Carceri, schedato il dna dei detenuti di Cristiana Mangani Il Messaggero, 13 giugno 2016 Già effettuati 138 prelievi nella sola giornata di ieri Così diventa operativa la Banca dati istituita per legge. L’archiviazione è prevista solo per chi ha commesso reati non colposi con più di 3 anni di pena Protestano i sindacati. Un detenuto straniero rinchiuso nel carcere di Regina Coeli è il primo nome inserito nella nuova Banca dati del Dna. L’uomo è stato sottoposto a prelievo di un campione della mucosa del cavo orale, dopo l’entrata in vigore del Regolamento attuativo della legge istitutiva della Banca. La raccolta ha dovuto tenere conto - secondo quanto detta la legge - "del rispetto della dignità, del decoro e della riservatezza di chi viene sottoposto". Ci sono voluti sette anni, per far sì che i profili genetici di chi finisce in manette o viene condannato, finissero in una sorta di cassaforte, oggi più che mai utile soprattutto in tempi di terrorismo e criminalità super sofisticata. Il lavoro era cominciato il 30 giugno del 2009. Il Consiglio dei ministri lo ha licenziato a marzo scorso: 36 articoli dettagliati, per i quali sono stati necessari approfondimenti particolari vista l’invasività dell’accertamento. Si sono dovuti pronunciare il Garante della privacy, il Comitato nazionale per la biosicurezza, il Consiglio di Stato. E si è arrivati a ieri quando il "data base" ha cominciato a riempirsi, alimentato anche da altri 137 prelievi fatti su detenuti in varie carceri italiane. Lo strumento è considerato fondamentale per la lotta alla criminalità, per la ricerca degli scomparsi, per la soluzione dei "cold case", ma anche per il contrasto all’eversione e al terrore. Le regole - A dare notizia del primo prelievo è stato il Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. "L’esame a Regina Coeli - hanno informato - è stato attuato da personale della Polizia penitenziaria appositamente formato per questa attività. Lo stesso è stato fatto in altri istituti penali del Paese. Una volta raccolto, il campione è stato inviato al Laboratorio centrale per la banca dati nazionale del Dna istituito presso il Dap a Rebibbia e dotato di macchinari robotizzati per le varie fasi di tipizzazione del profilo genetico. Successivamente sarà mandato alla Banca dati nazionale istituita presso il Dipartimento di pubblica sicurezza". Non si potrà entrare in possesso del codice genetico in modo indiscriminato. Il prelievo potrà essere fatto solo a detenuti per reati non colposi per i quali è consentito l’arresto facoltativo in flagranza, arrestati in flagranza di reato o sottoposti a fermo di indiziato di delitto. Esclusi tutti i reati non violenti, come illeciti societari o tributari. L’accesso ai dati contenuti nella Banca dati è consentito alla polizia giudiziaria e all’autorità giudiziaria esclusivamente per fini di identificazione personale, nonché per le finalità di collaborazione internazionale di polizia. A seguito di assoluzione con sentenza definitiva perché il fatto non sussiste, perché l’imputato non lo ha commesso o perché il fatto non costituisce reato, è disposta d’ufficio la cancellazione dei profili del dna e la distruzione dei relativi campioni biologici. Il controllo è esercitato dal Garante per la privacy. Quarant’anni il termine massimo per cancellare il profilo, 20 quello per distruggere il relativo campione biologico. Le polemiche - Le modalità dell’esame realizzato nel carcere di via della Lungara non sono piaciute a tutti, e a sollevare le prime polemiche è stato il Sappe, sindacato della polizia penitenziaria, che ha contestato di non essere stato ammesso nel momento in cui veniva effettuato il prelievo. "Un fatto storico - ha spiegato il segretario Donato Capece - dal quale sono state tenute fuori le rappresentanze sindacali". I dati gestiti dai robot, saranno cancellati tra 20 anni di Cristiana Mangani Il Messaggero, 13 giugno 2016 Tempi raddoppiati per la conservazione dei campioni presi al condannati per mafia e terrorismo le norme. Trentasei articoli di legge con i quali viene stabilito che saranno due le strutture a custodire la Banca dati del Dna: una alla Criminalpol, e l’altra, in un Laboratorio centrale a Rebibbia di diretta dipendenza del ministero della Giustizia, del quale si occuperà la Direzione dei detenuti che fa capo al Dipartimento delle carceri. I dati verranno gestiti con un software che prevede un doppio sistema: un primo livello verrà utilizzato soltanto per le indagini svolte in Italia. Un secondo livello "sarà impiegato anche per le finalità di collaborazione internazionale". L’elenco dei nomi inseriti nella Banca dati verrà conservato per 20 anni. Su questo punto le procedure sono particolarmente rigide, perché necessitano di "profili di autorizzazione predefiniti", per soggetti già in possesso di "credenziali di e previo superamento di una procedura di autenticazione "forte". A occuparsi materialmente della catalogazione e della schedatura non sarà direttamente l’uomo, ma strutture robotizzate. Le condizioni - A chi potrà essere prelevato il Dna? La legge su questo punto è molto chiara: l’articolo 9 dice che la polizia può procedere al prelievo su chi è finito in carcere o ai domiciliari, oppure su chi è già detenuto con una sentenza definitiva per un delitto non colposo. In pratica chiunque abbia commesso un