Custodia cautelare, è allarme: nel limbo un detenuto su tre Francesco Lo Dico Il Mattino, 15 giugno 2016 "È stato atroce, Francesca. Uno schianto che non si può dire. Ancora oggi, a sei giorni dall’arresto, chiuso in questa cella 16 bis, con altri cinque disperati, non so capacitarmi, trovare un perché. Trovo solo un muro di follia". Sono trascorsi trentatré anni, da quel grido di dolore che Enzo Tortora lanciò dal carcere di Regina Coeli. Sette mesi di lunga prigionia, che lo videro linciato e crocifisso da media e magistrati senza uno straccio di prova. Una tortura, subita da innocente, contro la quale "non poter fare nulla, se non aspettare". Una tortura, che da quel 23 giugno del 1983 in cui varcò la soglia del carcere, perdurò fino a quel 13 giugno 1987 in cui la Corte di Cassazione pronunciò la sua piena assoluzione. E che, ancora oggi, si chiama abuso della custodia cautelare. A quasi 30 anni dalla morte di Tortora, eccessi e anomalie della carcerazione preventiva continuano a sovvertire in un golpe silenzioso i dettami della nostra Costituzione. Agli antipodi del diritto che presume innocente ogni cittadino fino a condanna definitiva, chi vive detenuto in attesa di giudizio è presunto colpevole fino a prova contraria. Di possibili Tortora, nelle patrie galere ce ne sono a migliaia: erano ben 26.804 i detenuti in custodia cautelare secondo il rapporto Antigone del 2012. Ventiseimila su 66.685 detenuti totali: in pratica 4 prigionieri su dieci aspettavano in carcere, da presunti innocenti, che cominciasse il loro processo o che la giustizia facesse il suo corso. Un’attesa umiliante, che secondo le statistiche, si conclude con una sentenza di non colpevolezza nella metà dei casi. La conclusione logica è presto detta: al netto della presunzione di innocenza, che dovrebbe valere per il 100 per cento dei detenuti, metà di loro scontano con la custodia cautelare in carcere una pena che alla fine dell’inferno si rivelerà ingiusta. Siamo insomma di fronte a una malattia conclamata che nessuno o non tutti hanno inteso curare. Un male del quale il presidente dell’Unione Camere Penali, Beniamino Migliucci, offre un’anamnesi precisa: "Da quando Tangentopoli impose il processo mediatico come metodo, la custodia cautelare cessò di essere extrema ratio per alimentare la ricerca di consenso intorno alle inchieste giudiziarie". "Sulla base delle inchieste del 1992 - annota il giurista che peraltro ha curato la prefazione de "Le lettere a Francesca", di Enzo Tortora - divenne sempre più preminente quel micidiale triangolo che ha saldato parte della politica, della stampa e della magistratura in un patto sociale giustizialista che Luciano Violante ama definire come la "società giudiziaria". Andare in carcere in attesa di giudizio, è per il nostro diritto una misura estrema, da ascrivere in ragione di un importante interesse sociale. Secondo l’articolo 275 del codice penale, dovrebbe in teoria finire nelle patrie galere, in assenza di una piena e fondata colpevolezza, soltanto l’indagato che abbia commesso un reato grave in quanto potrebbe reiterare il suo comportamento, fuggire o inquinare le indagini. "L’abuso della custodia - osserva Alberto Cisterna, già viceprocuratore nazionale antimafia, oggi Gip al Tribunale di Tivoli - è legato a doppio filo all’eccessiva lunghezza dei processi. È spesso un meccanismo anticipatorio della pena". "E troppo spesso - aggiunge Migliucci - la cautela in carcere risponde al fine improprio di fare pressione sull’indaga-to. Una condotta che ha riflessi assai negativi sul processo, influisce sulla terzietà del giudice e alimenta intorno all’indagato un clima colpevolista in assoluto contrasto con la Costituzione". Tra lettera e realtà si spalanca dunque un abisso. "Per arginare la deriva - chiosa Migliucci - la soluzione è una sola: la separazione delle carriere tra giudici e pm". Gli abusi in materia sono uno specimen tutto italiano. A fronte di quel 40,1 per cento di detenuti in custodia cautelare fino al 2012, l’Italia presentava percentuali quasi doppie rispetto alla Francia (23,7 per cento) e alla Spagna (19,3), quasi triple rispetto alla Germania (15,3), e nettamente al di sopra della media dei Paesi del Consiglio d’Europa, ferma al 28,5 per cento. Stretta nella tenaglia dell’Europa, del sovraffollamento, degli oneri economici sempre più consistenti destinati ai risarcimenti, il Paese ha fatto negli ultimi sei anni qualche indubbio progresso. Sulla spinta delle riforme che hanno ridotto l’uso della custodia cautelare, gli ospiti dei nostri penitenziari in custodia cautelare sono calati in parallelo in cinque anni dal 43,5 per cento del 2010 al 33,8. Complice la riforma della custodia cautelare, varata nel maggio scorso dal governo, gli ultimi dati, freschissimi, che il ministero fornisce al Mattino, sono un piccolo barlume di speranza. Al 31 maggio del 2016, sono detenuti nelle carceri italiane 53.873 persone, di cui 8978 in attesa di primo giudizio e 9.399 in attesa di giudizio definitivo. A conti fatti dunque, più di 18mila detenuti (uno su tre) sono oggi in carcere in regime di custodia cautelare. "Non c’è più un’emergenza numerica - commenta il magistrato Cisterna - ma l’avaria resta. La custodia andrebbe del tutto eliminata responsabilizzando i pm e puntando sul braccialetto elettronico". "Delegare al Gip - aggiunge il magistrato - è spesso un alibi. Sarebbe meglio puntare su un’udienza preliminare che decide in tempi rapidi sulla base delle prove: o rinvio a giudizio o archiviazione. Un colpo di spugna che però nessuno vuole davvero: quanti posti di lavoro salterebbero?". Il dato statistico della custodia, seppure in calo, non può però bastare. Tradotti i numeri in persone e destini, bruciano ad esempio i 1.000 giorni di carcere preventivo, subiti senza processo da Nicola Cosentino e interrotti soltanto di recente. E poi i 21 giorni di carcere subiti dall’infermiera di Piombino, per mesi dipinta come un mostro e poi liberata tra mille scuse. Scuse che nessuno potrà fare mai a S.R., finito in custodia cautelare a San Vittore per il possesso di un’arma, nonostante una cirrosi epatica che l’ha ucciso dopo tre giorni in cella il 3 giugno scorso. Dopo trent’anni, il grido di Tortora è ancora stordente. Il male della custodia cautelare si è forse ridotto ma è ancora tra noi. E continua a mietere vite, dignità e sogni. Nasce la banca dati del Dna per i detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 giugno 2016 Il 10 giugno è entrata in vigore la legge 85 del 2009 che prevede il prelievo obbligatorio. Al via la raccolta del Dna ai reclusi nelle carceri italiane. Venerdì scorso sono iniziati i prelievi del campione biologico ai detenuti di Regina Coeli e di Rebibbia che serviranno per la prima Banca Dati nazionale del dna istituita per raccogliere e conservare i profili genetici di persone arrestate, condannate ma finalizzata anche alla individuazione di persone scomparse. Dopo 10 anni di attesa - grazie ad un regolamento varato l’anno scorso dal Consiglio dei ministri per l’attuazione della legge 85 del 2009 - quindi anche l’Italia entra nell’Europa del dna. Il Dap - tramite una sua nota - fa sapere che è stato istituito l’Ufficio VI, il Laboratorio Centrale Banca Dati Dna a cui sono affidati l’organizzazione e il funzionamento del Laboratorio, le relazioni con l’autorità giudiziaria e i servizi di polizia giudiziaria. "I prelievi del campione biologico, sotto forma di tampone, sulle persone detenute sono effettuati - riferisce sempre il Dap - dal personale della Polizia penitenziaria adeguatamente e specificamente formato per questa attività. Il Personale del dipartimento e della Polizia scientifica si è recato presso l’Istituto romano di Regina Coeli per fornire l’ausilio e il supporto all’avvio dell’attività. Gli operatori della Polizia penitenziaria dell’Ufficio Matricola hanno svolto le operazioni di prelievo con professionalità ed accuratezza e hanno portato a compimento l’intera procedura con esito positivo". Il controllo sulla banca dati nazionale del Dna è esercitato dal Garante per la protezione dei dati personali, nei modi previsti dalla legge e dai regolamenti vigenti. Il Comitato nazionale per la biosicurezza, le biotecnologie e le scienze della vita (Cnbbsv) garantisce l’osservanza dei criteri e delle norme tecniche per il funzionamento del laboratorio centrale per la banca dati nazionale del dna ed esegue ? dopo aver consultato il Garante per la protezione dei dati personali - verifiche presso il medesimo laboratorio centrale e i laboratori che lo alimentano, formulando suggerimenti circa i compiti svolti, le procedure adottate, i criteri di sicurezza e le garanzie previste, nonché ogni altro aspetto ritenuto utile per il miglioramento del servizio. La procedura comunque sarà attinente al regolamento attuativo composto da ben 36 dettagliatissimi articoli. Leggendo il testo nulla sembra lasciato al caso, dalle modalità di prelievo, agli accessi, alla conservazione, alla consultazione, per finire alla distruzione dei singoli profili. Ma un fatto domina sugli altri. Dagli accordi europei che risalgono addirittura al 2008, proprio mentre riesplode il terrorismo e l’emergenza immigrazione è sempre più pesante, la banca dati italiana dei dna potrà consentire un più rapido scambio di informazioni con gli altri Paesi. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, la considera "un passo fondamentale per aumentare la sicurezza dell’Italia". Per il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, è "un formidabile strumento nella lotta al terrorismo e all’immigrazione clandestina". Il prelievo del dna viene fatto tramite un tampone strofinato e premuto nella parte interna delle guance oppure sulle gengive. Per fare ciò ci sono due strutture: la Banca dati del dna che ha sede al ministero dell’Interno presso la Criminalpol e il Laboratorio centrale che invece dipende dal ministero della Giustizia ed è localizzato materialmente nel carcere di Rebibbia. Nella Banca dati verranno man mano raccolti tutti i dna prelevati, con possibilità di raffrontarli. Il software prevede un sistema binario. Ci sarà un primo livello utilizzato soltanto per le indagini svolte in Italia. Un secondo livello invece, com’è scritto nel regolamento, "sarà impiegato anche per le finalità di collaborazione internazionale". L’elenco di chi accede alla banca dati del dna sarà conservato per 20 anni. Le procedure sono molto rigide, "con profili di autorizzazione predefiniti", per soggetti già in possesso di "credenziali di e previo superamento di una procedura di autenticazione forte". Il laboratorio di Rebibbia invece è la macchina operativa vera e propria dei dna, ovvero è la struttura dove vengono raccolti e organizzati i singoli reperti. Strutture robotizzate procederanno "all’accettazione, catalogazione, conservazione del campione biologico" e faranno le schedature. Anche in questo caso gli accessi sono regolati da procedure molto rigide per garantire sia la privacy che la sicurezza. Il regolamento disciplina anche i tempi della conservazione del dna. Trent’anni per il dna degli arrestati e dei condannati. Per gli autori di reati gravi, come quelli di mafia e terrorismo, gli anni di conservazione salgono a 40. Stesso tempo anche per chi commette più volte lo stesso crimine, cioè i recidivi. Per chi invece viene assolto da un’accusa la cancellazione del dna schedato è immediata. La legge però solleva numerose domande circa gli effetti che può avere sulle libertà individuali. Il motivo principale di questa banca dati sembra essere una schedatura di massa per meglio condurre la lotta al terrorismo internazionale, criminalità organizzata e immigrazione irregolare. Cinque sono le categorie di detenuti interessati alla raccolta: chi viene arrestato in flagranza o sottoposto a fermo; chi si trova in custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari; i detenuti e gli internati condannati in via definitiva per delitti non colposi; chi ha avuto una misura alternativa al carcere sempre per un delitto non colposo; chi sconta una misura di sicurezza detentiva in via provvisoria o definitiva. Il prelievo si applica sia ai maggiorenni che ai minorenni. Tutti saranno schedati tranne chi ha commesso reati fallimentari, tributari, relativi a intermediazione finanziaria, per bancarotta fraudolenta e delitti colposi. Una discriminazione che, oltre a rischiare di essere incostituzionale, rimane incomprensibile anche sotto il punto di vista della finalità: il terrorismo internazionale trova alimento e sostegno proprio tra le pieghe delle economie criminali, quindi perché escludere determinati reati legati ai cosiddetti "colletti bianchi"? Poi c’è il discorso sulla prova del dna utilizzata per condannare o scagionare un sospetto. In sede processuale, infatti, una simile informazione non rappresenta una prova, ma solo un indizio. La prova del Dna non è infallibile. Non è solo teoria: nel periodo 2001-2006, nel Regno Unito, le ricerche effettuate nelle banche dati di profili del dna davano, da dati ufficiali, un risultato ambiguo nel 27,6 per cento di casi e non erano mancati i casi di persone arrestate per sbaglio. Nemmeno la scienza, quindi, è in grado di dare le risposte certe al cento per cento. Sanzioni di comunità, la pena che rieduca di Alessandro Pedrotti (vicepresidente Conferenza volontariato giustizia) Italia Caritas, 15 giugno 2016 Il 18 e 19 aprile scorsi, nell’auditorium del carcere romani di Rebibbia, alla presenza del capo dello stato Sergio Mattarella, del ministro della giustizia Andrea Orlando e di altri quattro ministri, si sono conclusi gli "Stati generali dell’esecuzione penale", evento inaugurato in un altro carcere, quello milanese di Bollate, esattamente undici mesi prima, il 19 maggio 