Carceri: Orlando, presto azioni per dare continuità al lavoro Stati Generali Ansa, 16 giugno 2016 Una serie di interventi in materia penitenziaria da poter mettere in campo nel breve periodo attraverso prassi amministrative, circolari e regolamenti di rapida adozione. È quanto ha chiesto ieri mattina il ministro della Giustizia Andrea Orlando al coordinatore del comitato di esperti Glauco Giostra e ai rappresentanti dei 18 tavoli tematici di lavoro che hanno lavorato agli Stati generali dell’ esecuzione penale conclusi due mesi fa. L’incontro, a cui hanno partecipato anche i sottosegretari Cosimo Maria Ferri e Gennaro Migliore, fa sapere il ministero, è stato l’occasione per un primo confronto operativo con i direttori generali del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria allo scopo di delineare le azioni organizzative per intervenire nel sistema penitenziario in modo efficace e innovativo e dare così continuità al lavoro degli Stati Generali. "D’altronde - ha ricordato Orlando ai presenti - la straordinaria esperienza degli Stati Generali dell’esecuzione penale ha già prodotto alcuni risultati molto importanti: il Protocollo Giustizia-Miur per l’istruzione e la formazione in carcere e nei servizi minorili, siglato col ministro Giannini il 23 maggio scorso a Palermo; la direttiva sulla prevenzione dei suicidi in carcere; la richiesta al Csm di un parere sulla rideterminazione della pianta organica della magistratura di sorveglianza; lo sviluppo dei sistemi informativi del Dap e del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di comunità; lo stanziamento delle risorse per la telemedicina nella carceri". Le proposte odierne saranno frutto di lavoro in sinergia con gli uffici del Dap ed oggetto di un successivo confronto in un nuovo incontro. Più risorse per i Tribunali di sorveglianza Interlocuzione permanente con il Ministero; consolidamento delle risorse umane e materiali assegnate agli uffici di sorveglianza; proposta di un ulteriore aumento delle loro piante organiche (trasmessa lo scorso 15 maggio al Consiglio Superiore della Magistratura per il prescritto parere); interventi urgenti in favore degli uffici in maggior difficoltà, con assegnazione di fondi (aggiuntivi) per la manutenzione e l’uso dei mezzi di trasporto utili per raggiungere le sedi periferiche; ricognizione della logistica dal punto di vista strutturale; disponibilità a esaminare alcune mirate proposte di intervento normativo. Sono queste le possibili soluzioni alle criticità evidenziate che il Ministro della giustizia Andrea Orlando ha individuato come prioritarie al termine dell’incontro con i presidenti dei Tribunali di sorveglianza di tutti i distretti di Corte d’Appello, tenutosi oggi presso la sede del dicastero. Durante la riunione molti sono stati gli aspetti rappresentati e i problemi prospettati, gran parte dei quali trasversali a tutti i Tribunali di sorveglianza. Il Guardasigilli ha espresso vivo apprezzamento per il lavoro svolto anzitutto in materia di esecuzione penale esterna e, dopo aver ascoltato le proposte di carattere organizzativo e di modifiche normative rappresentate ed avendo garantito la massima considerazione delle stesse, ha rinviato a un successivo incontro, prima della pausa estiva. Confini della giustizia di Ermes Antonucci Il Foglio, 16 giugno 2016 Orlando, Cantone, Legnini, Canzio e Spataro: idee politicamente scorrette da un dibattito fogliante Roma. Dalla riforma della giustizia alla messa in discussione del processo mediatico, passando per l’indipendenza dei magistrati, tema più che mai attuale in tempi di dibattito pubblico sulla riforma costituzionale. Di questo si è parlato al dibattito sulla giustizia organizzato dal Foglio, e moderato dal direttore Claudio Cerasa, tenutosi ieri all’Ara Pacis a Roma, che ha visto la partecipazione del ministro della Giustizia Andrea Orlando, del presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, del primo presidente di Cassazione Giovanni Canzio e del procuratore di Torino Armando Spataro. Sul delicato rapporto tra giustizia e media, e sulle tendenze di alcuni magistrati a svolgere la propria attività più per l’amore dei riflettori che della verità processuale, Canzio è stato molto netto: "Il processo mediatico mi preoccupa perché è incentrato sulle indagini preliminari, cioè su ipotesi e imputazioni, e rischia così di formare consensi e aspettative nella collettività che possono mettere in discussione la terzietà del giudice che deve effettivamente decidere sul caso". Spataro si è detto invece convinto che esista un "protagonismo virtuoso dei magistrati", ma che ad ogni modo "il magistrato non può atteggiarsi a moralizzatore della vita pubblica o a eroe contro presunti poteri forti". Proposte, per far fronte a tali disfunzioni, non sono mancate, e ad avanzarle è stato anche il vicepresidente dell’organo di autogoverno delle toghe, Legnini, che ha auspicato che possa "camminare in futuro" l’idea di istituire presso gli uffici giudiziari "un nucleo organizzativo, composto da magistrati, incaricato di svolgere un’informazione corretta e completa, evitando che vengano diffuse notizie per propri interessi". Ma il protagonismo di una parte della magistratura, in questo periodo, alimenta tensioni soprattutto in relazione al dibattito in corso sul referendum costituzionale di ottobre. Di recente si è assistito persino all’adesione di una corrente dei magistrati al comitato per il "no". Per Cantone "il magistrato non deve solo essere, ma anche apparire indipendente", e, di conseguenza, mentre va garantita la sua partecipazione al dibattito pubblico su un referendum con "valenza istituzionale", è da ritenersi "inopportuno" un suo coinvolgimento a comitati politici che sostengono specifiche posizioni. Riflessioni condivise sia da Legnini - che però ha escluso "divieti e bavagli" - sia dal ministro Orlando. Un po’ meno da Spataro che invece ha deciso di aderire al comitato per il "no" dei costituzionalisti ("non dei politici") e ha ribattuto: "Occorre, più che altro, chiedersi chi ha inteso politicizzare il dibattito attorno al referendum, con una evidente forzatura". Ma come riformare una giustizia, come quella italiana, notoriamente lenta, inefficace e fonte di scoraggiamento per gli investimenti esteri? Secondo Canzio, pensare di risolvere le deficienze strutturali allungando i termini di prescrizione dei processi, o addirittura sospendendoli, è insensato e anche "inaccettabile" per il nostro paese: "I termini non vanno allungati, è una questione di civiltà. Ciò che va assicurato è la rapidità della giustizia". Sul punto c’è comunque l’ottimismo del Guardasigilli: "La giustizia italiana non è più immobile. Il tribunale delle imprese, che per l’investitore straniero è il foro di riferimento, giudica metà del contenzioso in meno di un anno". Una giustizia efficiente, però, richiede anche una magistratura efficiente. Da qui la necessità di superare alcune resistenze corporative. Da qui la questione delle correnti nella magistratura, e della loro influenza sulle procedure di nomina del Csm. Cantone, che tempo fa, proprio al nostro giornale aveva definito le correnti "il cancro della magistratura", ha ammesso che oggi non userebbe di nuovo la stessa espressione, ma la convinzione è la medesima: "Le correnti devono occuparsi di elaborazione culturale, non delle nomine". Per Orlando "il problema non è lo strapotere delle correnti, ma la loro debolezza", che determina un perenne conflitto interno, inducendo i magistrati "a una ricerca esasperata del consenso, del voto", con le toghe che così "finiscono per essere sollecitate dalla cronaca, dai titoli di giornali". Spunti, insomma, senza peli sulla lingua, non sono mancati. E il dibattito lanciato dal Foglio resta aperto, a tutti. Al Csm l’allarme tribunali. Orlando: faremo i concorsi di Liana Milella La Repubblica, 16 giugno 2016 Un nuovo concorso per assumere duemila cancellieri. È questa la carta segreta cui sta lavorando il Guardasigilli Andrea Orlando. Una boccata d’ossigeno con l’immissione di energie fresche, cioè proprio quello che in questi giorni stanno chiedendo presidenti di Tribunali e Corti di appello, e capi delle procure in un’allerta collettiva che ha raggiunto sia il ministero della Giustizia che il Csm. Dice Orlando: "Quest’anno, complessivamente, entreranno negli uffici 2.200 persone, frutto della mobilità da altri uffici. Si tratta dell’iniezione più significativa dopo anni in cui non c’è stato il minimo ricambio". Ma Orlando guarda più in là, al nuovo concorso per 2mila persone, per il quale si sta battendo anche con Palazzo Chigi. È questa la sua risposta, non senza qualche polemica, all’ultimatum del Csm. La delibera di quattro pagine - anticipata ieri da Repubblica - in cui si chiede di "indire con urgenza nuovi concorsi straordinari" non solo per i cancellieri ma anche per i magistrati - è stata approvata ieri dal plenum del Consiglio all’unanimità e dopo un rapidissimo dibattito. Preceduto però da un focoso scambio di telefonate tra via Arenula e palazzo dei Marescialli. Perché da un lato Orlando rivendica di non essere stato affatto con le mani in mano da quando è ministro, e il Csm ribatte di essere diventato il destinatario di una lunga serie di proteste dai vertici degli uffici giudiziari. Si parlano a lungo il vice presidente del Csm Giovanni Legnini e il ministro. Cercano di evitare fratture, ma quando è sera, durante un dibattito sulla giustizia organizzato dal Foglio, Orlando non riesce a nascondere il suo malumore. Tant’è che, entrando in sala, dice ai cronisti che gli si fanno intorno: "Eh già, l’ultimatum del Csm… La verità è che loro sono arrivati per ultimi, mentre quello del personale è il mio incubo da due anni". "La mancanza di amministrativi è la priorità della giustizia italiana, altrimenti riforme, buone pratiche e sforzi organizzativi sono destinati a non produrre gli effetti sperati" dice Legnini la mattina durante la discussione della delibera. Aggiunge: "Si è speso non poco, ma i risultati non sono finora soddisfacenti". Luca Palamara e Francesco Cananzi, i presidenti delle commissioni sesta e settima, Riforme e Organizzazione giudiziaria, che hanno preparato il testo, sempre rivolti a Orlando insistono: "Bisogna investire di più sulla giustizia per superare questa situazione di collasso". Quanto basta per spingere il Guardasigilli a una replica dal sapore decisamente polemico. "Il Csm si è accorto del problema del personale perché un autorevole magistrato come il procuratore di Torino Armando Spataro ha posto il problema. Con Legnini ne abbiamo parlato più volte (l’ultima venerdì scorso, dopo che Legnini aveva incontrato anche Mattarella, ndr)". Poi Orlando mette i puntini sulle "i": "Il Csm se ne accorge adesso, io al ministero me ne occupo da due anni. Tant’è che abbiamo misurato le performance dei tribunali, sappiamo che 20 lavorano meglio di quelli omologhi in Europa, che 80 vanno così così, che 19 vanno malissimo. Io ho scelto di visitare proprio quelli più in difficoltà. E ho scoperto che 7 di questi, pur essendo ad organico di personale pieno, vanno male lo stesso. Quindi ne ho dedotto che sono stati diretti male da chi c’era prima al vertice degli uffici, oppure sono diretti male adesso". E qui parte l’ultimatum di Orlando al Csm: "Il Consiglio deve scegliere bene i capi degli uffici. Noi faremo il reclutamento straordinario, ma non basta. Se a fronte di investimenti, 159 milioni per l’informatica quest’anno contro i 75 del 2015, la situazione non migliora, ciò è frutto di discutibili capacità organizzative". Ma due magistrati come il primo presidente della Cassazione Gianni Canzio e il procuratore di Torino Spataro sono convinti che la mancanza di personale è esiziale. Canzio, che fa citare espressamente la Suprema Corte nella delibera del Csm per un buco di personale del 30%, descrive un ufficio "in grande affanno, con 80mila ricorsi nuovi e 140mila pendenti, e in vista del lavoro straordinario per il referendum". Spataro conferma la sua denuncia: "Vedo le difficoltà del governo, ma è un grosso vulnus alla democrazia non consentire che la magistratura sia dotata di strutture e di personale". Poi una stoccata a Renzi: "Chi guida il Paese deve evitare di usare i 140 caratteri che il tweet richiede e invece deve confrontarsi". Canzio e Orlando: attenti al degrado "il processo mediatico è una tentazione fatale" di Errico Novi Il Dubbio, 16 giugno 2016 Di Andrea Orlando non si può dire che sia un impulsivo. Anzi, più di una volta il guardasigilli si è trovato a fare da mediatore dopo improvvise fiammate tra il premier e i magistrati. Ma al riuscito convegno organizzato dal Foglio all’Ara Pacis, "Ai confini della giustizia", il ministro cede alla tentazione di rispondere al Csm con sarcasmo. Al dibattito pomeridiano Orlando arriva col sorriso sulle labbra e una battuta per i cronisti: "Sono venuto a rispondere all’ultimatum". Si riferisce alla delibera approvata pochi minuti prima a Palazzo dei Marescialli sul deficit di personale negli uffici giudiziari. Segnale anticipato ieri da Repubblica, che l’aveva appunto presentato come un ultimatum del Consiglio. Il pressing lanciato dalle toghe fa da sfondo al dibattito, a cui partecipano altre quattro figure centrali del sistema giustizia: Raffaele Cantone, Giovanni Canzio, Giovanni Legnini e Armando Spataro. Il ministro della Giustizia risponde: "Possibile che il Csm si accorga dell’emergenza personale solo dopo che un autorevole procuratore come Armando Spataro ha sollevato la questione con una lettera al sottoscritto? È come se persino nell’organo di autogoverno prevalesse a volte l’urgenza di rassicurare la base della magistratura. Anziché seguire delle priorità si insegue la cronaca". Non è la sola stilettata che Orlando riserva alle toghe. L’altra riguarda le correnti: "Altro che strapotere. Mi preoccupa piuttosto la loro debolezza. Anche l’associazionismo giudiziario rischia di scivolare nella crisi dei partiti: c’è una conflittualità esasperata tra i vari gruppi, tutti tesi alla ricerca del consenso. E questo si riflette anche nel funzionamento del Csm". In che modo? Il guardasigilli fa un esempio concreto: "Si dà priorità all’assegnazione degli incarichi nelle sedi più grandi, quelle sulle quali si costruisce appunto la via del consenso, che in genere prevede un giro all’Anm e l’approdo finale al Consiglio superiore". È anche per questo