reato che superi i tre anni di pena, esclusi quelli tributari e finanziari. L’accertamento potrà rivelarsi molto utile nei casi di persone scomparse. E il loro Dna potrà essere recuperato sugli effetti personali, ma anche sui consanguinei qualora siano disposti volontariamente a sottoporsi all’esame. C’è poi la questione conservazione, quella su cui i giuristi hanno posto particolare attenzione. Il Regolamento detta tempi precisi: trent’anni per gli arrestati e i condannati. Per gli autori di reati gravi, come quelli di mafia e terrorismo, gli anni salgono a 40. Stesso tempo anche per chi commette più volte lo stesso crimine, cioè i recidivi. Per chi invece viene assolto dalle accuse, la cancellazione del Dna schedato è immediata. In Italia esistono già delle Banche dati custodite da carabinieri e polizia, anche se tra loro non esiste scambio di informazioni. Sono circa 50 mila i Dna raccolti durante le indagini. Con il nuovo Regolamento i vecchi profili confluiranno nel "grande sistema" e verranno aggiornati e riclassificati. Chiusura degli Opg, 195 malati mentali non trovano posto nelle Rems di Michele Bocci La Repubblica, 13 giugno 2016 Procure, gip e tribunali di sorveglianza fanno richiesta, ma trovano tutte le porte sbarrate. Oggi in Italia ci sono 195 persone per le quali non c’è spazio nelle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza che devono archiviare per sempre la buia stagione degli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari. La filosofia alla base delle nuove strutture è più sanitaria che carceraria, mira all’assistenza e al recupero di malati psichiatrici giudicati socialmente pericolosi. E infatti non è prevista la presenza della polizia penitenziaria ma solo di personale sanitario. Gli oltre 500 posti a disposizione nelle Rems già non bastano ad accogliere tutti. Ma viste le richieste, c’è il rischio che anche in futuro, quando la riforma sarà definitivamente partita e la capacità di accoglienza salirà a 600, ci si trovi un sistema sottodimensionato. "Il problema è che le Rems oggi vengono usate anche per quello che non sono. Cioè i magistrati chiedono di mandarci persone la cui posizione non è ancora definita dal punto di vista giudiziario, quindi per misure di sicurezza provvisorie. Invece dovrebbero andarci malati con misure definitive, cosa che vorrei fosse chiarita con un decreto legge". A parlare è Franco Corleone, commissario del Governo per l’applicazione della legge che ha stabilito la chiusura degli Opg indicando tra l’altro come termine il 31 marzo 2015. Il lavoro non è finito, visto che restano ancora aperti gli ospedali psichiatrici giudiziari di Montelupo Fiorentino e Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) con dentro una cinquantina di persone. La prossima settimana finalmente chiuderà Aversa, il manicomio criminale più antico d’Italia. Al posto degli Opg stanno nascendo le Rems: oggi sono 24 sulle 30 previste e ospitano circa 520 persone. Ma 195 sono ancora fuori. "Se si procede così i posti non basteranno mai - spiega Corleone - Ne abbiamo parlato anche mercoledì in una riunione con le Regioni e i ministeri della Giustizia e della Sanità. Chi aspetta il giudizio va mandato, anche a seconda della gravità di ciò che ha fatto, nella sezione sanitaria di un carcere, o in un reparto psichiatrico dell’ospedale. Ma ci sono anche Regioni che hanno creato strutture "intermedie" di assistenza, come ad esempio case famiglia, e che quindi "soffrono" di meno. In Emilia Romagna ci sono 5 ordinanze non eseguite per mancanza di letti nei Rems contro le 44 della Sicilia". Gli Opg in alcuni anni sono arrivati ad ospitare anche 1.400 persone, più del doppio della disponibilità delle Rems. Secondo Corleone non è questo il problema, perché la nuova legge ha cambiato completamente l’approccio verso i malati psichiatrici pericolosi. "Negli Opg c’erano i cosiddetti "ergastoli bianchi", con le persone che restavano dentro tutta la vita. Nei Rems, la misura detentiva è equiparata alla pena per il reato commesso. Se sono previsti 10 anni, si resta dentro non di più. E poi c’è il grande tema dell’assistenza mirata a recuperare queste persone e a reinserirle nella società. Le strutture sono piccole, ci sono stanze a due letti con il bagno, si mangia insieme". Anche dei più pericolosi si occupa comunque il personale sanitario e non ci sono portoni o cancelli a chiudere dentro gli ospiti. Tutti particolari che hanno fatto dire ai sostenitori della riforma che siamo di fronte alla rivoluzione più importante nel mondo delle malattie mentali dai tempi della legge Basaglia. Decreto sicurezza, multe e Daspo a chi abusa della movida di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 13 giugno 2016 In arrivo il testo, formato da una ventina di articoli, concordato tra Viminale e Anci. Ai sindaci il potere di firmare ordinanze permanenti, stretta sulle manifestazioni. Sarà un decreto. E potrebbe arrivare a ridosso della seconda tornata delle elezioni amministrative. È pronto il piano del Viminale sulla sicurezza urbana. Un provvedimento che concede maggiori poteri ai sindaci e un più forte coordinamento dello Stato in materia di tutela della sicurezza delle città e del decoro urbano in modo da colpire soprattutto chi abusa della movida. E contempla la possibilità di "ordinanze stabili", cioè che non possono