2015. Nel suo discorso di chiusura, il guardasigilli Orlando ha più volte sottolineato un concetto cruciale: "Il primo punto su cui dobbiamo lavorare è il rapporto con l’opinione pubblica, molto spesso sottoposta a sollecitazioni: il carcere viene usato come strumento di propaganda e di paura. Bisogna superare le paure, spesso legate più alla realtà percepita, di cui dobbiamo tener conto, ma ricordando che la creiamo noi. Dobbiamo spiegare che il carcere è necessario e serve a realizzare sicurezza, a patto che non badi solo a segregare, ma anche a porre le basi per percorsi di reintegrazione sociale". Bisogna "investire in sicurezza", secondo il ministro, ma nella direzione giusta. Anzitutto potenziando il settore dell’esecuzione penale esterna, quella delle "misure di comunità", verso le quali deve progressivamente spostarsi la sanzione penale. Discorso in controtendenza - Quello di Orlando è stato un discorso in controtendenza, che fa comprendere quanto il primo lavoro da svolgere sia di carattere culturale. Oggi i cittadini sono bombardati di cronaca nera: si conosce nel dettaglio ogni più macabro evento, non c’è trasmissione tv che non indulga alla spettacolarizzazione della giustizia. Questo bombardamento mediatico, come rilevato dalle ricerche dell’Osservatorio di Pavia, aumenta la percezione d’insicurezza che la popolazione vive, non connessa con i dati reali dei reati compiuti, ma legata alla sovra-rappresentazione mediatica degli eventi. Di questo, e di altri importanti elementi di contesto, hanno tenuto conto gli oltre 200 componenti (avvocati, professori universitari, direttori di carceri, dirigenti dell’amministrazione penitenziaria, assistenti sociali, volontari), riuniti attorno ai 18 tavoli in cui si sono organizzati gli "Stati generali dell’esecuzione penale". Insieme hanno lavorato a una riforma organica del sistema penale, con l’intento dichiarato di individuare strategie e interventi per rendere costituzionale la pena e favorire, dove possibile, la decarcerizzazione (non intesa come mero strumento deflattivo delle sovraffollate prigioni italiane, ma come cardine di un nuovo approccio alla pena). La detenzione in carcere, in altre parole, va concepita come extrema ratio, e in ogni caso va garantita la tutela dei diritti anche delle persone detenute, perché un’esecuzione della pena davvero rispettosa delle norme è il migliore viatico per una riduzione della recidiva, cioè la propensione a ricommettere reati. L’input a questo riesame del concetto e della prassi della pena, ricordiamolo, si deve alla Corte europea dei diritti dell’uomo: in particolare con la sentenza pilota del 2013 ("Torreggiani e altri contro lo stato italiano"), che ha costretto il governo a trovare soluzioni alternative per uscire da una situazione di sovraffollamento strutturale dei nostri penitenziari. Ne è scaturita una delle stagioni di maggiore riforma del sistema penale e penitenziario, dopo la riforma del 1975. Clessidra senza sabbia - Molti sono i provvedimenti normativi che hanno agito sia nella direzione di una deflazione della popolazione carceraria (ad esempio con l’istituzione delle liberazione anticipata speciale, legge 199/2011, e della messa alla prova per gli adulti, legge 67/2014), sia della depenalizzazione di alcuni reati minori (ad esempio il provvedimento sulla "particolare tenuità del fatto", del 2015). Questi provvedimenti, ancorché organici, hanno necessità di un’ulteriore cornice, che è stata appunto discussa nei vari tavoli di lavoro degli Stati generali, i cui risultati andranno a riempire di contenuto la delega (al momento all’esame del senato) che il parlamento aveva conferito al governo. I 18 tavoli di lavoro si sono occupati dei diversi aspetti inerenti l’istituto della pena. Sono emerse molte proposte, che qui è impossibile sintetizzare, alcune inerenti il miglioramento della qualità della vita detentiva (ad esempio i provvedimenti che ampliano la possibilità di contatto con i famigliari, sia tramite i colloqui che con l’ausilio delle nuove tecnologie e la liberalizzazione delle telefonate). Altre proposte puntano sull’ampliamento delle misure alternative e sull’introduzione della mediazione penale, come strumento per ricomporre controversie anche di natura penale. In generale, molte proposte puntano a una maggiore responsabilizzazione del detenuto, come ha sottolineato il professor Glauco Giostra, coordinatore del comitato scientifico degli Stati generali: "Frustra irrimediabilmente qualsiasi finalità rieducativa un sistema che, per regole, prassi e linguaggi, produca forme di infantilizzazione e di incapacitazione del soggetto. Il principio rieducativo postula l’offerta di un progetto individualizzato di risocializzazione: il tempo della pena non dovrebbe mai essere una sorta di time out esistenziale, una clessidra senza sabbia, ma un tempo di opportunità per un ritrovamento di sé e di un proprio ruolo sociale". D’altro canto, molte istanze vertono sulla necessità di facilitare, ha sintetizzato sempre Giostra, "un deciso spostamento del baricentro della risposta sanzionatoria penale, oggi incentrata sulla pena detentiva, verso "sanzioni di comunità", meno onerose per lo stato e meno desocializzanti per il condannato, chiamato ad adoperarsi nella e per la collettività. Sempreché non si possa, nei casi in cui ricorrano i presupposti giuridici e le condizioni soggettive, intraprendere percorsi di giustizia riparativa, che rappresenta un paradigma di giustizia culturalmente e metodologicamente autonomo, in grado di sostituire al grossolano rammendo con cui la pena ricuce lo strappo del tessuto sociale provocato dal reato, una paziente e delicata opera di ritessitura dei fili relazionali tra il reo, la vittima e la società". Giustizia meno vendicativa - Molti scenari di cambiamento ci attendono nei prossimi anni, se verrà perseguito e consolidato questo spostamento delle pene dal carcere al territorio. In particolare le Caritas saranno chiamate a un grande sforzo, da un lato culturale, dall’altro organizzativo. L’esempio che viene da papa Francesco sui temi della giustizia deve fare riflettere le comunità cristiane sul modo in cui si devono impegnare, non solo nell’anno del Giubileo della Misericordia, affinché anche al reo vengano garantite reali opportunità. Nel Vangelo, l’idea di giustizia della legge del taglione (la cosiddetta giustizia retribuitiva dell’"occhio per occhio"), viene sovvertita per un bene che è superiore, per una Giustizia che non risponde al male fatto con altro male: l’ideale evangelico non è punire il male, bensì cambiare il cuore. Dal punto di vista organizzativo, le Caritas saranno invece sempre più sollecitate a rispondere alle numerose richieste di persone che potrebbero scontare una pena in una forma non detentiva, qualora ricorrano tutte le condizioni. Lo scenario attuale, però, è un territorio che non offre molte possibilità: mancano comunità, servizi abitativi, luoghi dove svolgere lavori di pubblica utilità. Tutto il mondo ecclesiale ha un grande, duplice compito: sensibilizzare il territorio a una giustizia più mite e meno vendicativa, contrastando molti luoghi comuni; adoperarsi a creare luoghi e spazi di accoglienza e di riflessione, non solo per i rei, ma anche per le vittime. Programma vasto e articolato. Ma non irrealizzabile. Intervista a Giovanni Fiandaca: "associazione mafiosa? solo se c’è l’intimidazione" di Giulia Merlo Il Dubbio, 15 giugno 2016 "Dimostrare l’associazione per delinquere di stampo mafioso è molto più complicato dal punto di vista probatorio, soprattutto quando si tratta di associazioni criminali di nuova costituzione". Spiega così Giovanni Fiandaca, professore di diritto penale all’università di Palermo, la sentenza d’Appello sulla cosiddetta "mafia di Ostia", che ha riformato il giudizio di primo grado, escludendo il reato previsto dall’articolo 416 bis del Codice Penale. I giudici della seconda sezione della Corte d’Appello di Roma, infatti, hanno derubricato ad associazione per delinquere semplice il reato contestato ai 18 imputati, tutti legati alle famiglie Facciani e Trassi. Il secondo grado, dunque, ha ribaltato il precedente verdetto: otto condanne, dieci assoluzioni e cadute sia l’associazione che l’aggravante della modalità mafiosa. Perché per le associazioni criminali di nuova costituzione la prova è più difficile? "Il problema è di natura prettamente tecnica, di qualificazione giuridica del rato. Perché sia riconosciuto il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, è necessario il requisito del metodo mafioso, ovvero che l’associazione si sia avvalsa di una forza di intimidazione che provoca nell’ambiente circostante la condizione di assoggettamento e omertà. La giurisprudenza maggioritaria della Corte di Cassazione ritiene che, per integrare il reato di cui al 416bis, l’associazione criminale debba essere in grado di esprimere un’intimidazione effettiva nell’ambiente circostante. Proprio questo è particolarmente difficile da dimostrare nel caso di nuove cosche, perché il reato è tagliato sulle mafie classiche radicate nel territorio. Il problema, però, non è nuovo per le Corti: ciò che è successo nell’inchiesta di Ostia si è verificato anche nel caso delle formazioni ‘ndranghetiste in Liguria, Piemonte e Lombardia". Dal punto di vista dell’indagine, quindi, si sarebbe dovuti partire da un’ipotesi di associazione per delinquere semplice? "No, io credo che nel caso di incertezza oggettiva nella fase di indagine, ovvero quando il quadro non è chiaro, sia corretto partire ipotizzando il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso. Come si è detto, tuttavia, nel caso del 416 bis, l’onere probatorio per l’accusa è molto maggiore, perchè gli elementi richiesti sono più specifici". La sentenza, però, è stata letta come una squalificazione del fenomeno criminale di Ostia. "Si tratta di un errore, la sentenza non contiene alcun giudizio soggettivo di valore, sulla maggiore o minore gravità. Il fatto di derubricare il reato da associazione per delinquere di stampo mafioso ad associazione per delinquere semplice attiene unicamente all’esigenza probatoria. Non esiste, in linea di principio, alcuna discrezionalità per il giudice ma solo una valutazione delle prove, che portano a qualificare la condotta in un senso o nell’altro". È possibile che l’esito dell’Appello di Ostia influenzi quello di Mafia Capitale, visto che l’inchiesta romana ha un impianto accusatorio molto simile? "Ovviamente non esiste alcun vincolo di causa effetto. Si tratta di giudizi separati, anche se il problema giuridico ha numerose affinità. L’unica cosa che si può dedurre è che la Corte d’Appello di Roma ha la tendenza a utilizzare un metro di giudizio molto rigoroso per qualificare il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso, e che questo potrebbe essere applicato anche all’inchiesta di Mafia Capitale". Le nuove associazioni criminali hanno elementi diversi rispetto alle cosiddette mafie classiche e questo rende difficile qualificarle con la forma più grave del reato associativo, ovvero il 416 bis. Ritiene allora che sarebbe necessaria l’introduzione di una nuova fattispecie di associazione per delinquere, che inglobi specificamente queste nuove forme di criminalità? "Io sono contrario alla creazione di nuove figure di reato. Credo che porterebbero solo ad ulteriori incertezze dal punto di vista della qualificazione giuridica. Se si aggiungessero "contenitori", ci sarebbero solo maggiori problemi di confini tra fattispecie". E quindi è sufficiente la semplice associazione per delinquere? "In linea di principio, dal punto di vista del trattamento sanzionatorio, l’associazione per delinquere comporta comunque pene molto rigorose, perchè i membri dell’associazione rispondono anche dei reati di scopo. In altre parole, gli associati sommano alla pena per il reato associativo, anche quella dei singoli reati specifici commessi. Esiste, comunque, un problema di qualificazione giuridica. In questo senso ritengo, e con me molti professori di diritto penale, che si possa pensare di riformare l’articolo 416 bis, connotandola in maniera più moderna". Che cosa significa? "In prospettiva futura, si potrebbe ragionare se depurare la fattispecie del 416 bis di quei tradizionali elementi sociologici e ambientali tipici delle mafie del meridione come Cosa Nostra, ?Ndrangheta e Camorra. In questo modo, sarebbe più facile incanalare in questo particolare reato le nuove derivazioni delle mafie classiche". Giustizia, il Csm critica Orlando "Bisogna potenziare gli organici" di Liana Milella La Repubblica, 15 giugno 2016 Ultimatum del Csm al Guardasigilli Andrea Orlando. Concorsi subito per nuovi magistrati e nuovo personale amministrativo fortemente qualificato visto che, negli uffici giudiziari italiani, "la situazione è gravissima", quasi al collasso. Siamo al "grido di dolore" di decine di tribunali e procure che si sono rivolti al Csm per documentare le difficoltà e chiedere aiuto, perché nelle condizioni attuali - come ha documentato con una lettera a Orlando il procuratore di Torino Armando Spataro - così "parlare di best practice suona grottesco". Riempie solo quattro pagine, ma assai "pesanti", la delibera del Csm già annunciata la scorsa settimana dal vice presidente Giovanni Legnini e che oggi sarà approvata dal plenum e inviata a Orlando. L’hanno discussa e approvata la sesta e la settima commissione, che lavorano rispettivamente sulle riforme e sull’organizzazione giudiziaria, e che sono presiedute dall’ex presidente dell’Anm Luca Palamara e dall’ex gip di Napoli Francesco Cananzi. Sono quattro le richieste perentorie del Csm ad Orlando cui si chiede di rispondere "con assoluta urgenza". Compaiono in calce, alla fine della delibera, e sono una sorta