che alcuni dei Tribunali con il maggior arretrato e la più alta percentuale di prescrizioni "sono in difficoltà: il vertice resta per troppo tempo vacante". Altre volte i capi degli uffici sono stati scelti male: "Non parlo necessariamente di chi guida Tribunali e Procure oggi e che magari si è insediato dopo che i problemi si erano accumulati. Fatto sta che una classifica di efficienza esiste ed è pubblicata sul sito del ministero: sono partito da lì per un giro nei dieci Tribunali più in affanno e ho scoperto che in sei di questi non c’era alcun vuoto d’organico. In quei casi evidentemente chi guida o ha guidato l’ufficio non aveva buone capacità di organizzazione". La lezione di Canzio - Colpi assestati con garbo e decisione a cui prova a rispondere Legnini, che del Csm è vicepresidente: "Il 13 luglio sarà approvata in plenum la riforma del regolamento interno, completerà il lavoro fatto col Testo unico sugli incarichi direttivi: lì è anticipato il principio secondo cui i capi degli uffici vanno scelti in base alle capacità organizzative". Ma a parte ll confronto serrato tra guardasigilli e Consiglio superiore, il convegno dell’Ara pacis si accende su almeno altri due dossier: la partecipazione delle toghe alla campagna referendaria e, soprattutto, i rischi del processo mediatico. Tema, quest’ultimo, sollevato dal primo presidente della Cassazione, Canzio. Che premette: "Non concedo interviste ma questo è un dibattito di qualità e vi partecipo con piacere. Nell’invito vedo al primo posto il nodo della terzietà del giudice: ebbene, il processo mediatico può metterla in pericolo". Canzio spiega: "La proiezione della giustizia sui media mi preoccupa perché c’è uno sbilanciamento sulla fase delle indagini". Del dibattimento i giornali in genere se ne infischiano, mentre "la fase preliminare viene enfatizzata a tal punto che attorno ad essa si formano consensi e aspettative. In questo modo il titolare delle indagini viene quasi spinto fuori della giurisdizione, e a sua volta il giudice si trova a dover mettere in discussione quei consensi e quelle aspettative. Con la conseguenza che la fiducia nella magistratura viene messa in dubbio". Un modo elegantissimo per dire il contrario: e cioè che spesso il magistrato viene condizionato dalle curve tifose del populismo giudiziario. Canzio scolpisce quindi un monito inconfutabile: "Il processo mediatico è pericoloso, ci distacca dal grande insegnamento che proviene dall’etica del limite e dall’etica del dubbio. Dare eccessiva enfasi a quelle che sono pur sempre ipotesi mette in discussione questi principi". Sulle correnti Canzio non fa lo snob e ricorda anche qui uno "scarto", quello fra "elaborazione culturale" e "consenso sugli incarichi": se il secondo aspetto diventa preponderante "c’è il decadimento: e io mi batto contro questo". Fronte sul quale resta schierato Cantone, che non insiste a definire le correnti come un "cancro" ma ne ricorda le "degenerazioni". Toghe e referendum - Il presidente dell’Anticorruzione non pone particolari limiti invece ai giudici che partecipano alla campagna referendaria: "L’unico rischio è la presenza attiva nei comitati". La pensa così anche Legnini, Canzio non nasconde la sua "perplessità" mentre il procuratore di Torino Armando Spataro rivendica il diritto a un "protagonismo virtuoso" dei magistrati come espressione stessa della loro indipendenza dalla politica. "Io parteciperò a un comitato per il no dove però non ci sono esponenti politici: ne fanno parte alcuni dei saggi del presidente Napolitano e a guidarlo sono Rodotà, Zagrebelsky e Pace". È un "punto di avvicinamento", incassa benevolo Legnini. Con Orlando che si limita a un invito: "Va bene tutto, basta che i magistrati, quando fanno politica, evitino di atteggiarsi come se stessero in cattedra". Pretesa minima, a pensarci bene. Se politici e controllori fanno i furbetti di Sergio Rizzo Corriere della Sera, 16 giugno 2016 La prima domanda che viene in mente dopo aver appreso che ieri, 15 giugno 2016, i carabinieri di Maddaloni hanno pizzicato 16 (sedici) di quei professionisti del badge ormai noti come "furbetti del cartellino" è: cosa altro deve accadere perché non scompaiano dagli uffici pubblici certe facce di bronzo? Mentre le forze dell’ordine eseguivano le ordinanze di custodia cautelare emesse dai magistrati di Santa Maria Capua Vetere, la stessa Procura chiedeva infatti il rinvio a giudizio di 78 (settantotto) dipendenti del Comune di Orta di Atella "accusati di truffa aggravata ai danni dello Stato", informa l’Ansa, "per numerosi episodi di assenteismo. Il blitz della polizia risale in questo caso al 19 giugno del 2015. Esattamente un anno fa. Dettaglio non irrilevante, fra i 78 di Orta di Atella c’è anche il capo della locale polizia municipale. Ovvero chi dovrebbe far rispettare le regole. Così nella retata di ieri alla Asl di Caserta del distretto 13 di Maddaloni non manca un politico locale, consigliere comunale di maggioranza del Comune di Valle di Maddaloni finito agli arresti domiciliari. Ossia uno di quelli che dovrebbero scrivere le regole e la cui condotta, al pari di quella di un capo dei vigili urbani, dovrebbe essere d’esempio. Ora aspettiamo l’accertamento delle responsabilità. Ma se anche queste ultime accuse verranno confermate, sarà la prova che non è servita a nulla la retata di un anno fa in un Comune limitrofo. Come neppure lo scandalo clamoroso di Sanremo con il dipendente beccato a timbrare in mutande. Meno che mai intimidisce la minaccia della sanzione entro 48 ore. Il sentimento di impunità dev’essere radicato davvero molto in profondità. Dove la vergogna non può arrivare. Sono poche mele marce? Forse. Ma il problema è che fra l’esempio buono e quello cattivo prevale sempre in secondo. E quello, purtroppo, arriva spesso dall’alto. Daspo, più poteri al giudice penale di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2016 Corte di cassazione - 24819/2016. Più potere al giudice penale nella gestione dei daspo. La Corte di Cassazione - Terza sezione penale, sentenza 24819/16 depositata ieri - cambia orientamento sulla prevenzione dei disordini durante le manifestazioni sportive e decide di equiparare a tutti gli effetti gli ordini di allontanamento da stadi palazzetti etc. ai provvedimenti amministrativi in materia di antimafia. Il caso scaturisce da un tifoso fiorentino che, raggiunto dall’inibitoria - compreso l’obbligo di presentazione alla caserma dei carabinieri durante l’orario delle partite - aveva per due volte chiesto al giudice preliminare la revoca della parte più afflittiva del provvedimento. In particolare, il tifoso puntava alla cancellazione dell’obbligo di firma in caserma, ma per due volte i giudici di merito avevano rilevato la mancanza di potere della magistratura ordinaria una volta adottato il daspo richiesto dal questore (e avallato dal Gip stesso, come previsto dalla legge 401 del 1989). L’equivoco nasce dalla incompletezza della norma che, nello stabilire la forchetta della durata del daspo - da 1 a 5 anni - aggiunge che il provvedimento amministrativo è modificabile anche per effetto di provvedimenti dell’autorità giudiziaria adottati nel frattempo (p.es. un’assoluzione penale su fatti inerenti), ma non stabilisce "quale" autorità debba/possa intervenire. Secondo la Terza, il daspo assistito da obbligo di firma è un provvedimento che incide sulla libertà personale di movimento, limitandola, come recepito tra l’altro dalla sentenza 193/1996 della Consulta. L’anno successivo gli stessi giudici dalla Corte costituzionale avevano esteso tutte le garanzie processuali a alle decisioni dell’amministrazione che incidono sulla libertà personale, mentre nel 2002 (sentenza 512) veniva definitivamente stabilita l’aderenza della questione all’ambito dell’articolo 13 della Costituzione, giustificando la necessità dell’intervento del giudice penale ( e prima ancora l’adeguatezza motivazionale del provvedimento di polizia) . Questa premessa, scrive la Terza, deve portare oggi all’estensione armonica delle garanzie giurisdizionali anche alla fase dell’esecuzione del provvedimento amministrativo, in particolare alla sua modifica sollecitata dall’interessato stesso. "Opinare diversamente - scrive l’estensore - e quindi limitare le garanzie al solo momento genetico della misura, risulterebbe infatti non solo contrario alla disciplina e alla ratio della stessa, ma anche foriero di seri dubbi di costituzionalità, quantomeno nell’ottica dell’articolo 3, con riguardo a coloro che sono sottoposti alle misure di prevenzione tipiche di cui al dlgs 159 del 2011, quand’esse parimenti incidenti sulla libertà del soggetto". L’avvocato risarcisce il cliente che fa più carcere per l’appello in ritardo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2016 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 15 giugno n. 12280. Risarcisce il danno il penalista che ritarda nell’impugnare la condanna facendo soffrire al cliente, che non ha potuto usufruire del patteggiamento, un periodo più lungo di detenzione. Né l’avvocato che ha commesso l’errore può rivalersi sull’assicurazione, perché il pregiudizio provocato è di natura non patrimoniale. La Corte di cassazione (sentenza 12280 depositata ieri) accoglie il ricorso dell’assicurazione contro la domanda di manleva del legale e fa chiarezza sulla responsabilità dell’avvocato che arriva in ritardo nell’impugnare una sentenza penale di condanna. Errore che era costato all’imputato 14 mesi in più di carcere rispetto alla pena ottenuta da altri coimputati per lo stesso reato che si erano visti abbattere il periodo detentivo per effetto del patteggiamento. La Corte d’Appello aveva quantificato il danno in oltre 100 mila euro. La cifra era stata calcolata in base al criterio dell’ingiusta detenzione, moltiplicando i 425 di reclusione in più per 235,83 euro al giorno, secondo il parametro fissato dalla norma. Per la Corte territoriale inoltre l’assicurazione era tenuta a coprire il legale. I giudici di seconda istanza avevano, infatti, affermato che il danno pur dovendo essere considerato di natura non patrimoniale, diventava patrimoniale in sede di liquidazione, rientrando quindi nella polizza assicurativa. Per la Suprema corte il ragionamento è sbagliato. Il primo errore è nell’aver scelto il criterio dell’ingiusta detenzione. L’imputato era stato condannato per reati gravi a sette anni: una pena che avrebbe potuto essere ridotta grazie al patteggiamento, ma che tuttavia non era ingiusta. La Suprema corte rinvia dunque sul punto alla Corte d’Appello, invitandola a liquidare il danno, comunque patito, seguendo però un criterio equitativo. Il giudice del rinvio dovrà procedere ad un congruo taglio della cifra stabilita nella sentenza cassata, alla luce degli elementi della vicenda concreta: dalla durata effettiva della detenzione, ai reati per i quali è intervenuta la condanna, dalla situazione personale dell’imputato al suo comportamento. Il secondo errore commesso dai giudici di merito è quello di aver pensato che il danno non patrimoniale possa cambiare "veste" nel momento in cui viene liquidato. Una "trasformazione" impossibile pur essendo ovvio che la liquidazione traduce comunque il pregiudizio sofferto in un’entità economicamente valutabile. Senza rinvio la Suprema corte corregge sul punto la decisione con la quale la corte d’Appello aveva finito per cancellare completamente la differenza tra i due tipi di danno. Sequestro preventivo da provare di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2016 È illegittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca su un bene intestato a soggetto diverso dall’indagato se non è provata l’intestazione fittizia: non è applicabile, infatti, alcuna presunzione, poiché sono necessarie prove concrete sulla disponibilità. A chiarire questo importante principio è la sentenza 24816/2016 della Cassazione depositata ieri. Un contribuente è stato indagato per il reato di omessa dichiarazione Iva (articolo 5 del Dlgs 74/2000) e il Gip del Tribunale, su richiesta del Pm, ha disposto il sequestro preventivo per equivalente. Il provvedimento cautelare è stato confermato anche dal Tribunale del riesame e l’indagato ha proposto così ricorso per Cassazione. Nell’impugnazione, il contribuente lamentava, tra le diverse eccezioni, che la motivazione della decisione era carente in ordine alla riferibilità all’indagato dei beni oggetto di sequestro. In particolare, gli stessi erano intestati a una società e il giudice non aveva spiegato la relazione tra la formale intestazione a un terzo e la presunta disponibilità in capo al contribuente. Confermando sul punto le ragioni della difesa, la Cassazione ha rilevato che nel caso specifico la sentenza del Tribunale aveva omesso qualunque valutazione sulla possibile intestazione fittizia dei beni sequestrati. È stato così precisato che in tema di sequestro preventivo, funzionale alla confisca per equivalente, quando il bene è formalmente intestato a terzi, pur se prossimi congiunti dell’indagato, non opera alcuna presunzione di intestazione fittizia. Incombe, infatti, sul Pubblico ministero l’onere di dimostrare situazioni da cui desumere concretamente l’esistenza di una discrasia tra intestazione formale e disponibilità effettiva del cespite. La decisione conferma l’orientamento della giurisprudenza di legittimità più favorevole al contribuente. La sentenza 10194/2015 ha precisato che il concetto di "disponibilità" va ricondotto alla relazione "effettuale del condannato con il bene, caratterizzata dall’esercizio dei poteri di fatto corrispondenti al diritto di proprietà". La disponibilità coincide, pertanto, con il possesso definito dall’articolo 1140 del Codice civile, e cioè il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale. Si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa. Da ciò consegue che non è necessario che i beni siano nella titolarità del soggetto indagato, ma è sufficiente che egli abbia un potere sugli stessi che può esercitare direttamente o a mezzo di altri soggetti. A tal fine è necessario però che il pubblico ministero dimostri la disponibilità del bene da parte dell’indagato, fornendo la prova di un’intestazione formale ad un terzo. Nella specie, quindi, sebbene la società titolare dei beni fosse riconducibile al contribuente, secondo i giudici di legittimità non era di per sé sufficiente per provare la disponibilità degli stessi. Va