essere impugnate di fronte ai tribunali amministrativi, anche se su questo i giuristi non sono affatto d’accordo. I tempi del decreto - Non è ancora chiaro se il decreto del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, verrà presentato nel prossimo Consiglio dei ministri o in quelli successivi. Nel corso dell’ultimo incontro tra i due il presidente del Consiglio Matteo Renzi avrebbe espresso perplessità rispetto all’ipotesi di intervenire prima dei ballottaggi. L’impianto è già stato concordato con l’Anci e il testo, formato da una ventina di articoli, prevede svariate novità. C’è il Daspo contro spacciatori, parcheggiatori abusivi e l’"accattonaggio invasivo". C’è il divieto di manifestazioni in luoghi particolari senza l’avallo del Viminale. E la possibilità di emettere ordinanze urgenti. L’obiettivo - La sicurezza viene vista come "bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città". E viene perseguita anche "attraverso la riqualificazione e il recupero dei siti più degradati, all’eliminazione dei fattori di marginalità sociale e di esclusione, la prevenzione della criminalità. In particolare quella di tipo predatorio, dei fenomeni antisociali e di inciviltà". L’intento dichiarato del provvedimento è quello di avere "strumenti adeguati per garantire una serena convivenza nelle nostre città". Le linee del governo - La principale novità cui è ispirato il testo è ribaltare l’impostazione attuale in cui le regioni interloquiscono direttamente in materia di sicurezza urbana. Gli accordi tra Stato e regioni dovranno svolgersi nell’ambito di linee generali adottate su proposta del Ministero dell’Interno. Fulcro del coordinamento governo città diventa la Conferenza Stato città e Autonomie locali. Limitazione ai cortei - A "tutela della sicurezza di particolari luoghi, il prefetto, sentito il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, definisce, sulla base delle direttive del Ministro dell’interno, le aree urbane nelle quali è possibile lo svolgimento di pubbliche manifestazione" che vedono in piazza un gran numero di partecipanti. Daspo per droga - Limitazioni verranno poste, in luoghi particolari, "all’abuso di bevande alcoliche, all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, all’esercizio della prostituzione, o alla violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi". Potranno essere oggetto di questo tipo di "tutela" "stazioni, giardini pubblici, infrastrutture fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e le relative pertinenze". A tal fine è previsto che i regolamenti di polizia urbana possano individuare aree urbane di "particolare pregio artistico, storico o architettonico o interessate da consistenti flussi turistici, o adibite a verde pubblico" cui applicare questi divieti. Le pene previste - Per chi trasgredisce sono previste sanzioni pecuniarie, l’allontanamento dal luogo in cui è stato commesso il fatto, e il sequestro delle cose servite o destinate a commettere l’illecito o che ne costituiscono il provento. Somme da destinare al miglioramento del decoro urbano. Il Daspo dura 48 ore e viene rivolto per iscritto. In caso di reiterazione dei fatti il questore, qualora dalla condotta tenuta possa derivare pericolo per la sicurezza, può disporre, un allontanamento più duraturo: fino a un anno. Per chi contravviene è prevista la reclusione da uno a tre anni. Sospensione giudizio con messa alla prova: si tiene conto solo della pena massima prevista di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 25 maggio 2016 n. 21941. Nell’individuazione dei reati, non ricompresi nel comma 2 dell’articolo 550 del Cpp, rispetto ai quali è applicabile l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova di cui all’articolo 168-bis del Cp, occorre avere riguardo esclusivamente alla pena edittale massima prevista per la fattispecie base, prescindendo dalla contestazione delle circostanze aggravanti, ivi comprese quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle a effetto speciale. Lo ha ribadito la sezione III penale della Cassazione (riprendendo l’orientamento espresso dalle sezioni Unite) con la sentenza n. 21941 del 25 maggio 2016. Il principio seguito e quello difforme - In termini, si vedano sezioni Unite, 31 marzo 2016, Sorcinelli (non ancora depositata), che così, riprendendo l’orientamento prevalente (sezione IV, 9 dicembre 2014, Proc. Rep. Trib. Padova in proc. Gnocco e altro; Sezione IV, 10 luglio 2015, Jenkins Rossi), disattende espressamente l’isolata decisione (Sezione VI, 30 giugno 2015, Fagrouch), dove la Cassazione aveva invece affermato che, nell’individuazione dei reati rispetto ai quali è applicabile l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova di cui all’articolo 168-bis del Cp avendo riguardo al mero riferimento edittale ("reati puniti…con la pena edittale detentiva non superiore al massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria…"), non doveva aversi riguardo alla sola pena edittale massima prevista per la fattispecie base, ma doveva tenersi conto delle aggravanti per le quali la legge prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle a effetto speciale. La tesi seguita anche dalle sezioni Unite, e ovviamente fatta propria dalla sentenza qui riportata, è senz’altro convincente, vuoi letteralmente vuoi sistematicamente. Infatti, sul