di vademecum cui il ministro della Giustizia non potrà sottrarsi, anche se a via Arenula si parla con insistenza di un intervento legislativo subito dopo i ballottaggi per le amministrative. Le richieste del Csm riguardano l’organico sia delle toghe che dei cancellieri. L’organo di autogoverno dei giudici chiede "di indire con urgenza procedure concorsuali straordinarie per reclutare un consistente contingente di personale amministrativo". Sesta e settima commissione specificano che non dovrà trattarsi di dipendenti "qualunque", ma "di unità in possesso di specializzazioni tecniche di tipo informatico, statistico, ingegneristico". Ancora: il Csm chiede al ministro di proseguire con la mobilità del personale preso da altre amministrazioni - finora il movimento previsto da Orlando riguardava 4mila persone - "anche con adeguati incentivi professionali ed economici, fissando un termine certo per il passaggio delle nuove risorse agli uffici giudiziari di destinazione". Due richieste del Csm riguardano l’organico della magistratura, scoperto di circa mille unità rispetto alle 9mila toghe in servizio. La prima: "Indire due concorsi all’anno per reclutare i magistrati fino a coprire l’organico", ma anche ridurre il periodo di tirocinio dagli attuali 18 mesi a un solo anno. Ovviamente questo comporta di investire di più sulla giustizia, anche riflettendo "sui danni economici che derivano dall’irragionevole durata dei processi, come nel caso degli indennizzi dovuti per la legge Pinto". Puntigliosamente il documento di Palamara e Cananzi cita anche le numerose doglianze - le chiama "il grido di dolore" - giunte a piazza Indipendenza dal 2013. Un lungo elenco: missive dai tribunali di Potenza, Frosinone, Catania, Napoli, Napoli Nord, Bari, Vibo Valentia, Nocera Inferiore, Roma, Monza, Santa Maria Capua Vetere, Milano, Biella, Enna. Hanno scritto anche le Corti di appello di Roma e di Milano, e le procure di Torino, Civitavecchia, Reggio Calabria, Massa, Lodi e l’Ufficio di sorveglianza di Pescara. Lettere cui sono seguite singole segnalazioni del Csm per l’emergenza sia civile che penale. Ma l’assenza di personale, o peggio di personale non qualificato o non riqualificato, produce "mostri", come "le false pendenze in alcuni uffici giudiziari frutto di un organico insufficiente" o peggio di personale "che non è in grado di inserire correttamente gli esiti definitivi dei processi". Cos’è l’emergenza giustizia di Giacomo Bandini, Luca Bellodi e Lorenzo Castellani Il Foglio, 15 giugno 2016 Conquistare più stato di diritto, fin dai nostri tribunali, è d’obbligo per la ripresa. Ecco i numeri che tengono distanti gli investitori esteri e deprimono quelli italiani. Gli stati liberali occidentali sono contraddistinti da alcuni paradigmi come la democrazia, il parlamentarismo, la libertà. C’è in realtà un valore che li racchiude tutti, o che comunque rappresenta un punto di partenza per tutti gli altri: la rule of law. Come tutti i valori politici più importanti, anche la rule of law - come scriveva Ronald Dworkin - è vittima di un paradosso: è tanto facile concordare sulla bontà del valore quanto è difficile definirlo. Per quanto riguarda la bontà del principio, la rule of law è il fondamento delle attività di una società complessa e organizzata, che garantisca sicurezza, risoluzione delle controversie e la prosperità di un paese. La sostanza, invece, è più opaca. Si può però ritenere che la rule of law sia costituita principalmente da quattro elementi: 1. Stato di diritto: la legittimità è fondata sulla legge e non sul potere arbitrario e discrezionale; 2. Le leggi sono chiare, pubbliche e uguali per tutti; 3. I processi attraverso cui far valere i propri diritti sono accessibili a tutti, giusti ed efficienti; 4. La giustizia è amministrata in tempi ragionevoli da strutture indipendenti e competenti. I punti 3 e 4 rimandano esplicitamente all’amministrazione della giustizia. Attraverso il sistema giudiziario, infatti, gli individui risolvono le controversie, fanno valere i loro diritti e operano in un ambiente sicuro, in cui possono crearsi legittime aspettative e non lasciare le loro vite alla mercé del più forte. Così, un’impresa che dovesse decidere in quale luogo installare le proprie attività, guarderà a quei paesi in cui la giustizia - in particolare quella civile - è garantita in modo efficiente, permettendole di programmare i propri investimenti e di accedere in modo celere alla risoluzione delle controversie. Quello che va tenuto a mente quando si considera la rule of law è che non è un concetto "tutto-o-niente". La rule of law è una meta a cui si tende asintoticamente e che si sviluppa per gradi. Per questo motivo si possono costruire indici attraverso cui comparare i paesi e definire delle correlazioni con altri indicatori e trend. Questo focus, tralasciando le questioni morali della giustizia e il suo rapporto con i diritti dell’uomo, vuole invece analizzare gli effetti che un malfunzionante sistema giudiziario ha sull’economia di un paese. In particolare si evidenzierà come in Italia l’incertezza del diritto e un sistema giudiziario farraginoso siano un freno allo sviluppo imprenditoriale e all’attrazione di capitali esteri. Il caso italiano in numeri - Nonostante l’azione di riforma degli ultimi anni abbia introdotto nuove e apprezzabili procedure di risoluzione stragiudiziale delle controversie, la situazione italiana rimane ancora problematica. Ciò è osservabile attraverso alcuni indicatori internazionali che verranno presi come termine di confronto fra l’Italia e altri paesi dell’Ue con sistemi di giustizia civile simili. I due indicatori principali che registrano il grado di intensità della rule of law sono il Prosperity Index e il Rule of Law Index. Tra gli 8 sub-indici che compongono il Prosperity Index vi è quello relativo alla Governance, che a sua volta misura i) la rule of law, ii) l’accountability del governo e iii) la partecipazione politica e la correttezza delle elezioni. Il World Justice Program (WJP), un’organizzazione indipendente la cui mission è diffondere la rule of law nel mondo, elabora annualmente il Rule of Law Index, classificando i paesi in base al punteggio che ottengono, compreso tra 0 e 1. Nel 2015 gli stati ai vertici della classifica sono Norvegia e Danimarca (0,87), mentre all’ultimo posto c’è il Venezuela (0,32). L’Italia si piazza al 30° posto, dopo paesi economicamente meno maturi come Repubblica Ceca, Polonia, Uruguay, Costa Rica, Slovenia e Georgia. Suddividendo i paesi in quattro gruppi basati sulla ricchezza, l’Italia si posiziona al 28° posto della classifica dei 31 paesi a più alto reddito pro capite. Per quanto riguarda la giustizia civile - che è uno degli 8 fattori con cui l’indice è costruito - l’Italia nel 2015 scende al 36° posto della classifica globale, al 29° se si considera l’income group di riferimento e quartultima (21°) tra i 24 paesi Ue-Efta-Nord America. Il settore in cui l’Italia soffre maggiormente è quello dei ritardi e della durata dei processi (0,32/1). Stando ai dati del 2016, una causa civile in Italia dura in media 1.120 giorni, più del doppio della media Ocse dei paesi sviluppati (583 giorni). Per una sentenza di bancarotta si arriva fino a 12 anni e prima che un istituto di credito possa recuperare le garanzie reali in caso di fallimento passano, in media, 7 anni. L’Italia ha poi il più alto numero di condanne per violazione del diritto a un processo in tempi ragionevoli comminate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Se guardiamo poi al dato disaggregato, si nota come al problema della malagiustizia non sia immune nemmeno l’efficientissimo Nord Italia. Nonostante un ampio scarto tra alcune città (Torino 855 giorni e Bari 2.022 giorni), la varianza della distribuzione non è significativa (Napoli 1.280 giorni e Milano 1.291, ad esempio). Se l’efficienza di un processo è il rapporto tra input e output, ovvero tra risorse e prodotto, si potrebbe pensare che la scarsa efficienza della giustizia italiana sia dovuta alla scarsità delle risorse impiegate. In realtà, l’Italia non spende meno degli altri paesi in rapporto al pil (vedi Tabella 2). Questi dati non sono sorprendenti, i problemi della malagiustizia italiana sono noti, percepiti e anche esperiti dagli Italiani e dalle imprese estere che, nonostante tutto, decidono di operare nel nostro paese. Gli effetti sull’economia italiana - Data l’equazione di domanda aggregata una flessione degli investimenti è una delle prime determinanti della riduzione della crescita economica. Nonostante non sia possibile un’elencazione circoscritta degli effetti del sistema giudiziario su un tessuto economico, è chiara l’esistenza di una correlazione tra giustizia efficiente e investimenti. Stando alla relazione annuale della Banca d’Italia, nel 2014 il trend degli investimenti in Italia si mantiene negativo: rispetto al 2007 il calo è del 30 per cento e in rapporto al pil passa dal 21,6 al 16,9 per cento. Le determinanti della caduta degli investimenti sono rinvenibili nel costo del capitale, nell’accesso al credito, nell’incertezza e nel clima di sfiducia. È chiaro come tempi ed esiti incerti dei processi siano discordanti con la certezza e la fiducia per il futuro. La relazione del 2015 sottolinea come l’andamento degli investimenti in Italia da parte dei privati e delle imprese sia leggermente migliorato nell’ultimo anno. Relativamente alle imprese gli investimenti fissi lordi, che non includono le scorte, sono aumentati dello 0,8 per cento e, in rapporto al pil, si sono assestati al valore minimo storico del 16,6 per cento. Se si osservano attentamente i dati ci si accorge come i fattori più determinanti di questa lieve crescita siano stati di tipo esogeno, riconducibili soprattutto al basso costo dell’energia e alla politica economica espansiva adottata dalla Banca centrale europea. Complessivamente viene rilevato come gli unici fattori endogeni positivi per l’andamento degli investimenti siano correlati agli sgravi fiscali e alle politiche di maggiore flessibilità del mercato del lavoro. Nessun miglioramento significativo invece nei settori giustizia civile, burocrazia ed efficienza amministrativa. Investimenti diretti esteri (Ide) Come noto l’efficienza della giustizia civile incide sensibilmente sulla positiva valutazione dell’investimento in un dato sito. Prima di addentrarci nell’esplorazione del rapporto tra risoluzione delle controversie giudiziarie e investimenti diretti esteri occorre qui effettuare una precisazione metodologica: le cifre utilizzate in questo paragrafo per stimare la perdita di investimenti provenienti dall’estero si riferiscono agli Investimenti diretti esteri (Ide) non agli stock di investimenti diretti esteri. Sono definiti Ide gli investimenti internazionali volti all’acquisizione di partecipazioni "durevoli" (di controllo, paritarie o minoritarie) in un’impresa estera (mergers and aquisitions) o alla costituzione di una filiale all’estero (investimenti greenfield), che comportano un certo grado di coinvolgimento dell’investitore nella direzione e nella gestione dell’impresa partecipata o costituita. Lo stock di Ide rappresenta il capitale diretto totale posseduto dai non residenti di un determinato paese (Fmi e Ocse, 1996). I lunghi tempi dell’applicazione dei contratti e l’incertezza nella conclusione di una vicenda giudiziaria scoraggiano l’ingresso nel mercato di nuove imprese e allontanano gli investimenti, che tendono a concentrarsi dove i casi di contenzioso si risolvono in modo celere. La reputazione a livello globale è sempre di più un fattore decisivo per favorire la competitività e l’attrattività di un paese. In questo senso, l’Italia sta subendo le conseguenze della scarsa reputazione internazionale dovuta a corruzione diffusa, lentezza della giustizia civile, farraginosità di leggi e regolamenti, inefficienza della pubblica amministrazione, infrastrutture carenti. Sul punto, ad esempio, risulta particolarmente interessante la classifica del Reputation Institute di New York, il cui obiettivo è misurare fiducia, stima e interesse verso 50 paesi. Nel 2015 l’Italia si colloca al 14° posto su 20 tra i paesi più avanzati, ottenendo un buon punteggio per quanto concerne indicatori culturali come lo stile di vita, ma presenta performance molto negative nei fattori "Favorable environment for business", "Technologically advanced", "Effective government" ed "Ethical country". Le cause sono molteplici ma, tra i valori che impattano negativamente sul punteggio, l’incertezza del diritto e la lunghezza dei processi in sede civile rappresentano insieme alla corruzione gli ostacoli maggiori allo sviluppo economico e alla competitività, nonché al potenziale di attrazione di capitali esteri. Non a caso i tempi della giustizia civile sono uno dei fattori principali valutati dagli investitori prima di effettuare un’operazione in un paese estero. Nel 2013, anno in cui l’Italia è stata richiamata più volte anche dall’Ue sul problema della giustizia civile, gli investimenti diretti esteri in Italia ammontano ad appena 12 miliardi di euro (vi è discordanza fra i calcoli ufficiali), con un calo del 58 per cento rispetto al 2007 (circa 20 miliardi). Inoltre, nel medesimo anno (2013) lo stock mondiale di Ide del nostro paese ammonta solamente all’1,6 per cento del totale, quota molto meno significativa rispetto ai principali competitor europei: Spagna 2,8 per cento, Germania 3,1, Francia 4,8 e Regno Unito 5,8. Nel 2015, mentre gli Ide in Italia ammontano a 15 miliardi, in Francia sono il triplo (43 miliardi), in Regno Unito 40 miliardi e in Spagna 22 (dati Ocse). Se consideriamo il 2007, in cui gli Ide ammontavano a 20 miliardi, come anno base del calcolo l’Italia ha perso una media di 7 miliardi