tuttavia segnalato che con la sentenza 7553/2016, la Cassazione ha ritenuto legittimo il sequestro preventivo di un conto corrente di una società estranea al reato, in cui l’indagato aveva solo una delega ad operare senza limiti di importi, poiché rappresentava espressione di disponibilità. In quel caso, la titolarità di una delega ad operare su un conto corrente bancario intestato ad altri, secondo la Suprema corte, configurava l’ipotesi di disponibilità richiesta dalla norma ai fini dell’ammissibilità del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente. Non è reato raccogliere scommesse per l’allibratore straniero senza concessione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2016 Tribunale di Genova - Sezione 1 Sentenza n. 1355 del 4 marzo 2016. Non scatta il reato di esercizio abusivo dell’attività di gioco o scommessa per l’operatore italiano che agisca per conto di un allibratore straniero privo della prescritta licenza per non aver partecipato alla gara bandita nel 2012 con regole giudicate dalla Corte Ue non conformi ai principi di diritto dell’Unione . Lo ha stabilito il Tribunale di Genova, con la sentenza n. 1355 del 4 marzo 2016, accogliendo il ricorso di un uomo imputato del reato previsto dalla legge 401/1989, articolo 4 comma 1 e 4-bis. In Italia, ricostruisce la sentenza, il settore delle scommesse sportive non è liberalizzato. Infatti, l’articolo 88 del Tulps obbliga ad avere una concessione amministrativa, rilasciata dall’Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato, ed una successiva autorizzazione di polizia, rilasciata dal questore. Chi opera senza i prescritti titoli, dunque, è perseguibile per esercizio abusivo dell’attività di gioco o di scommessa. Tuttavia, prosegue il tribunale, va ricordato che "dal 1998 al 2012 l’attribuzione delle concessioni per la gestione delle scommesse su competizioni sportive è stata oggetto di ben tre differenti discipline che sono state, in tempi diversi e per motivi diversi, dichiarate dalla Corte di Giustizia contrastanti con alcuni principi europei". Con riguardo alla prima tornata di 1.000 concessioni attribuite dal Coni nel 1999 in base alla Dm Economia 174/1998, la Cgue, con la sentenza C-338/04, affermò che gli articoli 43 e 49 TCE (oggi artt. 49 e 56 TFUE) vanno interpretati nel senso che "ostano ad una normativa che esclude dalla gara operatori economici costituiti in forma di società di capitali e le cui azioni sono quotate nei mercati regolamentati". Per porre rimedio al contrasto la disciplina venne riformata con il Dl Bersani n. 223/2006. Nello stesso anno l’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato indisse un bando per oltre 16.000 concessioni. Anche questa norma però venne bocciata dai giudici di Lussemburgo in quanto prevedendo distanze minime tra gli esercizi dei concessionari nuovi e quelli dei precedenti concessionari "proteggeva la posizione acquisita dagli operatori preesistenti". In entrambi i casi la Cassazione recepì i principi interpretativi della Corte. Arriviamo così al decreto Monti (Dl 16/2012) a seguito del quale venne bandito l’affidamento in concessione per tre anni di 2000 diritti per l’esercizio dei giuochi pubblici. Ma anche questa disciplina non ha retto al vaglio della Corte perché nel prevedere l’obbligo di cessione a titolo gratuito, alla cessazione dell’attività per scadenza della concessione o per decadenza o revoca, dell’uso dei beni materiali e immateriali di proprietà che costituiscono la rete di gestione e di raccolta delle scommesse, "svantaggia i nuovi concessionari sia rispetto a quelli operanti in virtù delle concessioni dei 1999, sia rispetto a quelli operanti sulla base delle concessioni del 2006". La cessione gratuita, infatti, spiega la Corte di Giustizia con la sentenza 28 gennaio 2016, nella causa C-375/14, "può rendere meno interessante l’esercizio di tale attività, perché può impedire all’impresa di trarre profitto dal proprio investimento" e per tal via, "costituisce restrizione delle libertà di stabilimento e prestazione di servizi". E, se l’obiettivo della lotta alla criminalità collegata ai giochi costituisce una ragione di interesse generale tale da giustificare una restrizione delle libertà fondamentali, tuttavia "per i casi in cui la concessione giunga alla sua scadenza naturale, il carattere gratuito della cessione forzata dei beni realizza un difetto di proporzionalità della disciplina, in quanto l’obiettivo della continuità dell’attività legale di raccolta di scommesse può ben essere realizzato con misure differenti, quali la cessione forzata dei beni a titolo oneroso, ai prezzi di mercato". Per cui, conclude la sentenza, considerato che l’allibratore straniero "non partecipo’ alla gara bandita nel 2012 non per libera scelta imprenditoriale, ma perché non conforme ai principi del diritto dell’Unione, in quanto di fatto rendeva impossibile alla stessa ottenere la concessione in condizioni di eguaglianza con gli altri operatori, l’odierno imputato deve essere assolto dal reato di esercizio abusivo dell’attività di gioco o scommessa perché il fatto non sussiste". Obbligo di traduzione nei confronti dell’imputato appartenente a minoranza linguistica Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2016 Atti processuali - Lingua - Minoranze linguistiche storiche - Disposizioni di tutela - Condizioni di applicazione. Il cittadino italiano appartenente ad una minoranza linguistica riconosciuta ha il diritto di essere interrogato o esaminato nella lingua di appartenenza e di ricevere tradotti gli atti del procedimento, a condizione che ne faccia richiesta e fornisca la prova in ordine alla formale inclusione del territorio in cui risiede tra quelli espressamente individuati nei provvedimenti amministrativi provinciali e comunali, emanati ai sensi dell’articolo 3, legge 15 dicembre 1999, n. 482, aventi la funzione di delimitare l’ambito territoriale di applicazione delle norme di tutela, mediante l’allegazione degli stessi. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 11 marzo 2016 n. 10198. Atti processuali - Lingua - Minoranze linguistiche storiche - Disposizioni di tutela - Modalità e condizioni di applicazione. Per l’applicazione delle disposizioni dettate a tutela delle minoranze linguistiche storiche, il richiedente deve fornire la prova in ordine alla formale inclusione del territorio in cui risiede tra quelli espressamente individuati nei provvedimenti amministrativi provinciali e comunali, emanati ai sensi dell’articolo 3 Legge 15 dicembre 1999, n. 482, aventi la funzione di delimitare l’ambito territoriale di applicazione delle dette norme di tutela, mediante l’allegazione degli stessi. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 12 dicembre 2014 n. 51812. Atti processuali - Lingua - Minoranza linguistica (slovena) - Diritto alla traduzione degli atti - Richiesta dell’interessato - Necessità. In tema di procedimento a carico di imputato appartenente alla minoranza linguistica slovena, il diritto alla traduzione degli atti processuali previsto, in linea generale, dall’art. 109 cod. proc. pen. per l’imputato appartenente ad una minoranza linguistica è subordinato alla richiesta dell’interessato o, quantomeno, alla segnalazione da parte dello stesso di appartenere al suddetto gruppo etnico -linguistico, non essendo imposta da alcuna norma di legge una verifica ufficiosa da parte del giudice in tal senso. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 19 marzo 2014 n. 12974. Atti processuali - Imputato appartenente a minoranza linguistica riconosciuta - Mancata traduzione degli atti processuali - Nullità relativa eccepibile. L’inosservanza dell’obbligo di traduzione degli atti del procedimento instaurato nei confronti dell’imputato appartenente ad una minoranza linguistica riconosciuta determina, ai sensi dell’articolo 18-bis, d. P.R. n. 574/1988, una nullità relativa eccepibile secondo le modalità e nei termini di cui all’articolo 181, cod. proc. pen. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 22 marzo 2010 n. 10983. Carcere: diritti, doveri e dignità di Giulia Meozzi gonews.it, 16 giugno 2016 "Carcere di Sollicciano, si suicida un detenuto. Italiano, 35 anni, si è impiccato. È il secondo suicidio in un penitenziario toscano in pochi giorni". Così mi è capitato di leggere sul giornale qualche giorno fa. Così, questa frase ha messo in moto nella mia testa diversi pensieri, e diverse domande: Come vengono trattati i detenuti nei nostri istituti penitenziari? In un ambiente del genere si può costruire una relazione umana che possa riprodurre ciò che nella "vita vera", costituisce la base di una relazione? Partiamo con qualche numero che aiuta sempre a tracciare un quadro generale. In Italia sono 65.701 i detenuti reclusi (compresi anche quelli in semilibertà) nei 206 istituti di pena del nostro paese, a fronte di una capienza regolamentare di 47.040 posti. La questione del sovraffollamento, per la quale l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, non è però l’unico problema. Uno dei più gravi è invece è la diffusa violazione dei diritti e della dignità delle persone detenute. Ed è qui che mi viene subito alla mente l’art. 27.3 della nostra Costituzione che ci dice che "Le pene non posso consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Quindi proprio secondo la nostra costituzione l’esecuzione della pena tende a far sì che il reo, il quale è venuto meno ad esigenze essenziali della società, si corregga, torni ad una condotta ad esse conforme e non commetta in futuro altri reati. Abbiamo poi l’art. 1 comma 6 dell’Ordinamento Penitenziario che afferma che nei confronti dei condannati "deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, attraverso i contatti con l’ambiente esterno al reinserimento sociale degli stessi (….)", questo in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti. È evidente, che così intesa la rieducazione, non è un risultato garantito, come non lo è mai l’esito di un processo educativo, ma è piuttosto una "scommessa" che la società fa con se stessa su un esito possibile, ma mai sicuro. La rieducazione si traduce, pertanto, in una solidaristica offerta di opportunità , affinché al soggetto sia data la possibilità di un progressivo reinserimento sociale, correggendo la propria anti socialità e adeguando il proprio comportamento alle regole giuridiche. Peraltro, la rieducazione deve passare da un lato necessariamente dalla preventiva creazione di motivazioni che inducano ai comportamenti socialmente corretti e, dall’altro, essa non può che realizzarsi attraverso strumenti pedagogici tendenti alla responsabilizzazione e consapevolezza della conseguenza delle proprie azioni, pertanto accanto all’ideologia dei diritti del condannato, occorre affermare anche quella dei doveri. Un altro pensiero scaturito dalla lettura del titolo di giornale mi riporta ad un libro letto mesi fa, intitolato "Fine Pena Ora" di Elvio Fassone, magistrato. Non è un romanzo d’invenzione, ma una storia vera, una corrispondenza durata 26 anni tra un ergastolano ed il suo giudice. Nemmeno tra amanti, ammette l’autore, è pensabile uno scambio di lettere così lungo. Nel 1985 a Torino si celebra un maxi processo alla mafia catanese; il processo dura quasi due anni, tra i condannati all’ergastolo Salvatore, uno dei capi, a dispetto della sua giovane età, con il quale il Presidente della Corte d’Assise ha stabilito un rapporto di rispetto e quasi (la parola non sembri inappropriata) di fiducia. Il giorno dopo la sentenza il giudice gli scrive d’impulso e gli manda un libro, anche perché una frase detta da Salvatore all’inizio del processo, gli rimarrà impressa nella mente per sempre "Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui in gabbia; e se io nascevo dov’è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato ed ero pure bravo". Non è pentimento per la condanna inflitta, ma un gesto di umanità per non abbandonare un uomo che dovrà passare in carcere il resto della sua vita. La legge è stata applicata, ma questo non impedisce al giudice di interrogarsi sul senso della pena. Questo libro non è un saggio sulle carceri , non enuncia teorie, è un’opera che scuote e commuove che chiede come conciliare la domanda di sicurezza sociale e la detenzione a vita con il dettato costituzionale del valore riabilitativo della pena, senza dimenticare l’attenzione al percorso umano di ogni condannato. Vorrei concludere questo articolo con l’ultima frase del libro di Fassone, una frase che dovrebbe farci riflettere: "Il carcere è per castigare certi gesti, ma poi punisce anche parti che forse la persona non sapeva di avere, parti innocenti che magari si scoprono solo quando vengono ammutolite a forza, e recise. Perché il carcere è pena per gesti che non andavano compiuti: ma la persona non è mai tutta un gesto che compie, buono o cattivo che sia". Lazio: Stefano Anastasia è il nuovo Garante regionale dei detenuti Corriere della Sera, 16 giugno 2016 Tra i fondatori dell’associazione Antigone, che ha presieduto dal 1999 al 2005, Anastasia è stato designato con 39 voti a favore. Nominato anche il nuovo garante regionale dell’Infanzia e adolescenza, Jacopo Marzetti. Stefano Anastasia, tra i fondatori dell’associazione Antigone, è stato eletto mercoledì nuovo Garante dei detenuti della Regione Lazio. Il consiglio gli ha conferito l’incarico con 39 voti a favore, 6 schede nulle e una bianca. In una successiva, distinta votazione sono stati eletti anche i due coadiutori del Garante: si tratta di Sandro Compagnoni (27 voti) e Mauro Lombardo (13 voti). "In attesa che siano svolte le formalità burocratiche, io sono già operativo", ha commentato il neo eletto. Anastasia - 50 anni, sposato, due figli - è stato direttore del centro per la Riforma dello Stato, fondato da Terracini e Ingrao. Assistente di Sociologia e Filosofia del diritto all’Università di Perugia e Roma Tre, è stato presidente della Conferenza Nazionale del Volontariato Giustizia (Cnvg) di cui fanno parte associazioni come l’Arci, la Caritas e la San Vincenzo de Paoli. L’esperienza di governo - Tra il 2003 e il 2006 ha collaborato alla istituzione del primo ufficio per la tutela dei diritti dei detenuti voluto dal Comune di Roma. Nel 2006, durante il secondo governo Prodi è stato capo della segreteria del sottosegretario alla Giustizia con delega all’amministrazione penitenziaria Luigi Manconi. Al