Prelievo del Dna per arrestati e detenuti, legge entrata in vigore nel silenzio totale di Gianluca Amadori Il Gazzettino, 14 giugno 2016 Venerdì 10 giugno è entrata in vigore, nel silenzio più totale, la legge 85 del 2009 che prevede il prelievo obbligatorio, anche coattivo, del Dna di tutti i detenuti e degli arrestati per delitti non colposi, obbligo introdotto con l’obiettivo di realizzare una banca dati nazionale, principalmente nell’ottica antiterrorismo (ma non solo). I molti anni trascorsi dall’approvazione della norma sono serviti per stendere i regolamenti, ma anche per acquisire il parere del Garante per la Privacy, del Comitato nazionale per la Biosicurezza e del Consiglio di Stato. Si tratta di una novità importante, in quanto metterà a disposizione degli investigatori uno strumento potentissimo per la soluzione di casi criminali. Ma il tema è molto delicato, in quanto riguarda aspetti particolarmente "sensibili" come il i dati genetici di ciascuno. Fino ad ora i prelievi, e le successive analisi, potevano essere effettuate unicamente nel corso di indagini penali, su disposizione della magistratura. Ora la legge autorizza una mappatura generalizzata, con conseguente creazione di un archivio nazionale. Ad occuparsi dei prelievi è stato designato il personale della polizia penitenziaria, ma se ne potranno occupare anche le forze dell’ordine. Ad operare dovranno essere sempre in due, infilando una specie di "leccalecca" in bocca al detenuto o alla persona arrestata. I tamponi dovranno poi essere conservati con precise modalità per garantire la correttezza del dato raccolto. L’obbligo di prelievo del Dna riguarda tutti coloro i quali stanno scontando pene definitive, ma anche i semplici indagati ai quali è stata applicata una misura cautelare, oppure il cui arresto sia stato convalidato, anche se con successiva remissione in libertà. Ciò pone problemi operativi non da poco: ad esempio, un indagato per cui il giudice abbia disposto la scarcerazione in attesa del processo per direttissima (o subito dopo la condanna con sospensione della pena) dovrà essere condotto per il prelievo in carcere, dove sarà necessario realizzare una struttura sempre disponibile. Salvo ipotizzare di poter trattenere per chissà quanto una persona di fatto libera. Sono esclusi dall’obbligo di prelievo del Dna le persone coinvolte in delitti colposi, oppure nei reati tipici dei "colletti" bianchi, primi fra tutti quelli quelli tributari o fiscali. La cancellazione dei profili genetici dalla banca dati nazionali è prevista in caso di assoluzione, e comunque trascorsi 30 anni, o 40 anni nel caso in cui il condannato sia recidivo. Carceri al collasso: 8.353 i detenuti senza posto di Giampiero Calapà Il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2016 Il ministero ne dichiara la metà. Il sovraffollamento tocca 41.069 persone. I dati reali del sovraffollamento nelle carceri italiane e quelli ufficiali forniti dal Dap (Dipartimento di amministrazione penitenziaria) non corrispondono e i detenuti vanno incontro a un’altra estate in condizioni disumane. Il numero delle persone coinvolte nel sovraffollamento carcerario fa paura: 41.069. A denunciarlo è stato il sindacato autonomo Sappe, disertando martedì scorso la festa della polizia penitenziaria a cui hanno partecipato, invece, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il guardasigilli Andrea Orlando. "Per la penitenziaria non c’è nulla da festeggiare: la situazione nelle carceri sta tornando a livelli allarmanti", ha spiegato il segretario del Sappe Donato Capece. Il vecchio gioco delle tre carte - Una fonte qualificata riferisce al Fatto: "Ha ragione il Sappe, i dati ufficiali del Dipartimento, e quindi del ministero della Giustizia, sono sbagliati. Ma per un semplice motivo: è il vecchio gioco delle tre carte". In Italia, dati aggiornati al 31 maggio 2016, i detenuti sono 53.873 su 49.697 posti. Apparentemente il sovraffollamento riguarderebbe 4.176 persone. Contrariamente a questo dato, fatto proprio dal Dap, sono più del doppio i detenuti "senza posto", segnala il Sappe, esattamente 8.353. "La ragione è semplice: il dato non può esser spalmato a livello nazione - spiega la fonte - perché se un carcere con 100 posti detentivi ospita 150 detenuti, abbiamo 50 detenuti in più. Se poi abbiamo un altro carcere con 70 posti detentivi che ospita 60 detenuti, i 50 del primo rimangono comunque in più, non si possono mica compensare: 8.353 è quindi il numero dei detenuti che, facendo una verifica carcere per carcere, sono effettivamente in condizione di sovraffollamento". Situazione esplosiva - Inoltre "i detenuti che patiscono il sovraffollamento non sono soltanto gli 8.353, ma tutti quelli che con quegli 8.353 hanno a che fare, perché nelle carceri interessate dal problema anche loro devono stare molto più stretti". Così si arriva al numero da cui siamo partiti, quello dei detenuti coinvolti nel sovraffollamento: 41.069, quasi il 75% dell’intera popolazione carceraria. Su 193 carceri sono soltanto 74 quelle che non registrano la presenza, al momento, di detenuti in eccesso, quindi Carceri al collasso: 8.353 i detenuti senza posto Il ministero ne dichiara la metà. Il sovraffollamento tocca 41.069 persone 119 case circondariali vivono quotidianamente una situazione esplosiva. Il record negativo di Napoli Poggioreale - I gironi infernali per eccellenza sono quelli del brigadiere Pasquale Cafiero e di don Raffaè resi immortali da Fabrizio De André nel 1990. Infatti, è proprio il carcere di Poggioreale a Napoli a classificarsi primo nella terribile graduatoria con 406 detenuti in eccesso: sono 2.046 gli "ospiti" della struttura, a fronte di 1.640 posti. Segue il carcere di Opera, a Milano, con 360 detenuti in più, per un totale di 1.265 su 905 posti disponibili nelle celle. Per il terzo posto ritorniamo a Napoli, alla casa circondariale di Secondigliano: 1.373 detenuti in 1.021 posti, quindi 352 persone più di quante dovrebbero essercene. Numeri da capogiro anche in pieno centro di Roma, perché a Regina Coeli ci sono 624 posti abitati da 889 persone, quindi 265 oltre il limite. Milano San Vittore ne registra 261 in più (1.011 su 750 posti), Lecce 250 (874 su 624), e via così fino all’unico detenuto in più di Bari, Empoli, Palmi e Verbania. Detenuti spostati negli ex Opg, ma i pazienti sono ancora lì di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 giugno 2016 La "promiscuità" permane in 3 ex ospedali psichiatrici riconvertiti in penitenziari comuni. Le carceri, alcune carceri, continuano ad essere sovraffollate: per fronteggiare la situazione il ministero della Giustizia ha spostato centinaia di detenuti negli ex Opg, riconvertiti nel frattempo in istituti penitenziari. Ma c’è un problema: gli ex Opg in questione ancora ospitano illegalmente alcuni pazienti che dovrebbero essere trasferiti - come prevede la legge - nelle strutture residenziali sanitarie (Rems). Secondo gli ultimi dati messi a disposizione dal dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ad oggi risultano 53.873 detenuti presenti a fronte di una capienza regolamentare di 49.697 posti. Ciò vuol dire che risulta un sovraffollamento di quasi 5.000 detenuti in più, senza considerare che come spazi disponibili vengono tenuti nel conteggio anche celle attualmente inagibili e ambienti non detentivi, come la palestra o le sale colloquio. La radicale Rita Bernardini, sempre in prima linea sulle questioni legate al carcere, ha inviato al Dubbio una rielaborazione dei dati: emerge che ben 71 istituti penitenziari subiscono un sovraffollamento che varia dal 187,30 per cento (il carcere di Brescia primo in classifica) al 120 per cento. "La percentuale - ribadisce Bernardini - in realtà è molto più ampia perché sono comprese nella conta dei posti regolamentari non solo gli ambienti non detentivi, ma anche le 4000 sezioni dichiarate inagibili da una circolare del Dap". E dai dati emerge appunto che 316 detenuti sono stati distribuiti in 4 ex opg. Solo uno di questi - quello di Reggio Emilia - risulta completamente libero dai malati psichiatrici, mentre nei rimanenti ancora vi sono rinchiusi illegalmente pazienti con patologie psichiatriche. È una convivenza forzata - anche se in sezioni diverse - quella tra i detenuti e le persone con patologie del comportamento. I numeri messi a disposizione dal Dap e aggiornati al 31 maggio sono questi: 54 detenuti nell’ex Opg di Aversa, 177 detenuti in quello di Barcellona Pozzo di Gotto, 36 detenuti in quello di Montelupo Fiorentino e poi 82 detenuti - in questo caso appunto senza pazienti - trattenuti nell’Opg di Reggio Emilia. Sui numeri peraltro c’è una precisazione, che rettifica quanto riportato dal sito giustizia. it, da parte del vice capo dell’Amministrazione penitenziaria, Massimo De Pascalis. Il quale ha inviato dei dati aggiornati proprio a Rita Bernardini: vi si rileva che l’ex Opg di Aversa è definitivamente chiuso e i malati psichiatrici ancora ristretti nei restanti Opg sono 53. Franco Corleone, il commissario straordinario per vigilare sull’attuazione della legge che prevede la chiusura definitiva degli Opg, raggiunto dal Dubbio, spiega che in realtà, di reclusi per ragioni sanitarie, ne rimarrebbero ancora 58, giacché in quello di Aversa risultano essercene ancora 5 da trasferire nelle Rems. Corleone ha comunque assicurato che entro questa settimana i pazienti di Aversa verranno definitivamente trasferiti, ed entro agosto - ci assicura - gli ex Opg verranno definitivamente liberati dai pazienti. Per adesso i tre ex Opg ricordati - amministrativamente tutti riconvertiti in carcere ordinario - ospitano sia i detenuti che i pazienti. L’Opg di Montelupo ritrasformato in penitenziario è un caso emblematico. Nel 2015 il presidente della regione Toscana Enrico Rossi aveva annunciato di aver presentato al ministero un progetto innovativo per il superamento degli Opg, che è stato approvato e ritenuto effettivamente all’avanguardia: prevedeva uno stanziamento di 12 milioni di euro per la sua attuazione. Secondo Rossi si trattava di una decisione storica che cambiava una situazione "pietrificata" dal 1886, quando la struttura venne adibita a manicomio criminale, e segnata dal passaggio a ospedale psichiatrico giudiziario nel 1975. "Il nostro impegno è chiaro - aveva spiegato in maniera trionfale Rossi - perché chiuderemo l’Opg entro la primavera 2015, lavoreremo perché la progettualità sul futuro della Villa sia in capo al Comune e avvieremo da subito il percorso affinché anche la struttura dell’Ambrogiana venga riconosciuta dall’Unesco patrimonio dell’umanità". E invece oggi scopriamo che Montelupo Fiorentino non si è ancora scrollato del tutto di dosso il proprio triste passato. Sempre a quanto dice Franco Corleone, poi, le attuali Rems sono poche e il numero di malati psichiatrici che sono attualmente in grado di ospitare non basta a coprire il fabbisogno del circuito penale. In poche parole non si è fatto in tempo a istituire le nuove residenze che già si palesa il rischio di "sovrappopolamento". Un rischio dovuto anche al fatto che i magistrati emettono troppo spesso dei provvedimenti per una misura di sicurezza nella Rems e per questo motivo - ci spiega sempre Franco Corleone - risultano ad oggi 196 persone in attesa di essere ricoverate nelle nuove strutture. Il commissario straordinario ha comunque proposto un intervento legislativo - accolto con favore dal ministero della Giustizia - che faccia ricoverare nelle Rems solo i condannati definitivi. Nel frattempo il comitato "stop-Opg" ha pubblicato un vademecum per chi è ancora internato negli Opg o in una Rems per favorire misure non detentive e prevenire internamenti. Chi è ospite in una Rems deve verificare se è stato presentato il Programma terapeutico riabilitativo individuale (Ptri): che la norma obbliga a produrre e inviare, entro 45 giorni dall’ingresso, al magistrato e al ministero della Salute. Il Ptri è a cura della Rems con il concorso dell’Asl competente e dell’Uepe, e deve essere finalizzato a soluzioni diverse dalla Rems. Inoltre il paziente deve accertarsi are che sia stato rispettato il principio di territorialità: nell’assegnazione alla Rems deve essere rispettato il principio di assegnazione alla regione di provenienza dell’internato, così da agevolare i rapporti con la famiglia e la presa in carico delle Asl. Ma non basta: il vademecum ricorda anche di verificare se sono previste uscite, attività esterne, ingresso di associazioni e operatori per lo svolgimento delle attività, se la struttura è connotata da caratteristiche "custodialiste" (sbarre, limitazioni nel ricevere visite, telefonare, ecc.). La cosa più importante - spiega il vademecum di "Stop Opg" - è sapere che non è un ergastolo: esiste il termine massimo delle misure di sicurezza. Il rischio di un "ergastolo bianco" però, nei fatti, non è ancora del tutto scongiurato. Così come è avvenuto negli ex Opg, c’è il pericolo di un mancato percorso ben definito, sottoposto a verifiche. Le Rems sono nate anche per mirare al reinserimento, ma perché sia effettivamente assicurato, nelle nuove strutture andrà garantita proprio quell’attenzione al principio di umanità che nell’Opg non si è quasi mai vista. Ospedali psichiatrici giudiziari. il pasticcio della finta chiusura di Claudia Osmetti Libero, 14 giugno 2016 Per legge dovevano scomparire nel 2015: dopo un anno tre su sei sono ancora operativi. 