di investimenti esteri ogni anno fino al 2011. Nel 2012, secondo alcuni dati, si calcola che gli Ide totali fossero pari a 0,09 miliardi, praticamente inesistenti. Come precedentemente descritto, il trend è stato invertito solamente nel 2013 per poi superare nel 2014 la cifra del 2007. Nel 2015, invece, l’andamento è rimasto stabile, ma inferiore al 2014. È possibile così formulare una stima della perdita di investimenti diretti esteri e di valore aggiunto derivante dagli Ide, utilizzando sempre l’anno 2007 come base di riferimento. Secondo le stime effettuate, l’Italia ha perso negli ultimi 9 anni circa 6 miliardi di valore aggiunto sull’indotto, 15 miliardi di valore aggiunto diretto e 1,38 punti percentuali complessivi di crescita strutturale sul pil (lo 0,3 per cento di media ogni anno). Ovviamente, le colpe di questo mancato afflusso di capitali e di valore aggiunto generato non vanno attribuite solamente alla lentezza della giustizia civile, ma essa ne è innegabilmente uno dei fattori principali. Va inoltre aggiunto che il trend relativo alla regolazione dei contratti e ai costi burocratici legati alla risoluzione delle controversie è peggiorato. La gravità di questo peggioramento risulta evidente nella Tabella 3, che mostra il rapporto diretto tra un buon posizionamento nel ranking del WJP e la capacità di attirare investimenti esteri. Più un paese è alto in graduatoria, più è ampio l’ammontare di Ide. Investimenti e imprese - Nella relazione annuale del 2014 della Banca d’Italia si riconosce la lentezza della giustizia civile tra le principali cause che ostacolano la produttività delle imprese. In particolare, gli investimenti e le scelte delle aziende sono fortemente condizionate dalla qualità del sistema giudiziario in quanto questo incentiva comportamenti connotati da una minor propensione al rischio, risultando in una generale perdita di competitività. Anche la relazione del 2015, nonostante abbia riconosciuto segnali di miglioramento per quanto riguarda i processi in pendenza, ribadisce come la "la durata dei processi, specialmente in alcuni tribunali, rimane però elevata", evidenziando l’insufficienza delle misure fino ad oggi adottate per migliorare la concorrenza e il tenore degli investimenti. Proposte: due direttive per la riforma Decongestionare i tribunali: 1. Incentivare la sottoscrizione delle polizze di tutela legale a copertura dei costi del processo. Come in Germania e Olanda, esiste una relazione positiva tra la diffusione delle polizze di tutela legale e la riduzione del contenzioso perché gli accordi stragiudiziali, quando opportuni e convenienti per entrambi, vengono favoriti. 2. Introdurre una nuova e seria disciplina della mediazione e dell’Adr (Alternative dispute resolution). Attraverso il ricorso alle procedure di Adr (negoziazione diretta con valore di titolo esecutivo in presenza degli avvocati, tavoli paritetici, mediazione e arbitrato) si amplia l’offerta degli strumenti di risoluzione delle controversie a disposizione dei cittadini e delle imprese, senza gravare sulla spesa pubblica, affiancando i tribunali che con meno carico di lavoro potranno essere più efficienti. 3. Generalizzare la possibilità, ancora poco utilizzata, di pronunciare la sentenza con lettura immediata del dispositivo, con concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, riducendo i tempi della stesura della sentenza. Aumentare la produttività a parità di risorse: verso una giustizia managerializzata. 1. Come sta accadendo per il servizio sanitario, occorre una profonda spending review che identifichi ed elimini inefficienze. Occorre spendere meglio e incassare di più erogando il servizio giustizia per avere risorse finanziarie da reinvestire nel sistema. 2. Promuovere una riorganizzazione della struttura degli uffici giudiziari, da ottenersi, se necessario, anche con l’inserimento di figure manageriali scelte dagli operatori di giustizia in loco attraverso una selezione professionale, che contribuiscano a velocizzare le procedure interne agli uffici e ne riducano i costi, liberando altresì il tempo a disposizione dei magistrati. 3. Per generalizzare tali comportamenti virtuosi è necessario, pur garantendo la massima indipendenza della magistratura, valorizzare la performance dei giudici anche in termini di efficienza e produttività, in termini sia di remunerazione sia di responsabilità. In particolare, nel giudicare la performance, al fine dei passaggi di carriera a posizioni direttive o che comunque comportino responsabilità di uffici, il Csm deve necessariamente avvalersi di tecnici specializzati nella valutazione delle risorse umane. 4. Per contribuire in termini di efficacia e di efficienza il lavoro della giustizia occorre una profonda revisione del sistema di leggi e normativa vigenti. La presenza infatti di impianti legislativi mastodontici e di scarsa utilità e applicazione ha comportato un deficit di chiarezza, certezza e interpretazione immobilizzante per le attività produttive e per la risoluzione delle controversie in tempi brevi. Alt della Cassazione alle manette facili di Errico Novi Il Dubbio, 15 giugno 2016 Una sentenza pone un limite alla carcerazione preventiva. C’è una legge, approvata l’anno scorso, che molti giudici tengono in scarsa considerazione: è la riforma della custodia cautelare, varata in via definitiva dal Parlamento nell’aprile del 2015. Con una sentenza depositata due giorni fa, la Suprema corte ha dovuto "inviare" un pro memoria per gip e collegi del Riesame: la carcerazione preventiva, ha ricordato la Cassazione, può essere inflitta all’indagato solo se il pericolo di reiterazione del reato è "concreto" e "attuale". Sono i principi chiave della modifica introdotta un anno fa, eppure si tende ad applicarli di rado. Così è successo anche a proposito dell’arresto, ai domiciliari, ordinato dal gip di Viterbo per un imprenditore marchigiano e poi confermato appunto dal tribunale del Riesame. La Cassazione ha annullato quest’ultima decisione, proprio perché manca una "motivazione sufficiente" a dimostrare il rischio che il delitto venga ripetuto. Manette facili addio. Così sentenzia la Cassazione. E così dovrebbe essere d’ora in poi. In realtà la svolta sarebbe già stata dettata dalla legge. Precisamente, dalla riforma della custodia cautelare approvata in Parlamento più di un anno fa: si tratta della legge 47 del 16 aprile 2015. Quel provvedimento ha rafforzato un principio già sancito dal codice ma mai esplicitato in termini così netti: ovvero che il pericolo di reiterazione del reato deve essere "concreto" e "attuale". In assenza di tali requisiti non può essere più consentito a un giudice di infliggere all’indagato la carcerazione preventiva. Solo che i magistrati hanno continuato a seguire la vecchia logica: quella secondo cui se dalle indagini emerge un profilo potenzialmente incline al delitto, si deve dare per scontato che la persona in questione tornerà a delinquere, senza per questo preoccuparsi di verificare se davvero quella persona potrà avere nuove ed effettive occasioni di compiere lo stesso reato. Rischio "attuale" - Con una sentenza depositata due giorni fa, la 24476, presidente Ippolito, la sesta sezione della Suprema corte ha annullato un’ordinanza con cui il Riesame di Roma confermava la misura cautelare, nel caso ai domiciliari, di un imprenditore marchigiano. Il collegio ha ritenuto carente la motivazione del tribunale della libertà proprio riguardo all’attualità del pericolo che il reato venga di nuovo commesso. Di fatto la Cassazione ha censurato quella che si potrebbe definire "leggerezza delle manette". Anche se gli arresti sono nella forma dei domiciliari, non se ne può più fare un uso disinvolto. Ci vuole un fondamento motivazionale solido e vicino nel tempo. Non si tratta della prima pronuncia di questo tipo: lai giudici della Sesta sezione infatti citano due analoghe sentenze emesse dalla Suprema corte nei mesi successivi alla riforma del 2015. Sembra però potersi trattare di una svolta proprio perché il collegio presieduto da Ippolito riassume i principi già fissati nelle due precedenti occasioni. E richiama così i gip e i collegi del Riesame di tutta Italia a rispettare la legge. Più precisamente una legge approvata in tempi recenti, appena quattordici mesi fa. Motivazioni carenti - La sentenza è incisiva anche perché riguarda una tipologia di reati, quelli legati alla pubblica amministrazione, in cui la reiterazione è ipotesi che si può avanzare in modo meno automatico. E anche perché si tratta proprio delle questioni che ruotano attorno alla corruzione - in questo caso a presunte collusioni tra imprese e amministrazioni locali - e che quindi sono al centro del dibattito sulla giustizia. Nella vicenda esaminata dalla sesta sezione, l’imprenditore Luca Tramannoni è accusato dalla Procura di Viterbo di turbativa d’appalti per due gare nel Viterbese, una nel 2014 per gli impianti di illuminazione di Civita Castellana e l’altra nel 2015 per gli impianti termici di Grotte di Castro. Secondo l’ipotesi degli inquirenti Tramannoni avrebbe manipolato i bandi, capitolati e disciplinari d’intesa con i funzionari dei due comuni, per fare in modo che gli incarichi finissero alla sua azienda, la marchigiana "Cpm gestioni termiche". Interessante il fatto che nella prima parte della sentenza i giudici della Cassazione diano di fatto ragione al Riesame, e quindi indirettamente al gip e alla Procura di Viterbo: le ordinanze hanno ricostruito con "completezza" la "condotta del ricorrente". Eppure anche in presenza di "gravi indizi di colpevolezza", si può infliggere la custodia cautelare solo se il giudice fa "un maggiore e più compiuto sforzo motivazionale". Nel caso, è la bacchettata della Suprema corte, "il Tribunale del Riesame ha disatteso le doglianze difensive" (presentate nel ricorso dall’avvocato Alfredo Gaito), anche perché quello sforzo deve essere "ancora maggiore quanto più ampio sia lo spettro cronologico che divide i fatti contestati dal momento dell’adozione dell’ordinanza cautelare". Principi, sancisce la sentenza, di cui il Riesame "non ha fatto buon governo". Resta da vedere se la "lezione" varrà una volta e per sempre. Niente maltrattamenti in famiglia se la moglie tiene testa al marito di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2016 Corte di Cassazione - Sezione Sesta Penale - Sentenza 9 febbraio 2016 n. 5258. Non si configura il reato di maltrattamenti in famiglia, se la moglie, presunta vittima del delitto, reagisce alle intemperanze del marito, senza mai assumere un atteggiamento di passiva soggezione nei suoi confronti. A sottolinearlo, è la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 5258 resa il 13 novembre 2015, e depositata il 9 febbraio 2016. La decisione, nel confermare l’assoluzione pronunciata in secondo grado nei confronti di un uomo, accusato di aver commesso il reato di maltrattamenti in famiglia a danno della coniuge, sottolinea che - considerata la tipologia della coppia, formata da persone dotate di un livello di formazione professionale, cultura, posizione sociale ed economica ben superiore alla media - la donna non poteva dirsi ridotta ad una condizione di soggezione da parte del consorte. Anzi, ella aveva mostrato capacità reattiva. La vicenda - Nel sostenerlo, la pronuncia si allinea a quella giurisprudenza ferma ad affermare come, ai fini integrativi del crimine di maltrattamenti in famiglia, non possa non valutarsi lo stato psicologico in cui finisce per versare la vittima, assoggettata a un regime di vita oggettivamente vessatorio e umiliante. Questione sulla quale i giudici, di legittimità e di merito, si sono più volte soffermati. Ma la Cassazione va oltre e, nel confermare la pronuncia assolutoria, ex articolo 572 del Cp, emessa nel precedente grado di giudizio, pone l’accento sulla rilevanza delle qualità personali delle parti. Prima di trattenersi sul punto, tuttavia, appare preliminare volgere un cenno ai fatti di causa. Protagonista una coppia, i cui rapporti risultavano da tempo connotati da accesa conflittualità. Situazione più volte sfociata in atti violenti posti in essere, secondo le accuse, dal marito a danno della moglie. Di qui, la condanna dell’uomo, emessa dal G.u.p. per maltrattamenti in famiglia e violenza privata, a un anno di reclusione. Sentenza ribaltata in appello: assoluzione e revoca delle statuizioni civili. La condotta contestata, secondo la Corte, era dovuta alla "maleducazione" dell’imputato. Il caso, così, arriva in Cassazione. Le doglianze - Sette le doglianze addotte dal difensore della donna, costituitasi parte civile. Tra queste, il vizio di motivazione della sentenza con cui il giudice del gravame avrebbe mancato di relazionare adeguatamente sugli argomenti posti a supporto della decisione, facendo mero "riferimento ad una asserita maleducazione dell’imputato, per giustificarne le condotte illecitamente tenute in ambito familiare". Errato, per il legale, anche l’aver ritenuto inattendibili le dichiarazioni rese dall’assistita, sol perché incardinate in un contesto conflittuale caratterizzato da alta tensione e da un astio verso il coniuge, che l’avrebbe indotta ad "enfatizzare taluni suoi comportamenti". A difettare, poi, anche il vaglio di carteggi e dichiarazioni testimoniali, rivelatori di programmi tessuti dal coniuge, spintosi fino al punto di installare un impianto di video-sorveglianza sulla casa attraverso il sistema di controllo da remoto, nell’ottica di sferrare un vero e proprio "attacco giudiziario" contro la moglie. La materialità del fatto - Tesi respinta dalla Cassazione, che rigetta il ricorso e conferma l’assoluzione dell’uomo. Va apprezzata, scrive, la ricostruzione, offerta in appello, del compendio storico-fattuale posto a fondamento dei