale si è sviluppata è la lingua oromo (nota anche come galligna o gallinya). Gli appartenenti a questo gruppo di popolazione sono sunniti, cristiani ortodossi etiopi, protestanti e waaq, religione tradizionale pre-islamica praticata in gran parte in Somalia. Repressioni brutali. Le fore armate e la polizia etiope hanno messo in campo una forza eccessiva "e indebitamente letale" - riferisce il documento di Hrw - oltre che arresti di massa, maltrattamenti durante la detenzione, con l’imposdsibilità da parte degli organi di informazione di accedere alle notizie su quanto stava accadendo. Human Rights Watch ha realizzato interviste in Etiopia e all’estero con più di 125 manifestanti presenti astanti ai cortei di protesta, molti dei quali vittime di abusi documentati e gravi violazioni dei diritti di libera espressione e di riunione pacifica, da parte delle forze di sicurezza che hanno letteralmente aggredito i manifestanti in un arco di tempo che va dall’inizio delle proteste, nel novembre 2015, al maggio scorso. Eliminate oltre 400 persone. "Le forze di sicurezza etiopi hanno sparato e ucciso centinaia di studenti, ma anche agricoltori e altri manifestanti pacifici con palese disprezzo per la vita umana", ha detto Leslie Lefkow, vice direttore dell’Africa di Human Rights Watch. "Il governo dovrebbe liberare immediatamente quelli ingiustamente detenuti, e sostenere avviare una indagine indipendente per individuare i membri delle forze di sicurezza responsabili di abusi". Human Rights Watch ha scoperto che le forze di sicurezza usati proiettili veri per il controllo della folla più volte, uccidendo più manifestanti nell’arco di diversi mesi. Human Rights Watch e altre organizzazioni hanno identificato più di 300 uccisi per nome e, in alcuni casi, con le foto. L’opposizione all’estensione dei confini di Addis Abeba. Le proteste di novembre sono state innescate dalla preoccupazioni da parte dei gruppi Ooromo (prevalentemente contadini) contro l’ipotesi di espansione del governo del confine comunale di Addis Abeba. I manifestanti temono che il Master Plan (così si chiama il progetto proposto dal governo) sposterebbe gli insediamento degli agricoltori Oromo dalle zone circostanti la capitale, come del resto è sempre avvenuto negli ultimi dieci anni, con il conseguente impatto negativo sulle comunità. Le proteste sono continuate fino a dicembre, il governo ha schierato forze militari per il controllo della folla. I militari hanno sparato ripetutamente sulla folla e preso a bastonate le persone catturate che partecipavano ai cortei di protesta. Molti di quelli uccisi erano studenti, compresi molti ragazzini con meno di 18 anni. A gennaio, il governo ha annunciato la cancellazione del Master Plan ma, a quel punto, le proteste sono continuate a causa della brutalità della risposta del governo. In galera studenti, insegnanti, musicisti...La polizia federale e militari hanno arrestato decine di migliaia di studenti, insegnanti, musicisti, politici dell’opposizione, operatori sanitari, e le persone che hanno fornito assistenza e rifugio per gli studenti in fuga. Mentre molti detenuti sono stati rilasciati, un numero imprecisato è invece rimasto in cella, senza un’accusa formale e senza che nessun familiare o avvocato potesse incontrarli. I testimoni hanno descritto una gigantesca ondata di arresti senza precedenti. Yoseph, 52, dalla zona Wollega, ha detto: "Ho vissuto qui per tutta la mia vita, e non ho mai visto una repressione così brutale. Ci sono arresti regolari e uccisioni del nostro popolo. Ogni famiglia qui ha avuto almeno un figlio arrestato". Libia: tra gli spari nelle strade di Sirte, dove l’Isis combatte ancora di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 17 giugno 2016 Il reportage dalla città libica tra le truppe che combattono l’Isis. "Colpo di grazia a chi viene catturato, Qui non facciamo prigionieri. Da Roma molte promesse e poco aiuto, non ci chieda ora di fermare i migranti". Alle otto di sera in punto, quasi all’improvviso, tutto tace. Non più le raffiche sparse di mitragliatrice, non più i rombi cupi delle cannonate sparate tra lunghi intervalli dai vetusti tank sovietici posizionati sulle colline di sabbia e neppure i rumori continui dei pick up, stridenti e acuti, con le marce basse tirate sino al fuori giri. "Hiftaar, Hiftaar", è l’unico suono udibile adesso sui due fronti. E così, alla luce dolce e rosata del tramonto, repentino come in ogni stagione del Medio Oriente, gli uomini dalle divise raffazzonate dei due eserciti, che di regolare hanno solo l’aspirazione ad esserlo e che soltanto sino ad un minuto fa stavano sparandosi gli uni contro gli altri, corrono ad accovacciarsi tra le macerie, sulle stuoie improvvisate stese al riparo dei muri