158 pazienti non sanno dove andare: i posti nelle nuove strutture (Rems) scarseggiano. Quando si dice una "chiusura all’italiana". Parliamo degli Opg, gli Ospedali psichiatrici giudiziari. Quelle strutture in cui fino a poco fa venivano rinchiusi i condannati ritenuti infermi di mente. Ma venivano o vengono? In effetti, secondo le disposizioni di legge, avrebbero dovuto serrare il cancello d’entrata ad aprile 2015. Eppure a distanza di più di un anno la metà è ancora aperta e, su sei istituti, tre ospitano ancora internati. Si tratta delle strutture di Montelupo Fiorentino, in Toscana, dove sono presenti 26 malati psichici; di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), che con i suoi 27 "confinati" detiene a oggi il maggior numero di persone mantenute in questa (assurda) situazione; e di Aversa (Caserta), dove le cinque persone internate stanno lasciando la struttura in questi giorni. Al posto di quei "luoghi di estremo orrore" - li definì così, neanche due anni fa, l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - il ministero della Giustizia ha disposto la nascita delle Rems, Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. In realtà ne sono sorte appena 23, alcune possono ospitare soltanto due persone alla volta, ma gli addetti ai lavori assicurano che nei prossimi mesi apriranno i battenti altre sei strutture. E a pieno regime, salvo imprevisti, dovrebbero diventare 30. La conta del totale degli ospiti, a fine maggio, si assestava a 331 persone, più le 180 affidate a Castiglione delle Stiverie (Mantova), che però è un capitolo a parte. Il problema, manco a dirlo, è la corsa ai posti. Che scarseggiano. Tanto per farsi un’idea: il mese scorso, dal tribunale di Milano, sono arrivate quattro richieste di inserimento in appena due settimane. E i conti sono di quelli che non tornano: a fine maggio, infatti, erano ben 195 le persone in attesa di mettere piede in una Rems, ma gli oltre 500 posti (che quando la riforma sarà operativa a 360 gradi saliranno a 600) sono già tutti occupati. Insomma: tra Regioni inadempienti - sei sono state commissariate perché non hanno previsto fin da subito l’adozione della legge 81/2014, quella che per l’appunto istituiva le Rems - e pubblici ministeri con la richiesta di misure di custodia forse un po’ troppo facile, l’effettiva chiusura degli Opg è una strada ancora in salita. Risultato: allo stato attuale, 58 persone con problemi mentali e qualche guaio con la giustizia ancora non hanno un letto nelle strutture previste dalla normativa nazionale. E non è un caso che Franco Corleone, ex sottosegretario alla Giustizia, in un’intervista su L’Espresso di inizio giugno, abbia ammesso senza troppi giri di parole che "è urgente muoversi perché già così si rischia il collasso". Una preoccupazione reale: un recente studio dell’agenzia regionale della Sanità di Firenze e dintorni ha stabilito che, sugli oltre 16mila carcerati nelle prigioni del centro Italia, oltre il 40% è affetto da almeno una patologia psichiatrica. Caso diverso, si diceva, è quello di Castiglione delle Stìviere - famoso anche per essere l’unico Opg con una sezione femminile, tanto che ha già ospitato molte protagoniste di eclatanti casi di cronaca - che almeno nei primi mesi di questa riforma rimasta sulla carta ha evitato l’implosione dell’intero sistema. Con i suoi circa 300 operatori, scriveva il Corriere della Sera qualche settimana fa, è praticamente diventato il catalizzatore di tutti i malati psichiatrici che hanno a che fare con la giustizia dello Stivale. Solo lì, ad aprile di quest’anno, veniva curata quasi la metà degli internati nelle Rems di tutto il Paese - costo medio di un paziente: 40mila euro all’anno. Al punto che anche la Regione Lombardia ha provato a metterci una pezza, firmando una proposta d’intesa con la struttura che chiedeva l’istituzione di una vera e propria "lista d’attesa" da far recapitare a giudici e togati, che con sempre maggiore insistenza chiedono un posto per le misure di sicurezza. Senza contare quelle provvisorie, che non sarebbero nemmeno previste dalla legge 81 visto che le Rems sono considerate, almeno ufficialmente, una extrema-ratio. "In quasi tutte le strutture penitenziarie italiane sono in aumento i casi psichiatrici" commenta Rita Bernardini, presidente d’onore di Nessuno Tocchi Caino, l’associazione del Partito Radicale che dal 1993 si batte per l’abolizione della pena di morte nel mondo: "In moltissime carceri, tra l’altro, sono a tutt’oggi presenti i cosiddetti "repartini psichiatrici". Il rischio concreto è che molte persone con disturbi mentali finiscano direttamente dietro le sbarre, che non è certo l’ambiente migliore per dar loro una mano". Appunto. "Quello che pensiamo come radicali - continua Bernardini, - è che sia necessario rafforzare le risorse per i presidi di salute mentale sul territorio, in modo da prevenire il più possibile eventuali situazioni di pericolo". Perché ci vuole un’amnistia di Paolo Borgna La Stampa, 14 giugno 2016 L’obbligatorietà dell’azione penale non è, di fatto, mai esistita. Certo, esiste come fine cui tendere. Come principio cui ispirarsi. È bene che esista - diceva il grande avvocato Vittorio Chiusano - come "usbergo per il pubblico ministero". Perché anche il pubblico ministero pavido, di fronte a un potente che cerchi di impedire qualche indagine scomoda, potrà sempre rispondere: "Lo faccio perché la Legge me lo impone". Non sarà eroico. Ma, poiché non si può pretendere che tutti i magistrati siano eroi, la soluzione non è disprezzabile. Per questo il principio dell’obbligatorietà, sancito nell’articolo 112 della Costituzione, va mantenuto. Del resto, se pensiamo agli ultimi decenni della Repubblica e alle grandi inchieste in materia di stragi, servizi deviati e corruzione politica, si deve convenire che, senza il presidio dell’azione penale obbligatoria, cui è collegata l’indipendenza del pubblico ministero dal potere politico, noi avremmo un Paese con meno verità sulla propria storia, sui propri governanti, su se stesso. Ciò però non ci consente di ignorare che, nella quotidianità, la pretesa di mettere in moto ogni denuncia e di portarla a giudizio, è una pura illusione. Un’illusione che, fino al 1992, si poteva far finta di coltivare grazie alle amnistie che, ogni tre o quattro anni, ripulivano gli armadi dei magistrati da pile di fascicoli per reati minori. La scelta dei reati da cancellare era, diremmo oggi, una "scelta di priorità" che aveva un sano pregio: di essere esercitata dal Legislatore. Nel 1992, riformando l’articolo 79 della Costituzione, si previde che, per concedere un’amnistia, sia necessaria la maggioranza dei due terzi del Parlamento. E così, essendo tale maggioranza politicamente irraggiungibile, non vi son più state amnistie. Ma non è certo migliorata la capacità del sistema giudiziario di far fronte alla valanga di fascicoli che - a causa di una litigiosità sempre crescente e di una "panpenalizzazione" che da decenni caratterizza il nostro sistema - ogni giorno si abbatte sulle Procure. Anzi, la situazione è peggiorata, per il cronico mancato rinnovo del personale amministrativo (basti pensare che l’ultimo concorso per cancellieri è del 1998!). Accade così che migliaia di fascicoli, già definiti dai pubblici ministeri e pronti per essere inviati al giudice, rimangano fermi anni, in attesa di una notifica. La conseguenza di questa nuova situazione è l’ingolfamento del sistema, con l’allungamento impressionante dei tempi del processo e l’estinzione per prescrizione di decine di migliaia di reati: non solo quelli "bagattellari", che un tempo cadevano sotto il colpo di spugna di periodiche amnistie, ma anche delitti gravi, la cui cancellazione costituisce un’offesa inaccettabile per le vittime. Per attenuare questo disastro, i Procuratori della Repubblica sono stati costretti a esercitare, nella trattazione dei fascicoli, una sorta di "triage" giudiziario: delle "scelte di priorità" che tentavano di ancorarsi a parametri di gravità del fatto rintracciabili nei codici ma che, comunque, lasciavano molti scontenti ed esponevano i pubblici ministeri all’accusa di esercitare una "discrezionalità di fatto" non prevista dalla Legge. A partire dallo scorso anno, questa situazione è in parte cambiata, grazie a due riforme. Infatti, nel gennaio 2016, sono stati depenalizzati vari reati minori (per alcuni dei quali è ora prevista una sanzione amministrativa). E prima ancora, una legge del marzo 2015, ha previsto la possibilità che, su richiesta del pubblico ministero, il giudice possa escludere la punibilità di alcuni fatti che, pur costituendo formalmente reato, siano "particolarmente tenui". Una tenuità che va verificata in concreto, tenendo conto della lievità del danno, delle modalità e della non abitualità della condotta, con una scelta di buon senso, da praticare caso per caso. Son due riforme importanti, destinate a produrre nuova efficienza: lo sfoltimento di tanti processi inutili consentirà ai magistrati di procedere più celermente per i reati più gravi. Ma rimane un problema, che viene dal passato: è l’eredità del vecchio arretrato, che rischia di soffocare in culla anche le nuove riforme. Se i magistrati sono costretti a tentar di smaltire i vecchi fascicoli, che riguardano fatti minori, rischiano di far invecchiare anche i processi nuovi. Si trovano nella situazione di quella famiglia che, acquistando ogni giorno del pane fresco, si ostina a voler consumare il pane secco dei giorni precedenti. Per questo, un’amnistia che, con scelta oculata del Parlamento, cancelli i reati non gravi, commessi ormai quattro o cinque anni fa (e già vicini alla prescrizione) potrebbe fungere da volano e riavviare la macchina ingolfata. Senza questa sferzata, rischiamo di dover continuare a masticare il pane secco, vedendo rinsecchire quello fresco. Abolizione dell’Appello. Il Duce non ci riuscì. Ora ci prova Caselli di Giorgio Spangher* Il Dubbio, 14 giugno 2016 Non è certo un mistero: i magistrati non amano le impugnazioni ed in particolare l’appello. Le ragioni sono diverse. I gravami sottendono inevitabilmente una critica alla decisione. Le critiche sono difficili da accettare. L’appello, poi, mette nelle mani delle parti il processo. La difesa delimita i poteri di cognizione e di decisione del giudice. L’iniziativa delle parti determina la sospensione degli effetti della decisione, ne rinvia l’esecuzione, con tutte le sue implicazioni. Per queste ragioni il fascismo nel varare il codice Rocco nel 1930 tentò di contenere il ricorso al giudizio di secondo grado. Non ci riuscì, dovendo riconoscere che appartiene alla cultura giuridica del nostro Paese. Per circoscrivere questa situazione la magistratura usa vari mezzi: inammissibilità delle impugnazioni, vizi formali, decadenze, filtri processuali, oneri a carico delle parti sia di allegazione sia di dimostrazione delle ragioni critiche. A volte, il ragionamento si fa più sottile: incompatibilità del modello processuale accusatorio, esigenze di efficienza del sistema, durata ragionevole del processo. Si tratta, al contrario, di qualcosa di insopprimibile, perché legate al senso profondo della giustizia, non potendosi escludere che la sentenza di primo grado sia frutto di errori o sia viziata da invalidità. Del resto, l’elevato numero di decisioni riformate lo conferma. Non era mai capitato di leggere - contro il giudizio d’appello - quanto sostenuto dal dott. Caselli, sul Fatto Quotidiano. Al di là di un velenoso riferimento a esigenze corporative (dei magistrati?, degli avvocati?), comunque inopportune in un dibattito che abbia un minimo di scientificità, si sostiene che mancando il personale amministrativo, piuttosto che fare nuove assunzioni sarebbe meglio eliminare l’appello. Argomentazioni, così grossolane, pur provenienti da una personalità che ha attraversato - significativamente - la vita giudiziaria - e non solo - di questo Paese sono atti stupefacenti da non poter essere contestate con argomentazioni di diritto, di natura costituzionale e deducibili da disposizioni sovranazionali. Inutili i riferimenti alle esperienze di altri Paesi, per la difficoltà della comparazione. Basterebbe ricordare la "levata di scudi" della Magistratura, contro la compressione dell’appello del p. m. introdotto dalla legge Pecorella. Ciò che non riuscì al fascismo, non riuscirà neppure oggi. Battuta per battuta, perché non può che essere così; mancano gli infermieri; chiudiamo gli ospedali! *Giorgio Spangher, triestino, 72 anni. Ha moltissimi titoli accademici. Tra gli altri, titolare della cattedra di Procedura penale a Sassari, a Trieste e poi alla Sapienza di Roma dove è stato anche preside della facoltà di Giurisprudenza. Ha collaborato con diverse commissioni governative ed è stato membro del Csm. Perché l’appello non va abolito di Armando Spataro* Il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2016 Nell’articolo a sua firma pubblicato domenica, Gian Carlo Caselli, reiterando una convinzione in qualche modo diffusa, auspica l’abolizione del giudizio di appello per velocizzare la giustizia penale ed evitare che la "casa crolli". Non sono d’accordo: in realtà, non si tratterebbe affatto di una "decisione coraggiosa" come egli la definisce, ma di una scelta che andrebbe a ledere vistosamente il sistema di tutela dei diritti di tutti i soggetti coinvolti nel processo, parti offese incluse. L’appello va semmai reso più agile, ma non certo cancellato. Il nostro codice prevede tre gradi di giudizio: nel secondo - l’appello, appunto - tutto ciò che è stato valutato dal giudice di primo grado può essere rivisto nella misura in cui è stato oggetto dei motivi di impugnazione. E questa - semplificando al massimo - può essere proposta dall’imputato condannato (anche per ottenere una pena più lieve) e/o dal pubblico ministero contro una sentenza di assoluzione (ma anche per chiedere una pena più alta). Dopo il giudizio