termine dell’esperienza di governo, è tornato all’attività associativa e di volontariato, promuovendo la costituzione del difensore civico dei detenuti di Antigone. Ha pubblicato numerosi libri sul sistema penitenziario. La sua nomina a garante dei detenuti per il Lazio arriva nel giorno della chiusura ufficiale dello storico Opg di Aversa. "Un luogo simbolo perché fu il primo manicomio criminale in Italia", ha spiegato Anastasia. "La sua chiusura definitiva è un segnale importante - ha aggiunto - ma tanto c’è ancora da fare perché le Rems garantiscano il miglior trattamento possibile ai detenuti psichiatrici". Caserta: l’Opg di Aversa chiude per sempre, ora ospiterà detenuti campani Il Mattino, 16 giugno 2016 Chiude definitivamente l’ex Opg di Aversa, con il trasferimento oggi degli ultimi due pazienti. Altri tre pazienti, degli ultimi cinque rimasti nell’istituto campano, avevano già lasciato la struttura lunedì scorso per essere trasferiti, in base al principio della territorialità, nella Rems di Palombara Sabina, nel Lazio, dove risultano residenti. Lo comunica il Dipartimento amministrazione penitenziaria. L’ex Opg di Aversa, intitolato a Filippo Saporito, celebre alienista e direttore del manicomio giudiziario nel 1907, è stato il primo manicomio giudiziario del nostro Paese. Ospitato in un convento cinquecentesco, nel 1876 accolse una sezione per maniaci, primo esperimento che portò, nel regolamento carcerario del 1891, alla istituzione dei manicomi giudiziari. Nel 1975 i manicomi giudiziari assunsero la denominazione di ospedali psichiatrici giudiziari. In virtù dell’importanza del patrimonio storico, architettonico e archivistico della struttura di Aversa, parallelamente alla riconversione in istituto a custodia aperta, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sta lavorando, in collaborazione con enti di ricerca e università, alla promozione di un progetto culturale finalizzato alla istituzione dell’Archivio Storico Nazionale degli ex ospedali psichiatrici giudiziari con sede ad Aversa e alla conservazione, tutela e digitalizzazione degli archivi storici dei cinque ex Opg. La struttura, in base ad una direttiva del Capo del Dipartimento Santi Consolo, sarà riconvertito in istituto penitenziario ordinario a custodia attenuata ad alto indice trattamentale con una capacità ricettiva di circa 270 posti detentivi. Sono già 70 i detenuti ospitati nella sezione ordinaria, altri 25 arriveranno nei prossimi giorni dalla casa circondariale di Napoli Poggioreale "G. Salvia", soluzione che permette di decongestionare gli istituti campani. I trasferimenti avverranno nel rispetto del principio della territorialità. La struttura aversana risulta particolarmente idonea per l’attivazione di progetti trattamentali, tenuto conto che dispone di un’area verde di circa 10.000 mq, di un’ampia sala teatro, di una sala convegni, di un campo sportivo e di spazi adeguati per laboratori. Allo stato sono all’esame di Cassa Ammende progetti di ristrutturazione di alcuni reparti, che si aggiungeranno agli interventi di adeguamento strutturale già realizzati. Anche l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa finalmente è chiuso Ora concentrare gli sforzi per chiudere Montelupo Fiorentino e Barcellona Pozzo di Gotto. Ma la vera sfida è costruire un’alternativa alla logica manicomiale. Dopo le chiusure degli OPG di Napoli Secondigliano e di Reggio Emilia arriva la chiusura anche per quello di Aversa. Un risultato importante, reso possibile anche grazie al lavoro svolto dal Commissario per il superamento degli OPG Franco Corleone. Ora restano da chiudere i vecchi manicomi giudiziari di Barcellona Pozzo di Gotto e di Montelupo Fiorentino, dove restano poco più di sessanta persone internate. Ma anche la soluzione di Castiglione delle Stiviere va radicalmente rivista, perché l’Opg ha solo cambiato targa diventando una mega Rems con oltre duecento internati. Intanto resta urgente un provvedimento del Governo per fermare gli ingressi nelle Rems di persone con misura di sicurezza provvisoria: un fenomeno preoccupante che ha rallentato la chiusura degli Opg e soprattutto alimentato l’idea che l’alternativa alla loro chiusura fossero solo le Residenze per misure detentive. Quando invece la legge sulla chiusura degli Opg ha stabilito che devono essere le misure alternative alla detenzione la norma e la detenzione in Rems l’extrema ratio. Ecco perché la vera sfida è costruire l’alternativa alla logica manicomiale. Ciò è possibile investendo decisamente sul potenziamento e la riqualificazione dei servizi socio sanitari e di salute mentale del territorio, spesso in gravi difficoltà e con carenze: per garantire il diritto alla salute mentale e alle cure per tutti i cittadini, comprese finalmente anche le persone sinora internate nei manicomi giudiziari. Per Stop Opg Stefano Cecconi, Vito D’Anza, Giovanna Del Giudice, Denise Amerini, Patrizio Gonnella Firenze: il Procuratore capo Creazzo "grave problema trovare posti in Rems" gonews.it, 16 giugno 2016 "È un problema acuto", che riguarda alcune decine di persone in tutta Italia, "in attesa di essere ospitati presso le Rems", strutture per l’esecuzione di misure di sicurezza sanitarie nella detenzione di criminali con problematiche psichiatriche e che devono sostituire gli Opg. Lo ha detto il procuratore capo di Firenze, Giuseppe Creazzo, rispondendo ai giornalisti a proposito di una piromane straniera che stamani ha appiccato un incendio in città e che è stata responsabile di altri episodi simili, con rischio per l’incolumità pubblica, nelle vie cittadine. "Sappiamo - ha spiegato Creazzo - che il ministero e le Regioni sono impegnati ad ampliare i posti disponibili secondo quello che è il fabbisogno. E speriamo che si possa raggiungere presto la capienza necessaria". Quanto alla situazione del capoluogo toscano, "la procura con prefettura, tribunale di sorveglianza, tutti gli uffici giudiziari coinvolti e le altre istituzioni, stanno attivamente collaborando con la Regione Toscana alla soluzione del problema. C’è grande attenzione da parte di tutti". Riguardo alla piromane, c’è un’ordinanza di custodia per cui deve essere ristretta in una struttura come le Rems. Ma non ci sarebbero posti disponibili in questo momento in Toscana, e quindi rimane in libertà perché il provvedimento non sarebbe correttamente eseguibile. Biella: aggressione tra detenuti in carcere, due feriti portati d’urgenza in ospedale di Andrea Formagnana La Stampa, 16 giugno 2016 Ancora una rissa tra detenuti nel carcere di Biella. L’episodio è avvenuto domenica ma gli strascichi si sono protratti sino a ieri con uno stato di tensione palpabile che ha reso complicato agli agenti di polizia penitenziaria riportare la situazione alla normalità. I protagonisti della rissa, degenerata in aggressione, sono stati tre detenuti nordafricani. Il fatto è accaduto nel cortile passeggi. Uno di loro, procuratosi una lama, si è scagliato contro gli altri due ferendone uno all’addome e l’altro agli arti. La gravità delle lesioni ha costretto al trasferimento dei due d’urgenza all’ospedale. L’aggressore, disarmato, è stato denunciato per lesioni personali. Per tutta la giornata si sono poi verificati diversi disordini tra i vari gruppi etnici presenti nel penitenziario. Durante i controlli effettuati dagli agenti a un altro nordafricano è stato trovato un taglierino che gli è stato sequestrato. Per il detentore è scattata una denuncia per porto abusivo di oggetti atti ad offendere. A seguito dell’introduzione della cosiddetta misura di custodia attenuta, che permette ai carcerati di muoversi all’interno delle sezioni di detenzione, sono sempre maggiori questo tipo di episodi. A rendere ancora più difficile la situazione ci si mette la questione etnica, in particolare tra cittadini stranieri provenienti dalle coste Sud del Mediterraneo. Napoli: tra i volontari di Forcella "così salviamo i ragazzi che giocano con la morte" di Dario Del Porto La Repubblica, 16 giugno 2016 Il teatro è chiuso da un pezzo. Sulla facciata, i lavoratori hanno esposto uno striscione sarcastico: "Trianon, solo chiacchiere e pignoramenti". Nella piazza, militari in tuta mimetica scrutano le auto di passaggio. È il cuore di Napoli, questo. Ci sono la storia e i simboli della atta, in queste strade ferite dalla camorra al punto da dover essere presidiate dai soldati. Proprio qui, la notte di Capodanno, è stato ucciso per errore Maikol Giuseppe Russo, colpito durante una "stesa", una sparatoria all’impazzata senza bersagli ne obiettivi. Dopo quel delitto assurdo, la sua famiglia ha lasciato il quartiere. "Per me Forcella è un capitolo chiuso - dice la madre, Carmela Scafaro - non potevo più restare, soffrivo ogni volta che uscivo di casa. Mio figlio è cresciuto con i valori di una persona onesta. Aveva 27 anni. La sua vita e i suoi sogni sono stati spezzati senza ragione". Anche quei bambini che si sono fatti "paranza" stanno buttando via le loro vite. "Questi ragazzi hanno la morte dentro", avverte Samuele Ciambriello, che con la sua associazione "La Mansarda" si occupa di carceri e minori a rischio. "Sono adolescenti a metà - racconta - Non hanno mai conosciuto un mondo diverso, fatto di cultura, valori, cinema. Si sentono superiori ai vecchi capi della camorra. Qualche adulto, in carcere, mi ha detto: "Questi commettono reati senza investire quello che guadagnano". Vogliono tutto e subito. Qui ed ora. La morte è l’unica pena che conoscono. Se hanno deciso di uccidere, lo fanno. Sparano nel mucchio e spesso non sanno neppure usare una pistola". Nella sua requisitoria, il pm Henry John Woodcoock aveva insistito "sull’opportunità di dare una seconda possibilità a questi giovani, che dopo aver pagato il conto con la giustizia potranno provare a reinserirsi nel contesto legale". "Come istituzione giudiziaria abbiamo fatto la nostra parte - ha sottolineato oggi il pm - Ora però diventa indispensabile il contributo delle altre istituzioni. Il Trianon è uno dei più antichi e prestigiosi teatri napoletani. E mi auguro che una piazza piena di storia come piazza Calenda possa diventare un punto di riferimento e aggregazione". Per il teatro, la Regione ha stanziato 600mila euro all’anno per tre anni e ieri il governatore Vincenzo De Luca ha incontrato Nino D’Angelo per parlare del futuro della struttura. Qualcosa si muove, è d’accordo anche don Angelo Borselli, parroco della chiesa di San Giorgio Maggiore e portavoce del movimento "Un popolo in cammino". "Avevamo chiesto sicurezza, scuole e lavoro -argomenta-Abbiamo avuto già altre telecamere e l’assicurazione che da luglio a metà agosto avremo 270 scuole aperte". Don Angelo però chiede anche "certezza della pena. Cosa succederà in appello e poi in Cassazione? Gli imputati sconteranno la condanna oppure usciranno fra poco?". Se non fosse stato ammazzato a soli 19 anni, ieri sul banco degli imputati ci sarebbe stato anche Emanuele Sibilio. Eppure, ricorda Ciambriello, "grazie a una volontaria de D Quadrifoglio, Emanuele era riuscito a fare la prima comunione. Voleva fare il giornalista, forse ci sarebbe riuscito". Poi ha scontato la pena ed è stato ucciso. Era in gabbia invece Alessandro Riccio. Il giudice gli ha inflitto dieci anni, ma sette giorni fa era stato condannato all’ergastolo per un omicidio del 2014. La vittima aveva deciso di chiudere con il passato. Aveva due figli e un terzo in arrivo. Si era trasferito a Marghera, dove aveva iniziato a lavorare come impiantista. Commise l’errore di tornare a Napoli. Gli chiesero di rientrare nel giro. Rifiutò e gli spararono. Al processo è stata decisiva la testimonianza della moglie, Dora. Mentre era ancora a terra, ferito, la donna domandò al marito se a sparare fosse stato Alessandro, quel ragazzine che, nei giorni precedenti l’agguato, lo aveva più volte "ceriate", guardato storto. Prima di spirare, l’uomo annuì con il capo. Assistita dall’avvocato Teresa Sorrentino, Dora ha confermato tutto. E ha deciso di devolvere metà del risarcimento alla fondazione intitolata a Silvia Ruotolo, vittima innocente della camorra 19 anni fa. Anche questa è Forcella. "Qui ci sono tante persone oneste - ricorda Carmela, la madre di Maikol Russo - Famiglie come la nostra, educate al principio del lavoro e del rispetto verso il prossimo. Io non tornerò, però mi auguro che si faccia qualcosa per il quartiere. Spero, davvero, che il sacrificio di mio figlio possa servire per un futuro migliore". Vicenza: la giustizia dei volontari, con alpini che spostano faldoni e detenuti al computer di Piero Colaprico La Repubblica, 16 giugno 2016 I detenuti mandati a scuola di computer e poi impegnati, in carcere e in tribunale, a scannerizzare i fascicoli. Gli alpini che si occupano fisicamente del trasloco come volontari. Gli ingegneri e gli architetti a disegnare un po’ meglio gli spazi interni. Il palazzo - o meglio, i palazzi - di giustizia di Vicenza, ma anche di Verona, sono in grado di raccontare dal profondo Nord, e dal ricco Veneto, come il rapporto tra il cittadino e la legge stia talmente dentro una tempesta perfetta che si prova persino a fare un po’ a meno di Roma: e del ministero. Le due città sono divise da 60 chilometri, è sufficiente passare sull’autostrada A-4 perché l’occhio si stanchi nel vedere senza pause capannoni, industrie, aziende agricole. "Ogni tribunale italiano - spiega uno dei magistrati che lavora nello sgarrupato palazzo di Santa Corona, in attesa di trasloco nei quattro edifici della nuova sede - ha una pianta organica. La nostra provincia ha 860mila abitanti e 36 magistrati. Nel 2013 avevano detto da Roma che saremmo aumentati a 41, mai successo. Per capirci, Verona e provincia hanno 920mila abitanti e 10 colleghi in più. E se in Italia è previsto che ci sia un magistrato in media ogni 11mila abitanti, qui ce n’è uno ogni 23mila e passa, forse Treviso sta anche peggio". Una spiegazione di questo strabismo c’è, anche se è talmente assurda che per carità di patria sarebbe meglio non saperla: "Quei tribunali veneti, così anche Brescia - spiega il procuratore generale del capoluogo Pierluigi Dell’Osso - sono stati disegnati dal ministero quando le città italiane erano diverse. Cioè, quando Brescia non era la capitale industriale, quando il Veneto era agricolo...". Insomma, i decenni e le trasformazioni "epocali" sono trascorsi per tutti, meno che per le antiche sfingi di via Arenula. "Nel marzo 2014 - racconta Fabio Mantovani, presidente dell’ordine degli avvocati vicentini - ero così disperato da lanciare una provocatoria istanza di fallimento al tribunale. Certo, non può fallire, ma volevo testimoniare il nostro stato d’animo. Eravamo da tre anni senza un presidente, mancava il 40 per cento dei magistrati. Sette anni per un giudizio di primo grado. In più, c’ingessava l’immobilismo politico sul mantenere o meno il tribunale di Bassano o trasferirlo qui. Persino le udienze per il conferimento delle tutele, a difesa dei disabili, saltavano e c’erano le file delle barelle nei corridoi". Questo scempio, ovunque tragico, è diventato di calore atomico in una provincia dove, come elenca Elisabetta Boscolo, segretaria generale della Camera di Commercio, "il reddito pro capite è di 29mila euro contro una media nazionale di 26. Anche grazie a circa 100mila imprese che ci mettono al terzo posto italiano per esportazioni all’estero, dopo Milano e Torino. Mentre il tasso di disoccupazione è del 6,7 per cento contro il dato nazionale 2014 del 12,7". Se dalla Vicenza dei "magna gatti" si emigrava, ora si viene a chiedere lavoro. I traslochi, si sa, a volte sono simbolici. Senza dubbio lo è questo in corso nella città del Palladio. Un solo dato basterà: la settimana scorsa, nella vecchia e centrale sede, da oltre dieci senza manutenzione, è stata chiamata la squadra anti-pidocchi. Quindi, dal condominio fuligginoso gli uffici si stanno finalmente trasferendo a Borgo Berga: ma come? Le uniche parole che si ottengono dal presidente del tribunale, l’altoatesino Alberto Rizzo, sono: "Grazie al territorio stiamo risorgendo". Sono stati il volontariato, un po’ di soldi per i detenuti, persino l’intervento del CoEspu, una scuola militare dei carabinieri destinata alle forze di pace, a mettere in moto il "risorgimento" locale. Vicenza vede un inedito italiano, che può riassumersi in un "chi può lavora gratis" per il trasloco e chi può (fianco a fianco con i detenuti in semilibertà) trasforma i fascicoli cartacei in file. Il trasloco va avanti e, nello stesso tempo, prima non arrivavano a una sentenza di primo grado il 67 per cento dei fascicoli, ora il 50. A conferma di questo attivismo dei veneti, va citato il caso del tribunale del lavoro di Verona: in tabella ci sono tre giudici, ma da tempo il presidente del tribunale ne ha aggiunto d’autorità un quarto senza aspettare Roma. Come mai? La legge stabilisce che nelle cause di lavoro la prima udienza venga fissata entro due mesi. Antonio Gesumunno, uno dei quattro, consulta l’agenda: "Appena ricevuto un atto, ho fissato la prima data utile, 27 gennaio 2017. Non c’è spazio prima. A Milano riescono a stare nei due mesi, sono calibrati sul territorio, qui ogni anno ci arrivano circa mille e 700, 800 cause, ma sempre quattro siamo. Impugnazioni di licenziamenti collettivi, cause per gli appalti, cause per i trattamenti di fine lavoro non pagati...". È lungo l’elenco, nel Nord dove da decenni sembra che per il ministero si possa rispondere come in un negozio: "Non c’è nessuno, passi più tardi". Ferrara: il carcere, una "città nella città" estense.com, 16 giugno 2016 Con la presentazione dell’Informativa sulla Casa circondariale di Ferrara davanti alla quarta commissione e alla commissione Pari Opportunità, si è presentata l’occasione di fare il punto della situazione sul carcere cittadino. Nella casa circondariale di Ferrara soggiornano 334 detenuti (202 italiani e 132 stranieri). Lavorano 190 unità di Polizia Penitenziaria, che al netto dei distaccamenti di vario genere sono in realtà 170 effettivi. Una carenza di personale "comunque in linea con la media nazionale, sufficiente a garantire i servizi". Una "città nella città" l’ha definita Carmela De Lorenzo, direttrice del carcere. Un universo detentivo in cui "grazie al sostegno di Asp, del Comune e dell’assessorato abbiamo avviato collaborazioni che danno ancora più valore alla funzione riabilitativa della pena detentiva". All’interno della casa circondariale sono attivi infatti percorsi di scolarizzazione che dall’alfabetizzazione di base arrivano fino a corsi professionali. Durante l’anno trascorso, in collaborazione con l’istituto Orio Vergani sono stati avviati un percorso formativo per operatore della ristorazione, che ha coinvolto 5 detenuti e uno per operatore agricolo in cui i partecipanti sono stati 4. Ci sono anche 2 detenuti iscritti all’università: al primo e al terzo anno di corso. Proseguono inoltre le attività interne: il giornale "L’astrolabio", il laboratorio teatrale e il corso di panificazione cui hanno partecipato 7 detenuti. Se la fotografia scattata dalla direttrice De Lorenzo pare confortante, l’attenzione rimane alta: "Nonostante il numero di presenze all’interno della Casa Circondariale sia scesa da circa 550 a 334 detenuti, l’attenzione dell’assistenza sanitaria non è calata" ha ricordato l’assessore Sapigni. Le fa eco Marcello Marighelli, garante dei detenuti del Comune di Ferrara: "nel carcere di Ferrara la situazione, in riferimento alla media nazionale, è eccellente grazie all’impegno di tutti i soggetti coinvolti". A parere del garante permangono alcune criticità legate alle "particolari condizioni giuridiche e sanitarie di quanti hanno difficoltà ad uscire, l’incertezza legata all’ottenimento del permesso di soggiorno per gli stranieri o anche l’assenza di reti di assistenza e accoglienza una volta usciti dal carcere". Non dimentica la condizione dei detenuti affetti da disturbi psichiatrici o i tossicodipendenti, 59 a Ferrara già in carico al Sert. Santa Maria Capua Vetere (Ce): il Sottosegretario Ferri sulle problematiche del carcere di Guglielmo Ferrazzano corrierecaserta.it, 16 giugno 2016 Breve resoconto della presentazione di ieri, avvenuta a Roma, in cui si è discusso della condizione del penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. Il 15 giugno si è svolta a Roma, alla presenza del Sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, la presentazione del Report annuale sui Diritti Umani e sulla condizione degli istituti penitenziari realizzato dal Forum Nazionale dei Giovani, di cui la portavoce nazionale è Maria Cristina Pisani. Durante i lavori si è avuto anche un incontro tra i membri del Gruppo di lavoro del Forum Nazionale dei Giovani "Carceri e Diritti Umani" di cui è componente anche l’attivista casertano Domenico Letizia, membro del Consiglio Direttivo di Nessuno tocchi Caino, della Lega Italiana per i diritti dell’Uomo e del Comitato Italiano Helsinki per i diritti umani. Durante il dibattito e grazie all’efficace intervento dell’avvocato Luigi Iorio, del Partito Socialista Italiano e del Forum Nazionale dei Giovani, è stata descritta la situazione della struttura penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere. Iorio ricordando la recente visita ispettiva di Domenico Letizia, presente ai lavori, con il senatore Vincenzo D’Anna presso la struttura penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere, ha elencato i risultati di tale monitoraggio, pubblicati anche sul sito del Forum Nazionale dei Giovani. Il Sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri ha espresso profonde preoccupazioni per la sistematica mancanza di acqua potabile registrata, promettendo a Letizia e Iorio di affrontare urgentemente nei prossimi giorni la problematica. Sono previsti nuovi incontri con il Sottosegretario per tentare di risolvere la problematica prima dell’intensificarsi del caldo della stagione estiva. Napoli: presentazione della Direttiva Ue sulle garanzie per i minori indagati o imputati Ristretti Orizzonti, 16 giugno 2016 L’1 luglio 2016 alle ore 9:30 presso il Centro Europeo di Studi di Nisida (Na), sarà presentata la Direttiva Ue sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati in procedimenti penali. La Direttiva è un catalogo di diritti e garanzie procedurali elevate che colma le distanze tra gli ordinamenti nazionali delineando un modello condiviso in cui poter bilanciare l’esigenza di accertare i fatti di reato, con le relative responsabilità, e quella di tenere nella dovuta considerazione gli specifici bisogni dei minori. Proprio il superiore interesse del minore è posto al centro del sistema. Infatti, circa un milione di minori ogni anno in Europa entra formalmente in contatto con le forze dell’ordine e con la giustizia penale. Sono molti: il 12% del totale della popolazione coinvolta in procedimenti penali. E come tutti i minori, ma ancor di più, proprio perché in conflitto con la legge, sono particolarmente fragili e vulnerabili, specie nel contesto di una vicenda, il processo, che hanno difficoltà a comprendere e decifrare. Per questo motivo, come l’esperienza italiana ha dimostrato, un sistema giudiziario a misura di minore è nella maggior parte dei casi la condizione indispensabile per il reinserimento sociale dei ragazzi autori di reati e, quindi, per la prevenzione delle recidive. Una necessità, questa, alla quale l’Unione Europea ha risposto con la nuova Direttiva sulle garanzie procedurali per i minori penalmente indagati o imputati, che è stata pubblicata l’11 maggio scorso, ponendo fine a una disarmonia tra le normative nazionali in questo settore. Saranno presenti la promotrice della Direttiva On. Dott.ssa Caterina Chinnici (Eurodeputata al Parlamento Europeo), il Capo Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità Dott. Francesco Cascini e la Dirigente del Centro Europeo di Studi di Nisida Dott.ssa Isabella Mastropasqua. Ancona: anche cani e gatti potranno far visita ai detenuti quotidiano.net, 16 giugno 2016 Nel penitenziario di Montacuto saranno ammessi ai colloqui anche i pet di casa. Tutto è partito, tempo fa, dalla richiesta di una persona reclusa. Attrezzate apposite aree. Giochi, libri, peluche e matite colorate per i bambini ospiti della sala d’attesa per i colloqui con i detenuti del carcere di Montacuto di Ancona. Ma anche giochi, gazebo, tavoli e sedie per attrezzare l’area verde interna alla casa circondariale, dove sono ammessi anche i cani. L’iniziativa è il frutto di una donazione dell’Associazione Soroptimist di Ancona, che ha inteso rendere più gradevoli le ore trascorse nel carcere da bambini e ragazzi che vengono a trovare i parenti reclusi. I cani potranno giocare con i loro padroni nell’area verde: un’iniziativa nata dalla richiesta di un detenuto che aveva un cane molto vecchio e aveva chiesto alla direzione di poterlo rivedere prima che morisse. Da allora, a Montacuto sono ammessi anche i gatti nel trasportino. Antonella Daniele, presidente Soroptimist del Club di Ancona, ha spiegato che il progetto rientra tra gli obiettivi di promozione dei diritti umani perseguiti dall’associazione, in particolare per la tutela dei minori. "Quando abbiamo proposto alla direttrice di Montacuto Santa Lebboroni di attrezzare per i bambini le due aree, ha subito accettato con grande sensibilità e apertura". "I bambini (una cinquantina le visite mensili dei minori ndr) - ha commentato Lebboroni - possono ingannare l’attesa per l’espletamento delle pratiche burocratiche di ammissione ai colloqui dei parenti giocando e facendo disegni in una zona loro dedicata, o godere della compagnia dei loro congiunti all’aperto. Quadri, decorazioni e attrezzature dei due spazi sono state realizzate con il contributo dei detenuti". Soddisfatti i reclusi: "è una bella cosa - ha osservato Rocco - aspetto solo che arrivino i miei figli che abitano lontano". Mentre Paolo, padrone di Lucrezia una bastardina presa al canile, ha detto di "non vedere l’ora di rivederla e giocare con lei". Per Luca, l’area verde di Montacuto "è uno spazio molto bello, qui puoi vivere un momento di libertà". Un tassello in più verso il ritorno ad una vita normale e, lungo questo cammino, anche gli animali domestici hanno un ruolo importante. Bologna: il coro dei detenuti di Abbado, dal carcere al Senato di Anna Bandettini La Repubblica, 16 giugno 2016 Il Coro Papageno, specialissimo ensemble musicale nato all’interno del carcere "Dozza" di Bologna, invitato dal Presidente del Senato Pietro Grasso. La figlia del maestro: "Il nostro sogno? Che ogni carcere abbia un coro". "Sono Giovanni B., uno dei tanti detenuti della "Dozza" che frequenta il "Coro Papageno". Sono stato uno dei primi ad aderire all’iniziativa anche se in un coro non avevo mai cantato... Io che sono sempre stato allergico allo studio e ai libri, mi sono messo di buona volontà per capirci qualcosa, con il passare del tempo ho capito che la cosa mi prendeva e quando arrivava il lunedì mattina attendevo con ansia la chiamata. Perché quella giornata per me era, ed è ancora tutt’oggi "speciale", mi fa sentire diverso, con un umore che non riesco a descrivere: ...non vedo più le sbarre, cancelli e divise, la mia mente è altrove e mi trovo catapultato in un altro mondo, tutto diverso, che a me prima era sconosciuto, ed ora ci sono dentro con grande soddisfazione. Per me è come una droga, ma di quelle che fanno bene, ti fa viaggiare in un mondo diverso". Fanno venire il magone le parole di Giovanni, una delle prime voci del Coro Papageno, specialissimo ensemble musicale nato all’interno del carcere "Dozza" di Bologna da una idea di Claudio Abbado: il celeberrimo direttore d’orchestra, che aveva diretto alcuni dei concerti negli istituti di pena, usava dire che "la musica salva la vita". E dove meglio può salvarla se non in un carcere? Il Coro Papageno è nato così nel 2011, intitolato al personaggio di una delle più belle esecuzioni di Abbado stesso, Il Flauto Magico di Mozart, con l’intento di portare arte, cultura e sensibilità nuove in un luogo di reclusione, di vivere la musica come strumento educativo, riabilitativo, di riscatto. Alla morte del grande direttore il testimone è poi passato alla figlia Alessandra, Presidente dell’Associazione Mozart14, che prosegue i progetti sociali di Abbado, "e oggi si raccolgono i frutti del lavoro svolto con tanto impegno nel corso di questi cinque anni. Il nostro sogno è che ogni carcere abbia in futuro il suo Coro Papageno", ha dichiarato Alessandra Abbado. Anche per questo è dunque un segnale importante che il Presidente del Senato, Pietro Grasso, abbia deciso di invitare i detenuti "coristi" per un concerto, il primo in assoluto in un luogo pubblico, nell’aula di Palazzo Madama, a Roma, il 20 giugno 2016, alle ore 17 (ci sarà la diretta su Rai 2), che aprirà ufficialmente la Festa Europea della