sbrecciati, nei cortili ingombri di mobilia spezzata, tra i palazzi abbandonati, le moschee vuote, lo sporco e le immondizie, per consumare la cena che da sempre rompe il digiuno quotidiano del Ramadan. Cambia poco che siano giovani volontari di Misurata o veterani della jihad arrivati dalla Tunisia, l’Algeria o dalle "Montagne Verdi" della Cirenaica. Tutti nei bivacchi improvvisati iniziano coi datteri, il dolce tradizionale che garantisce subito energie, poi yogurt e riso con l’uva passa. Le stesse preghiere, gli stessi gesti di rito, lo stesso Dio. Simili, eppure diversissimi. Tutti musulmani, ma nemici giurati. In quest’epoca di guerre di religione imperanti verrebbe da pensare che tutto sommato nella Libia omogeneamente sunnita basterebbe poco per metterli d’accordo. Eppure, è sufficiente la risposta fornita distrattamente da un paio di comandanti di Misurata incontrati in tarda mattinata alle porte di Sirte vicino alle autobotti del carburante per ritrovare la durezza tragica dello scontro. "Dove possiamo vedere i prigionieri?", chiediamo. "Prigionieri? Qui nessuno fa prigionieri. Loro, i nostri li uccidono. Prima, quando avevano tempo e si sentivano vittoriosi, li torturavano in cella, per in seguito decapitarli alla rotonda di Zafarana. Andate a vederla poi, l’abbiamo riconquistata cinque giorni fa. Adesso invece si sentono braccati e li finiscono subito sul posto". "E voi, cosa fate dei loro?", incalziamo. "Difficile trovarli vivi. Hanno cinture di esplosivo o bombe a mano legate alla vita. Quando credono di essere perduti si fanno saltare in aria. E, se comunque li troviamo ancora vivi, siamo noi ben contenti di eliminarli. Un colpo alla testa e via. Tanti terroristi e criminali crudeli in meno, che oltretutto con la loro interpretazione estremista del Corano non sono altro che pericolosi eretici destinati a gettare fango sull’immagine dell’Islam nel mondo". Guerra crudele, ma tutto sommato poco guerreggiata. Un classico conflitto a bassa intensità, fatto di momenti di fuoco relativamente fitto intervallati da lunghe parentesi di calma, persino tedio. Raccontare l’assedio delle milizie libiche, largamente figlie della rivoluzione del 2011, contro i jihadisti di Isis circondati a Sirte e affiancati da una folta presenza di ex fedelissimi di Gheddafi riporta automaticamente alle infinite corse nel deserto e lungo il vecchio tracciato della Balbia della rivoluzione "assistita" dalla Nato cinque anni fa. Allora nella città costiera posta a metà strada tra Tripoli e Bengasi stava asserragliato lo stesso Gheddafi con un manipolo di irriducibili. Sirte segnò la sua tragica fine, linciato a morte il 22 ottobre 2011. Oggi gli assedianti sono simili, con in testa quelle stesse milizie di Misurata che in parte (ma non tutte) hanno deciso di sostenere il nuovo Governo di Accordo Nazionale guidato da Fayez al Sarraj a Tripoli. Pure, la situazione è diversa. "Isis non combatte come i soldati di Gheddafi. Cinque anni fa la nostra preoccupazione maggiore erano i cecchini. Appostati ai piani più alti erano una minaccia continua con i loro fucili ad alta precisione di fabbricazione russa. Adesso i cecchini ci sono ancora. Ma a loro si aggiungono i kamikaze individuali, le auto-bomba, tutti quei fanatici arrivati dall’estero, abituati a combattere in Siria, Iraq e Afghanistan, pronti a morire, anzi ben contenti di farlo. I combattenti di Isis sono molto più fanatici e infidi. Si mischiano ai pochi civili rimasti e poi ci attaccano alle spalle", racconta Salim Badi, comandante 55enne della Katiba al-Mughirat, una tra le più forti di Misurata. Cerchiamo allora di capire come si sta svolgendo la battaglia, tenendo a mente i parametri di cinque anni fa. Oggi come allora dominano due costanti: la difficoltà nel districarsi nella propaganda, oltre alle enormi differenze tra lo scontro urbano e quello in aperto deserto. Il primo aspetto va sottolineato. Alle grida di vittoria lanciate specialmente dai responsabili di Misurata una settimana fa va aggiunto che i combattimenti potrebbero durare ancora a lungo. "Sirte potrebbe cadere solo alla fine di Ramadan, la seconda metà di luglio", ci ha detto giovedì sera Anwar Sawan, uno dei massimi capi del consiglio militare di Misurata. Il quale non ha tra l’altro lesinato critiche all’Italia. "Roma ci promette aiuti a parole. Ma in pratica fa molto poco. Persino il programma di assistenza ai nostri feriti va a rilento. Ne avevamo inviati a Roma venti. Sette sono stati rifiutati dai vostri ospedali. Il vostro premier Renzi non si aspetti la nostra collaborazione per bloccare i migranti. Poche settimane fa ne abbiamo espulsi oltre 600 verso i nostri confini meridionali. Altri 62 sono in carcere. Ma nel futuro non saremo più pronti a rimandarli