di appello (ma talvolta anche dopo quello di primo grado), si può ricorrere in Cassazione solo per specifiche ragioni giuridiche, riconducibili alla ipotesi di violazione di legge (ad es., riguardanti la correttezza della motivazione della sentenza oggetto del ricorso). Tutto troppo lungo e complicato? Nient’affatto. Piuttosto tutto rispondente alla nostra cultura giuridica che non va dispersa: la giustizia è amministrata da uomini e donne, e non è dunque infallibile. Affidarsi a un solo grado di giudizio, significa escludere che si possa rimediare a un possibile errore, anche se non è certo che l’ultima sentenza sia quella aderente alla verità storica dei fatti: lo è solo per convenzione logica e giuridica, in quanto frutto delle valutazioni di più giudici, il che indiscutibilmente diminuisce i margini di errore. E non sono pochi - va detto - quelli cui rimediano le Corti d’appello: per questo io stesso, pubblico ministero, credo nella necessità che una condanna possa essere poi valutata da altri giudici, cosi come nessun imputato o parte offesa accetterebbe di buon grado, in nome della velocità, di giocarsi tutto in "un colpo solo" come ne "Il Cacciatore" di Michael Cimino. Ricordiamoci anche della legge Pecorella del 2006, poi dichiarata incostituzionale: in tanti la criticammo non solo perché aboliva l’appello del pm, lasciando in piedi quello del difensore, ma proprio perché comprometteva l’equilibrio del nostro sistema dei diritti. Gli amanti del "colpo solo", peraltro, dimenticano altre questioni: l’art. 111 della Costituzione prevede che contro le sentenze si possa ricorrere in Cassazione solo per "violazione di legge", dunque non per questioni di merito che rimarrebbero assolutamente senza una seconda valutazione. E del resto, se si dilatassero le possibilità di ricorso alla Corte di Cassazione, parzialmente la si trasformerebbe in giudice di merito, ingolfandola e rendendone ingestibile l’attività. Non sto affatto dicendo, però, che, al di là delle assunzioni del personale amministrativo che manca, nulla si possa fare per migliorare la situazione. Sono sempre stato d’accordo, ad es., con il pensiero di Guido Galli che, da accademico, era favorevole alla abolizione del divieto di reformatio in peius nel caso di appello del solo imputato e credo anche che bloccare il decorso della prescrizione, almeno dopo la sentenza di primo grado, avrebbe un effetto deflattivo su un consistente numero di appelli. Né possiamo dimenticare che, nel disegno di legge di riforma del codice di procedura penale ora fermo in Senato, sono previste varie misure deflattive rispetto alle possibilità di impugnazione e alle relative procedure: se ne può discutere per migliorarle e renderle realmente efficaci. Ma per favore evitiamo formule pur se certamente d’effetto comunicativo ("Abolire l’appello per rendere la giustizia più rapida") e soprattutto non rinunciamo nemmeno ad un’oncia della nostra cultura giuridica. Altrimenti rischiamo di replicare la logica - che non è certo quella di Caselli - di chi afferma che si governa meglio e più velocemente con un solo ramo del Parlamento o che i problemi delle imprese si risolvono agevolando i licenziamenti. Abbiamo bisogno di una giustizia più veloce, questo è sicuro, ma non certo meno giusta, come sarebbe senza il grado di appello. * Procuratore Capo di Torino Non pretendo di insegnare il diritto ad altri, Semplicemente ribadisco che la casa della giustizia brucia, per cui occorrono interventi radicali e coraggiosi, praticabili a breve e con costi sostenibili. Per garantire meglio i diritti di tutti con un processo rapido e certo. Serve a poco procedere a spizzichi e bocconi. In ogni caso, dei Paesi con rito accusatorio il nostro è fra i pochissimi con due gradi di giudizio nel merito (anche dì più se nel conteggio sì comprendono gip, Riesame, rinvii vari ecc.). Non è una formula a effetto. È un fatto. Gian Carlo Caselli Csm e nomine, la fatwa di Davigo anticipa di pochi mesi la riforma di Errico Novi Il Dubbio, 14 giugno 2016 Sarà il ddl del governo a ridurre il peso delle correnti, finite nel mirino del capo dell’Anm. L’idillio tra Davigo e le correnti della magistratura è finito lì, forse per sempre, in quell’aula magna al Palazzo di giustizia di Milano, dove mercoledì scorso il presidente dell’Anm ha lanciato la fatwa contro le nomine del Consiglio superiore. "È al buio che avvengono le porcherie e i baratti" è il memorabile anatema, solo parzialmente smentito, che rischia di mettere in discussione la "presidenza lunga" dell’ex pm di Mani pulite. Di rado il Csm produce comunicati impersonali e una di queste poche occasioni è arrivata il giorno dopo, con la nota in cui Palazzo dei Marescialli ha definito "gravi, scomposte e sorprendenti" le parole di Davigo. Eppure il peso delle correnti sulle nomine del Csm è un tema vero, che sarà affrontato nel giro di pochi mesi da un disegno di legge del ministro della Giustizia. Tra gli obiettivi di Andrea Orlando c’è quello di riformare il sistema per l’elezione dei togati al Consiglio superiore. Un intervento che potrebbe seguire più o meno fedelmente le tracce lasciate dalla commissione Scotti. E cioè l’introduzione di collegi più piccoli, nei quali sarebbe più semplice farsi strada anche per quei magistrati non organici ai principali gruppi della magistratura associata, con successivi ballottaggi che costringerebbero le correnti a seguire i candidati forti (oggi avviene il contrario). Un testo di Orlando ancora non esiste. Anche perché per uno scherzo del destino, nel pieno della polemica per l’attacco di Davigo, dovrà essere proprio la commissione Riforme di Palazzo dei Marescialli a esprimere per prima un giudizio sulla proposta del gruppo di studio presieduto da Luigi Scotti, con un’apposita delibera. Il guardasigilli attenderà intanto questa valutazione. A via Arenula non si esclude che le linee guida della riforma possano essere presentate da Orlando prima della pausa estiva. Improbabile che venga incardinato un testo vero e proprio, considerato anche che le commissioni Giustizia del Parlamento sono alle prese con la delicatissima riforma del processo penale. Ma certo non ci sono dubbi sulla necessità di agire. Non ne vengono neppure da una battuta fatta a riguardo da Matteo Renzi: "Riformare il Csm non è una priorità", disse il premier dopo lo choc dell’intervista (poi smentita) di Morosini al Foglio. In realtà ora come ora non c’è tempo di mettere in cottura anche la riforma elettorale dei magistrati. Ma dopo l’estate si procederà. E in questo in fondo Piercamillo Davigo rischia di dare una mano al governo. Quella sua frase sulle nomine del Csm che "non convergono sul candidato migliore" e che obbediscono invece alla prassi dell’"uno a te, uno a me e uno a lui, una cosa orribile...", quell’attacco al correntismo dei giudici firmato dal loro sindacalista, finirà per rendere inevitabile la riforma del Consiglio superiore. Oltretutto, la relazione Scotti è stata trasmessa non solo a Palazzo dei Marescialli ma anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che è anche presidente del Csm. E al Capo dello Stato, come al vicepresidente Giovanni Legnini, le frasi di Davigo non sono scivolate via come irrilevanti. Non che sia stato lui a scoprire la necessità di riequilibrare il potere dei gruppi, ma certo il suo ruolo di numero uno dell’Associazione magistrati, che proprio dalle correnti è formata, imprime un’inerzia fatale a tutta la vicenda Riciclaggio anche con una minima parte della condotta illegale in Italia di Sara Mecca Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2016 Corte di cassazione, Seconda sezione penale, sentenza 13 giugno 2016 n. 24401. Va riconosciuta la giurisdizione italiana per il reato di riciclaggio commesso in parte all’estero, quando nel territorio dello Stato si sia verificato anche solo un frammento della condotta che abbia oggettivo rilievo per la configurazione dell’illecito. Integra il reato, inoltre, il mero trasferimento di denaro di provenienza delittuosa da un conto corrente ad un altro, diversamente intestato ed acceso presso un altro istituto bancario. Ad affermare questi principi è la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24401 depositata ieri. Un imprenditore veniva indagato per il reato di riciclaggio per aver investito denaro proveniente da frode fiscale commessa da un terzo soggetto. Il Gip disponeva così il sequestro preventivo su beni mobili ed immobili riconducibili all’indagato e la misura era confermata dal Tribunale del riesame. La difesa ricorreva in Cassazione, contestando sia la competenza per territorio dell’autorità giudiziaria italiana, poiché in realtà il denaro sarebbe stato movimentato all’estero, sia il fumus del reato. In particolare era lamentata l’assenza di prova in ordine alla provenienza delittuosa della somma, frutto di un semplice prestito da parte di un terzo e confluito sul conto corrente dell’imprenditore indagato (regolarmente tracciabile). La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile. Circa l’asserita incompetenza dell’autorità italiana, i giudici hanno rilevato che il reato di riciclaggio si considera radicato in Italia qualora ricorrano più elementi sintomatici, indicativi della consumazione del reato anche solo in parte nel territorio italiano. La condotta delittuosa va infatti considerata in maniera unitaria, avendo riguardo alla complessiva attività di ripulitura del denaro. Nella specie, il riciclaggio del provento dell’asserita evasione fiscale era stato effettuato tramite una società di diritto inglese, facente capo però all’indagato, il quale impartiva direttive dal territorio italiano. Pertanto, era evidente che una parte della condotta si fosse verificata in Italia. Quanto al fumus del reato, la Corte evidenzia che era stato provato tramite intercettazioni che il denaro trasferito dal terzo all’indagato - e da questo successivamente investito in ulteriori operazioni - fosse di provenienza illecita (frode fiscale). La consistenza economica del trasferimento e l’assenza di qualunque rapporto contrattuale lecito sottostante provava poi la consapevolezza dell’indagato circa la provenienza illecita del denaro. A tal fine viene ricordato dalla sentenza che integra di per sé un autonomo atto di riciclaggio - essendo tale reato a forma libera ed a consumazione prolungata, attuabile anche con modalità frammentarie e progressive - il mero trasferimento di denaro di provenienza delittuosa da un conto corrente ad un altro diversamente intestato, ed acceso presso un’altra banca. L’indagato, destinatario dei bonifici e consapevole dell’illiceità dell’operazione, deve così ritenersi concorrente nell’attività di riciclaggio. Da qui la conferma del sequestro a suo carico. Accertamento giudiziale della condotta di collaborazione con la giustizia Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2016 Pena - Istituti penitenziari - Accertamento giudiziale della collaborazione ex art. 58 ter L. n. 354/1975 - Utile collaborazione come presupposto per la concessione dei benefici - Comportamenti valutabili dal giudice - Ratio legis dell’incentivazione alla collaborazione. Per l’accertamento giudiziale della condotta di collaborazione con la giustizia, di cui all’art. 58-ter della l. n. 354/1975, assumono rilievo non soltanto i comportamenti di collaborazione che ineriscono al delitto per cui è in esecuzione la custodia o la pena, ma anche gli apporti informativi che hanno consentito la repressione o prevenzione di condotte criminose diverse da esso, in coerenza con la "ratio legis" che ha inteso incentivare il fatto obiettivo della collaborazione. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 26 febbraio 2016 n. 7968. Pena - Istituti penitenziari - Accertamento da parte del giudice dell’utile collaborazione prestata ex art. 58 ter l. n. 354/1975 - Estensione a tutti i delitti collegati finalisticamente a quelli ostativi. Ai fini della concessione dei benefici penitenziari, l’accertamento della utile collaborazione previsto dall’art. 58-ter della l. n. 354/1975, non può essere limitato ai delitti ostativi a tale concessione, ma deve venire esteso a tutti i delitti che siano con questi finalisticamente collegati, in quanto l’unicità del reato continuato postula un giudizio globale sulla personalità del condannato e del suo concreto ravvedimento, con riferimento a tutti i fatti e le responsabilità oggetto del processo sfociato nella sentenza definitiva. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 16 ottobre 2014 n. 43391. Pena - Istituti penitenziari - Concessione dei benefici penitenziari - Accertamento dell’utile collaborazione - Giudizio globale sulla personalità del condannato e del suo concreto ravvedimento. Ai fini della concessione dei benefici penitenziari, l’accertamento dell’utile collaborazione previsto dall’art. 58 ter L. n. 354/1975 non può essere limitato ai delitti ostativi a tale concessione, ma deve venire esteso a tutti i delitti che siano con questi finalisticamente collegati, in quanto l’unicità del reato continuato postula un giudizio globale sulla personalità del condannato e del suo concreto ravvedimento, con riferimento a tutti i fatti e le responsabilità oggetto del processo sfociato nella sentenza definitiva. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 19 marzo 2014 n. 12949. Pena - Istituti penitenziari - Concessione di benefici penitenziari per utile collaborazione - Presupposti per la concessione dei benefici - Ratio legis art. 58 ter, l. 26 luglio 1975, n. 354. Ai fini della concessione dei benefici penitenziari l’utile collaborazione non può intendersi limitata ai delitti ostativi a tale concessione, ma è estesa a tutti i delitti che siano con questi finalisticamente collegati, sicché non è rispondente alla "ratio legis", alla quale sono sottesi un ravvedimento operoso e la volontà di emenda, ammettere l’accesso ai benefici in presenza di una collaborazione parziale da cui dovessero restare esclusi taluni delitti che, pur essendo estranei alla previsione dell’art. 4-bis L.n. 354/1975, costituiscono elementi di un medesimo piano operativo e forme attuative di criminalità organizzata. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 26 giugno 1997 n. 3176 Confisca, l’imposta evasa deve essere calcolata di Simona Gatti IL Sole 24 Ore, 14 giugno 2016 Sezione III penale - Sentenza 13 giugno 2016 n. 24430. In caso di evasione fiscale il giudice può disporre la confisca del profitto del reato, individuato nel risparmio di spesa, ma deve argomentare la determinazione del suo ammontare. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 24430 depositata ieri dalla terza sezione penale. Sulla base di questo principio i giudici della Suprema corte hanno annullato una sentenza emessa per dichiarazione fraudolenta con uso di fatture e documenti inesistenti perché carente dal punto di vista della motivazione. La pronuncia di condanna infatti non conteneva né lo sviluppo in termini aritmetici del calcolo del profitto, né i criteri adottati nella valutazione dello stesso. Il Gip in sostanza si era limitato a determinare il quantum "presumibilmente". La decisione impugnata dai ricorrenti è stata dunque annullata limitatamente alla parte relativa all’ammontare della disposta confisca e rinviata al tribunale perché ridefinisca e dettagli l’imposta evasa. Mutamenti architettonici dopo l’adozione delle recenti modalità di esecuzione della pena di Cesare Burdese (Architetto) Ristretti Orizzonti, 14 giugno 2016 Coerenza [co-e-rèn-za]. 2 fig. Stretto legame logico tra gli elementi del pensiero e tra questi e la pratica (da Grande Dizionario Hoepli Italiano). Premessa Anche a seguito della nota sentenza "pilota" della Corte Europea dei Diritti Umani (Sentenza Torreggiani e altri v/Italia 43517/09), il Governo italiano ha attivato, nel sistema penitenziario nazionale, una serie di provvedimenti di natura organizzativa e gestionale ed edilizia, in grado di determinare un radicale e indiscusso cambiamento nella quotidianità detentiva. La recente circolare n. 3663/6113 a firma dell’attuale Capo del Dipartimento dell’Amministrazione, avente per oggetto le modalità di esecuzione della pena, diventa utile riferimento per comprendere quel cambiamento. Inoltre, in virtù dei suoi contenuti chiarificatori, a vantaggio di una più certa definizione dell’esecuzione penale e del relativo fabbisogno spaziale, diventa possibile ipotizzare nuovi scenari architettonici per le nostre infrastrutture penitenziarie in essere ed in divenire. Essa infatti inserendosi nel percorso avviato in questi ultimi anni di definizione e innovazione delle modalità di esecuzione della pena e della custodia cautelare, tramite una serie di direttive, a più riprese emanate dalla Amministrazione centrale, fornisce, deve dirsi per la prima volta, un quadro interpretativo delle norme che delineano i concetti di trattamento penitenziario e rieducativo, in relazione alle concrete modalità di svolgimento della vita penitenziaria. In sintesi l’intero impianto riformatore si basa sulla corretta valutazione dei differenti livelli di pericolosità della popolazione detenuta, consentendo un graduale superamento del criterio di perimetrazione della vita penitenziaria all’interno della camera di pernottamento. L’intento è quello di pervenire ad una diversa gestione e utilizzazione degli spazi all’interno degli istituti, distinguendo tra cella destinata, di regola, al solo pernotto - e luoghi dove vanno concentrate le principali attività trattamentali (scuola, formazione, lavoro, tempo libero), i servizi (cortili passeggio, alimentazione, colloqui con gli operatori), così creando le condizioni perché il detenuto sia impegnato a trascorrere fuori dalla cella la maggior parte della giornata. Peraltro già l’art. 6 della Riforma Penitenziaria del 1975 definisce le celle come luogo di pernotto, intendendo che la vita del detenuto debba normalmente svolgersi al di fuori di esse. Dall’efficace individuazione di gruppi a diverso potenziale di aggressività e pericolosità dipende il tipo di allocazione, la diversa gestione e offerta trattamentale. Aspetti del cambiamento Aspetto saliente del cambiamento avviato nell’esecuzione della pena sono le nuove modalità di organizzazione dei reparti detentivi, riferite alla differenziazione dei detenuti e delle modalità di svolgimento della vita detentiva, funzionale al raggiungimento degli obiettivi di sicurezza, alla responsabilizzazione dei soggetti in stato di detenzione e all’incremento delle attività trattamentali necessarie per la concreta attuazione della finalità rieducativa della pena. Le modalità di organizzazione custodiale delle sezioni detentive introdotte vengono definite a "custodia aperta" e "custodia chiusa". Con esse si intendono quelle modalità di organizzazione custodiale delle sezioni detentive a partire dalla apertura della cella per almeno 8 ore nel corso della giornata. È criterio organizzativo ormai consolidato nel nostro sistema penitenziario, che ovviamente si ispira alle raccomandazioni europee, che il tempo minimo da trascorrere fuori dalle camere detentive sia pari almeno ad 8 ore giornaliere appunto, salva l’esistenza di particolari esigenze di sicurezza che comportino necessarie restrizioni, quali l’applicazione del regime di sorveglianza particolare, dell’isolamento, in caso di sussistenza di specifici rischi di evasione o turbativa della sicurezza dell’istituto, ecc. Nel caso della "custodia aperta", questo implica che essa debba prevedere necessariamente una permanenza all’esterno delle camere di pernottamento significativamente maggiore rispetto alla "custodia chiusa", soprattutto, il fatto che la quotidianità e i contenuti trattamentali debbano svolgersi all’esterno della sezione, in luoghi comuni appositamente strutturati. La differenziazione delle modalità custodiali però non può limitarsi alla semplice allocazione in un reparto piuttosto che in un altro, distinti esclusivamente per il numero di ore nelle quali è consentita la permanenza all’esterno della propria camera di pernottamento. La vera differenza deve essere creata nei contenuti dei modelli custodiali che vi vengono attuati, anche per dare un segno di un’apertura proporzionale al percorso trattamentale intrapreso. Gli ambiti dove i due modelli custodiali a "custodia aperta" e "custodia chiusa" si differenziano tra di loro sono elencati nell’allegato B Elementi di differenziazione tra la custodia aperta e chiusa della citata circolare. Essi riguardano il tempo massimo consecutivo di apertura della cella, l’accessibilità delle docce, l’accesso al lavoro, alle attività scolastico-formative, alle attività sportive, alle attività ricreative e culturali, il livello di libertà nella realizzazione della socialità, le attività autorganizzate sotto il coordinamento di operatori penitenziari o di volontari, il numero dei contatti con le famiglie, le modalità di movimentazione interna, il numero delle ore e le modalità di passeggio. Elementi comuni che si differenziano, a seconda del modello custodiale di riferimento, sono il tipo di vigilanza (indiretta per il primo e diretta per il secondo), le modalità di movimento (autonomo per il primo e con accompagnamento per il secondo), l’accesso al lavoro, alle attività consentite e ai passeggi (ammesse, in numero maggiore e libere per la prima e vietate alcune, in quantità limitata e in numero inferiore e con accompagnamento per il secondo). Secondo le modalità di "custodia aperta", dopo aver effettuato l’apertura mattinale e aver proceduto alle ordinarie verifiche, i detenuti dovranno essere autonomamente avviati, senza onere di accompagnamento, alle zone di accoglienza esterne alle sezioni ove, nel corso di tutta la giornata verranno impegnati in attività trattamentali e di intrattenimento previamente autorizzate. È infatti necessario che venga effettuato un programma ove risultino le attività in cui i detenuti sono impegnati giornalmente, così da conoscere in ogni momento la loro dislocazione all’interno dello spazio di libertà nel movimento. Tutte le camere detentive verranno chiuse durante gli orari in cui sono previste le opportunità trattamentali e riaperte all’atto del rientro, salvo esigenze di salute di uno o più dei ristretti. Nei reparti aperti e nei luoghi dedicati alle attività trattamentali il personale in servizio potrà attestarsi all’esterno delle sezioni e saranno attivate modalità e procedure di controllo indirette e variabili, senza la necessità di presidi stabili nei reparti e nei luoghi di pertinenza. Come noto tale modalità configura la "vigilanza dinamica", termine che ben rappresenta la scelta di non presidiare costantemente gruppi di persone adeguatamente selezionati. L’apprezzata responsabilità ed affidabilità e l’occupazione in attività svolte con altri operatori, sia penitenziari che di altri enti pubblici e privati, oltre che di volontari, consente di meglio utilizzare il personale di polizia coadiuvato da strumenti di controllo remoto. Rimane la possibilità di sostituire ì tradizionali presidi fissi, che verranno mantenuti in quei posti di servizio strategici in quanto considerati snodi di comunicazione e di controllo ineliminabili, o in fasce orarie più delicate, con pattuglie itineranti con il compito di svolgere le perquisizioni, l’immissione ai passeggi, operazioni di conta, le ispezioni. Per coloro i quali sono valutati al di sopra della soglia di pericolosità - e tra questi quanti inseriti nelle sezioni dedicate al circuito dell’alta sicurezza - è prevista l’allocazione nelle sezioni a "custodia chiusa", con modalità di controllo diretta da parte della Polizia penitenziaria. La tipologia "a custodia chiusa", pur prevedendo la possibilità di permanere fuori dalle camere di pernottamento per otto ore giornaliere (salvo specifiche esigenze di sicurezza), non consente di fatto attività trattamentali, ma anche di intrattenimento (attività sportiva e ricreativa) al di fuori delle sezioni, ovvero se non utilizzando i locali in genere di pertinenza alle sezioni e le aree di passeggio. In questo modo l’apertura viene ad assumere la connotazione di mezzo e non di fine.È ovvio che tutti coloro i quali, pur rientranti in tale fascia, potranno essere ammessi alla frequenza di attività trattamentali specifiche dovranno essere condotti nei luoghi e nelle strutture all’uopo dedicate, esterne alle sezioni detentive, riducendo in tal modo le presenze all’interno delle sezioni per una parte della giornata. All’interno della sezione a "custodia chiusa" è prevista l’attestazione del presidio del personale di polizia, che sarà coadiuvato da pattuglie che provvederanno alle incombenze di verifica ordinaria o all’intervento in caso di atti pregiudizievoli l’ordine e la sicurezza. Le sole camere detentive in uso ai soggetti ammessi alle attività dovranno essere chiuse. Criticità architettoniche Come già disposto dall’Amministrazione penitenziaria, risulta evidente la necessità di reperire e adeguare, all’interno degli istituti - peraltro disomogenei tra loro per epoche storiche di appartenenza e di impianto tipologico, spazi necessari per collocare le attività trattamentali destinate ai detenuti idonei ad essere inseriti nei reparti a "custodia aperta", così come a quelli ad essere inseriti nei reparti a "custodia chiusa". Analogamente si pone la necessità di ripensare l’organizzazione spaziale dei futuri istituti penitenziari, a partire dalla constatazione che gli schemi architettonici in uso non sono completamente adeguati alle nuove esigenze gestionali ed organizzative della popolazione detenuta. A tale proposito infatti le infrastrutture penitenzierie in funzione nel nostro Paese, prodotte ante riforma dell’Ordinamento del 1975, si caratterizzano per essere state concepite secondo logiche prevalentemente securitarie e contenitive, e con criteri architettonici che di fatto nulla hanno a che fare con le istanze trattamentali successivamente adottate nell’Ordinamento penitenziario. Quelle delle ultime generazioni, pur se normativamente concepite anche per la funzione trattamentale, nel complesso continuano a privilegiare una organizzazione spaziale frazionata e compartimentata, dove il luogo di vita per eccellenza rimane la cella nella sezione. Ma soprattutto per entrambe prevale il fatto che esse poco o nulla concedono ai bisogni esistenziali dell’utenza, identificata nei detenuti, nel personale di custodia, negli operatori penitenziari, nei visitatori, ecc. Bisogni che sono di tipo fisico/fisiologico e di carattere psicologico/relazionale, che nel carcere possono essere ricondotti al fatto di poter vivere, lavorare e permanere in un ambiente umanizzato, ovvero più confacente ai diritti della persona a vario titolo utilizzatrice. Le restrizioni delle stagioni del terrorismo e della criminalità organizzata in passato e la carenza cronica di risorse umane ed economiche destinate alle nostre carceri, hanno continuato e continuano a vanificare ogni sforzo intrapreso per mettere in sintonia l’edifico carcerario con il dettato costituzionale e normativo. I nostri Istituti penitenziari si presentano come la sommatoria di spazi fortemente compartimentati e frazionati (carceri nel carcere), preclusi al libero accesso dei detenuti e comunicanti tra loro attraverso corridoi chilometrici e tentacolari. I