temi d’accusa: la Corte, nell’escludere pregnanza penale alla condotta incriminata, aveva sovvertito il primo epilogo decisorio, all’esito di una rigorosa e penetrante analisi critica. Epilogo difforme, dunque, solo per la "maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversamente valutati". Tanto premesso, gli ermellini richiamano il solido pensiero giurisprudenziale per cui, ai fini integrativi del delitto di maltrattamenti in famiglia, la materialità del fatto deve consistere in "una condotta abituale che si estrinsechi con più atti che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo infliggendogli abitualmente tali sofferenze". E si annoti, quanto alla tipologia di atti, come la condotta delittuosa possa concretizzarsi sia in atti di percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni ed umiliazioni che il prevenuto infligga alla vittima, che in manifestazioni di disprezzo e offesa alla sua dignità, che finiscano per sottoporla a vere e proprie sofferenze morali (Tribunale di Firenze, Prima Sezione Penale, 2 dicembre 2015, n. 5213). Non potranno valutarsi, allora, singoli e sporadici episodi di percosse o lesioni, trattandosi di reato necessariamente abituale, caratterizzato - marca la Cassazione in lettura - da una "una serie di fatti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, i quali, isolatamente considerati, potrebbero anche essere non punibili (atti di infedeltà, di umiliazione generica, etc.), ovvero non perseguibili (ingiurie, percosse o minacce lievi, procedibili solo a querela), acquistano rilevanza penale per effetto della loro reiterazione nel tempo". La giurisprudenza di merito - Ecco che, fatti episodici, proprio perché derivanti da situazioni contingenti e particolari della convivenza, non integrano il reato di cui all’articolo 572 del Cp (Tribunale di Bari, Prima Sezione Penale, 26 novembre 2015, n. 4140). E se non si ritiene essenziale che tali atti siano posti in essere per un tempo prolungato, se ne esigerà, quantomeno, la ripetizione, anche se per un limitato periodo, quali comportamenti sorti in seno alla comunità familiare o determinati dalla sua esistenza e sviluppo (Tribunale di Firenze, Seconda Sezione Penale, 16 dicembre 2015, n. 4264). Si imporrà, quindi, l’assoluzione per insussistenza del fatto, ove non si raggiunga la prova della reiterazione di condotte, fisicamente e moralmente violente, commesse nei confronti di moglie e figli (Tribunale di Genova, Seconda Sezione Penale, 10 giugno 2015, n. 3265). Ma non varrà ad escludere il reato, che gli atti lesivi si siano alternati con periodi di normalità, poiché, stante la natura abituale del delitto, l’intervallo di tempo tra una serie e l’altra di episodi lesivi non farà venir meno l’esistenza dell’illecito (Tribunale di Bari, Prima Sezione Penale, 15 ottobre 2015, n. 3224). In altre parole, deve escludersi che la compromissione del bene giuridico protetto si verifichi in presenza di semplici fatti che ledano ovvero mettano in pericolo l’incolumità personale, la libertà o l’onore di una persona della famiglia, essendo necessario, che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporle un regime di vita vessatorio, mortificante ed insostenibile. Applicabilità alle convivenze - L’articolo 572 del codice penale, del resto, tutela non solo l’interesse dello Stato a salvaguardare la famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma appresta difesa anche all’incolumità fisica e psichica dei soggetti indicati nella norma, interessati al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari. Al riguardo, si annoti altresì come vittima del reato possa essere anche il convivente more uxorio, purché assoggettato al partner. Un rapporto di stabile convivenza, al di fuori della famiglia legittima, deve, difatti, ritenersi suscettibile di determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza, senza che sia richiesto che tale convivenza abbia una determinata durata, quanto piuttosto che sia stata istituita in una prospettiva di stabilità, a prescindere dall’esito, in concreto, di tale comune decisione (Tribunale di Bari, Seconda Sezione Penale, 30 settembre 2015, n. 3289). Il delitto, in sintesi, può venire a sussistere in seno a qualsiasi relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale (Tribunale di Genova, 31 luglio 2015, n. 4111). Ed il reato, si riterrà commesso ai danni dell’intera famiglia ove la prole minore sia obbligata ad assistere a violenze e maltrattamenti posti in essere dall’un genitore a danno dell’altro, riverberandosi tali condotte necessariamente sui figli nella forma della cosiddetta violenza assistita (Tribunale di Bari, Seconda Sezione Penale, 31 marzo 2015, n. 131). Parimenti si conclude, nell’ipotesi in cui gli episodi siano commessi dinanzi alla prole del convivente (Cassazione pen., Sez. VI, 29 gennaio 2015, n. 4332). Il dolo - Tornando alla condotta, come anticipato, la si individua in una serie di atti lesivi (Tribunale Bari, Prima Sezione Penale, 8 gennaio 2016, n. 15) di diritti fondamentali della persona, inquadrabili all’interno di una cornice unitaria caratterizzata dall’imposizione al soggetto passivo di un regime di vita oggettivamente vessatorio ed umiliante (Cassazione pen., Sezione VI, 22 dicembre 2010, n. 45037). Ecco perché, in relazione al delitto di maltrattamenti in famiglia, il dolo assume carattere unitario, fungendo - ricordano i giudici della sentenza in commento - da "elemento unificatore della pluralità di atti lesivi della personalità della vittima", che si concretizza "nell’inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va via via realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte". Trattasi, in buona sostanza - annota il Tribunale di Ivrea, con pronuncia del 21 settembre 2015, n. 152 - di un reato abituale, nel cui ambito il dolo non richiede la sussistenza di uno specifico programma criminoso. Ciò che rileva, dunque, è che gli atti di sopraffazione sistematica siano sorretti dal dolo generico, integrato dalla volontà cosciente di ledere l’integrità fisica e morale della moglie (Corte di Appello di Taranto, 8 settembre 2015, n. 832). Difatti, il delitto di maltrattamenti in famiglia, dando vita ad un sistema tormentato per la vittima, si sostanzia in una serie di fatti, necessariamente uniti "da un dolo unitario, perdurante e pressoché programmatico che li abbraccia e fonde in una sola e diversa entità criminosa che si sostanzia nella volontà cosciente di infierire su una persona di famiglia sì da renderle la vita impossibile" (Tribunale di Genova, n. 4111/15, cit.). "Vita impossibile" - Ma cosa si intende per vita impossibile, soggezione all’autore del reato e soggiogazione della vittima? Intanto, non è richiesta una totale sottomissione all’autore della condotta, tutelando, il precetto codicistico, la normale tollerabilità della convivenza. Per lo stesso motivo, incluse nel perimetro penale, non saranno soltanto le offese all’integrità fisica, ma anche le ingiurie, le minacce, le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, così come gli atti di disprezzo ed offesa lesivi della sua dignità personale. Di conseguenza, si dovrà, di volta in volta, verificare se l’agire irrispettoso tenuto da un familiare nei confronti dell’altro, abbia assunto connotati tanto gravi, da rappresentare per il soggetto passivo, fonte abituale di sofferenze fisiche e morali, o se si concreti nell’inosservanza cosciente e volontaria dell’obbligo, nascente dal matrimonio, di assistenza morale e affettiva verso il coniuge (Tribunale di Campobasso, 7 settembre 2015, n. 638). Sarà doveroso accertare, pertanto, se la condotta incriminata possa ritenersi dotata di un carattere meramente estemporaneo e occasionale - essendo stata semplice espressione reattiva di uno stato di tensione, sempre verificabile nella vita affettiva - o se l’azione si fosse concretata nell’inosservanza cosciente e volontaria dell’obbligo di assistenza morale ed affettiva verso l’altro coniuge, obbligo che scaturisce dal vincolo matrimoniale e che ha la finalità di garantire che l’altro, in caso di difficoltà, non sia mai lasciato solo a sé stesso (Tribunale di Padova, 16 febbraio 2015, n. 352). Il reato, ad ogni modo, verrà a configurarsi, a fronte di atti di violenza fisica o morale rivolti a familiari conviventi, senza che lo stato di sofferenza ed umiliazione della vittima debba necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori, potendo derivare anche dall’imposizione alla persona offesa di un regime di vita oggettivamente umiliante, a prescindere dall’entità numerica delle sopraffazioni (Corte di Appello di Napoli, Settima Sezione Penale, 29 luglio 2015, n. 4288). Attendibilità della vittima - Si impone, infine, in chiusura di trattazione, un richiamo alla tematica inerente l’attendibilità della deposizione della vittima. Il suo racconto, come è ormai noto, pur se da valutare con la dovuta cautela, è soggetto "al solo limite ordinario dell’attendibilità, senza necessità di riscontri esterni" (Corte di Appello di Napoli, Sesta Sezione Penale, 7 luglio 2015, n. 2702), laddove, ai fini dell’affermazione della responsabilità penale dell’imputato, il narrato dell’offesa, anche se parte civile, può costituire di per sé, prova piena, purché l’analisi della credibilità soggettiva ed oggettiva della vittima abbia avuto esito positivo, e non si innesti in situazioni concrete che inducano a dubitare della sua attendibilità (Corte di Appello di Trento, 9 gennaio 2015, n. 381). Il contesto socio culturale - Principi, quelli finora enunciati ed esplicati, cui la decisione resa dal Collegio di secondo grado, scrive la Cassazione, si era uniformata, escludendo la sussumibilità della condotta del coniuge nel reato di maltrattamenti, dovendosi, più correttamente, leggere le risultanze processuali nel contesto, qualitativo e temporale, della tipologia delle relazioni familiari intercorse fra i consorti, dotati ambedue (lui notaio, lei avvocato) di cultura e condizioni socio economiche ben superiori alla media. Circostanza, questa, da innestare nell’ambito di un rapporto fortemente conflittuale che, in sede di separazione personale, aveva persino indotto il Presidente del Tribunale - constatato il disagio arrecato dai genitori alla prole - a disporre, in via provvisoria ed urgente "l’affievolimento della potestà di entrambi a favore dell’affidamento della minore ai servizi sociali, e ad ammonirli sulla gravità delle conseguenze giuridiche ed esistenziali delle loro inadempienze". Così, quanto alla definizione del processo penale, se da un lato, era emerso il "temperamento irascibile e non incline alla moderazione" del coniuge, dall’altro, non poteva non pesare sul piatto della bilancia, la"costante capacità reattiva della moglie e l’assenza di un supino atteggiamento rispetto alle intemperanze anche verbali del marito". A chiudere il cerchio, il quadro di un matrimonio, protrattosi per anni tra persone passionali, connotato da continui diverbi, incomprensioni e litigi. Da escludersi, allora, quella sistematica prevaricazione di un coniuge nei confronti dell’altro, che avrebbe potuto giustificare una condanna per maltrattamenti in famiglia. Rigettato, per gli esposti motivi, il ricorso promosso dalla signora. Senza aggravante la falsificazione delle istruttorie sui fondi regionali di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2016 Corte di cassazione, Sesta sezione penale, sentenza 14 giugno 2016 n. 24768. Nessuna aggravante per la falsificazione delle relazioni istruttorie per finanziamenti regionali. Lo sottolinea la Corte di cassazione, Sesta sezione penale, con la sentenza n. 24768 depositata ieri. La Corte ricorda così innanzitutto che l’articolo 476 comma 2 del Codice penale prevede un aggravamento di pena quando il delitto di falso materiale riguarda un atto o parte di un atto pubblico di fede privilegiata. Un’aggravante che conduce a una reclusione aumentata da un minimo di 3 a una massimo di 10 anni. Si tratta di una misura a presidio di un atto che richiede una protezione più intensa, pari alla sua particolare efficacia probatoria. Nel caso in esame, mette in evidenza la Cassazione, però, la natura dell’atto e la necessità di una sua tutela rafforzata non emerge perchè sotto esame sono finiti gli atti predisposti dai funzionari istruttori delle varie pratiche di finanziamento. Si tratta di atti, aderendo in questo senso alla ricostruzione fatta dai giudici di merito, che contenevano giudizi e valutazioni espressi sulla base di criteri di discrezionalità tecnica "agganciata in quanto tale a parametri normativi, anche se dotta di un certo grado di elasticità". Relazioni istruttorie che servivano a presentare i vari progetti che costituivano oggetto di discussione e approfondimento nelle riunioni della Commissione regionale, offrendo alla Commissione stessa una base di conoscenza sulla loro congruità e fattibilità. Senza tuttavia che la Commissione potesse essere in alcun modo vincolata alla conclusioni del funzionario istruttore. Una fattispecie allora che, a giudizio della Cassazione, esorbita dal perimetro del documento dotato di fede privilegiata. Questi ultimi infatti sono solo quelli che, emessi da pubblico ufficiale autorizzato dalla legge, da regolamento oppure dall’ordinamento interno della pubblica amministrazione, ad attribuire all’atto pubblica fede attestano quanto da lui fatto, rilevato o avvenuto in sua presenza. La forza probatoria privilegiata degli atti pubblici originali è allora circoscritta la provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato e a quei fatti che il pubblico ufficiale accerta essere avvenuti in sua presenza o compiuti da lui. "La valutazione di tali fatti non gode invece della forza probante privilegiata, a meno