Musica in programma il giorno dopo e dedicata quest’anno al tema dell’integrazione. "La musica per la rieducazione del condannato, per usare le parole della nostra stessa Costituzione, è una idea di straordinario valore - ha spiegato il presidente del Senato Pietro Grasso - È anche per rendere onore all’indimenticabile Claudio Abbado, Maestro e Senatore a vita, che ho deciso di ospitare a Palazzo Madama l’iniziativa del Coro Papageno". Il Coro Papageno presenterà un repertorio di musiche multietniche accompagnato da un ensemble di archi. "Non mancano canoni di derivazione colta (come Vent Fin o Dona nobis Pacem) - ha anticipato Michele Napolitano che dirige il Coro - ma anche quelli popolari (come Rock My Soul). E poi ci sono tanti canti in lingua originale: inglese, francese, ma anche arabo, ebraico, macedone, rom, svedese. Cantare in lingue diverse non serve solo per scoprire paesaggi sonori sconosciuti e lontani, ma anche a condividere aspetti culturali - e talvolta religiosi - diversi dal proprio. Armonizzare la propria voce a quella degli altri favorisce la costruzione di un microcosmo di relazioni che valorizza le differenze, nel tentativo di costruire, giorno dopo giorno, nota dopo nota, seppur in piccolo, l’idea della pace". Il Coro Papageno è composto da 75 elementi, una trentina di volontari esterni e il resto detenuti, uomini e donne, perché è anche il primo coro carcerario misto e a riprova che la coesione che il lavoro corale stimola è una cosa concreta, nel coro sono nate vere storie d’amore - raccontano i collaboratori- e soprattutto amicizie solide. "Fare musica insieme è di fatto la più efficace educazione alla vita comunitaria, al rispetto, alla disciplina e soprattutto all’ascolto reciproco - diceva Claudio Abbado - L’ascolto è un elemento imprescindibile, anche se quasi sempre trascurato, nella vita civile. Perciò sono da sempre convinto che non ci sia solo un valore estetico nel fare musica: dalla sua bellezza intrinseca, in grado di comunicare universalmente, scaturisce un intenso valore etico. "E la forza di questo valore è testimoniato proprio dalla fedeltà dei coristi che una volta usciti mantengono il legame con l’ensemble, nonostante l’inevitabile turn over della composizione perché chi viene rimesso in libertà, per ragioni di sicurezza, non ha più la possibilità di proseguire l’attività all’interno del penitenziario. Anche per questo, allo scopo di mantenere su un buon livello, la formazione musicale dei vari "coristi" è stato attivato anche un corso di alfabetizzazione musicale e tecnica vocale nel carcere. Tra le prossime iniziative del coro Papageno, un film: un documentario Shalom: viaggio nel Coro Papageno, in fase di fund-raising, con la regia di Enza Negroni, previsto per settembre. Sarà un "diario di bordo" dentro il carcere seguendo le attività del Coro Papageno e dei detenuti. Roma: detenuti in visita al museo "l’arte ci rende liberi" di Giulia Pelosi Ansa, 16 giugno 2016 Dopo un corso di storia dell’arte a Rebibbia, un giorno a Palazzo Braschi. "L’arte ci rende liberi". Con queste parole Francesco, detenuto del carcere di Rebibbia, descrive l’emozione di uscire dal carcere per visitare il Museo di Roma e piazza Navona. Dodici detenuti che hanno frequentato il corso di storia dell’arte nell’istituto di pena di Rebibbia hanno avuto la possibilità di visitare palazzo Braschi grazie all’iniziativa ‘L’arte dentrò, programma educativo che ha ottenuto il patrocinio dalla Camera dei Deputati. Il progetto, giunto ormai all’ottava edizione, è promosso da Roma Capitale in collaborazione con Zétema progetto cultura. "È un’occasione straordinaria per completare il percorso formativo intrapreso in carcere e proseguire la rieducazione dei detenuti", spiega Stefano Ricca, direttore di Rebibbia. "Con questi corsi - fa eco il direttore generale di Zétema, Roberta Biglino - cerchiamo di rieducare queste persone alla bellezza, offrendogli una nuova chiave di lettura della realtà che speriamo venga colta". Molti detenuti infatti, dopo aver frequentato un corso, decidono di iscriversi all’università. Altri, invece, anche dopo aver scontato la propria pena ed essendo tornati in libertà, hanno deciso di continuare a seguire le attività che si svolgono nel carcere e di promuovere nuovi percorsi formativi. "Ho deciso di organizzare un corso di giurisprudenza universitario per i detenuti perché’ penso che questo tipo di attività abbia un forte valore rieducativo e serva a riempire quegli spazi lasciati vuoti dalla carenza dell’attività lavorativa", racconta Domenico, ex detenuto. "È stato straordinario condividere con loro questo percorso. I corsi di storia dell’arte che ho seguito a Rebibbia mi hanno cambiato la vita" spiega Francesco, detenuto che lavora come archivista informatico al Ministero della Giustizia. "Le prime volte che seguivamo i corsi di storia dell’arte lo facevamo solo con l’obiettivo di uscire dal carcere. La passione dei nostri insegnanti, invece, ci ha coinvolto a tal punto che aspettavamo tutta la settimana il lunedì per la lezione. È stato come un miracolo quando mi sono accorto che quelle due ore di arte ci faceva sentire liberi, non più prigionieri", spiega. "È la seconda volta che esco dal carcere per visitare un museo", racconta Carmine, volontario giardiniere che partecipa ad un progetto in occasione del Giubileo. Ha 47 anni e ne deve scontare ancora dieci: "Per noi questa esperienza è una importante valvola di sfogo, una spinta per poter tornare alla normalità e ristabilire un contatto vero con la società". Radio Carcere: la storia di Angelo "io internato nella vecchia colonia agricola di Isili" Ristretti Orizzonti, 16 giugno 2016 Ovvero la testimonianza di chi è stato sottoposto a misura di sicurezza detentiva. E a seguire le lettere dalle carceri. Link: http://www.radioradicale.it/scheda/478009/radio-carcere-la-storia-di-angelo-io-internato-nella-vecchia-colonia-agricola-di-isili. Migranti, già 2.859 morti nella rotta del Mediterraneo di Daniela Fassini Avvenire, 16 giugno 2016 L’Oim: mille in più rispetto a un anno fa. Cresce il numero dei morti nel Mediterraneo, la rotta più pericolosa al mondo per i migranti. Da inizio anno sono complessivamente 2.859 le persone che non ce l’hanno fatta a raggiungere le coste dell’Europa. Mille in più rispetto a un anno fa, quando, nello stesso periodo (da gennaio a maggio) furono 1.828. Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim), sono invece oltre 3.400 i migranti morti o dispersi mentre tentavano di attraversare le frontiere di tutto il mondo. E di questi l’80% riguarda le rotte per l’Europa. Il dato è superiore del 12% rispetto ai primi 5 mesi del 2015, mentre la rotta più letale del pianeta per i migranti - ha detto Frank Laczko, direttore del Centro di Analisi Oim a Berlino - è il Mediterraneo con la tratta tra Nord Africa e Italia divenuta il passaggio più pericoloso al mondo. Anche ieri, come ormai tutti i giorni dall’inizio della bella stagione che favorisce le partenze dalle coste libiche ed egiziane, una nave della marina olandese - parte dell’agenzia Ue Frontex - ha tratto in salvo circa 200 migranti per il naufragio di un barcone nel Mediterraneo. Tra loro vi erano anche 16 bambini e due donne in gravidanza. La nave olandese, informa il Ministero della Difesa, ha risposto a un segnale di soccorso lanciato dal barcone che era sul punto di rovesciarsi, dopo una settimana di navigazione dalle coste dell’Egitto alla Sicilia. E sempre nello stesso tratto di mare, lungo il canale di Sicilia, anche la nave della Ong internazionale Medici senza Frontiere ha tratto in salvo, ieri pomeriggio, 140 migranti su un barcone alla deriva. A Reggio Calabria sono invece sbarcati 482 migranti soccorsi martedì: tra loro ci sono anche 51 donne - quattro delle quali incinte - e 9 minori, provenienti in gran parte da Nigeria, Sudan e Marocco. Trentadue si fermeranno a Reggio, altri 100 saranno portati in strutture delle altre 4 province calabresi, mentre i restanti saranno trasferiti in altre regioni. Ma di fronte ai numeri degli arrivi e delle presenze in Italia dei migranti, "non c’è emergenza", ha ribadito l’ex commissario europeo, Emma Bonino, a margine di un convegno organizzato dall’Oim. "Non è vero che gli islamici in Italia siano aumentati - ha detto Bonino - bisogna cambiare la narrazione che descrive il fenomeno della migrazione: non c’è nessuna emergenza". "Se le persone guardano la televisione e la tv trasmette sempre Salvini, e non altri, la narrazione che si sviluppa poi è solo di un tipo", ha sbottato. Oltre a snocciolare i numeri, l’Oim ha presentato anche il suo ultimo rapporto sul fenomeno della tratta. Secondo l’organizzazione, otto donne nigeriane su dieci che arrivano sulle nostre coste come migranti sono sfruttate nella tratta della prostituzione. Oltre 8.600 donne e minori nigeriane nel 2015 e più di 2mila nei primi mesi del 2016: è questo il numero tradotto in cifre. "Una quantità spaventosa che corrisponde a un trend in crescita: più 300% dal 2014 al 2015", puntualizza Federico Soda, il direttore dell’ufficio Coordinamento per il Mediterraneo. Intanto, a spizzichi e bocconi, proseguono anche gli arrivi con i corridoi umanitari. Altri 81 profughi (in aggiunta ai 200 già arrivati da febbraio) atterreranno oggi a Fiumicino da Beirut: si tratta perlopiù di famiglie siriane che saranno ospitate in tutta Italia. L’importanza del Migration Compact di Annamaria Furlan (Segretaria Generale Cisl) L’Unità, 16 giugno 2016 Tutti i sindacati del continente europeo riuniti ieri a Roma hanno sollecitato un cambiamento profondo nelle politiche di accoglienza per i migranti e per i tanti profughi che fuggono dalla guerra, dalle persecuzioni, dalla fame. Più di diecimila persone sono morte nel Mediterraneo negli ultimi due anni, moltissimi dei quali sono bambini donne, anziani il cui destino è ogni giorno segnato da questo terribile dramma collettivo. Decine di migliaia di migranti e rifugiati sono accampati in condizioni disumane, spesso anche sul suolo di Stati europei. Questa Europa "vecchia, stanca, egoista", come ha sottolineato Papa Francesco, preferisce chiudere gli occhi di fronte ad un disastro umanitario, dimostrando di non avere alcun rispetto per la vita umana e la dignità delle persone. È la stessa Europa miope del fiscal compact e del rigore economico, che sceglie di monetizzare il proprio disimpegno, come nel caso dell’accordo con la Turchia, pur di sottrarsi agli obblighi internazionali nei confronti dei richiedenti asilo. Ecco perché la Confederazione Europea dei Sindacati ha fatto bene a mobilitarsi in queste giornate: abbiamo il dovere di scuotere il cuore e le menti dei cittadini europei. L’Unione Europea deve ritrovare nel suo modello sociale e culturale, nei suoi princìpi originari la chiave per una risposta a questa emergenza in linea con gli accordi internazionali per evitare che la questione dei rifugiati - al pari delle politiche economiche sbagliate, dell’insistenza sull’austerità, del crescere delle disuguaglianze e del disagio sociale - divenga un possibile elemento di disgregazione dell’Europa stessa ed il fattore di crisi irreversibile del processo di integrazione. L’Italia è un paese di migranti che sa cosa . significhi partire, lasciare la propria terra, i propri affetti. Sappiamo cosa sia la sofferenza dello sradicamento dal proprio territorio. Proprio per quello che siamo stati, oggi siamo chiamati in questa fase della storia a dare un grande esempio al inondo rispetto all’accoglienza, all’inclusione, alla solidarietà. E insieme a noi, lo possono fare tanti esponenti del sindacalismo di tutta Europa, ribadendo i valori che hanno ispirato la nascita del "sogno" europeo, che è soprattutto comunanza di idee e di principi, possibilità di integrazione, centralità dei diritti umani, progetto di una casa comune. Tutti gli Stati europei hanno sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite sullo Statuto dei rifugiati de11951, conosciuta come Convenzione di Ginevra. Abbiamo il dovere di accogliere coloro che chiedono asilo politico per fuggire da guerre, persecuzioni, dittature, minacce all’integrità della propria esistenza. Lo fanno altre nazioni, molto povere, con reddito bassissimo, spesso teatro anche al proprio interno di guerre sanguinose e di esodi di massa. Parliamo del Pakistan, l’Iran, il Libano, la Giordania, la Turchia, il Kenya, che ha il più grande campo profughi del mondo, da più di 50 anni, il campo di Dadaab, con oltre mezzo milione di rifugiati soprattutto dalla Somalia. Questa è la realtà che non ci viene raccontata: l’80% dei rifugiati del mondo sono ospitati da paesi che una volta definivamo del "Terzo mondo". La Tunisia che ha 11 milioni di abitanti accoglie 1 milione di cittadini libici, il Libano che ha 4 milioni e mezzo di abitanti accoglie quasi 1 milione di rifugiati: perché l’Europa con i suoi oltre 400 milioni di abitanti oggi deve sentirsi minacciata dall’arrivo dei profughi? Bisogna ristabilire la verità, esorcizzare le paure, invitare a dare prova di coraggio perché l’Europa sia all’altezza dei suoi valori ispiratori. L’Italia finora ha ben operato rispetto ai rifugiati. In particolare con il Migration Compact, ha richiesto all’Europa la gestione comunitaria dei flussi migratori e, aldilà dell’emergenza, di affrontare alla radice il fenomeno migratorio con un grande progetto di cooperazione internazionale, che investa sullo sviluppo dei Paesi africani che lo alimentano, finanziato con un’emissione straordinaria di Eurobond e in grado, nel lungo periodo, di ricondurre il fenomeno a dinamiche fisiologiche. Questo deve essere oggi il percorso. Ma dobbiamo combattere anche le condizioni di illegalità e sfruttamento dei migranti, il caporalato, il ricatto della malavita che fa vergognosi guadagni sulla pelle di tante povere vite. La parità di trattamento e 1’ inserimento dei rifugiati nel mercato del lavoro rappresentano anche una opportunità di sviluppo. Ma occorrono servizi pubblici adeguati, alloggi, centri di accoglienza ben equipaggiati, investimenti in grado di incentivare la crescita economica e la creazione di posti di lavoro di qualità a vantaggio di tutti. Questa deve diventare oggi la sfida dell’Europa. Dobbiamo saper integrare i profughi e nello stesso tempo rilanciare i valori della coesione, della giustizia sociale, del lavoro come opportunità di inclusione e di riscatto, nel rispetto delle