corridoi, spesso simili a strade, non sono concepiti come ambienti di vita e di socialità e sono per lo più i luoghi di lavoro del personale di custodia; di fatto sono marginalmente utilizzati dai detenuti, che in generale si muovono (o meglio sono movimentati) all’interno del carcere privi di ogni autonomia. All’interno del recinto gli ambienti relazionano visivamente in maniera assai ridotta con il loro esterno e per nulla fisicamente; la vita carceraria si sviluppa all’interno del contenitore edilizio in quanto gli spazi esterni svolgono per lo più la funzione indifferenziata di tessuto connettivo tra gli edifici. La cella e la sezione sono i veri luoghi della vita detentiva, che è spazialmente e temporalmente indifferenziata e che trascorre sotto il controllo diretto, più o meno costante, del personale di custodia, in condizioni di ozio e nello stato di infantilizzazione. Tornando alla ricaduta spaziale del modello gestionale da poco introdotto, quella che parrebbe essere una questione puramente di natura quantitativa - più spazi per le nuove necessità e nei nuovi progetti - a ben vedere si rivela qualcosa di più complesso. La questione infatti rimanda all’annoso problema mai risolto, più volte denunciato dai protagonisti del limitato dibattito nazionale sull’architettura penitenziaria, e cioè che le nostre infrastrutture penitenziarie sono arretrate rispetto alla norma e non sono state pensate per soddisfare fino in fondo i bisogni dei suoi utilizzatori. Bisogni di tipo fisico e fisiologico e di carattere psicologico-relazionale, il cui soddisfacimento può corrispondere in carcere al fatto di vivere, lavorare e permanere in un ambiente umanizzato, ovvero più confacente ai diritti della persona. Ecco perché le modificazioni del costruito esistente e di quello a venire, necessitano di un diverso atteggiamento nell’affrontare la questione, non più limitandosi all’applicazione burocratica della norma ma considerando e rispettando, nella fase progettuale, i termini di quei bisogni. Una ipotesi tipologica da adottare Il nuovo modello organizzativo dei reparti detentivi recentemente introdotto, fornisce lo spunto per abbozzare una serie di ipotesi spaziali per gli edifici da modificare e per quelli a venire. Il fatto che si tenda progressivamente a dare al detenuto più autonomia all’interno del recinto carcerario, per vivere la vita detentiva in maniera più articolata e varia, spazialmente e temporalmente, a partire dalla sezione detentiva, induce a pensare ad un nuovo mandato per l’architetto per elaborare degli elementi che oltrepassino i semplici bisogni di sicurezza e che producano nuove forme architettoniche. A questo riguardo, per chiarire i termini della questione, è utile fare riferimento alle conclusioni finali della ricerca sull’Architettura penitenziaria promossa nei primi anni 70 del secolo scorso dall’Unsdry, i cui concetti peraltro si riscontrano nelle realizzazioni recenti più progredite all’estero. (…) Per quanto riguarda lo schema generale dell’impianto architettonico di un carcere, è assodato che ogni qualvolta esso segua una linea radiale o a palo telegrafico, il suo requisito principale è riferito alla sorveglianza ed alla sicurezza. Ciò implica il fatto che più l’impianto si basa sul perfezionamento delle brevi distanze tra le sue differenti parti, e più la forma del blocco cellulare è identificabile come la parte principale dell’istituzione, più quest’ultima risponde alle esigenze di sicurezza; cosa che comporta sovente ulteriori sviluppi del trattamento in ragione della carenza di locali adeguati. Al contrario, ogni qualvolta l’impianto prende una forma più complessa (per esempio si sviluppa intorno una parte centrale o uno spazio centrale aperto, il cui modello non può essere semplificato in un piano lineare o radiale) ciò rappresenta una ricerca più avanzata di qualità dell’ambiente architettonico per i detenuti e le loro relazioni umane. In sintesi, più l’impianto è suddiviso in parti ridotte, pressoché separate ed autonome, più ciascuna parte è circondata da spazi aperti - con la presenza nel limite del possibile di verde - meno i detenuti restano chiusi nella loro cella senza possibilità di movimento: di conseguenza, nuove forme di trattamento basato su di un sistema di interazioni umane con la comunità possono prendere il posto in una istituzione composta di unità flessibili al di là del blocco cellulare tradizionale, semplice e isolato. Queste osservazioni rivelano che ciò che è valido per l’architettura moderna in generale e altrettanto vero per l’architettura penitenziaria: la ricerca per rispondere alla complessità dei bisogni sociali ed individuali della vita di oggi, rende ancora più complessa l’organizzazione delle costruzioni di cui lo spazio ed il volume possono essere raramente ridotti in schemi semplici ed elementari. Sulla base di queste affermazioni in linea generale, per quanto riguarda l’adeguamento dell’esistente, è possibile ipotizzare, nel limite dei vincoli strutturali presenti, di frazionare il complesso edilizio dei blocchi cellulari in una serie di unità residenziali autonome. Ciascuna di queste unità sarà composta da una zona ove sono collocate le celle per la notte e separatamente i locali per le attività domestiche e complementari dei detenuti. Correlata a ciascuna unità residenziale sarà realizzata, in sostituzione dei comuni cortili per i passeggi, un’area area esterna esclusiva, delimitata perimetralmente, con presenza di verde e attrezzature per attività fisiche. In tal senso una ipotesi può essere quella di utilizzare, dove esistenti e la configurazione architettonica del costruito lo consenta, oltre gli spazi esterni ed interni ai piedi dei blocchi cellulari anche i tetti piani degli stessi, ove organizzare i luoghi per le attività giornaliere dei detenuti al chiuso e all’aperto. Per quanto riguarda la definizione di un modello tipologico più confacente per le future realizzazioni, riprendendo i concetti sopra illustrati, la strada da seguire potrebbe essere quella intrapresa per le realizzazioni straniere più avanzate, a partire dagli anni ‘60/’70 del ‘900 e sino alle più recenti, prime fra tutte quelle spagnole. Nel complesso, queste realizzazioni si rifanno come impianto architettonico generale a quello del tessuto urbano, fatto di strade, piazze, slarghi, viali, ecc., di pieni e di vuoti che danno identità a spazi altrimenti anonimi e impersonali. I pieni, rappresentati dagli edifici che compongono il complesso carcerario e accolgono le articolate e complesse funzioni carcerarie, tra di loro sono diversificati architettonicamente per dimensioni, forma, colore, materiali di finizione, ecc., realizzando in questo modo un ambiente più stimolante e identificabile. Gli edifici destinati alla residenza dei detenuti, pur continuando a mantenere nella scala gerarchica delle funzioni una posizione di rilievo, ne hanno perso l’esclusiva predominanza. Al limitato numero dei blocchi edilizi pluripiano tradizionali, che contengono - in numero elevato - gruppi di celle organizzati in sezioni e prevalentemente con sola funzione detentiva, si sostituisce una sommatoria di edifici (unità residenziali) a non più di due/tre piani fuori terra, ciascuno dimensionato per accogliere una comunità omogenea di circa 50 persone. Ciascuna unità residenziale si sviluppa intorno ad una corte chiusa, sistemata a verde e con attrezzature per lo sport, favorendo in tal modo reali momenti di socialità tra i detenuti, non limitati nei movimenti e nelle attività. La corte chiusa, rappresenta il superamento dei nostri cortili per l’aria, recinti in cemento disumani ed inospitali, oltre che distanti dai luoghi di permanenza abituale dei detenuti. Ciascuna unità residenziale dispone al piano terra di una zona giorno articolata in una pluralità di spazi per le diverse funzioni residenziali diurne (soggiorno, cucina, sala da pranzo, salette per hobby, limitate attività trattamentali, ecc., oltre una serie di spazi riservati al personale, infermeria e spaccio. Ai piani superiori, che costituiscono la zona notte di ciascuna unità residenziale, si trovano le celle che si affacciano su di un corridoio centrale. Ciascun cella è dimensionata per ospitare uno o al massimo due detenuti e si compone di un servizio igienico con doccia lavabo e wc. I due piani sono comunicanti tra loro tramite una scala interna, dotata di locale presidio, ma non necessariamente presidiata. A seconda del livello di "custodia", il detenuto ha più o meno libertà di accedere autonomamente ai piani superiori ed in tutti i locali e luoghi che compongono l’unità residenziale. Al di fuori dell’unità residenziale, dentro la cinta muraria perimetrale, sono organizzati e allocati luoghi ed edifici dove il detenuto trascorre la maggior parte della giornata, lavorando e/o impegnandosi in attività funzionali alla sua auspicata riabilitazione, alla cura dei suoi interessi personali, dei suoi affetti, alle relazioni con il mondo esterno alle ecc. Il tutto secondo le diverse modalità di custodia, più o meno restrittive, a seconda del livello di pericolosità/collaborazione del detenuto. Secondo tale impostazione architettonica, il tempo e lo spazio della pena, si articola e si diversifica. I controlli da parte del personale di custodia, ove presente, sono del tipo indiretto, ma è necessario sottolineare che si fa uso della "sorveglianza dinamica", con tutto quello che ne consegue. Il resto degli edifici e delle aree che compongono l’istituto, non riservati ai detenuti, è destinato alle mansioni securitarie e amministrative dell’Istituto ed è trattato, nei casi migliori, in maniera tale da conferire dignità ed affidabilità all’Istituzione che ha in carico la funzione. Complessivamente gli elementi architettonici degli edifici, anche quelli relativi alla sicurezza passiva nel limite del possibile, sono risolti discostandosi dall’immagine tradizionale di uniformità e standardizzazione che connotano gli Istituti carcerari tradizionali. Conclusioni Quanto illustrato consente di chiarire alcuni aspetti e circostanze critiche che appartengono al nostro sistema penitenziario tra loro connessi: Lo stretto e necessario rapporto che intercorre tra la pena e lo spazio architettonico destinato ad accoglierla e che si traduce nella coerenza spaziale delle infrastrutture penitenziarie concepite anche in funzione dei bisogni materiali ed immateriali dei suoi utilizzatori. Coerenza che è stata, nel bene e nel male, sin dalle origini dell’istituzione penitenziaria, per lungo periodo una costante anche nelle nostre carceri, dove oggi però risulta assente, nonostante il Dettato costituzionale e il bagaglio normativo penitenziario, da numerosi decenni, la sottendano e la esigano. Circostanza questa che consente di affermare come la questione sia stata a lungo trascurata e poco o nulla considerata nel dibattito penitenziario nazionale, ma che ultimamente, anche in forza dei recenti accadimenti giudiziari internazionali che ci riguardano, si sta rivelando di prioritaria importanza. La presenza elementi di criticità nell’applicazione coerente dei provvedimenti, alcuni dei quali l’Amministrazione penitenziaria ha messo in conto, rappresentati dai limiti strutturali degli istituti penitenziari in funzione, la cui logistica mal si adatta a consentire una permanenza dei detenuti fuori dalle camere detentive e, soprattutto, dalle sezioni, per essere impegnati in attività trattamentali altrove; anche più semplicemente la insufficiente dotazione di strumenti idonei alla sorveglianza remota che può diventare ostacolo ad una diversa organizzazione della vita detentiva. La carenza cronica di risorse economiche ed umane adeguate, ma anche in generale culturale, che affligge le nostre infrastrutture penitenziarie, che può complessivamente mettere a rischio ogni intento riformatore. Per questo occorre essere molto realistici nel prospettare i nuovi scenari architettonici che vogliamo informati dei giusti valori architettonici, tenendo i piedi ben saldi a terra ma con lo sguardo oltre le nuvole. Probabilmente in tal senso, concettualmente, la via da seguire è quella di adottare il criterio della riduzione del danno, coscienti del fatto che la privazione della libertà personale è comunque una condizione di sofferenza che non si addice al compito dell’architetto, che il principio di reinserimento sociale attraverso il carcere è un controsenso e che il carcere così come si presenta nella sua materialità e nel pensiero comune è il risultato di una progressiva e secolare sedimentazione di elementi frutto di giudizi e pregiudizi, coerenza e incoerenza, verità e falsità, volontà e negligenza, la cui rimozione richiede tempi lunghi. Forse le cose potranno incominciare a cambiare se verrà data la possibilità alla cultura architettonica, che solo di recente è tornata a fare capolino sulla scena penitenziaria, di contaminare giorno dopo giorno, con progetti portatori di un pensiero coerente, lo spazio carcerario. È solo sulla base del riconoscimento di questo stato di cose e di molte altre ancora che affliggono il nostro sistema penitenziario, più volte denunciate nel corso dei decenni da pochi attenti critici osservatori, che una azione utile e proficua potrà realizzarsi, con l’obiettivo di rendere quanto resterà della pena del carcere e dei suoi muri più rispettoso della norma, umano e dignitoso. Poggioreale, l’anno zero. Così può rinascere il peggior carcere d’Italia di Antonio Mattone Il Mattino, 14 giugno 2016 A Napoli "Poggioreale" è il carcere o il cimitero. Itinerari e luoghi di dolore dove i napoletani compiono il triste pellegrinaggio per andare a visitare i vivi e i