piano letterale, manca nella disciplina normativa alcun esplicito riferimento alla possibile incidenza delle eventuali aggravanti, mentre ogni volta che il legislatore ha voluto che si tenesse conto delle circostanze aggravanti lo ha espressamente previsto. Inoltre, anche strutturalmente, ai fini della decisione sull’istanza presentata ex articolo 464 bis del Cpp,al giudice non è consentito pronunciarsi sulla fondatezza dell’accusa, dunque sulla configurabilità o meno del fatto aggravato, se non in termini negativi circa la sussistenza delle condizioni per la pronuncia di una sentenza di proscioglimento. Concorso dell’extraneus nel reato di rivelazione segreti d’ufficio Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2016 Reati contro la p.a. - Rivelazione di segreti di ufficio - Concorso dell’extraneus - Presupposti e modalità. Ai fini della sussistenza del concorso nel reato dell’extraneus, è necessario che questi, lungi dal limitarsi a ricevere la notizia, istighi o induca il pubblico ufficiale a porre in essere la rivelazione. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 3 dicembre 2015 n. 47997. Reati contro la p.a. - Rivelazione di segreti di ufficio - Divulgazione del contenuto di informative di reato - Concorso dell’extraneus. Ricorre il concorso nel delitto di rivelazione di segreti d’ufficio quando vi è divulgazione da parte dell’extraneus del contenuto di informative di reato redatte da un ufficiale di polizia giudiziaria poiché l’extraneus realizza in tal modo una condotta ulteriore rispetto a quella dell’originario propalatore. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 2 novembre 2009 n. 42109. Reati contro la p.a. - Rivelazione di segreti di ufficio - Concorso dell’estraneo nel reato proprio del pubblico ufficiale. In tema di rivelazione di segreti d’ufficio, risponde del reato a titolo di concorso con l’autore principale il direttore responsabile di un sito internet ove sia stata effettuata la pubblicazione di un atto amministrativo a carattere riservato. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 30 luglio 2007 n. 30968. Reati contro la p.a. - Rivelazione di segreti di ufficio - Concorso dell’estraneo - Configurabilità. In tema di rivelazione di segreti di ufficio, l’estraneo risponde del reato a titolo di concorso con l’autore principale qualora abbia rivelato ad altri una notizia segreta riferitagli come tale, giacché realizza una condotta ulteriore rispetto a quella dell’originario propalatore. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 1 aprile 2004 n. 15489. Le condotte che integrano la rivelazione di segreti d’ufficio Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2016 Reati contro la p.a. - Rivelazione di segreti di ufficio - Comunicazione della notizia di iscrizione nel registro degli indagati - Configurabilità. Integra il delitto di rivelazione di segreti d’ufficio la condotta del collaboratore di cancelleria che fornisca a terzi non autorizzati a riceverla, e senza rispettare la procedura prevista dall’art. 110 bis disp. att. cod. proc. pen., la notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati di una determinata persona. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 3 novembre 2015 n. 44403. Reati contro la p.a. - Rivelazione di segreti di ufficio - Iscrizione nel registro degli indagati - Comunicazione della notizia di iscrizione nel registro degli indagati a terzi - Mancato rispetto della procedura ex art. 110 bis disp. att. cod. proc. pen. Integra il delitto di rivelazione di segreti d’ufficio la condotta del collaboratore di cancelleria che fornisca a terzi non autorizzati a riceverla, e senza rispettare la procedura prevista dall’art. 110 bis disp. att. cod. proc. pen., la notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati di una determinata persona. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 8 giugno 2012 n. 22276. Reati contro la p.a. - Rivelazione di segreti di ufficio - Assenza di iscrizioni nel registro degli indagati - Divulgazione della notizia - Reato - Sussistenza. Integra il delitto di rivelazione di segreti d’ufficio la condotta del collaboratore di cancelleria che fornisca a terzi non autorizzati a riceverla, e senza rispettare la procedura e la formula all’uopo previste dall’art. 110 bis disp. att. proc. pen., la notizia sull’assenza di iscrizioni nel registro degli indagati a carico di una determinata persona. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 20 giugno 2011 n. 24583. Reati contro la p.a. - Rivelazione di segreti di ufficio durante le indagini preliminari da parte del collaboratore di cancelleria della Procura - Reato di pericolo concreto - Necessità di un pregiudizio per le indagini - Esclusione. Integra gli estremi del reato rivelazione di segreti d’ufficio, la condotta del collaboratore di cancelleria della Procura della Repubblica che riveli notizie d’ufficio, in una fase di assoluta delicatezza, quale quella delle indagini preliminari, a persona non autorizza a riceverle; né ai fini della configurabilità del reato è necessaria la prova dell’esistenza di un effettivo pregiudizio per le indagini, posto che si tratta di un reato di pericolo concreto che tutela il buon andamento della amministrazione, che si intende leso allorché la divulgazione della notizia sia anche soltanto suscettibile di arrecare pregiudizio a quest’ultima o ad un terzo. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 29 novembre 2004 n. 46174. Abruzzo: presidio di Rifondazione Comunista per la nomina del Garante dei detenuti abruzzolive.it, 13 giugno 2016 Prenderà inizio alle 11 il presidio di Rifondazione Comunista davanti all’Emiciclo chiamato a decidere sulla nomina del Garante dei detenuti. "Saremo davanti al Palazzo dell’Emiciclo a L’Aquila per chiedere di non rinviare ulteriormente un adempimento su cui l’Abruzzo è già in grandissimo ritardo. La legge istitutiva del Garante è inapplicata da cinque anni. Ci rivolgiamo a tutti i consiglieri di maggioranza e opposizione affinché si abbandonino veti privi di senso e ci si ritrovi oltre gli schieramenti su una candidatura di indiscusso valore". Così in una nota Maurizio Acerbo. "La legge presentata da Rifondazione fu approvata dopo anni di battaglie in Consiglio. A sostenerla dall’esterno ci furono sempre i radicali Marco Pannella e Rita Bernardini che ogni volta che visitavano le carceri abruzzesi ricordavano che c’era un vuoto legislativo da colmare. Questi ulteriori 5 anni di ritardo nell’attuazione danneggiano non solo le persone sottoposte a misure restrittive, ma l’intero sistema carcerario, gli operatori, il personale e le istituzioni stesse che mancano di un fondamentale strumento di stimolo e conoscenza. Marco Pannella, ormai quasi un anno fa, aveva lanciato la candidatura dell’on. Rita Bernardini la cui competenza in materia è indiscussa e testimoniata da decenni di impegno concreto: nonostante un appello che ha visto firmatari illustri e trasversali, oltre 2.000 adesioni sui social network e le dichiarazioni della stessa candidata, che si è detta disponibile a farsi da parte purché avvenga finalmente la nomina, il Consiglio Regionale non ha ancora provveduto ad eleggere il Garante dei detenuti. Si sperava che una personalità al di fuori dalle beghe e dalle spartizioni della politica regionale aiutasse a sbloccare la situazione. Dopo il commosso omaggio reso a Marco Pannella dalle istituzioni e dai cittadini italiani e abruzzesi in occasione della sua scomparsa, auspichiamo che venga finalmente eletto il Garante, richiesta che Pannella ha instancabilmente ripetuto fino a quando la malattia non gli ha impedito di partecipare alla vita pubblica. Oltre a Rifondazione Comunista e Amnistia Giustizia Libertà" conclude Acerbo "hanno finora aderito Teramo nostra, il Centro d’iniziativa comunista Sandro Santacroce di Teramo, Pescara Puntozero, Possibile L’Aquila, Arci Teramo, 3e32 / CaseMatte L’Aquila, l’avvocata Simona Giannangeli, Sel Abruzzo, la Camera Penale dell’Aquila con il presidente Gianluca Totani e del responsabile osservatorio carceri Fabiana Gubitoso. Confermata la partecipazione dell’avvocata Cinzia Simonetti per la Camera Penale di Sulmona". Cagliari: suicidio in carcere, si è impiccata una donna di 51 anni L’Unione Sarda, 13 giugno 2016 La detenuta, tossicodipendente, era sotto osservazione: sarebbe uscita fra un anno. Doveva restare là dentro per un altro anno. Una prospettiva che, evidentemente, l’ha l’atta cadere nello sconforto più grande. Al punto che G.M., detenuta cinquantunenne nel carcere di Uta, ha deciso di togliersi la vita impiccandosi. Tossicodipendente, la donna stava vivendo la detenzione in totale solitudine: raccontano che non effettuava mai colloqui con i familiari. Per questa ragione era tenuta sotto osservazione perché considerata a rischio. Ma, evidentemente, la sua decisione di farla finita e stata più forte di qualunque controllo: così, nella solitudine della sua cella, è riuscita a portare a termine il suo proposito. Una notizia accolta con grande dolore all’interno della struttura penitenziaria. "Sconforto, afferma Maria Grazia Caligaris, presidentessa dell’associazione "Socialismo, diritti, riforme", da sempre attenta alle questioni legate al carcere, tra gli operatori penitenziari e, in particolare, tra le agenti e i medici della casa circondariale di Cagliari-Uta che si sono prodigati nel tentativo di salvarla. Il suicidio di una detenuta lascia sgomenti e senza parole ma purtroppo è un segnale doloroso e indelebile della condizione di solitudine, abbandono e perdita della speranza di una persona. Una sconfitta per tutti". Maria Grazia Caligaris, appresa la notizia del suicidio della cinquantunenne, non da responsabilità a nessuno. "Una tragedia imprevedibile", afferma, "considerando che la donna era costantemente sotto osservazione ma che documenta il senso di profonda fragilità talvolta espressa proprio nella incapacità di comunicare il proprio stato emotivo". Dal suicidio della donna, però, nasce una riflessione: forse si sarebbe potuto evitare se fossero state prese in considerazione misure di punizione diverse rispetto alla carcerazione. "L’ennesimo documento umano di denuncia", prosegue Caligaris, "che ancora una volta pone interrogativi sulla necessita di accedere alle misure alternative e a luoghi meno afflittivi soprattutto per chi non ha strumenti adeguati per salvaguardare se stesso". Non è, purtroppo, la prima volta che un detenuto nel carcere di Uta decide di togliersi la vita. E a correre i rischi più grossi sono le persone alle prese con problemi di tossicodipendenza (da eroina ma anche da alcol e gioco d’azzardo). Persone che avrebbero