fedi e delle diverse identità. È una battaglia culturale che dobbiamo fare, a partire dalla scuola e nei posti di lavoro, per costruire una vera Europa politica di pace e di progresso, nell’universalità dell’estensione dei nostri diritti. Amnesty: "fare accordi con la Libia sull’immigrazione alimenta violenze terribili" La Repubblica, 16 giugno 2016 L’organizzazione umanitaria mette in guardia l’Unione Europea: "Il progetto di cooperare con il paese nord africano in materia d’immigrazione rischia di favorire i maltrattamenti e la detenzione a tempo indeterminato, in condizioni terribili, di migliaia di migranti e di rifugiati". "Il progetto dell’Unione europea di cooperare più strettamente con la Libia in materia d’immigrazione rischia di favorire i maltrattamenti e la detenzione a tempo indeterminato, in condizioni terribili, di migliaia di migranti e di rifugiati". Lo afferma Amnesty International in una nota diffusa. Il mese scorso l’Unione europea ha annunciato l’intenzione di estendere per un altro anno l’operazione navale di contrasto ai trafficanti di esseri umani, denominata "Sofia" e, su richiesta del nuovo governo di Tripoli, di offrire formazione alla guardia costiera libica e di condividere informazioni con quest’ultima. Dettagli scioccanti. "Dalle testimonianze raccolte nel mese di maggio da Amnesty International in Sicilia e in Puglia - si legge nel documento - sono emersi dettagli scioccanti di violenze inflitte dalla guardia costiera libica e nei centri di detenzione per migranti in Libia". Amnesty International ha incontrato 90 persone sopravvissute alla traversata del Mediterraneo dalla Libia all’Italia, tra cui almeno 20 rifugiati e migranti che hanno denunciato pestaggi e uso delle armi da fuoco da parte della guardia costiera così come terribili torture all’interno dei centri di detenzione. In un caso, i militari lilbici avrebbero lasciato alla deriva un gommone in avaria con 120 persone a bordo, anziché trarle in salvo. "L’accordo con la Libia? non per ipotesi". "L’Europa non dovrebbe neanche ipotizzare accordi con la Libia in tema d’immigrazione di fronte a queste conseguenze, dirette o indirette, sul piano delle violazioni dei diritti umani - ha detto Magdalena Mughrabi, vicedirettrice ad interim del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International - l’Unione Europea ha più volte mostrato l’intenzione di impedire le partenze di migranti e rifugiati quasi ad ogni costo e trascurando l’aspetto dei diritti umani". Migliorare le dotazioni della Guardia Costiera. "Mentre è ovviamente necessario migliorare la capacità della guardia costiera libica di cercare e soccorrere vite umane in mare - ha proseguito Mughrabi - quello che ora accade è che la guardia costiera intercetta migliaia di persone in mare e le riporta nei centri di detenzione dove subiscono la tortura e altre violazioni. È indispensabile che qualunque forma assistenza da parte dell’Unione Europea non alimenti e perpetui le orribili violazioni dei diritti umani ai danni di cittadini stranieri in Libia dalle quali questi ultimi cercano disperatamente di mettersi al riparo". Agghiaccianti violenze nei centri di detenzione libici. Secondo la guardia costiera libica, i migranti e i rifugiati intercettati in mare vengono abitualmente portati nei centri di detenzione per immigrati. Dal 2011, Amnesty International ha raccolto decine e decine di testimonianze di ex detenuti (compresi minori non accompagnati e donne) sulle terribili condizioni di detenzione nonché sulle violenze e sugli abusi di natura sessuale che si verificano all’interno di quei centri. Le testimonianze più recenti confermano che le cose continuano ad andare avanti nello stesso modo. I 24 centri di detenzione gestiti da gruppi armati. I centri, 24 in tutto secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) sono diretti dal Dipartimento per contrastare l’immigrazione illegale che, teoricamente, dovrebbe essere alle dipendenze del ministero dell’Interno. Di fatto, molti centri sono gestiti dai gruppi armati. Il governo di accordo nazionale, sostenuto a livello internazionale, deve ancora assumerne il controllo. Secondo la legislazione libica l’ingresso, l’uscita e la permanenza illegali in Libia sono un reato. I cittadini stranieri che si trovano in questa condizione possono essere posti in detenzione a tempo indeterminato in attesa dell’espulsione. Reclusi per mesi senza poter incontrare nessuno. Solitamente, i detenuti stranieri rimangono nei centri per mesi senza poter incontrare familiari e avvocati e senza vedere un giudice. Non possono contestare la legittimità della loro detenzione né chiedere protezione, data l’assenza di un sistema nazionale d’asilo. Le espulsioni sono eseguite senza alcuna tutela né esame individuale. "Il fatto che sia possibile trattenere una persona in carcere all’infinito solo sulla base della sua condizione d’immigrato è un oltraggio - ha sottolineato Mughrabi - invece di ottenere protezione, i migranti e i rifugiati finiscono per essere torturati. La Libia dovrebbe immediatamente porre fine a questo sistema di detenzioni illegali e torture nei confronti dei cittadini stranieri - ha concluso Mughrabi - e adottare una legislazione sull’asilo che consenta a chi ha bisogno di protezione internazionale di ottenere un rifugio". Alcune testimonianze Ex detenuti - tra cui persone intercettate in mare e cittadini stranieri fermati in strada - hanno riferito che venivano picchiati ogni giorno con bastoni di legno, tubi di gomma e cavi elettrici e venivano sottoposti a scariche elettriche. Un eritreo di 20 anni che era a bordo di un natante intercettato in mare dalla guardia costiera nel gennaio 2016, ha raccontato di essere stato trasferito in un centro di detenzione di al-Zawyra, nella Libia occidentale, e di essere stato picchiato ripetutamente. Questo, invece, è il racconto di un uomo detenuto nel centro di detenzione Abu Slim di Tripoli, dove secondo la Missione Onu di supporto alla Libia, si trovano almeno 450 detenuti: "Le guardie ci picchiavano tre volte al giorno usando un cavo elettrico che era stato annodato tre volte per renderlo più duro". I detenuti venivano obbligati a dormire all’aperto senza alcun riparo dalle temperature estreme. Le guardie spargevano acqua sul pavimento per farli dormire sul bagnato. Charles, 35 anni, proveniente dalla Nigeria, ha denunciato di essere stato fermato in una strada di Tripoli, nell’agosto 2015, e di essere stato trasferito in cinque centri di detenzione: "Ci picchiavano tutti, sempre, ogni giorno. Una volta mi hanno rotto il braccio a bastonate, mi hanno portato in un ospedale ma non ho ricevuto alcuna medicazione. Per colpirci usavano bastoni e pistole, a volte anche la corrente elettrica". A Idomeni, frontiera senza più profughi di Monia Cappuccini Il Manifesto, 16 giugno 2016 Terminato lo sgombero degli ultimi richiedenti asilo a Idomeni, nel silenzio assoluto si consumano le ultime speranze di chi ha tentato fino all’ultimo di raggiungere il nord Europa. Non solo Idomeni. Con lo sgombero degli ultimi tre siti informali al confine con la Macedonia, da ieri il governo greco ha posto per sempre la parola fine alla presenza e alla speranza dei migranti e dei rifugiati rimasti accampati finora nella regione di Kilkis nella Grecia settentrionale. Tra ieri e l’altro ieri nuove operazioni di polizia hanno interessato le persone che ancora si trovavano a Eko Station, vicino Policastro, e tra Hotel Hara e la stazione di servizio BD, sempre lungo l’autostrada per Evzoni. Identiche le procedure adottate per sgomberare Idomeni lo scorso 24 maggio: arrivo di buon ora di un ingente dispiegamento di forze di polizia in tenuta anti-sommossa, colonna di pullman al seguito per il trasferimento dei profughi, allontanamento forzato di volontari, Ong e attivisti, divieto assoluto di avvicinarsi ai giornalisti. Misure di sicurezza decisamente sproporzionate e in contrasto con la linea morbida con cui, stando a quanto riferito dalle autorità greche, si sono svolte le evacuazioni. Un modus operandi, semmai, più simile a un atto di censura, che la dice lunga sia sulle politiche di accoglienza decise in sede comunitaria sia sulla strategia mediatica messa in campo dal governo di Alexis Tsipras. Nessuna dichiarazione ufficiale è stata rilasciata a operazioni ultimate; se a questo aggiungiamo che l’ingresso nei campi istituzionali è permesso solo alle Ong accreditate presso il ministero dell’Interno, di fatto sul destino delle oltre 50mila persone ancora bloccate in Grecia è già calato il silenzio. Dall’alba al pomeriggio di lunedì, circa 31 autobus hanno condotto 1.158 rifugiati, di cui 58 di nazionalità irachena e il resto siriana, da Eko camp fino al nuovo sito governativo di Vassilika, nella zona industriale di Thermi ad est di Salonicco. "La polizia è arrivata intimando a tutti noi di uscire" spiega Quentin, volontario francese del collettivo di Eko Kitchen, che negli ultimi tre mesi ha distribuito tra i 1.000 e i 1.500 pasti al giorno. "Li ho convinti a farmi restare per controllare la nostra attrezzatura, altri solidali sono stati invece fermati e portati nel vicino posto di polizia a Policastro. Lo sgombero si è svolto in maniera pacifica. Alcuni hanno lasciato Eko nella speranza che questo trasferimento significasse la fine del loro calvario e l’inizio delle procedure per la pre-registrazione, ma appena arrivati a Vassilika ci hanno informato al telefono delle pessime condizioni del campo". "Dopo lo sgombero di Idomeni, tutti gli insediamenti più piccoli qui intorno si sono riempiti di gente che non voleva essere spedita nei siti ufficiali" aggiunge Tommaso di Over the Fortress, la carovana di attivisti italiani che dallo scorso febbraio fa la spola con la Grecia settentrionale. "Oltre a Eko camp, anche a Hotel Hara e nella foresta limitrofa il numero di profughi era cresciuto visibilmente. Gruppi di persone e famiglie intere con anziani e bambini al seguito hanno perseguito il loro scopo di varcare il confine illegalmente, sia rivolgendosi ai trafficanti sia a piedi da soli, con il rischio altissimo di finire spesso nelle mani sbagliate. Altri addirittura hanno chiesto il rimpatrio volontario in Iraq oppure hanno scelto di rientrare in Siria, affidandosi ancora una volta ai trafficanti perché, paradossalmente, al momento bisogna pagare persino per tornare in Turchia". Dopo Eko, stessa sorte è toccata ieri a chi era ancora accampato a Hotel Hara e alla stazione di BD. A fronte di un numero inferiore di presenze, le operazioni si sono concluse nel primo pomeriggio, con buona pace degli automobilisti costretti a percorsi alternativi a causa del blocco della statale posto già venti chilometri prima della zona interessata. In tutto 630 persone sono state tradotte nei campi di Ikordelio e Vaiochori, allestiti intorno a Salonicco per lo sgombero di Idomeni, altre persino a Inofita nella Grecia meridionale. Per tutta la mattina intanto è proseguito il via vai di gente che da Kavala si è riversata con trolley e passeggini a Eko station in cerca di materiali utili a una migliore sistemazione nel vicino campo istituzionale dove, dicono, "ci manca tutto". Stesso traffico di persone interessa ogni giorno la stazione ferroviaria di Salonicco. "Da lunedì sono arrivate molte più persone" racconta Giorgos, proprietario del souvlazidiko nella piazza antistante, diventato il riparo di chi è in transito da e verso la città. A parte gli attivisti del centro sociale Steki Metanaston e l’ong italiana Intersos, che rispettivamente provvedono alla distribuzione quotidiana di pasti e al servizio medico mobile, di aiuti da queste parti non se ne vedono molti, così Giorgos e la sua famiglia hanno aperto le porte del loro esercizio mettendo a disposizione un bocchettone esterno per l’acqua fino alla sistemazione nella propria casa. "La notte lascio aperta l’area esterna, accatastano tavoli e sedie per dormire poi la mattina trovo già tutto pulito". Seppur con estrema lentezza, qualcosa comincia a muoversi anche sul fronte istituzionale. È finalmente partito infatti il nuovo programma di pre-registrazione implementato dal governo greco, coordinato da Unhcr e appoggiato dall’Ufficio europeo di supporto per l’Asilo (Easo) per altri 25milioni di euro. Il piano riguarda chi è entrato in Grecia dal 1 gennaio 2015 al 20 marzo 2016 - ossia prima dell’entrata in vigore dell’accordo con la Turchia, va ad affiancare la complicata procedura via Skype e rimane condizione necessaria per le ricollocazioni e i ricongiungimenti familiari, fermo restando l’ingresso nei campi governativi. L’annuncio ufficiale dava il 6 giugno quale data d’inizio attraverso 6 hub dislocati in tutta la Grecia; di fatto il piano è slittato a due giorni dopo e con un terzo dei centri attivi. Si andrà avanti fino a fine luglio, dopodiché si procederà con le interviste e l’esame individuale delle domande. Ci vorranno dunque ancora diversi mesi prima di giungere a una conclusione, con il rischio di esasperare un clima di per sé già drammatico. Egitto. Caso Regeni: "per Giulio, azioni. Basta parole" di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 giugno 2016 I coniugi Regeni ricevuti al Parlamento Ue: "Non costringeteci a mostrare le foto". "Cosa fa il governo italiano? Sentiamo il vuoto". La replica imbarazzata di Renzi: "Impegno massimo, verifico e vi farò sapere". "Basta commemorazioni, ora azioni". Si rivolgono, col solito coraggio, ai vertici dell’Unione europea ma soprattutto all’esecutivo italiano, i genitori di Giulio Regeni che, ricevuti a Bruxelles, parlano davanti alla commissione dei Diritti umani. "Siamo altamente insoddisfatti della situazione attuale - afferma la madre di Giulio, Paola Deffendi - Parlo rispetto al governo italiano, che abbiamo sentito, su nostra richiesta, verso il 25 maggio e poi, nel frattempo, l’8 aprile c’è stato il ritiro dell’ambasciatore. Da quel momento sentiamo un vuoto". Matteo Renzi cade dalle nuvole, e durante la conferenza stampa seguita al Cdm mostra evidenti difficoltà a rispondere alla domanda di un giornalista che gli riferiva le richieste della famiglia del ricercatore friulano ucciso in Egitto. "Confermiamo che stiamo seguendo la vicenda, è da qualche giorno che non parlo con i coniugi Regeni, non conosco gli ultimi dettagli - risponde titubante il premier - Verificherò lo stato dell’arte e vi faremo sapere, magari io personalmente chiamerò la