morti. La prigione di Poggioreale nell’immaginario collettivo è stata sempre accostata a rappresentazioni negative. Scuola del crimine, inferno, luogo di villeggiatura, sovraffollamento, fino alla cella zero di cui si è parlato fino a qualche anno fa. A Poggioreale è sempre stato tutto eccessivo, la brutalità ma anche i gesti di umanità, come l’opera delle suore francesi che si occuparono del reparto femminile, in funzione fino a metà degli anni 70. Wikipedia lo definisce "il carcere peggiore d’Italia, sia per i diritti umani che per il degrado". Eppure negli ultimi tempi si respira un’aria nuova, con tante innovazioni che la direzione sta mettendo in campo per migliorare le condizioni di vita dei carcerati. In questi giorni è stata ventilata la possibilità di dismettere le vecchie prigioni italiane tra cui anche quella napoletana, proprio nel momento in cui qui si stanno eseguendo importanti opere di ristrutturazione, con l’impiego di parecchi milioni di euro. Non è un grande paradosso? I lavori per la costruzione del penitenziario cominciarono nel 1905 per sostituire le vecchie e sovraffollate galere di Castel Capuano, del Carmine e del Forte di Vigliena. Il nuovo carcere giudiziario venne inaugurato nel 1914 ma già durante la prima guerra mondiale, alcuni padiglioni furono occupati dalle truppe militari e alla fine del conflitto furono necessari ulteriori interventi per i danni causati dai soldati. Nella prima metà degli anni quaranta e nell’immediato dopoguerra la presenza di numerosi prigionieri politici e di commercianti della "borsa nera" fece raggiungere il massimo grado di sovraffollamento. Durante la Grande guerra incursioni aeree e bombardamenti si susseguirono senza tregua. I detenuti trovarono rifugio nei sotterranei, ma il 30 maggio 1943 la chiesa del carcere femminile fu rasa al suolo da una bomba. Poggioreale, nel frattempo, fu in parte occupato dai tedeschi che 5 giorni dopo l’armistizio fecero fuggire tutti i detenuti. Fino agli inizi degli anni 80 una vasta area era destinata alle lavorazioni. Il detenuto Enrico Chiappetta raccontava al Giudice di sorveglianza Igino Cappelli: "Nel 1971 ho lavorato per la Ticino che fabbricava interruttori elettrici, per 7-8 mila lire al mese. Sotto la pressa usavamo le pinze ma se era pronto un camion di produzione si usavano le mani per fare più presto. Molti compagni persero le dita e così pure il lavoro". Alla Bassani-Ticino lavoravano un centinaio di carcerati che erano alloggiati nel padiglione Napoli. Una zona franca all’ispettorato del lavoro, priva di norme sulla sicurezza e gli infortuni per cui fu aperta un’indagine, che ebbe l’effetto di far chiudere l’azienda. Questa grande area fu poi utilizzata per costruire l’aula bunker per i maxi processi. Numerose sono state le rivolte per protestare contro le cattive condizioni igieniche. Una delle più clamorose fu quella della mattina del 31 maggio 1972, quando alcuni detenuti del padiglione Genova mostrarono dentro un vasetto di vetro gli insetti e le cimici che li tormentavano. La protesta continuò la sera con la devastazione dei padiglioni, l’abbattimento dei cancelli e il saccheggio dei magazzini. La controffensiva non si fece attendere. Gli agenti lanciarono nell’istituto candelotti lacrimogeni, e spararono all’interno del muro di cinta. Un detenuto di 19 anni fu colpito mortalmente da un proiettile, altri 4 vennero feriti. Dopo 2 giorni la rivolta fu domata. I reclusi vennero ammassati nei sotterranei e molti furono trasferiti. Sicuramente gli anni più difficili sono stati quelli della guerra di camorra tra i cutoliani e gli appartenenti alla Nuova Famiglia organizzata, una faida che si è consumata anche nello scenario di Poggioreale con i regolamenti di conti e i morti ammazzati. Il carcere era ingovernabile, gestito dai criminali che all’interno dei reparti decidevano chi doveva lavorare, e in quali celle si dovevano sistemare i nuovi giunti. I detenuti erano liberi di girare tra le celle, mentre i panni stesi nei ballatoi davano l’impressione di stare tra i vicoli di Napoli. La notte del 23 novembre 1980, nel panico e nella confusione del terremoto furono aperte le celle. Il bilancio fu di tre morti e otto feriti, con banchetto e brindisi finale per festeggiare la mattanza. Tre mesi dopo con la replica del sisma ci fu anche quella degli omicidi: altri tre carcerati brutalmente "giustiziati". L’uccisione del vicedirettore Giuseppe Salvia, al quale l’istituto è stato poi intitolato, è stato invece l’atto più sfrontato. Il 14 aprile 1981, venne trucidato in un agguato a Napoli. Raffaele Cutolo fu condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio. Anche gli agenti di custodia pagarono: in quel periodo ben sei vennero ammazzati. Tuttavia, il gesto più efferato avvenne in una afosa sera d’estate del 1982. Raffaele Catapano, killer della nuova camorra organizzata finse un malore e venne accompagnato in infermeria, dove sequestrò il medico e gli agenti. Aveva un coltello e una pistola ma non fu perquisito. Si diresse verso la cella di Antonio Vangone killer del clan rivale, e dopo averlo trascinato nei corridoi, lo decapitò. Per strappargli il cuore dal petto chiese indicazioni anatomiche al medico e portò a termine il suo scempio. Dopo questo orribile omicidio si preparano vendette e ritorsioni. Il ritrovamento di candelotti di dinamite, e due sparatorie tra i detenuti furono la goccia che fece traboccare il vaso. La reazione dello Stato non si fece attendere. Squadre di agenti incappucciati, armati di mitra fecero irruzione nei padiglioni. I carcerati vennero denudati e spinti a forza nei sotterranei. Un testimone ricorda che giunto al padiglione Firenze poco dopo l’operazione, trovò davanti ai suoi occhi una scena surreale. Tutti i detenuti erano stati portati via, per terra si potevano trovare pantofole e scarpe, segno della forzata evacuazione, mentre gli agenti rompevano i muri alla ricerca di armi ed esplosivi. E così cominciò la restaurazione. Un nuovo corso per il carcere di Poggioreale per far capire chi comandava e come ci si doveva comportare. Un sistema intimidatorio che, con intensità variabile è durato fino a due anni fa. Oggi possiamo parlare di una nuova svolta. Un tentativo di umanizzare questo istituto con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Una sfida per dimostrare che se cambia Poggioreale possono cambiare tutte le galere. La visita di papa Francesco ha accompagnato questa trasformazione, e dopo le vicende legate alla cella zero potremo parlare di "Poggioreale anno zero". Tuttavia sorge una domanda. Non sarebbe conveniente mantenere questo istituto se non altro per dimostrare che un carcere umano, anche se vecchio, è davvero possibile? Benevento: il valore dell’agricoltura sociale nelle carceri, convegno ad Unisannio ilvaglio.it, 14 giugno 2016 Mercoledì 15 giugno, alle ore 9.30 presso l’Aula Ciardiello dell’Università del Sannio in via delle Puglie, si terrà il convegno "Dentro e fuori le mura. Recupero, inclusione, reinserimento lavorativo: il valore dell’agricoltura sociale nelle carceri". L’incontro su agricoltura sociale e carceri - ricorda la nota diffusa alla stampa - chiude la prima edizione del master di secondo livello in "Manager delle imprese agro-sociali e delle reti territoriali (Miart)" promosso e attivato dal Dipartimento Demm dell’ateneo sannita con la partnership di Mediterraneo Sociale scarl, e vuole essere un’occasione per conoscere le esperienze, le realtà operative, le persone coinvolte nei processi inclusivi, oltre che le policy di supporto, al fine di offrire un’occasione di confronto e discussione su un tema di frontiera nel dibattito scientifico e politico. Le esperienze più significative portate avanti oggi da istituti penitenziari italiani in collaborazione con cooperative sociali, testimoniate nell’ambito del convegno, riguardano, tra le altre, la Casa Circondariale di Sant’Angelo dei Lombardi in cui opera la Cooperativa Il Germoglio; l’Istituto penale minorile di Nisida in cui opera la Cooperativa Bambù; la Casa Circondariale femminile di Pozzuoli in cui opera la Cooperativa Lazzarelle; la Casa Circondariale di Padova in cui opera la Cooperativa Giotto; la Casa Circondariale di Milano-Bollate in cui opera la cooperativa ABC; la rete di imprese Freedhom-Creativi Dentro. Introdurrà il dibattito Giuseppe Marotta, direttore del DEMM. Apriranno i lavori: Filippo de Rossi, rettore dell’Università del Sannio; Rosetta D’Amelio, presidente del Consiglio Regionale della Campania; Salvatore Esposito, presidente Mediterraneo Sociale scarl; Italo Santangelo, assessorato Agricoltura Regione Campania; Adriana Tocco Garante Regionale per i Diritti del Carcere. La prima sessione, a partire dalle ore 10.30 su "Agricoltura sociale e detenzione: un modello di welfare responsabile e inclusivo", sarà moderato da Concetta Nazzaro, Università del Sannio. Queste le relazioni: "Agricoltura sociale e detenzione. Caratteristiche, criticità e sviluppi innovativi" di Francesca Giarè del Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’Analisi dell’Economia Agraria - Crea; "La convenienza del buon carcere per l’economia e il sistema sociale" di Monica Simeoni, Università del Sannio; "Agricoltura sociale e inserimento lavorativo nel Mezzogiorno" di Salvo Cacciola di Rete Fattorie Sociali Sicilia. La seconda sessione dei lavori su "Amministrazioni penitenziarie e buone pratiche. L’esperienza delle cooperative sociali nelle carceri" sarà moderata da Salvatore Esposito con i seguenti interventi: Ottavio Casarano, direttore Casa di Reclusione "I due Palazzi" Padova; Liberato Gerardo Guerriero, direttore Casa Circondariale Secondigliano; Maria Luisa Palma, direttrice Casa Circondariale Benevento; Marisa Bocchino, responsabile Ufficio Esecuzione Penale Esterna Benevento. Sono previste le testimonianze di Angelo Fuschetto, Cooperativa Il Germoglio; Giovanpaolo Gaudino, Cooperativa Bambù; Paola Maisto, Cooperativa Lazzarelle, Imma Carpiniello, Rete di imprese Freedhome-Creativi Dentro; Giuseppe Battaglia, Cooperativa Le ali della libertà; Giuliano Ciano, Forum Regionale Fattorie Sociali e Consorzio Nuova Cooperazione Organizzata (Campania). Conclude Lucia Castellano, dirigente generale Amministrazione Penitenziaria. Intanto si registra un notevole successo per la prima edizione del master Miart, a cui hanno concorso più elementi, una partnership tra Università del Sannio (Dipartimento DEMM) e la società consortile "Mediterraneo Sociale", un’inedita esperienza di rete di imprese sociali e agro-sociali profit e non profit, con una tradizione trentennale di impegno nel welfare di comunità e in attività sociali produttive, con spiccata mission etica centrata sulle economie territoriali inclusive, il numero di iscritti, le esperienze di stage in cui gli allievi sono stati coinvolti che hanno visto la partecipazione di enti e cooperative leader nel settore (dal Forum nazionale e regionale di agricoltura sociale, alla Cooperativa Capodarco, alla rete di fattorie sociali della Sicilia, alla Nuova Cooperazione Organizzata). Un tema quello dell’agricoltura sociale - intesa come insieme di esperienze che coniugano le attività agricole con le attività sociali, finalizzate a generare benefici inclusivi e a favorire l’inserimento sociale e lavorativo di soggetti socialmente deboli e svantaggiati, a basso potere contrattuale e a rischio di marginalizzazione - quanto mai attuale, oggetto di attenzione crescente in ambito scientifico e istituzionale, con prospettive sviluppo sempre più interessanti anche a seguito dell’approvazione, lo scorso 2015, della Legge nazionale che ne articola e regola le funzioni. Le pratiche di agricoltura sociale, in Italia, stanno vivendo una fase di forte evoluzione che riguarda le esperienze sul territorio, le azioni di discussione-animazione e l’interesse delle parti sociali, oltre che gli interventi di politica rurale e socio-assistenziale e la ricerca. Rientrano nelle pratiche di agricoltura sociale il ripristino e la valorizzazione dei tenimenti agricoli all’interno degli istituti penitenziari, attività che ha permesso di sviluppare progetti di agricoltura e di trasformazione all’interno delle strutture carcerarie e di offrire, al contempo, opportunità formative, professionali ed occupazionali a detenuti in misura alternativa (legge 354/1975 e successive modificazioni). Di fatto, il trattamento penale prevede che le attività agricole possano essere utilizzate, come le altre attività lavorative, per la rieducazione, e finalizzate a favorire il reinserimento socio-lavorativo del detenuto. Diversi studi sul tema hanno, infatti, confermato il forte potere rieducativo dell’attività agricola, la sua capacità di attivare processi di responsabilizzazione dei detenuti e benefici psico-fisici, soprattutto in termini motivazionali, riappropriandosi della funzione di cura e di supporto alla crescita. "Lavorare la terra" è per i detenuti un’attività particolarmente inclusiva, perché svolgere un lavoro al di fuori del luogo della reclusione permette di recuperare un senso di vita. In sostanza, l’attività agricola diventa uno strumento attraverso il quale ristabilire l’ordine giuridico violato e introdurre valori positivi negli stili di vita dei detenuti e, allo stesso tempo, offre loro un progetto di vita. Le esperienze di agricoltura sociale nelle carceri si sono sviluppate, in parte, in modo autonomo, grazie alla particolare sensibilità delle direzioni e alla disponibilità di terreni all’interno delle strutture, e, in parte, sulla spinta di interventi legislativi. In alcuni casi, gli istituti penitenziari gestiscono direttamente i propri terreni, con il supporto