che la legge non attribuisca al pubblico ufficiale il potere di valutare i fatti stessi con valore legale". In questa categoria di atti rientrano solo quelli di "certezza legale", che impongono, per previsione di legge di assumere per certi i fatti da loro rappresentati. Fatta salva sempre la possibilità della querela di falso. Stranieri, proroga del trattenimento presso un Centro di permanenza temporanea Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2016 Stranieri - Proroga del trattenimento in un centro di espulsione ed identificazione - Tempestività della proroga - Condizione - Termine ex art. 14, comma 4, del d.lgs. n. 286 del 1998 - Inosservanza. Ai fini della tempestività della proroga del trattenimento in un centro di espulsione ed identificazione, è sufficiente che essa sia disposta nel termine originario di scadenza del trattenimento, mentre il decorso, tra la corrispondente richiesta e la sua convalida da parte del Giudice di pace, di un tempo superiore alle quarantotto ore, non ne inficia la validità, non ponendosi alcuna esigenza di rispetto dell’articolo 13, comma 3, Cost., atteso che il giudice non interviene per convalidare un provvedimento restrittivo già emesso dal questore ma emette egli stesso il provvedimento restrittivo. • Corte cassazione, sezione VI - 1, ordinanza 12 aprile 2016 n. 7158. Stranieri - Trattenimento dello straniero non suscettibile di allontanamento coattivo contestualmente all’espulsione - Misura di privazione della libertà personale legittimamente realizzabile - Condizioni e tempi - Potere discrezionale dell’autorità amministrativa o giudiziaria - Esclusione - Riserva assoluta di legge prevista dall’articolo 13 Cost. Il trattenimento dello straniero, che non possa essere allontanato coattivamente contestualmente all’espulsione, costituisce una misura di privazione della libertà personale legittimamente realizzabile soltanto in presenza delle condizioni giustificative previste dalla legge e secondo una modulazione dei tempi rigidamente predeterminata. Ne consegue che, in virtù del rango costituzionale e della natura inviolabile del diritto inciso, la cui conformazione e concreta limitazione è garantita dalla riserva assoluta di legge prevista dall’articolo 13 Cost., l’autorità amministrativa è priva di qualsiasi potere discrezionale e negli stessi limiti opera anche il controllo giurisdizionale non potendo essere autorizzate proroghe non rigidamente ancorate a limiti temporali e condizioni legislativamente imposte, con l’ulteriore corollario che la motivazione del provvedimento giudiziale di convalida della proroga del trattenimento deve accertare la specificità dei motivi addotti a sostegno della richiesta, nonché la loro congruenza rispetto alla finalità di rendere possibile il rimpatrio. • Corte cassazione, sezione VI - 1, sentenza 23 settembre 2015 n. 18748. Stranieri - Trattenimento dello straniero che non possa essere allontanato coattivamente contestualmente all’espulsione - Condizioni giustificative e tempistica - Limitazione della libertà personale garantita costituzionalmente garantita da riserva assoluta di legge. Il trattenimento dello straniero, che non possa essere allontanato coattivamente contestualmente all’espulsione, costituisce una misura di privazione della libertà personale, legittimamente realizzabile soltanto in presenza delle condizioni giustificative previste dalla legge e secondo una modulazione dei tempi rigidamente predeterminata, l’autorità amministrativa è, pertanto, priva di qualsiasi potere discrezionale in virtù del rango costituzionale e della natura inviolabile del diritto inciso, la cui conformazione e concreta limitazione è garantita dalla riserva assoluta di legge prevista dall’art.13 della Costituzione, così come anche il controllo giurisdizionale deve estrinsecarsi nei medesimi limiti, non potendosi estendere, in mancanza di una espressa previsione di legge, nell’autorizzazione di proroghe non rigidamente ancorate a limiti temporali legislativamente imposti; ne consegue che il limite normativo per ciascuna frazione temporale non può essere oltrepassato neanche quando ciò rientri nel limite finale complessivo, risolvendosi l’eventuale violazione nella nullità integrale del provvedimento adottato. • Corte cassazione, sezione VI - 1, ordinanza 14 maggio 2013 n. 11451. Stranieri - Proroga del trattenimento presso un Centro di Permanenza Temporanea - Procedimento giurisdizionale - Partecipazione necessaria del difensore e audizione dell’interessato. Al procedimento giurisdizionale di decisione sulla richiesta di proroga del trattenimento presso un Centro di Permanenza Temporanea dello straniero, già sottoposto a tale misura per il primo segmento temporale previsto dalla legge, devono essere applicate le stesse garanzie del contraddittorio, consistenti nella partecipazione necessaria del difensore e nell’audizione dell’interessato, che sono previste esplicitamente, ai sensi dell’articolo 14, quarto comma, del d.lgs. n. 286 del 1998, nel procedimento di convalida della prima frazione temporale del trattenimento, essendo tale applicazione estensiva imposta da un’interpretazione costituzionalmente orientata del successivo comma quinto, relativo all’istituto della proroga, tenuto conto che un’opposta lettura delle norme sarebbe in contrasto con gli articoli 3 e 24 Cost. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 24 febbraio 2010 n. 4544. Trapani: detenuto macedone di 27 anni muore per "infarto", disposta l’autopsia Giornale di Sicilia, 15 giugno 2016 La Procura di Trapani ha disposto l’autopsia sul cadavere di un macedone di 27 anni, Denis Sabani, deceduto la notte scorsa in una cella del carcere "San Giuliano", dove stava scontando una pena per rapina. Secondo i primi accertamenti medici il giovane sarebbe morto per un infarto. Presunti ritardi nei soccorsi, smentiti dalla direzione dell’istituto di pena, hanno provocato disordini tra i detenuti. Sulmona (Aq): in arrivo un nuovo padiglione per 200 detenuti, costo quasi 16mln euro ilfaro24.it, 15 giugno 2016 In Abruzzo 1.694 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 1.587. "Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando nel rispondere alla mia interpellanza sulla situazione carceraria abruzzese ha annunciato l’esecuzione del nuovo padiglione per 200 posti nel Carcere di Sulmona con un investimento di 15.610.904 euro". Gianni Melilla, Deputato Sel/Si così commenta le dichiarazioni del ministro. "Negli istituti penitenziari abruzzesi la popolazione carceraria è di 1694 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 1587 posti detentivi. Il Ministero ha elaborato un Piano di azione nazionale per la prevenzione dei suicidi in carcere, e questa scelta è particolarmente importante in una Regione come l’Abruzzo in cui vi sono ricorrenti suicidi, tentativi di suicidio, e centinaia di casi di autolesionismo gravi. Nel solo carcere di Sulmona negli ultimi 10 anni vi sono stati 13 suicidi. Ho ribadito la necessità di destinare nuove risorse finanziarie per coprire i vuoti di organico nel personale penitenziario, dalla polizia agli educatori, dagli amministrativi alle professioni sanitarie. Vi è una complessità della popolazione carceraria con molti detenuti psichiatrici, tossicodipendenti e stranieri da affrontare in termini globali." Infine "occorre investire nuove risorse per dare lavoro ai detenuti che attraverso un impegno professionale possono rieducarsi e avere un futuro di legalità quando usciranno dal carcere. L’efficacia delle misure alternative al carcere è un elemento strutturale di una nuova politica di esecuzione della pena su cui deve fondarsi il nuovo ordinamento penitenziario italiano". Catania: ex detenuti al lavoro e pet therapy, rinascono i beni confiscati alla mafia di Francesca Aglieri blogsicilia.it, 15 giugno 2016 A Misterbianco, quattro beni confiscati alla mafia saranno utilizzati dalla cooperativa sociale "Energ-etica" per realizzare attività sociali a favore dei più deboli. I terreni sono quattro in tutto per un totale di 12.300 metri quadrati non collegati tra loro con due fabbricati rurali di 20 e 59 metri quadri. Si trovano in contrada Vazzano, alla periferia di Misterbianco. Nei terreni, una volta sistemati e messi in sicurezza, saranno svolti percorsi di orticoltura sociale rivolti ai diversamente abili, un laboratorio di pet therapy sempre per le persone con disabilità, un orto didattico e una biofattoria sociale, dei percorsi di alternanza scuola-lavoro e alcune attività rivolte agli ex detenuti. "Una giornata storica per il nostro Comune - hanno affermato il sindaco Nino Di Guardo e l’assessore ai Servizi sociali Marco Corsaro - perché lo Stato si appropria di beni mafiosi per utilizzarli a fini sociali. Per questo abbiamo voluto chiamare i terreni in contrada Vazzano le Colline della legalità". La concessione a titolo gratuito, per 10 anni, è stata fatta dal Comune di Misterbianco alla cooperativa presieduta da Claudia Cardillo. È stato il sindaco Nino Di Guardo a consegnarle una chiave simbolica. Alla firma del protocollo erano presenti il vice prefetto Domenico Fichera, il comandante della Tenenza dei carabinieri Pasquale Cuzzola, il comandante della Polizia Municipale Antonino Di Stefano, il coordinatore provinciale di ‘Liberà Giuseppe Strazzulla, il sociologo Salvo Cacciola e gli assessori Marco Corsaro, Federico Lupo e Santo Mancuso con il presidente del Consiglio Comunale Antonino Marchese. Padova: Riina junior vuole vedere il padre, ma il giudice blocca l’incontro di Enrico Ferro Il Mattino di Padova, 15 giugno 2016 Giuseppe Salvatore, terzogenito del boss aveva chiesto di andare nel carcere milanese di Opera Vietata anche la presentazione del libro in Sicilia. A giorni il tribunale deciderà sulla sua libertà vigilata. Così nel 2000 Ninetta Bagarella rincuorava "u picciriddu", Giuseppe Salvatore Riina, terzogenito e figlio prediletto di Totò, il capo dei capi di Cosa nostra. Da allora ne è passato di tempo. Salvuccio ha scontato quasi otto anni di carcere e sta cercando di rifarsi una vita a Padova nonostante il regime di libertà vigilata. Ma il sangue è sangue e l’ormai trentottenne figlio del boss non ha mai rinnegato la famiglia. Anzi. Una quindicina di giorni fa ha chiesto di poter incontrare suo padre nel carcere milanese di Opera dove è detenuto. Il giudice di sorveglianza gliel’ha vietato. Vietata anche la tanto desiderata trasferta in Sicilia per la presentazione del libro "Riina Family Life" pubblicato dalla casa editrice trevigiana Edizioni Anordest. A giorni il tribunale di sorveglianza si pronuncerà anche sull’impugnazione della proroga di due anni della libertà vigilata, istanza firmata dall’avvocato di fiducia di Riina junior, Francesca Casarotto. Che Giuseppe Salvatore Riina fosse stato scelto come successore dal padre, è circostanza nota ma che il rapporto tra i due sia ancora vivo lo dimostra la recente richiesta per avere finalmente un incontro. Il legale di fiducia ha infatti compilato una dettagliata relazione al giudice di sorveglianza per ottenere una visita al carcere di Opera: un incontro tra padre e figlio, cosa che non accade da molti anni ormai. Dopo un’attenta valutazione è stato risposto che no, l’incontro non può essere concesso. Non è escluso che i presupposti per cui è stato negato siano gli stessi che hanno generato la proroga della libertà vigilata. Riina junior viene menzionato infatti varie volte nel provvedimento con il quale i sostituti procuratori di Palermo Caterina Malagoli, Sergio Demontis e Gaspare Spedale hanno disposto il fermo di alcuni presunti esponenti di spicco del mandamento mafioso di Corleone. È l’inchiesta che portò a ipotizzare un possibile attentato al ministro dell’Interno Angelino Alfano "colpevole", a loro dire, di avere aggravato il regime di carcere duro al 41 bis. Giuseppe Salvatore Riina non è indagato ma, secondo i carabinieri di Monreale, alcuni indagati gli avrebbero garantito aiuti economici. Non solo. Il trentottenne viene indicato come l’unico in grado di fare da garante ai patti stipulati anni prima tra i Riina e la famiglia Di Marco. L’avvocato Casarotto le ha definite "illazioni basate su intercettazioni vecchie". Il regime di libertà vigilata gli impone di condurre una vita con orari ben definiti, senza guidare, senza uscire la sera, senza frequentare pregiudicati e firmando ogni mattina in Questura. Il suo sogno di vivere a Padova finalmente da uomo libero è sfumato lo scorso mese di febbraio con la nuova proroga di due anni della sorveglianza speciale. La stessa che ora gli impedisce di tornare nella sua terra a presentare il libro di cui ha parlato persino nel salotto televisivo di "Porta a Porta". Taranto: teatro-carcere, oggi la rappresentazione di "E venne Falanto" tarantosette.it, 15 giugno 2016 Oggi, 15 giugno 2016, alle 10, i detenuti del carcere di Taranto, frequentanti il laboratorio teatrale interno curato dalla Compagnia Teatrale Crest e sostenuto dall’Associazione "Il Ponte" Onlus di Taranto, saranno impegnati nella realizzazione della comunicazione teatrale finale "E venne Falanto". Alla rappresentazione, che rivisita in chiave ironica il mito di fondazione della città di Taranto, parteciperanno per la prima volta, in qualità di spettatori, i congiunti degli stessi detenuti attori. Particolare anche la location dell’evento, che avrà luogo non nella consueta sala teatro, bensì in un giardino della Casa Circondariale, la cosiddetta "Area Verde", luogo appositamente predisposto ed attrezzato per l’accoglienza dei bambini in visita ai parenti detenuti. La prospettiva che ha guidato il direttore del carcere Stefania Baldassari, unitamente all’Area Trattamentale e all’Area Sicurezza del penitenziario tarantino, è stata quella di favorire la