famiglia Regeni. Confermo però il massimo impegno, massima attenzione e sostegno, perché sulla vicenda di Giulio sia fatta non soltanto luce ma anche chiarezza - si ingarbuglia Renzi, forse un po’ imbarazzato - come abbiamo detto sin dall’inizio e dimostrato". Non certo rassicurante. Di conseguenza, non convince nemmeno l’Alto rappresentante europeo Federica Mogherini, che durante l’incontro a Bruxelles ha assicurato: "L’Ue sostiene tutte le iniziative che le autorità italiane stanno prendendo". Parlava di "vuoto", appunto, Paola Regeni. "Ma questo vuoto - ha detto ancora la donna davanti ai parlamentari europei - penso che lo sentiate anche voi, perché più di qualcuno ha detto che bisogna fare qualcosa e fare pressione. Quindi l’Italia, ma ancora di più l’Europa, deve fare delle scelte. Perché quello che è successo a Giulio potrebbe succedere a chiunque". E allora ecco le azioni che possono e devono prendere il posto delle dichiarazioni di intento: "Chiedo che gli stati membri richiamino i propri ambasciatori - ha esordito Claudio Regeni dopo aver ringraziato il Parlamento europeo per l’approvazione delle risoluzione di condanna delle violenze perpetrate dal regime di Al Sisi - dichiarino l’Egitto un Paese non sicuro, sospendano gli accordi sull’invio di armi, di interforze per lo spionaggio o la repressione interna, sospendano gli accordi economici, facciano un monitoraggio dei processi contro attivisti, militanti avvocati e giornalisti che si battono per la libertà in Egitto e offrano protezione e collaborazione, anche con l’offerta di visti, a chi può offrire notizie alla procura di Roma". Una pressione collegiale sul regime egiziano sarebbe, sostengono i Regeni, l’unica soluzione non solo per avere un’indagine trasparente sulla morte di Giulio ma anche per fermare la continua violazione dei diritti umani nel Paese. La signora Paola non nasconde segni di insofferenza: "Non ho capito - dice - se l’Italia è ancora amica o no dell’Egitto: non si uccidono i figli degli amici. Tutti mi chiedono "cosa fa il governo, cosa fa l’Unione europea?". Io penso che i governi sapevano e dovevano avvisare la gente, gli studenti che ancora vanno in Egitto, un Paese considerato ancora sicuro per il turismo. Confermo la nostra richiesta al governo italiano di mantenere il richiamo del nostro ambasciatore - aggiunge - Cantini resti a casa. Ma l’importante è spiegare all’opinione pubblica il perché e cosa sta accadendo in Egitto". E ancora: "Noi anche oggi siamo genitori erranti nelle istituzioni per chiedere verità. Giulio, in qualità di cittadino europeo, doveva essere tra voi, nelle istituzioni Ue, e invece siamo noi qui a parlare di lui". Sa bene però Paola Regeni che è sempre difficile rompere il muro di omertà che circonda la tortura di Stato: "Abbiamo una documentazione di 266 foto di cosa è successo a Giulio: una vera enciclopedia delle torture in Egitto. Abbiamo anche 225 pagine di relazione sull’autopsia. Non vorremmo mai arrivare a mostrare quelle foto, vorrebbe dire che avremmo toccato il fondo", aggiunge. Il fondo toccato da Ilaria Cucchi, Lucia Uva o Patrizia Aldrovandi. Sulla crisi libica un’Italia alla giornata di Francesco Martone Il Manifesto, 16 giugno 2016 Il governo italiano rivendica l’opzione politica, in realtà sostiene tutte le parti in guerra. Diplomazia dal basso e libici i grandi assenti. L’occasione era ghiotta, i relatori di livello per l’evento convocato dall’Istituto Affari Internazionali sulla Libia a Roma martedì scorso: ospite centrale il ministro degli esteri Paolo Gentiloni. Il tema: come uscire da una crisi multiforme, con tracce che si sovrappongono, da quella della lotta contro il Daesh, a quella della frammentazione "orizzontale" del tessuto sociale e politico del paese, a quella della scissione "verticale" tra Tripolitania e Cirenaica, alla gestione dei flussi migratori, fino alla questione energetica. Un’occasione, purtroppo persa, per avere lumi dal diretto interessato sul ruolo che l’Italia vorrebbe svolgere in quello scacchiere prioritario, dal punto di vista geopolitico e geostrategico. Il ministro ha spiegato che il futuro del governo Serraj si gioca di giorno in giorno, ma che solo da là si potrà costruire l’iniziativa della comunità internazionale, smentito poi da uno dei relatori intervenuti. Ha ammesso che l’Italia può svolgere un contributo importante nella stabilizzazione, senza specificare come o quando. Sottolineando quanto sia importante l’istituzione della guardia presidenziale per la rimozione selettiva dell’embargo sulle armi e come la proposta inglese di risoluzione al Consiglio di Sicurezza Onu per l’ampliamento del mandato della missione Euronavfor Med Sophia per il monitoraggio dell’embargo alle armi alle fazioni "cattive" in Libia sia ancora in fase di stallo. Dimenticando di specificare che oggi in Libia quello di cui proprio non c’è bisogno è di mandare altre armi, immemore del precedente dell’invio di armi italiane alle milizie anti-Gheddafi - parte dello stock di armi russe poi inviate ai peshmerga kurdi - poi cadute in mano delle milizie islamiche. Ha negato l’esistenza di una crisi migratoria, visto che a sua detta ci sarebbe una diminuzione di flussi dallo scorso anno - ma che in effetti dall’Egitto aumentano le partenze - immemore dei 10mila morti in mare dal 2014, con un aumento delle vittime negli ultimi mesi. Di corridoi umanitari neanche a parlarne, meglio fermare i migranti economici, prima, in Niger o altrove. Ha attribuito gran valore alla ritirata di Daesh a Sirte ad opera delle milizie di Misurata e delle guardie dei giacimenti petroliferi e non da parte delle forze del generale Haftar, e rivendica il merito di aver scongiurato le pulsioni interventiste di altre capitali occidentali, riaffermando la centralità dell’obiettivo dell’inclusione di tutte le forze e le parti in conflitto. Per poi essere smentito da una delle relatrici intervenute in sua assenza, secondo la quale il ruolo delle milizie di Misurata rischia di essere il detonatore di un conflitto civile che potrebbe divampare ora, chiusa la partita Daesh. Oltre non è andato il ministro, a parte un fugace accenno all’Egitto, con il quale oggi l’Italia ha relazioni "delicate", ma la cui stabilità (magari sotto la canna del fucile di Al Sisi) è essenziale. Sono due le "E" che aleggiavano nel suo discorso, quella forse di troppo che campeggia sullo schermo dietro al podio, sotto il cane a sei zampe, "main sponsor" dell’evento, e quella "E" che non c’è, quella dell’Egitto, il vero elefante nella stanza. Non si è parlato di Egitto, ma spesso è affiorato il "core business" della partita libica, quello energetico: non a caso uno degli interventi di apertura è stato del vicepresidente dell’Eni quasi a dettare la linea. Insomma, il ministro si è presentato con un ramoscello d’ulivo, secco e senza foglie, capo di una diplomazia che sulla Libia ha sulla carta deciso per l’opzione politica, mentre sotto il tavolo sostiene tutte le parti in conflitto, anche direttamente sul campo - come più volte denunciato. Grandi assenti nel dibattito i libici, il popolo libico, non le fazioni. Quei civili che oggi - come denunciato amaramente da uno degli ospiti libici - soffrono una situazione di violazione dei diritti umani e di condizioni di vita forse peggiori che ai tempi di Gheddafi. Eppure in molti dal pubblico avevano tentato di alzare la palla al ministro, tra chi chiedeva quale ruolo potesse esserci per un processo di diplomazia "dal basso", a chi chiedeva quale ruolo per i municipi e le autorità amministrative locali, a chi riaffermava la necessità di ricomporre il complesso mosaico delle tribù in conflitto tra loro. Chi, come un’altra relatrice diceva chiaramente che il tema centrale è la riconciliazione, ma che nessuno sembra volerne tenere conto. È la "diplomazia di pace" la grande assente, quella che forse avrebbe potuto immaginare di convocare una shura tra tutte le parti in causa, tra i rappresentanti delle realtà sociali del paese, per capire insieme come uscire dall’impasse, pensando in termini di "peacebuilding" dal basso e non affidarsi alle alleanze di comodo o alla realpolitik. Ma questa è un’altra storia. Venezuela: "chi protesta per la fame finisce in cella" di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 16 giugno 2016 L’avvocato Sajú: ci sono almeno 96 prigionieri di coscienza. E il numero aumenta. In Venezuela, oggi chi scende in strada non lo fa per motivi politici, ma perché non ha più niente da dare da mangiare ai propri figli, o perché gli sta morendo un familiare per mancanza di medicine. Ma la repressione del governo del presidente Nicolàs Maduro si è fatta brutale". C’è l’amara radiografia del dramma del Paese latinoamericano nelle parole dell’avvocatessa Tamara Suiti Roa, cinquantenne venezuelana espatriata in Europa. Da due anni risiede in Repubblica ceca, dove ha chiesto asilo politico, ma oggi sarà a Roma per raccontare la difficile attività di difesa dei diritti umani in una nazione divenuta sempre più povera, nonostante sia fra i primi produttori mondiali di petrolio, affamata e insicura. "Tutti possono vedere la realtà - spiega. Il governo crede di poter contenere il il malcontento sociale reprimendolo. Chi chiede medicine finisce "preso", chi implora cibo finisce "preso", chi manifesta finisce "preso". Fino a poco tempo fa, c’erano almeno 1.060 persone con procedimenti penali legati alle manifestazioni del 2014-2015. Ora sono aumentate. E molti altri non possono più manifestare o uscire dal Paese. Per lo Stato sarebbero liberi, ma di fatto sono "presos" anche loro". Il numero di "prigionieri politici" sta crescendo. All’estero sono noti i casi di Antonio Ledezma, già sindaco metropolitano di Caracas, e di Leopoldo López, economista 45enne leader di Voluntad popular, arrestato nel 2014 e poi condannato, con le sole prove raccolte dall’accusa, a 13 anni e 9 mesi per aver "istigato alla violenza durante le manifestazioni". Ma in pochi sanno, denuncia la giurista, che "i presos politicos sono già almeno 96. Fra loro, 26 presentano patologie, ma non ricevono cure mediche. La nostra Ong, Foro penai venezolano, denuncia i maltrattamenti carcerari come meccanismo di tortura per punirli ulteriormente, causando in loro danni fisici e psicologici e preoccupazione nei familiari". Cosa fate per aiutare quei detenuti? Siamo più di 200 avvocati penalisti e lavoriamo per difendere gratuitamente le vittime della repressione. Oggi siamo in stato di allerta, perché ci sono manifestazioni in tutto il Paese, come nei 2014. Solo a maggio, noi avvocati del Foro penai abbiamo contato più di 200 detenzioni. E negli ultimi 15 giorni altre 161, fra cui potrebbero esserci altri 20 detenuti "politici". Alcuni arrestati sono rinchiusi nella cosiddetta Tumba... Sono sette piccole celle, nel centro di Caracas, a quindici metri sotto terra, nell’ex bunker di una banca. Solo nel 2014 abbiamo appreso dell’esistenza della Tumba, in seguito a due arresti. Ma temiamo che nel Paese ci siano altre prigioni dello stesso genere, che non dovrebbero esistere perché violano le convenzioni internazionali. Lei da due anni, vive all’estero. Perché? Il 27 luglio 2014 ho lasciato il Paese. Noi avvocati del Foro penai fummo accusati di aver messo, con le nostre denunce, in cattiva luce il governo venezuelano: eravamo "traditori". Mettevano le nostre immagini in tv, venivamo riconosciuti per strada e qualcuno ci insultava. Sembravano ossessionati nei miei confronti: a giugno venni citata dalla polizia politica e interrogata per 4 ore. Al termine mi dissero: "Chissà, nel prossimo interrogatorio potrebbe divenire imputata". A quel punto, sono partita e ora vivo a Praga. È l’unica ad aver scelto l’esilio? No, tre avvocati del Foro penai stanno chiedendo asilo in altri Paesi. Ne12014 un nostro collaboratore, Marcelo Crovato, è stato arrestato arbitrariamente mentre difendeva una famiglia che veniva espropriata dalla polizia: l’hanno tenuto per mesi in un carcere di massima sicurezza. L’anno scorso, il nostro coordinatore, Alfredo Romero è scampato a un’imboscata. Una settimana fa un’altra collega è stata aggredita da incappucciati che hanno attaccato la sua macchina causandole una ferita alla testa. Che cosa vi aspettate dalla comunità internazionale? Abbiamo denunciato queste persecuzioni ad Amnesty International. Vogliamo che la comunità internazionale, l’Unione Europea e l’Italia si rendano conto di ciò che accade in Venezuela e prendano posizione. E che sappiano che il lavoro di difesa dei diritti umani in Venezuela è un rischio. Per svolgerlo, si rischia la vita o l’incolumità fisica tutti i giorni. Kenya: i "bambini spazzatura" tornano a vivere con la musica di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 16 giugno 2016 A Dagoretti, un’area piena di baraccopoli alla periferia sud di Nairobi, i bambini li chiamano Chocora letteralmente "spazzatura". Ma dalla spazzatura possono anche venire fuori cose buone come gli strumenti musicali che Amref Health Africa insegna ai bambini a suonare come si vede nel video qui sotto. L’organizzazione umanitaria, che è presente a Dagoretti dal 2000, cerca di togliere dalla strada i circa 130mila bambini e ragazzi che vi vivono. Hanno tra i 6 e i 17 anni, sono orfani dell’Aids, vittime di maltrattamenti e abbandoni, passano la notte tra le discariche intontiti dalla droga per non pensare alla fame. A questi giovani e giovanissimi viene insegnato a rinascere attraverso il il teatro, la pallavolo, il video partecipato, la musica e molto altro. Oggi è la Giornata del Bambino Africano, istituita nel 1991 dall’Organizzazione dell’Unità Africana, oraUnione Africana. Quest’anno, 2016, la giornata sarà dedicata al tema "Conflitto e crisi in Africa: Proteggere i diritti di tutti I bambini". Bambini proprio come quelli di Dagoretti dove Amref, insieme con Children in Need, ha inaugurato nel 2011 il Children Village, un villaggio dei ragazzi interamente gestito da personale africano. Nel 2015 ogni minuto hanno perso la vita 5 bambini africani al di sotto dei cinque anni di età: tre milioni in un anno. I conflitti non creano solo migrazioni forzate, ma anche mancate risposte in chiave di salute. Due terzi di questi decessi possono essere attribuiti a cause prevenibili. Malattie come la polmonite, la diarrea, la malaria o l’HIV sono possono essere prevenute eppure rappresentano le principali cause di morte tra bambini e ragazzi.