di professionisti dipendenti dell’amministrazione penitenziaria, mentre in altri ne affidano la gestione a cooperative sociali. Vi sono, inoltre, cooperative che gestiscono lavorazioni artigianali di trasformazione dei prodotti all’interno delle carceri e aziende agricole e cooperative sociali che impiegano ex detenuti o detenuti, in regime art. 21, ai quali è concesso di uscire dal carcere per recarsi a lavoro fuori dall’istituto penitenziario, per poi rientrare obbligatoriamente la sera. A prescindere dalla tipologia di attività agricola e dalla modalità di gestione della stessa, oggi, la quasi totalità delle esperienze di agricoltura sociale nel sistema penitenziario ha connotazioni positive. Quello che emerge è una realtà fatta di eccellenze agroalimentari realizzate da detenuti ai quali viene offerta un’occasione di riscatto, una prospettiva di futuro attraverso il lavoro agricolo, sconfiggendo i pregiudizi nei confronti dei soggetti reclusi e creando un rapporto tra carcere e società civile. L’agricoltura sociale diventa, quindi, uno strumento per costruire una nuova cultura, attraverso il quale rendere la pena "utile" e facilitare il reinserimento dei "condannati", regalando loro aria di libertà anche "dentro le mura" e instaurando un nuovo legame tra produzione agricola, uso della terra e legalità. In questo ambito, dunque, si colloca il ruolo centrale svolto dalle cooperative sociali, che, oggi, rappresentano un punto di riferimento essenziale per creare una prospettiva meno afflittiva per la popolazione carceraria e per quel che riguarda le politiche di formazione/riabilitazione e lavoro della popolazione penitenziaria, nel corso degli ultimi anni protagoniste di esperienze di successo all’interno delle strutture detentive. La creazione di prospettive di futuro, come di nuove condizioni di tolleranza, reciprocità e solidarietà non può essere delegata alle sole forze istituzionali, ma deve coinvolgere tutte le componenti della società, anche, e soprattutto, quelle produttive, interessate allo sviluppo di un nuovo modello di welfare. Ciò è tanto più importante se si considera la composizione della popolazione detenuta e le criticità collegate (immigrazione, tossicodipendenza, nomadismo, nuove schiavitù, delinquenza minorile, ecc.), che richiedono di rivedere il concetto della "pena", che oggi deve essere orientato a favorire processi di recupero e integrazione, inclusivi e socialmente responsabili, per far si che il "buon carcere" sia conveniente per il sistema sociale ed economico. CO2, la "Musica per stati d’animo" evade dal carcere e raggiunge i minori di Teresa Valiani Redattore Sociale, 14 giugno 2016 Dopo il successo della sperimentazione, nel futuro del progetto di Franco Mussida ci sono gli istituti per minori e le comunità terapeutiche. Gino Paoli: "La musica come strumento culturale utile per la crescita di una società civile che vuole definirsi tale" Dal carcere per gli adulti a quello per i minori. Dagli istituti di pena alle comunità terapeutiche. Il progetto CO2 "Musica per stati d’animo", approdato tre anni fa in via sperimentale in 4 carceri italiane (Opera, Monza, Rebibbia Femminile e Secondigliano) ed esteso ora ad altri 8 istituti di pena, si prepara a superare le sbarre per esportare l’innovativo metodo di ascolto nei luoghi di grave disagio come le comunità terapeutiche e tra i giovanissimi. È stato annunciato oggi a Pavia durante il convegno promosso dal dipartimento di Scienze Sociali dell’università per presentare i risultati dei 3 anni di sperimentazione del progetto con il quale Franco Mussida, ex chitarrista della Pfm (Premiata Forneria Marconi), ha portato in carcere un modo nuovo per ascoltare musica e risvegliare i sentimenti. Durante la sperimentazione, un centinaio di detenuti, assistiti settimanalmente da musicisti, hanno svolto un percorso di ascolto personalizzato di migliaia di brani di sola musica strumentale, secondo il proprio temperamento, da assimilare e valutare in modo esplicito, anche emotivamente. I brani sono stati suggeriti da musicisti e da amanti della musica in relazione a uno schema messo a punto da una equipe di psicologi e sociologi su indicazione di Franco Mussida che da trent’anni si occupa di osservare e codificare alcuni effetti prodotti dalla musica sugli stati d’animo individuali. Le composizioni sono inserite in speciali audioteche che, attraverso un software, consentono ai detenuti di arrivare alla musica dopo aver preventivamente stabilito lo stato d’animo in cui desiderano immergersi, lasciando poi che siano le note stesse ad accompagnarli verso quello spirito. "I risultati scientifici dei 3 anni di sperimentazione - spiega Mussida -, dimostrano e configurano ciò che immaginavo quando avviai il progetto: si stanno delineando i contorni di un nuovo prezioso e mirato strumento educativo a cui speravo di dar vita per poter aiutare chi vive un’insopportabile compressione della sfera emotiva. CO2 può diventare un supporto essenziale sia per i detenuti, che possono ritrovare nella centralità valoriale dei sentimenti il loro vero centro di gravità esistenziale, sia per gli psicologi degli istituti di pena che avranno a disposizione un efficace strumento di analisi, di scambio e di dialogo con i detenuti, i quali potranno così parlare con meno imbarazzi delle proprie emozioni e sentimenti. Nel corso del convegno abbiamo discusso anche della possibilità di offrire questo metodo ai minori, a giovani scolarizzati, proponendo applicazioni in luoghi in cui servono strumenti sani ed efficaci per riportare equilibrio e serenità e per contrastare uno stress lavorativo sempre più forte". La rete delle audioteche. Ogni audioteca della rete ha un punto di aggiornamento e raccolta dati posto nel CPM Music Institute (il Centro professione musica fondato da Mussida). Ciascuna è fornita di una dotazione iniziale formata da tre iPad, tre cuffie e un computer con database. Verranno organizzati e realizzati specifici corsi per l’uso e l’aggiornamento dedicati a educatori e detenuti. Mentre le città che ospiteranno le altre 8 audioteche sono: Torino, Trento, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Palermo, Cagliari. Scopi e finalità iniziali della sperimentazione musicale Co2. Offrire tempo di qualità per rendere più viva la propria identità affettiva grazie alla capacità della musica di far vivere i sentimenti senza bisogno di fare una vera esperienza umana. Far scoprire ai detenuti un diverso e salutare metodo di ascolto che soddisfa interiormente e avvicina anche persone di scarsa cultura all’arte della musica. Rendere automatico e naturale ascoltare musica associandola ai propri stati d’animo fino a poterne parlare senza imbarazzi, facilitando il lavoro degli educatori. Rimettere al centro dei valori primari della persona il mondo delle emozioni e dei sentimenti attraverso le capacità educative della musica. Fare in modo che ascoltare musica diventi una consuetudine per migliorare il rapporto con la detenzione e fornire un bagaglio positivo per il dopo carcere. "La musica non è solo qualcosa di stimolante, un flusso sonoro misterioso che tocca tutti comunicando ogni genere di emozione, ma uno strumento culturale utile per la crescita di una società civile che vuole definirsi tale - sottolinea Gino Paoli, già presidente Siae -. A distanza di tre anni che il dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Pavia organizzi un convegno certificando i risultati di questa straordinaria sperimentazione, e che il Ministero da 4, ampli a 12 gli istituti coinvolti acconsentendo alla realizzazione di una futura rete di audioteche finora inesistente, fa felice la Siae, gli associati, gli autori ed editori che hanno sostenuto e sostengono tutt’ora CO2". Un futuro tutto da scrivere. "Il felice esito della fase sperimentale ha condotto alla nascita di una prima rete di audioteche in 12 grandi città italiane - conclude Mussida, un risultato esaltante che premia tutti quelli che ci hanno lavorato. Un risultato molto importante, ma è solo l’inizio di quello che si potrebbe realizzare attraverso un modo di ascoltare più sentito ed attivo. Dove si riuscirà quindi ad arrivare con questo progetto non si sa. Si sa invece che secoli di storia della musica possono davvero diventare fruibili a tutti grazie ad un diverso metodo di ascolto che enfatizza non solo il piacere dell’ascoltare, ma il ruolo di discreta educatrice del mondo degli affetti che la musica esercita su di noi". Quell’assurda guerra contro le nostre libertà di Dacia Maraini Corriere della Sera, 14 giugno 2016 Mettere paura, fare chinare la testa, sembra essere il massimo del godimento per questi giovani esaltati, quasi un’esplosione trionfale di narcisismo maschile. Ancora una volta corpi di ragazzi insanguinati trasportati su lettighe improvvisate. Corse, grida di aiuto, macchine della polizia, pistole che passano di mano in mano, mitragliatrici in agguato, studenti che sfilano con le braccia alzate. Sembra proprio una guerra. Ma una guerra che da frontale si sta trasformando in qualcosa di liquido, imprevedibile. Una guerra che non trova i nemici di fronte, ma dentro le proprie città, nascosti dentro le case. La nuova guerra mondiale degli intolleranti contro chiunque si prenda delle libertà: libertà civili, libertà amorose, libertà religiose, libertà sessuali, libertà di studio. Con tutta l’euforia e l’orgoglio di chi per una volta prende il diritto di giudicare il mondo, per punirlo. Non perché abbia commesso qualche colpa, ma per lo stesso fatto di esistere. Un principio squisitamente hitleriano. La colpa è ontologica e non si discute. Mettere paura, fare chinare la testa, sembra essere il massimo del godimento per questi giovani esaltati, quasi un’esplosione trionfale di narcisismo maschile. Le ideologie, la religione, la giustizia, perfino la vendetta non c’entrano affatto. Basta leggere l’interessantissimo libro che il Corriere ha pubblicato di recente "Jinan Schiava dell’Isis", per capire di cosa è fatta questa intolleranza che vuole punire il mondo in nome di una morale astratta e inconsistente: povere ragazze yazide che vengono rapite, trattate come schiave, sottoposte a stupri di gruppo, costrette a recitare il Corano a furia di botte, utilizzate per pulire, cucinare,lavare e stirare le loro camicie nere. E quando disobbediscono, prese a pugni, a frustate, lasciate senza acqua per giorni e poi costrette a bere dentro un bacile in cui galleggiano topi morti. Il sadismo tronfio di chi sa di potere disporre a suo capriccio dell’altro, proprio come nei campi di sterminio. Giustificato idealmente da un Dio feroce che lo aspetta in un paradiso con tanti capretti arrostiti e vergini da stuprare. Il paradosso: più vogliono fermare la storia con modi e costumi di quasi 2000 anni fa, più mitizzano la tecnologia: armi sofisticate, giri internazionali di denaro, mezzi di comunicazione modernissimi. Non credo che abbiano un futuro, ma non vorrei che con il loro potere di incantare i giovani maschi frustrati, ci si debba mettere anni per pacificarli, come è successo con Hitler. Sarebbe un disastro per tutti. Hanno già abbastanza avvelenato le nostre vite col sospetto, la paura, l’irrigidimento politico. Homeless, il boom degli invisibili senza fissa dimora di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 14 giugno 2016 In Italia sono circa 50mila a vivere in strada e nei dormitori, fra loro 8 mila donne. La società reagisce all’emergenza ma stenta a organizzare strategie di re-inclusione. Gli homeless sono persone invisibili nella vita e invisibili nella morte, forse anche per questo Richard Gere ha deciso di raccontarli e di mostrarli a tutti, a noi che viviamo nelle grandi città e passiamo davanti a queste persone senza guardarle, rimuovendo la loro presenza e la loro sofferenza, e ha girato il docu-film "The time out of mind". Il grande attore americano si è calato nelle vesti di un uomo senza dimora tra la gente di New York, uno qualunque di coloro che vivono la fase più acuta della povertà, un’emergenza sociale permanente nelle metropoli dei Paesi avanzati, e anche nel nostro. Gli homeless non sono "diversi", non si tratta di individui con problemi mentali come troppo spesso si pensa, provengono anzi da diverse estrazioni sociali. Ma la condizione di grave emarginazione, di homelessness appunto, li espone a rischi elevatissimi per la propria vita a causa del mancato soddisfacimento di bisogni basilari. In Italia gli homeless stimati sono circa 50 mila in 158 Comuni italiani. Alla fine del 2014 era questo il numero di coloro che hanno utilizzato servizi di mensa o di accoglienza notturna, ma questa cifra potrebbe essere più alta se si considerano quelli che non usano alcun servizio (vedi Istat, ministero del Lavoro, Caritas e Fiopsd). Milano e Roma ne accolgono quasi 20 mila, seguono Palermo, Firenze, Torino e Napoli. In gran parte sono uomini, più di 40 mila, ma le quasi 8 mila donne, per metà straniere, hanno una età media elevata, intorno ai 45 anni, e si trovano senza dimora in media da più di due anni e mezzo. Più si prolunga questo stato più difficile è attivare i processi di inclusione sociale, con il passare del tempo la situazione si cronicizza e i percorsi di accompagnamento fuori dall’estrema povertà sono più ardui. E non va sottovalutata la situazione delle donne che hanno problemi ancora più grandi di sicurezza, rischiano di subire violenza e anche, purtroppo, la prostituzione. Senza pensare alla situazione delle anziane particolarmente esposte sul piano della salute. Lavoro e matrimonio. La situazione dei 13.000 giovani homeless è particolarmente dura nelle città più grandi, perché