dimensione familiare ed in particolare la relazione genitoriale del detenuto con i propri figli, così da attenuare, se non risolvere la difficoltà di poter continuare ad esercitare, pur nello stato detentivo, l’importantissima funzione paterna. L’evento conclude un percorso laboratoriale di circa quattro mesi che ha visto l’impegno e l’interesse sempre più crescente di diciassette detenuti, il cui entusiasmo e dedizione sono la più tangibile testimonianza di come fare teatro in carcere possa diventare, non solo una bella esperienza artistica ma, soprattutto, un valido strumento di crescita umana che può realmente favorire percorsi di cambiamento. Brillante e lodevole, in questo senso, oltre che dal punto di vista artistico, è stata pertanto l’opera della Compagnia Teatrale Crest e dell’Associazione Il Ponte che, con la sapiente conduzione di Giovanni Guarino, coadiuvato da Nicoletta D’ignazio, Serena Lucarella, Luana Dilevrano, Delia De Marco, Santina Novellino e Cristina Chirizzi, concludono così nel migliore dei modi un percorso molto apprezzato, oltre che dall’istituzione, dagli stessi detenuti corsisti. "Lettere a Francesca". Negli scritti di Tortora dal carcere più politica che melodramma di Guido Vitiello Il Foglio, 15 giugno 2016 La malattia melodrammatica, che già Gramsci diagnosticò agli italiani, ha tra i suoi sintomi più vistosi l’abbondante lacrimazione e i brividi da indignazione virtuosa. Due sintomi accomunati dalla labilità, dalla compiaciuta irrilevanza, dalla sterilità politica; e l’effetto più dannoso per la salute nazionale, a lungo termine, è la trasformazione di qualunque caso civile in "caso umano". Se il francofilo Sciascia preferì parlare di "affaire" Moro, parola in cui svanisce la connotazione lacrimevole, altrettanto dovremmo fare per il caso Tortora. E, come si fa con Moro, dovremmo leggere gli scritti di Tortora incarcerato e processato - i due libri con Guido Quaranta, gli interventi raccolti da Palazzolo in "Per una giustizia giusta", il carteggio e le pagine di diario che Epoca pubblicò in un volumetto intitolato "Lettere dal carcere", gli articoli ripescati grazie all’imponente ricerca di Vittorio Pezzuto per "Applausi e sputi" - come scritti pienamente politici, ripiegando il fazzoletto. Lo stesso si deve fare con il bellissimo "Lettere a Francesca", pubblicato da Pacini Editore con una prefazione di Giuliano Ferrara. Il libro raccoglie alcune delle lettere che Tortora scrisse dal carcere alla compagna Francesca Scopelliti tra il giugno del 1983 e il gennaio del 1984, e il rischio è che molti lo accostino nella chiave del melodramma, facendone un romanzo larmoyant o perfino un romanzo d’avventure - lo stesso Tortora, avido lettore che trovò nei libri l’unico rimedio alla perenne domenica del carcere, si immagina come Don Chisciotte, come Gulliver, come l’esercito russo che sfianca Napoleone, come un Montecristo che escogita in cella il modo più raffinato per vendicare "l’oltraggio infame e meschino" (quale scelta di parole più mélo?) e far sprofondare i suoi accusatori in una voragine di fango. Ma la raccomandazione generosa che Tortora ripeteva a Francesca - "Non piangere, ti prego" - vale, moltiplicata, per il lettore di oggi. "Sai che ho testa lucida, ‘politicà", scriveva Tortora da Regina Coeli. E le sue pagine lo dimostrano, dettate dallo sguardo limpido e allibito del gentiluomo liberale che si trova a comparare la sua idea tutta libresca dello Stato alla realtà avvilente della giustizia italiana. Questa presa di coscienza la paragona all’iniziazione della rasatura: "Te l’ho scritto in avamprima: mi sono rapato. E sono atterrito dal vedere come questa esperienza mi abbia trasformato: non ho più un pelo nero. E un’idea sullo Stato, la giustizia, la democrazia che avevo prima". In poche settimane, capisce tutto quel che c’era da capire. Vive il carcere da osservatore partecipante, intuisce la logica degradante e delirante che ne governa la vita quotidiana. Tocca con mano la nozione un po’ astratta di corporazione giudiziaria, capisce cioè la vastità e la compattezza dell’esercito che ha davanti: "Sono i giudici la malattia nazionale", scrive, senza mai avallare la versione indulgente, che ancor oggi trova adepti, dei singoli magistrati che sbagliano in buona fede: "Attaccata al mio nome c’è la credibilità di tutto il loro lavoro". Risale alle radici inquisitorie del disprezzo dell’individuo "nei paesi cattocomunisti e, sostanzialmente, fascisti: questo è un incrocio fra Sant’Uffizio, Hitler, Controriforma e Piedigrotta". Capisce che l’affaire Tortora è, in ogni senso possibile, politico, e sembra quasi di leggere Moro: "Gioco la mia partita: e non consentirò commettano quello che diventerebbe, credimi, un delitto di Stato. Io sono un sequestrato, oggi, in mano a costoro". Ma c’è una frase ricorrente di Tortora che richiede, se possibile, una disamina ancora più attenta: "Se è possibile annientare un innocente così, è possibile tutto". E quel tutto non era ancora niente, rispetto a quel che dovette vivere fino al 1988, tradimento del referendum compreso. Ecco, l’affaire Tortora si può leggere come un esperimento, una prova generale in cui la corporazione vede fin dove può spingersi. Capisce che può fare tutto. E pochi anni dopo lo farà. Dall’Ue guerra al terrorismo, nuove misure contro la radicalizzazione Dire, 15 giugno 2016 L’Unione europea alza il tiro della politica securitaria e di contrasto al radicalismo violento. Dalla promozione dell’istruzione inclusiva al blocco della propaganda estremista su internet e nelle carceri, ecco alcune delle misure previste dalla Commissione per integrare e rafforzare l’Agenda europea sulla sicurezza, alla luce di un allarme terrorismo sempre crescente. Una minaccia resa ancora più concreta dai quasi 4mila cittadini europei che l’Ue stima si siano uniti a organizzazioni terroristiche in teatri di guerra come la Siria e l’Iraq. I più gravi attentati perpetrati negli ultimi mesi, come tiene a sottolineare la Ce in un comunicato, sono stati realizzati per la maggior parte da "cittadini europei, nati e cresciuti nelle nostre società". "I recenti attacchi terroristici - ha osservato Frans Timmermans, primo vicepresidente della Commissione - hanno dimostrato come alcuni giovani europei siano facile preda di un’ideologia di morte e di distruzione che li strappa alle famiglie e agli amici e li porta a rivoltarsi contro la loro stessa società. C’è bisogno di una risposta decisa da parte della società nel suo insieme, per prevenire la radicalizzazione e rafforzare i legami che ci uniscono. L’Ue dovrebbe contribuire per quanto possibile". La proposta approvata oggi in emiciclo ha individuato sette aree specifiche di intervento, che mirano a sostenere i 28 Stati membri in questa battaglia, e consistono: nel contrastare la propaganda terroristica e gli incitamenti all’odio illegali online, fermando i contenuti illegali; affrontare il problema della radicalizzazione nelle carceri, usufruendo delle esperienze virtuose degli altri paesi; promuovere un’istruzione inclusiva che diffonda i valori comuni dell’Ue; promuovere anche una società inclusiva, aperta e resiliente, che coinvolga maggiormente i giovani; rafforzare la collaborazione internazionale sul tema della lotta alla radicalizzazione, senza perdere di vista il rispetto dei diritti umani; sostenere la ricerca, la raccolta di informazioni, il monitoraggio e le reti, utili alle forze di sicurezza; infine, prestare attenzione alla dimensione securitaria. Nella nota la Commissione scrive ancora: "per prevenire la radicalizzazione serve anche un approccio securitario di base con misure di contrasto delle sfide immediate e a lungo termine, come i divieti di viaggiare e la criminalizzazione dei viaggi verso paesi terzi a fini terroristici, già proposti dalla Commissione". Più in generale gli eurodeputati incoraggiano lo scambio di informazione ed esperienze tra i vari Stati membri. Migranti torturati e uccisi: ecco la Libia cui chiederemo di bloccare le partenze di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 giugno 2016 "I cristiani li odiano. Se sei cristiano, devi solo pregare Dio che non ti trovino. Se scoprono una croce o un tatuaggio religioso, ti picchiano ancora di più". (Omar, 26 anni, eritreo). "Mi hanno picchiato e preso i soldi. Poi hanno trovato la mia Bibbia, hanno strappato la croce che avevo al collo e le hanno scagliate lontano. Per prima cosa controllano se hai soldi nelle tasche, poi prendono un cavo elettrico e ti frustano" (Semre, 22 anni, eritreo). "Se dicevamo che avevamo fame, le guardie venivano a picchiarci. Ci costringevano a stare a pancia in giù e ci picchiavano coi tubi di gomma. Una volta hanno sparato a un detenuto del Ciad, senza alcun motivo. Lo hanno portato in ospedale, poi di nuovo in cella ed è morto. Ufficialmente, è morto a seguito di un incidente d’auto. Lo so, perché mi facevano lavorare, gratis, nella stanza degli archivi". (K., 19 anni, eritreo) "Non avevo soldi così ho dovuto fare lo schiavo per tre mesi: trasportare sabbia e pietre, coltivare. Quando dicevo che avevo fame, si mettevano a urlare. Mi hanno fatto bere acqua mescolata a petrolio o col sale dentro, solo per punirmi. Un giorno mi hanno dato un telefono dicendomi di chiamare a casa per farmi mandare dei soldi. Ma i miei genitori sono morti, non avevo nessuno da chiamare. Allora mi hanno picchiato e per un po’ non mi hanno dato da mangiare" (Daniel, 19 anni, ghanese). Queste e decine di altre testimonianze sono state raccolte a maggio da Amnesty International in Sicilia e in Puglia, dove i ricercatori dell’organizzazione per i diritti umani hanno incontrato 90 persone sopravvissute alla traversata del Mediterraneo dalla Libia all’Italia. Ne è emerso un quadro di scioccanti violenze inflitte dalla guardia costiera libica e nei centri di detenzione per migranti in Libia. La guardia costiera libica tutto fa meno che salvare vite umane in mare. Intercetta gommoni e pescherecci (almeno 3500 solo tra il 22 e il 28 maggio) e le persone trovate a bordo, una volta sulla terraferma, finiscono direttamente nei centri di detenzione per immigrati irregolari. Nonostante dominino violenza e assenza di legge e nel 2014 sia nuovamente ripreso il conflitto armato, la Libia continua a essere la meta di centinaia di migliaia di migranti e rifugiati diretti in Europa, provenienti soprattutto dall’Africa sub-sahariana. Queste persone fuggono a causa della guerra, della persecuzione o della povertà estrema, da paesi come Eritrea, Etiopia, Gambia, Nigeria e Somalia. Altre persone si trovano in Libia da anni ma vogliono lasciare il paese perché, privi di protezione da parte di qualsiasi autorità, vivono nel costante timore di essere fermati, picchiati e rapinati da bande armate o dalla polizia. I centri, 24 in tutto secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, sono diretti dal Dipartimento per contrastare l’immigrazione illegale che, teoricamente, dovrebbe essere alle dipendenze del ministero dell’Interno. Di fatto, dal 2011 molti centri sono gestiti dai gruppi armati. Secondo la legislazione libica l’ingresso, l’uscita e la permanenza illegali in Libia sono un reato. I cittadini stranieri che si trovano in questa condizione possono essere posti in detenzione a tempo indeterminato in attesa dell’espulsione. Solitamente, i detenuti stranieri rimangono nei centri per mesi senza poter incontrare familiari e avvocati e senza vedere un giudice. Non possono contestare la legittimità della loro detenzione né chiedere protezione, data l’assenza di un sistema nazionale d’asilo. Le espulsioni sono eseguite senza alcuna tutela né esame individuale. Gli ex detenuti incontrati da Amnesty International - tra cui persone intercettate in mare e cittadini stranieri fermati in strada - hanno riferito che venivano picchiati ogni giorno con bastoni di legno, tubi di gomma e cavi elettrici e venivano sottoposti a scariche elettriche. Nessuno dei centri diretti dal Dipartimento per contrastare l’immigrazione illegale ha personale femminile in servizio. Questo aumenta il rischio di subire violenza sessuale. Numerosi testimoni hanno visto rifugiati e migranti morire durante la detenzione, a colpi di arma da fuoco o a seguito dei pestaggi. Ex detenuti hanno anche denunciato l’assenza di cibo e di acqua potabile, le scarse cure mediche e lo squallore delle celle così come la mancanza d’igiene che secondo molti è la causa della diffusione di malattie della pelle. Le volte in cui medici di organismi umanitari venivano condotti nei centri di detenzione, potevano visitare solo pochi detenuti peraltro troppo impauriti per denunciare i trattamenti subiti. Le medicazioni ricevute venivano sequestrate dalle guardie. L’unica speranza che i detenuti hanno di essere rilasciati sta nella fuga, nel pagamento di una somma di denaro o nella cessione ai trafficanti. Molti subiscono estorsioni, vengono sfruttati o costretti a lavorare gratuitamente, all’interno di centri di detenzione o fuori, da persone che pagano le guardie. In alcuni casi, i detenuti sono fuggiti o sono stati rilasciati dalle persone per cui lavoravano all’esterno, che li hanno anche aiutati a imbarcarsi in cambio del loro lavoro gratuito. In altri casi, i trafficanti hanno negoziato il rilascio di detenuti - spesso corrompendo le guardie - così da avere altre persone da imbarcare al costo di circa 1.000 dollari ciascuno. In un caso, i trafficanti si sono presentati alla guardie con "automobili zeppe di prodotti" in cambio dei detenuti. Con questa Libia l’Unione europea ha annunciato l’intenzione di estendere per un altro anno l’operazione navale di contrasto ai trafficanti di esseri umani denominata "Sofia" e, su richiesta del nuovo governo di Tripoli, di offrire formazione alla guardia