bisogno di percorsi personalizzati. anche perché tanti di loro fanno i conti anche con problemi sanitari (alcuni sono sieropositivi, altri sono affetti da epatite C). Detenuti, appunto, per i quali sarebbe il caso di fare ricorso alle misure alternative. Firenze: detenuto si impicca nella Casa circondariale di Sollicciano Corriere Quotidiano, 13 giugno 2016 Nella Casa circondariale Sollicciano di Firenze un detenuto italiano si è impiccato in cella. Ne dà notizia è il Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe, ricordando che una settimana fa si era suicidato un detenuto nel carcere di Massa. "P.G., della provincia di Caserta, stava ai domiciliari dalla sua ragazza fino all’anno scorso, poi la fidanzata lo lasciò ed è rientrato in carcere. Stamattina ha approfittato che i suoi compagni di cella erano chi all’aria e chi a colloquio per impiccarsi - riferisce Pasquale Salemme, segretario regionale Sappe per la Toscana - Era nato nel 1981 a Maddaloni (Ce), nell’aprile scorso gli avevano revocato i domiciliari e si era dato alla latitanza per qualche mese per poi costituirsi subito dopo. Aveva un altro anno da scontare, ma anche diversi processi ancora aperti". "Questo nuovo drammatico suicidio di un detenuto in un carcere della Toscana evidenzia come i problemi sociali e umani permangono nei penitenziari, lasciando isolato il personale di Polizia Penitenziaria (che purtroppo non ha potuto impedire il grave evento) a gestire queste situazioni di emergenza - afferma Donato Capece, segretario generale del Sappe. Negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 18mila tentati suicidi ed impedito che quasi 133mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze. Il dato oggettivo è che la situazione nelle carceri resta allarmante". Caserta: l’Opg di Aversa chiude. Castaldo: "si rispetti la volontà degli aversani" di Nicola Rosselli pupia.tv, 13 giugno 2016 Chiama alla mobilitazione l’ex assessore e avvocato Antimo Castaldo contro la decisione oramai ufficiale: il responsabile del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in seno al Ministero di Giustizia, Santi Consolo, lo ha annunziato addirittura in televisione: è stato firmato il decreto di chiusura dell’ospedale psichiatrico giudiziario "Filippo Saporito" che, come lo stesso Consolo ha dichiarato, sarà riconvertito in carcere per detenuti a basso indice di pericolosità. Una decisione che era stata ipotizzata da almeno tre anni e che si è materializzata da un anno. In particolare da quando, nel febbraio 2015, il Provveditore regionale campano dell’Amministrazione penitenziaria, Tommaso Contestabile, dichiarò di aver presentato al Ministero di Grazia e Giustizia un progetto di riconversione dell’Opg in istituto per 150-200 detenuti a basso indice di pericolosità. Addirittura per i nuovi ospiti che giungeranno nella città normanna era già pronto il progetto Habitat sociale, finanziato con fondi della sanità penitenziaria e dal Dipartimento di Sanità Mentale dell’Asl di Caserta diretto dall’aversano Luigi Carrizzone. "La politica - ha dichiarato Castaldo - deve farsi carico di quella che è la volontà degli aversani e non lasciare la questione in mano ai burocrati. Necessita una presa di posizione dei due candidati al ballottaggio, di cui uno appartenente al partito di governo". Che l’Opg sarebbe diventato un carcere lo aveva dichiarato anche il sottosegretario Pd Gennaro Migliore, in visita a Napoli Nord e all’Opg, nel febbraio scorso, salvo, poi, rimangiarselo quando la stampa gli fece notare che la città e lo stesso Pd locale erano fermamente contrari. Ma, evidentemente, la decisione era stata presa. Decisione, quella di trasformare l’Opg in un centro di detenzione a bassa e media intensità delinquenziale, adottata dopo che la Regione Campania (quando il governatore era ancora Stefano Caldoro), interpellata sull’utilizzo dell’area da parte sua, si è detta non interessata. L’ipotesi di una riconversione in istituto di pena in città non trova, ovviamente, nessuna sponda anche tra chi ha amministrato negli ultimi anni o chi, come l’ex sottosegretario alla Giustizia, Pasquale Giuliano, ad Aversa ha portato il tribunale di Napoli Nord che ha parlato di dare vita ad una cittadella giudiziaria aprendo le strade interne per restituire alla città il suo centro storico. Sulla sua stessa scia l’ex sindaco Raffaele Ferrara, gli ex assessori Marcantonio Abate e Antimo Castaldo che ritengono anacronistica una decisione di questo tipo. Infine, il presidente regionale e provinciale degli architetti, nonché possibile candidato per il centrodestra a sindaco, Enrico de Cristofaro, sul punto ha dichiarato: "Dal punto di vista urbanistico sarebbe una scelta scellerata. Un macigno all’interno della conurbazione urbana. Per noi deve essere una struttura aperta nell’ambito della sistemazione del centro storico. Dobbiamo rivendicare la possibilità di scelta da parte della comunità locale". Il suo competitor al ballottaggio Marco Villano dichiarò: "Siamo per ridare tutta l’area o parte di essa alla città. Cosa che può avvenire anche cedendo parte degli immobili al tribunale di Napoli Nord che ne ha bisogno". Firenze: Opg, i Radicali danno il via alla raccolta firme per la chiusura della struttura gonews.it, 13 giugno 2016 È iniziata ieri mattina a Montelupo Fiorentino la raccolta firme sulla