legata all’immigrazione, alla droga, alle dipendenze e a una forte carenza sul fronte della formazione e delle relazioni sociali. Il minore investimento in capitale umano e sociale per i giovani è fortemente predittivo di grave esclusione sociale nel futuro. È fondamentale dunque che la situazione di questi ragazzi non diventi cronica e che su questi si investa velocemente per la loro reinclusione. Deve essere chiaro che essere senza dimora non è affatto una scelta di vita, come spesso si dice a sproposito, ma il risultato di un processo, che porta al precipitare della situazione anche nell’arco di un brevissimo periodo. I fattori fondamentali che incidono sul fenomeno nel suo complesso, e che spesso si verificano in congiunzione tra loro, sono la perdita del lavoro e la separazione. A questi si sommano i problemi di salute. Il fenomeno degli homeless ha tante sfaccettature, riguarda differenti segmenti di popolazione a cui bisogna rispondere con interventi molto flessibili. Ogni homeless nasconde una storia a sé che ha bisogno di essere capita. Ma il fenomeno sta cambiando rispetto al 2011, quando venne condotta la precedente indagine, non tanto per il numero di homeless, quanto nell’allungamento della permanenza in questa situazione e nell’elevamento dell’età media degli homeless. Gli eroi del "non profit". Gli italiani continuano a presentare un’età media più alta e una permanenza più lunga, ma gli stranieri sembrano, purtroppo, convergere sul modello italiano sia per l’età sia per la durata. Che fare? Servizi per i senza dimora ci sono, ma sono realmente sufficienti? In realtà crescono le difficoltà dei servizi di mensa e accoglienza notturna. Infatti, questi nel 2014 sono in diminuzione del 4% rispetto a tre anni prima, a fronte di un aumento delle prestazioni (pranzi, cene, posti letto) erogate ogni mese alle persone senza dimora del 15%. Meno servizi hanno fornito più prestazioni, quindi hanno dovuto far fronte a una maggiore pressione non tanto di più homeless, ma di un numero simile che ne ha fruito con maggiore intensità. Ma tutte queste prestazioni da chi vengono erogate? In gran parte da coloro che ogni giorno sono vicini ai i bisognosi di aiuto, dando loro la speranza di una vita migliore: il "non profit", i volontari che interagiscono con il pubblico in una sinergia fondamentale per il raggiungimento di obiettivi così importanti. Un lavoro encomiabile, prezioso per le politiche. Il problema è che molto spesso alla situazione emergenziale si risponde con politiche emergenziali che puntano fondamentalmente al soddisfacimento dei bisogni primari, il mangiare, il dormire, il lavarsi. Mentre necessitiamo sempre di più di strumenti di reinclusione sociale, attraverso il supporto psico-sociale, il sostegno al reddito, l’inserimento nel lavoro, gli alloggi. I servizi devono essere sviluppati su tutto il territorio nazionale in modo uniforme e devono essere capaci di garantire le persone più in difficoltà, ovunque tale situazione di estrema povertà li colga. Non bisogna appiattire le politiche su interventi di natura unicamente emergenziale dettati dalla necessità di rispondere con meno risorse a bisogni crescenti. Innovazione e nuova progettualità devono farsi strada perché non si tratta solo di salvare la vita a queste persone ma di costruire un percorso verso una vita vera. È un obbligo in una fase in cui la crisi sociale continua a essere acuta più di quanto possa sembrare dagli indicatori economici. Cannabis libera, è scontro. Pd spaccato, no di Lorenzin di Francesco Pacifico Libero, 14 giugno 2016 Il ddl è atteso in Aula il 27 ma c’è già l’intesa sul rinvio. Sulla legalizzazione delle droghe leggere la politica prende tempo. Più che una pausa di riflessione propedeutica, il tentativo di approfondire una tematica complessa e delicata. E che spacca trasversalmente il partito democratico. Lo sbarco in aula della proposta di legge per regolamentare il consumo - era previsto per il 27 di questo mese - slitta: le commissioni Affari sociali e Giustizia hanno chiesto più tempo per concludere le audizioni e scandagliare un provvedimento che oltre al consumo liberalizza (seppure con forti accortezze) la commercializzazione e l’auto-cultura. Perché, come dice una dei due relatori, la deputata Pd Anna Margherita Miotto, "ci sono vari approcci per affrontare la problematica delle droghe e qui si tratta di superare gli approcci ideologici e trovare una sintesi. La tifoseria non aiuta". Benedetto Della Vedova - l’animatore dell’inter-gruppo parlamentare per la legalizzazione della cannabis, ha sempre chiarito "di non aspettarsi sconti sui tempi". Anzi, ha auspicato "il più ampio dibattito in Commissione, nella speranza di integrare il testo". La Conferenza dei capigruppo ha finito per "esaudire" il sottosegretario agli Esteri: compici le elezioni amministrative e provvedimenti che ingolfano i lavori parlamentari (il decreto banche, il piano di contrasto alla povertà o l’assistenza ai disabili in età adulta" il termine del 27 giugno non sarà rispettato. Ma s’inizierà a lavorare già da domani con le prime audizioni. "Ascolteremo", annuncia Donatella Ferranti, il presidente della "Giustizia", "operatori sanitari, esponenti delle forze dell’ordine, abbiamo chiesto un parere all’Anni, all’ordine degli avvocati e al procuratore antimafia, Antonio Roberti. Io, personalmente, ho bisogno di ascoltare e di capire prima di decidere". Il testo dell’inter-gruppo per la cannabis (primo firmatario il candidato a sindacato del Pd di Roma, Roberto Giachetti) è un testo molto complesso e articolato. Consente il consumo per i maggiorenni stabilendo il tetto a 5 grammi (innalzabili a 15 grammi in privato domicilio), ma vieta il piccolo spaccio. Permette l’auto-coltivazione in forma individuale quanto in forma associata di cinque piante, ma dietro comunicazione e autorizzazione dei monopoli. I privati quanto i monopolisti possono vendere spinelli, escludendo da quest’attività tabaccai e rivenditori di alcolici. Soprattutto questo disegno di legge parte con l’appoggio di 220 deputati, quasi un quarto dei componenti di Camera e Senato. "Vent’anni fa", ricorda l’altro relatore, Daniele Farina di Sel, "una proposta analoga dei Progressisti aveva 170 firmatari e non fu sufficiente". L’ex numero del Leonka non nasconde "che siamo oltre le metà della legislazione e i tempi sono strettì", ma si dice ottimista se guarda agli schieramenti in campo. "Se. e i Cinque Stelle sono favorevoli a un intervento di liberalizzazione. Il Pd sul tema è spaccato a metà, mentre nell’opposizione, con l’eccezione di Lega e Fratelli d’Italia fortemente contrari, sono per il sì anche esponenti di Forza Italia". È difficile fare ipotesi, perché non si è espresso il governo. Matteo Renzi, che da presidente della provincia della Firenze firmò un documento contro la legalizzazione della droga, adesso ha posizioni meno nette. Il ministro della Sanità Beatrice Lorenzin, che ha reintrodotto la distinzione tra sostanze leggere e pesanti, è contraria. Il Guardasigilli Andrea Orlando si è battuto per la depenalizzazione per chi coltiva la cannabis a scopo terapeutico. In quest’ottica, a differenza di Sei e Cinquestelle, il Pd non ha una sua posizione univoca. E non l’avrà visto che all’inter-gruppo hanno aderito renziani doc (Giacchette o Gelli) ed esponenti della sinistra interna (Bruno Bossio o Stumpo). Luigi Bobba, che nel partito è in prima linea soprattutto sul welfare, dice di "non aver studiato a sufficienza il testo, pur essendo contrario alla legalizzazione". Donatella Ferranti ricorda che "questo non è il tempo di prendere posizioni, ma di discutere e capire gli effetti della riforma". E il passaggio in commissione potrebbe portare non poche novità al testo se Farina segnala che "approfitteremo delle audizioni per decidere su una delle questioni che nel testo abbiamo affrontato in una chiave diversa: quello della quantità di principio attivo. Ci siamo resi conto che inserendo un criterio legato al peso, permettiamo un minore consumo di quello consentito oggi". Molto articolato il quadro tra i centristi della maggioranza. Raffaele Calabrò, capogruppo di Ncd in commissione Affari sociali, spiega che "vanno ascoltate le audizioni per capire i vantaggi, le esigenze e le opportunità. Ma con le conoscenze attuali è difficile inserire la cannabis tra le sostanze permesse". Da Scelta Civica Stefano D’Ambruoso, magistrato che si è occupato di criminalità internazionale all’Onu, si è dato come obiettivo quello di correggere "i danni della Fini-Giovanardi sulla detenzione dei piccoli spacciatori, che sono m realtà dei piccoli assuntori". Il verdiniano Vincenzo D’Anna guarda "ai benefici in termini terapeutici. In linea di principio noi di Ala siamo tutti favorevoli". I promotori della liberalizzazione sperano nell’ala liberale di Forza Italia. Spegne le loro aspettative il capogruppo alla Camera, Renato Brunetta: "Non ne abbiamo ancora discusso ma siamo sostanzialmente contrarie non ci sarà libertà di scelta". Ma non mancheranno crepe. Augusto Minzolini suggerisce, "pur non credendo alla retorica della cannabis, di guardare a quello che succede intorno a noi". Voterà con Della Vedova il liberista e il libertario Antonio Martino. Sinistra Italiana: "Commissione d’inchiesta su Giulio Regeni per superare lo stallo" di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 giugno 2016 Chi ha ucciso e perché Giulio Regeni? Come mai a distanza di oltre tre mesi dal ritrovamento del suo cadavere sulla strada che collega Il Cairo ad Alessandria, il 3 febbraio scorso, "si sono susseguite varie ipotesi sulla sua morte, ma finora non è emersa nessuna verità"? E cosa sta aspettando il governo per dare ulteriori segnali di fermezza? Nasce con l’intento di dare una risposta a queste domande e come strumento di pressione sulle istituzioni italiane e straniere, la commissione monocamerale d’inchiesta istituita con la proposta di legge che Sinistra italiana presenterà oggi pomeriggio a Montecitorio. Una commissione, spiega Arturo Scotto, capogruppo di Si alla Camera, che sarà composta da venti deputati, avrà stessi poteri e limitazioni dell’autorità giudiziaria, perciò esente dal segreti vari compreso quello di Stato e peserà sul bilancio interno di Montecitorio con un massimo di 50 mila euro l’anno. Onorevole, a cosa serve in questo caso una commissione d’inchiesta? Dopo quasi quattro mesi ci troviamo in una condizione di stallo politico-diplomatico e nelle indagini, nonostante lo straordinario lavoro della procura di Roma, a cui non vogliamo assolutamente sovrapporci. Le ultime notizie ormai rivelano esplicitamente che Regeni è stato ammazzato probabilmente per una faida interna allo Stato egiziano, tra apparati di sicurezza, e non si esclude che anche vertici vicini ad Al Sisi siano tra quelli che hanno contribuito alla fine del ricercatore. Non si muove nulla perché l’Italia, dopo aver richiamato sia pur tardivamente l’ambasciatore dal Cairo per consultazioni, avrebbe dovuto fare qualche passo oltre. Il governo Renzi non sta esercitando una pressione adeguata? Deve fare di più, lanciare messaggi chiari alle autorità egiziane, a partire dalla sospensione dei trattati di cooperazione militare con l’Egitto, o da alcune scelte di politica economica e commerciale, penso per esempio al ruolo dell’Eni. Allora, una commissione è decisiva per due motivi: perché è giusto che il Parlamento sia completamente a conoscenza della verità e possa svolgere la propria funzione di indagine su un caso clamoroso sul piano internazionale come accade in altri parlamenti. Così accadrebbe negli Usa o nel parlamento inglese. Perché una commissione parlamentare dovrebbe riuscire a superare il muro di omertà egiziano o anche inglese, a questo punto? Si supera se tutte le istituzioni sono pienamente coinvolte e la pressione viene da tutte in modo collegiale. Il parlamento non può essere esclusivamente destinatario di informative quando l’opposizione le chiede. La commissione può condurre indagini non solo in Italia. Quali possibilità ha, la vostra proposta di legge, di essere calendarizzata a breve nei lavori della Camera? Avete l’appoggio di altre forze politiche? La possibilità c’è. Ovviamente io faccio un appello a tutti e gruppi politici a sostenere questa ipotesi: è interesse del Paese che ci siano ulteriori strumenti per fare luce su un caso che ha sconvolto l’opinione pubblica. Dobbiamo approvare la legge in tempi rapidi, perché la legislatura ha un altro anno e mezzo di vita. Vede, qualche giorno fa durante il concerto dei Duran Duran a Verona a un giovane è stato chiesto di ammainare la bandiera di Amnesty per Giulio perché considerata non appropriata alla diretta tv. Mi sembra la spia di un Paese che dimentica troppo in fretta e perciò non riesce a difendere i suoi figli migliori. Un Paese così non è neanche in grado di trovare la verità. Ma forse le notizie di cui lei parlava non avvicinano alla verità che Al Sisi e i suoi sostenitori vorrebbero tacere: la tortura in Egitto è pratica diffusa e non solo riservata a chi sarebbe finito in una faida tra apparati. Quale autorevolezza ha una commissione di un Parlamento che si rifiuta di approvare una legge contro la tortura, differenziandosi così dal regime egiziano? È vero, il Parlamento non approvando una legge contro la tortura si autodelegittima politicamente e moralmente. Saremmo molto più forti se avessimo una legge che dovrebbe essere la cifra di uno Stato garantista e democratico. Questa vicenda di Regeni oggi consente anche al nostro Paese di guardarsi allo specchio e vedere i propri limiti e omissioni. Mi auguro che le due cose possano procedere insieme.