costiera libica e di condividere informazioni con quest’ultima. Il 7 giugno la Commissione europea ha annunciato ulteriori piani per rafforzare la cooperazione e il partenariato con paesi terzi della zona africana considerati strategici per fermare l’immigrazione: tra questi vi è la Libia. È evidente che l’Unione europea è intenzionata a impedire le partenze di migranti e rifugiati praticamente a ogni costo. Un calcolo cinico: forse un giorno meno persone moriranno nel Mediterraneo ma solo perché aumenterà il numero di quelle morte nei centri di detenzione libici. Rischieremo di non saperlo mai. Le droghe in Europa, una sfida alla politica di Susanna Ronconi Il Manifesto, 15 giugno 2016 Irrefrenabile vivacità del mercato e mutevoli andamenti degli stili di consumo: quasi un urlo muto alla politica, quello che arriva dalle pagine del Rapporto 2016 dell’Emcdda, l’agenzia europea delle droghe. Urlo muto perché celato tra le righe del linguaggio scientifico e del "politically correct" di conclusioni che, però, non rinunciano a invitare la politica comunitaria a far sì che "l’agenda politica europea in materia di droghe contempli un insieme di indicazioni politiche di più ampio raggio e più articolate rispetto al passato", perché il "problema droga" in Europa è definito "crescente". Insomma, l’inadeguatezza delle politiche è sul tappeto, e forse non a caso l’urlo muto dell’agenzia è lanciato proprio a ridosso del rinnovo del Piano d’azione europeo sulle droghe, nel 2017. Impossibile dare conto in poche righe dei tanti e complessi trend evidenziati dal Rapporto (ulteriori interventi in www.fuoriluogo.it). Il Rapporto, se da un lato tradizionalmente riporta le frequenze d’uso delle varie sostanze, da cui si evince che le politiche di riduzione della domanda e dell’offerta hanno efficacia zero, dall’altro dà ampia attenzione ai "pattern d’uso", questione molto più interessante se si vuole poi metter mano a interventi davvero in grado di ridurre rischi e danni, più che invocare una generica diminuzione della domanda (accento, questo sui "pattern d’uso", che ci piacerebbe veder sviluppato meglio e di più anche nella nostrana Relazione annuale, prima o poi). Emergono "vecchie" sostanze usate secondo nuove modalità: è il caso del Mdma, di nuovo in crescita fuori dai gruppi e contesti del passato, secondo una sorta di normalizzazione dell’uso presso popolazioni sempre più generali, con un mercato che recupera in qualità e purezza. Su questo, l’Emcdda invita all’adozione di "risposte atte a ridurre il danno" per "sostenere una nuova popolazione di consumatori che potrebbero utilizzare prodotti ad alto dosaggio, senza comprendere appieno i rischi associati". Il ritmo frenetico della produzione di nuove molecole, poi vendute on line, non accenna a diminuire: 560 sostanze sotto analisi, 98 quelle nuove segnalate nel 2015, e si tratta principalmente di cannabinoidi e catinoni sintetici, ma non mancano gli oppioidi di laboratorio (ce ne sono 19 di nuovi, cui sono imputate 32 morti nel 2015). Gli stimolanti, amfetamine e cocaina, il cui uso si mantiene variabile nei diversi paesi, vedono un aumento dell’assunzione per via iniettiva, in calo per gli oppiacei ma in crescita per questa sostanze, con una necessaria rinnovata attenzione alla prevenzione delle malattie trasmissibili. Cambia anche la geografia delle morti per overdose da oppiacei che sebbene in calo nel corso degli anni, nel 2015 ha registrato un aumento in alcune singole regioni, correlato all’uso di oppiacei sintetici da parte di giovani consumatori. Anche qui l’invito dell’Emcdda è alla riduzione del danno: la distribuzione del naloxone ai consumatori è all’ordine del giorno del dibattito europeo (per inciso, pratica su cui l’Italia, per una volta, è da vent’anni all’avanguardia, se solo se ne trovasse traccia nel sistema nazionale di monitoraggio, ancora muto attorno alla riduzione del danno). Insomma, il Rapporto segnala un fenomeno crescente, ma non solo in senso quantitativo quanto in termini di complessità, differenziazione e mutevolezza, rispetto al quale la politica appare balbettante. Basta dare un’occhiata alla geografia delle iniziative mirate, dall’inizio degli anni ‘10, alle nuove molecole: una mappa di azioni di "law enforcement" e superfetazione di tabelle. Sono passati sei anni, e forse non è una buona e sufficiente risposta. Libia: l’Onu chiede un’inchiesta sull’uccisione di 12 ex militari pro-Gheddafi di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 15 giugno 2016 Libia. Sotto tiro il nuovo regime di Tripoli e lo stesso Serraj per questo nuovo crimine contro ex detenuti. Le Nazioni unite hanno chiesto al premier in pectore del Governo di accordo nazionale (Gna), Fayez al-Serraj, di aprire un’inchiesta sui dodici uomini uccisi dopo essere stati rilasciati da una prigione di Tripoli la scorsa settimana. Secondo le prime ricostruzioni si tratterebbe di un vero e proprio regolamento di conti. Gli ex detenuti erano stati accusati di aver preso parte dell’uccisione e torture di alcuni manifestanti anti-Gheddafi nel 2011. I corpi dei dodici uomini sono stati trovati in diversi quartieri di Tripoli lo scorso venerdì. Sui loro cadaveri apparivano segni di percosse e di proiettili che li hanno colpiti al petto e in testa. L’inviato speciale dell’Onu in Libia, Martin Kobler, si è definito "scioccato" per questo "vile crimine". "Chiedo alle autorità libiche la formazione di una commissione di inchiesta nazionale e internazionale per seguire gli sviluppi della vicenda", ha aggiunto Kobler. Le circostanze dell’assassinio non sono chiare. La polizia libica ha confermato che gli uomini hanno lasciato la prigione di al-Baraka con le loro famiglie lo scorso giovedì. Molti centri di detenzione in Libia sono controllati da gruppi che includono milizie e polizia giudiziaria. Il parlamento di Tobruk ha accusato in una dichiarazione ufficiale le autorità di Tripoli di aver lasciato la polizia giudiziaria commettere un atto di vendetta politica. La prigione di al-Baraka è nota per il numero di pro-Gheddafi che sono lì detenuti. Human Rights Watch aveva confermato che molti dei prigionieri avevano subito violenze e torture. Le autorità libiche hanno chiesto 1,2 miliardi di dollari di danni alla Goldman Sachs in riferimento ad investimenti sbagliati che sarebbero stati suggeriti all’Autorità per gli investimenti di Tripoli (Lia). Secondo i libici, gli investimenti in questione vennero effettuati sotto "influenze non dovute". Lia ha accusato Goldman Sachs di essere responsabile delle perdite generate dagli investimenti, ereditati dall’Autorità per gli investimenti dalla precedente gestione, in altre parole prima della fine del governo di Muammar Gheddafi. Non si placano i combattimenti per la conquista di Sirte da parte dell’operazione Struttura solida (al-Bunyan al-Marsoos), cartello che unisce i militari pro-Serraj con le milizie di Misurata. I jihadisti di Isis sarebbero stati isolati in appena cinque chilometri all’interno della città di Sirte. Nonostante le richieste di al-Serraj, presentate anche in occasione della Conferenza di Vienna, di cancellare l’embargo sulle armi, l’inviato Onu, Martin Kobler, ha smentito che per il momento sia previsto di armare le forze pro-Gna che stanno combattendo contro Isis, senza un preventivo via libera del Consiglio di sicurezza Onu. Infine, Amnesty International ha dichiarato che il progetto dell’Unione europea di cooperare più strettamente con la Libia in materia d’immigrazione rischia di favorire i maltrattamenti e la detenzione di migliaia di migranti e di rifugiati. Lo scorso mese, l’Unione europea ha annunciato l’intenzione di estendere per un altro anno l’operazione navale di contrasto ai trafficanti di esseri umani denominata "Sophia" e, su richiesta del nuovo governo di Tripoli, di offrire formazione alla guardia costiera libica e di condividere informazioni con quest’ultima. "L’Europa non dovrebbe neanche ipotizzare accordi con la Libia in tema d’immigrazione", ha denunciato il vicedirettore ad interim del programma Medio Oriente, Magdalena Mughrabi. "Sarebbe necessario migliorare la capacità della guardia costiera libica di cercare e soccorrere vite umane in mare", ha spiegato. Stati Uniti: la piaga della diffusione di fucili e pistole, 89 ogni cento abitanti di Emanuele Giordana Il Manifesto, 15 giugno 2016 Studio per "Archivio Disarmo": la percentuale più alta al mondo. Negli Stati Uniti ogni giorno in media 36 persone vengono uccise da armi da fuoco. La metà di loro sono giovani di età compresa tra i 18 e i 35 anni; un terzo sono giovanissimi con meno di 20 anni. Per aggiungere un altro dato, tra queste trentasei vittime quotidiane (il bilancio esclude i suicidi), nel 2015 circa il 50% sono stati afroamericani che rappresentano solo il 6% della popolazione. E son stati proprio i controversi omicidi di afroamericani ad aver rialimentato, negli ultimi 12 mesi, il dibattito e la polemica sulla diffusione delle armi in America. Anche la strage di Orlando ha finito, per forza di cose, per riportare il problema del possesso diffuso di armi nel dibattito pre elettorale. Ma l’insieme dei commenti, in America e altrove, sembra prestare poca attenzione al fatto che gli Stati Uniti sono il Paese dove circola liberamente il maggior numero di piccole (e grandi) armi del pianeta. La ricerca del cosiddetto "lupo solitario", della pista islamo-qaedo-daeshista o dei motivi, materiali o psicologici, che spingono qualcuno ad ammazzare uomini come formiche, è più seducente che risollevare una vecchia polemica con la quale gli americani non riescono a fare i conti e con la quale anche Obama ha perso un’altra battaglia. Se però si dà un’occhiata alle tabelle, i dati parlano chiaro. I Paesi dove si muore di più per colpa di un’arma da fuoco sono quelli in guerra: Afghanistan o Iraq ma, appena dopo le nazioni in conflitto, appaiono gli Usa. Nel mondo girano - secondo lo Small Arms Survey- circa 875 milioni di armi leggere (pistole, fucili, carabine e mitragliatrici), prodotte da oltre un migliaio di aziende in circa cento Paesi per un giro d’affari di circa sei miliardi di dollari all’anno. Chi le possiede? Soldati, poliziotti, guardie? In minima parte "La maggior parte delle armi da fuoco in circolazione sul pianeta - scrive il ricercatore Maged Srour in un saggio preparato per Archivio Disarmo (Gli Stati Uniti e le armi da fuoco) - è in possesso di privati". Non tutti "legalmente a posto" ovviamente. Il rapporto è più o meno di 26mila armi in mano alla polizia, 200mila tra le braccia dei soldati e… 650mila nelle tasche dei civili. Gli Usa detengono la palma. Scrive Srour: "Gli Stati Uniti sono allo stesso tempo il maggiore esportatore e importatore di armi da fuoco ad uso civile. Secondo una delle più recenti analisi, gli Stati Uniti hanno il più elevato tasso di possesso di armi da fuoco: vi sarebbero ben 89 armi ogni 100 abitanti su un totale di 270 milioni di armi in circolazione nel Paese. Di fatto, è oltre il 40% in più rispetto a quello che si ha in Yemen, secondo solo agli Stati Uniti con 54,8 armi da fuoco ogni 100 abitanti". Ovviamente l’equazione "molte armi molti omicidi" non è per forza diretta: abbiamo visto il caso afgano o iracheno che sono Paesi in guerra, e il rapporto cita ad esempio il caso dell’Honduras dove, nel 2012, il tasso di omicidi con armi da fuoco è stato di 68,43 ogni 100mila abitanti mentre negli Stati Uniti era di 2,97. Non di meno "…il tasso di omicidi con armi da fuoco negli Usa è 20 volte maggiore rispetto a quello medio registrato tra tutti i Paesi dell’area Ocse (Messico escluso). Ciò vuol dire - conclude Srour - che in America del Nord si verificano omicidi con armi da fuoco più che in ogni altro Paese sviluppato". Uno studio della Boston University per altro, rileva che in realtà esiste una "correlazione positiva" tra diffusione di armi e numero di omicidi perpetrati con armi. Lo studio conclude che ogni 1% di incremento nella proporzione di possesso domestico di armi da fuoco, si è tradotto in un incremento dello 0,9% del tasso di omicidi. L’indagine di Srour affronta anche il tema "sparatorie di massa" (mass shootings), situazioni nelle quali quattro o più persone sono colpite e/o uccise da armi da fuoco in un singolo evento, alla stessa ora e nello stesso luogo. Negli Usa se ne sono verificate nel 2015 in circa 100 aree metropolitane. Sociologi e psicologi si possono sbizzarrire ma riportiamo qui quello che il Procuratore Generale della California ha sottolineato alcuni anni fa in un suo rapporto: il rischio elevato che la presenza di un’arma da fuoco in una casa "problematica" porti a un incidente "fatale". Egitto: costruite 11 nuove carceri in tre anni Nova, 15 giugno 2016 Le autorità egiziane hanno annunciato il completamento dei lavori di costruzione del nuovo carcere di al Qaliubia, a nord del Cairo. Si tratta dell’undicesimo nuovo carcere costruito nel paese negli ultimi tre anni. Il ministero dell’Interno egiziano ha emesso un decreto che annuncia l’apertura a breve del carcere centrale della zona industriale della città di Obour, nella provincia di al Qaliubia. A partire da luglio 2013 il ministero ha già realizzato altre dieci carceri, tra cui il carcere di al Minya, città che ospita un secondo carcere di massima sicurezza, un centro di detenzione a Giza, a sud-ovest del Cairo, quello di al Nahda al Cairo, il carcere 15 maggio, a sud della capitale, il carcere di Asiut, al centro del paese, e il nuovo carcere centrale al Bahira. Secondo i dati forniti dalle Organizzazioni non governative egiziane, esistono nel paese 40 carceri e 382 centri di detenzione, presenti nei commissariati di polizia sparsi sul territorio nazionale, oltre ad una serie di carceri segrete presenti nelle caserme dell’esercito.