petizione popolare per chiedere la chiusura dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo F.no. L’iniziativa, promossa dai radicali dell’Associazione "Andrea Tamburi", è indirizzata al Commissario unico per il superamento dell’Opg, al Dap, al Prap, e alla presidenza della Regione Toscana e chiede la chiusura della struttura di Montelupo entro e non oltre il 31 dicembre 2016. In poco meno di due ore hanno firmato 76 cittadini di Montelupo, tra essi anche il sindaco, Paolo Masetti. La raccolta firme proseguirà oggi pomeriggio a Prato a partire dalle ore 18 in via S. Antonio 7, dove tra l’altro sarà possibile firmare la proposta di legge radicale per la legalizzazione della cannabis e ascoltare il dibattito sul tema cui parteciperà Marco Perduca, già senatore radicale e attuale coordinatore della campagna per la legalizzazione della cannabis. Genova: bambini in carcere, il nuovo progetto di sostegno nelle celle di Chiavari La Repubblica, 13 giugno 2016 Si chiama "Progetto Bambini e Carcere" ed è sviluppato da Telefono Azzurro. Al 31 dicembre 2015, la popolazione detenuta è pari a 52.475; di questi, circa 22.361 sono anche genitori. L’associazione cerca di favorire e rendere meno traumatiche le relazioni di bambini e ragazzi con genitori detenuti, attraverso attività ludiche, formative e di assistenza. Il progetto "Bambini e Carcere" di Telefono Azzurro arriva in Liguria, con l’inaugurazione della Ludoteca nella Casa di Reclusione di Chiavari. Uno spazio accogliente e familiare, in cui i volontari dell’associazione cercheranno di favorire e rendere meno traumatiche le relazioni di bambini e ragazzi con genitori detenuti, attraverso attività ludiche, formative e di assistenza. Il lavoro dei volontari. La presentazione del progetto c’è stata presso la sala colloqui della Casa di Reclusione di Chiavari in via Gasometro 2, tutta dipinta dai detenuti e decorata dai ragazzi del Liceo artistico Luzzati con alcune sculture in legno. Sono intervenuti Paola Penco, Direttrice del Carcere, Ernesto Caffo, Presidente di Telefono Azzurro e docente di Neuropsichiatria Infantile, Andrea Tonellotto, Comandante del Carcere, Roberto Levaggi, Sindaco di Chiavari e Luigi Barbieri Vice Sindaco di Lavagna. Saranno proprio i volontari del gruppo territoriale di Lavagna a portare avanti il progetto di Chiavari, che diventerà, così, la 18esima sede dell’attività: al momento, infatti, "Bambini e Carcere" opera già in 17 strutture in tutta Italia ed è in fase di attivazione anche a Voghera e Santa Maria Capua Vetere. Su 52mila detenuti 22.300 sono genitori. Presso tutte queste strutture vengono seguiti mensilmente circa 857 minori attraverso la costante presenza di 224 volontari adeguatamente formati e preparati. Dalle statistiche del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria emerge che, al 31 dicembre 2015, la popolazione detenuta è pari a 52.475; di questi, circa 22.361 sono anche genitori (fonte: Ministero della giustizia). Il progetto, sviluppato in collaborazione con il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, nasce nel 1993 a Milano e prevede che tutte le attività dei volontari siano finalizzate a creare un clima sereno e accogliente per il minore. I due momenti fondamentali. Due i momenti fondamentali: la "pre-accoglienza" e il colloquio in ludoteca. Il primo è quello precedente all’incontro con il genitore detenuto e ha come scopo quello di allentare la tensione dovuta alle procedure per entrare nel carcere. Superata questa fase, l’attività entra nel vivo con l’incontro tra genitori e figli. I volontari, in questo contesto, avviano attività che permettono a genitori e figli di essere i veri protagonisti: giochi, laboratori, animazione e assistenza, con l’unico obiettivo di tutelare la crescita psico-affettiva del minore e garantire un ambiente sereno per la coltivazione del rapporto con i genitori. Parallelamente a queste attività, i volontari si impegnano anche a costruire momenti di confronto con i genitori detenuti volti a far comprendere loro le finalità del progetto, ovvero il recupero degli affetti familiari, attraverso "gruppi di parola", momenti di condivisione di esperienze e emozioni, laboratori di scrittura e colloqui individuali. Si mette in pratica l’articolo 9 della Costituzione. "Il progetto Bambini e Carcere ha l’obiettivo di favorire il rapporto dei minori con i genitori detenuti, anche in un contesto come la realtà carceraria spesso difficile da comprendere, soprattutto per un bambino", ha commentato Ernesto Caffo, Presidente di Telefono Azzurro e Docente di Neuropsichiatria Infantile, "Telefono Azzurro si impegna quotidianamente al fianco di bambini e genitori in carcere, da oltre 20 anni, in istituti penitenziari di tutta Italia, intervenendo in prima persona - durante e dopo il carcere - per contribuire a ricostruire un tessuto sociale e familiare lacerato. Un progetto che intende mettere in pratica il principio sancito dall’articolo 9 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia secondo cui il bambino i cui genitori, o uno dei due, si trovano in stato di detenzione, deve poter mantenere con loro dei contatti appropriati". Monza: rissa in carcere tra stranieri per il volume della tv di Marco Galvani Il Giorno, 13 giugno 2016 Un gruppo di detenuti romeni si sono scagliati contro un marocchino. Dalle