alle loro case in Africa", ha detto. Nessuno nasconde l’importanza per contro dell’aiuto militare anglo-americano. "La loro intelligence ci permette di individuare gli obbiettivi sul campo", aggiunge Sawan. A Misurata si troverebbero una quarantina di consiglieri militari che grazie a satelliti e droni guidano i miliziani nelle loro operazioni. "Però non ci sono unità terrestri anglo-americane. Tutte le truppe combattenti sono nostre", specifica. E tuttavia l’attacco va a rilento. Sulle mappe di Sirte i comandanti mostrano la ventina di chilometri quadrati di area urbana ancora in mano ad Isis. Comprendono l’intero centro città, sino ai palazzoni dello Ougadougou, il gigantesco centro congressi voluto da Gheddafi per cementarvi l’alleanza libico-africana. Anche cinque anni fa risultò difficile da debellare, tanto che venne ripetutamente bombardato dai caccia francesi e britannici. Pochi giorni fa girava la notizia, anche sulle agenzie stampa internazionali, che Isis l’avesse abbandonato. Ma non è affatto vero. L’altra mattina siamo rimasti a lungo ad osservare sporadici scambi tra cecchini. La brigata dedicata al "martire" Abdel Hamid, tutta di Misurata, è posizionata tra abitazioni basse e cumuli di ghiaia a circa 800 metri di distanza. Vicino a loro si trova una brigata di Slitan, tutti giovani tra i 18 e 30 anni. Molti alla loro prima esperienza di guerra. "Vinceremo se Allah lo vuole. Ma prima dobbiamo eliminare tutti quelli di Isis, non ci sono alternative", sostengono. Ma quanti sono quelli di Isis? In situazioni come queste i numeri sono il dato più semplice da ottenere e però il più difficile da verificare. A seconda degli interlocutori abbiamo sentito parlare di 3.000 uomini, ma anche di meno di 200. Complesso individuare il numero dei civili, pare siano solo qualche migliaio, forse meno. Ma nessuno ne parla. "Lo dite voi giornalisti che quelli di Isis sono 6.000, no?", ha osservato ironico un comandante. Al piccolo ospedale da campo posto in una fattoria a un chilometro dalle prime linee il medico di guardia, Yossef Tawil, ortopedico 27enne, appare però molto scettico. "A giudicare dall’intensità dei combattimenti, direi che i jihadisti sono meno di 250. Sparano poco, risparmiano munizioni. Ho l’impressione che la maggioranza sia riuscita a disperdersi nel deserto prima che il cerchio del nostro assedio venisse chiuso", dice. I responsabili dell’intelligence di Misurata valutano che sino ad una settimana fa i militanti di Isis fossero "circa 600". Con quale criterio? "Il numero di capre uccise per il rancio quotidiano. Una media di 10 al giorno, che sfamano circa 60 uomini ognuna. Ce lo raccontava un nostro agente interno, che però poi è stato scoperto ed eliminato", specificano. Sempre all’ospedale affermano che gli assedianti nell’ultimo mese hanno perso circa 160 uomini, oltre a circa 200 feriti. Sconosciuti però i dati relativi alle perdite di Isis. Per arrivare alla rotonda di Zafarana occorre risalire la strada principale battuta sui due lati dai cecchini. Qui gli spari sono più fitti. Nell’asfalto segni di proiettili ed esplosioni. Diverse auto colpite sono riverse nel fossato parallelo, attorno sono sparse riserve di munizioni, cibo, bottiglie dell’acqua, coperte e materassi. Il palco in ferro dove Isis decapitava e crocifiggeva le sue vittime è stato completamente divelto. Restano in piedi solo vecchi cartelloni pubblicitari crivellati di proiettili. Le abitazioni attorno paiano gravemente danneggiate. Qui i miliziani vietano qualsiasi fotografia. Più a destra l’ospedale Ibn Zina, che in un primo tempo veniva dato per liberato, appare invece ben controllato da Isis. Le brigate della rivoluzione hanno utilizzato giganteschi bulldozer per erigere cumuli di terra protettivi. Verso le cinque del pomeriggio i rombi si fanno più frequenti. Sono nervosi i miliziani. Lo stallo e la consapevolezza che l’assedio durerà ancora diverso tempo non contribuiscono ad alzare il morale. È intanto giunto l’eco di un grave attentato al posto di blocco di Abu Grein, 120 chilometri più in dietro verso Misurata. Una dozzina di combattenti hanno perso la vita. Una notizia che conferma le previsioni più cupe. Isis in fuga si è disperso e raggruppato. Ha perso territorio, ma torna alla guerriglia. Le sue pattuglie suicide approfittano del rilassamento dei controlli per Ramadan e s’infiltrano nelle retrovie. La stessa Tripoli, 300 chilometri più a ovest è a rischio. Sabato scorso un altro attentato contro il precedente ospedale da campo, 50 chilometri a ovest di Sirte, aveva ucciso uno dei medici più amati dai soldati e causato sconcerto. Non ci sono leggi o convenzioni umanitarie in questa guerra senza prigionieri e anche i medici sono considerati un obbiettivo legittimo.