parole si è passati in pochi istanti a una vera e propria aggressione a colpi di calci, pugni e anche lamette. Violenta rissa fra stranieri in carcere a Monza. Un gruppo di detenuti romeni si sono scagliati contro un marocchino. A innescare la miccia all’interno della Quinta sezione, il volume della televisione tenuto troppo alto nelle ore serali dai musulmani che in questi giorni stanno osservando il Ramdan. Dalle parole si è passati in pochi istanti a una vera e propria aggressione a colpi di calci, pugni e anche lamette. Per riuscire a riportare la calma e dividere i detenuti sono dovuti interventi una trentina di agenti. Dopo aver disarmato i reclusi, i poliziotti li hanno accompagnati nell’infermeria dell’istituto per medicare escoriazioni e tagli. È l’ennesimo episodio di tensione in via Sanquirico, il terzo in meno di due settimane. "Ormai questo scontro di etnie è all’ordine del giorno, frutto del regime di detenzione aperto che consente ai detenuti di circolare liberamente durante il giorno all’interno della propria sezione - la denuncia di Nico Tozzi, vice segretario regionale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria. Un regime sbagliato che sta aumentando le criticità. E nello stesso noi agenti siamo sempre sotto organico". Milano: i prodotti dei detenuti in vendita alla Loggia dei Mercanti di Zita Dazzi La Repubblica, 13 giugno 2016 Uno street food che recupera le ricette delle antiche tradizioni con i detenuti ai fornelli. Un capo della polizia penitenziaria che insegna musica ai carcerati e ne produce le cover. Una cordata di cooperative sociali che producono e rivendono all’esterno mobili, gioielli, accessori, pane, dolci, focacce e oggetti di design prodotti dietro le sbarre. Insomma, il carcere al centro della città, proprio quando si parla si chiudere San Vittore e spostarlo fuori mano. Alla Loggia dei Mercanti, dalle 10 alle 18.30, si potranno conoscere i mille progetti nati nel ristretto orizzonte del carcere, dove ci si impegna per far sì che i reclusi non siano dimenticati dalla società, ma reinseriti come potenziale risorsa. Una scommessa a cui si stanno dedicando in molti - volontari, educatori, ma anche giuristi e dirigenti dell’amministrazione penitenziaria - nella speranza e nella certezza che il reinserimento sociale può essere un grande vantaggio per la collettività: il tasso di recidiva di chi ha commesso un reato cala drasticamente quando il condannato ha modo di scontare la pena in un modo "utile", attraverso il lavoro dentro e fuori le mura, nel rispetto della dignità umana. Ci saranno tanti banchi per acquistare i prodotti fatti in carcere o dai carcerati ammessi al lavoro esterno, nelle aziende private o nelle cooperative nate ad hoc. Ma a spiegare questi concetti al pubblico e ai passanti del centro di Milano ci saranno alcune delle persone che più si sono impegnate negli ultimi anni per l’obiettivo di una giustizia non vendicativa, ma "riparativa", capace di far dialogare vittime e autori dei reati. Ci sarà l’ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo, che da anni dedica il suo impegno a insegnare il rispetto delle regole ai giovani. E ci sarà anche Luigi Pagano, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria. Accanto a loro, molti esperti che hanno partecipato col ministro della giustizia Orlando agli Stati generali per la riforma dell’esecuzione penale, cioè del modo in cui sconta la pena chi si è macchiato di crimini. L’iniziativa "I frutti del carcere" è dell’associazione "Per i diritti" con 40 espositori da tutta Italia. Roma: Progetto Papageno; sono detenuti e volontari, canteranno al Senato di Luca Baccolini La Repubblica, 13 giugno 2016 L’ensemble voluto da Claudio Abbado è stato invitato il 20 giugno dal presidente Grasso La figlia Alessandra: "Il nostro sogno è far nascere un progetto Papageno in ogni carcere italiano". Dai letti a castello del carcere ai banchi del Senato, dalla Dozza a Palazzo Madama, dal clangore di chiavi agli applausi. Ai detenuti che il 20 giugno alle 17 varcheranno per la prima volta nella storia la soglia del Senato e canteranno in diretta su Rai Due, forse riecheggerà la frase che Claudio Abbado amava ripetere ad ogni progetto che la sua energia instancabile trasformava in azione: "la musica salva la vita". Quella del coro Papageno, che ha portato una cinquantina di detenuti a diventare un coro stabile e a esibirsi davanti a un vero pubblico pagante, è una delle sfide più ardite intraprese dal maestro scomparso nel 2014, accanto alla musica portata nel reparto pediatrico del Gozzadini e nel carcere minorile del Pratello. Simbolicamente, però, la Dozza è stata sempre la montagna più alta da scalare: lì si concentrano sfortune personali e collettive, drammi o speranze recise, culture differenti, spesso mute tra loro, uomini e donne in reparti separati, problemi logistici e di sicurezza. Tutto questo sembrava di colpo svaporato, quando ieri pomeriggio Michele Napolitano, il maestro del coro accompagnato da dieci musicisti professionisti (molti cresciuti nell’Orchestra Mozart), ha dato l’attacco al primo canto popolare macedone, che ha aperto il concerto nella chiesa del carcere. Vestiti con la stessa maglietta blu, detenuti e volontari hanno levato il loro canto, libero, finché ha resistito l’impressione che quelle mura non fossero presidiate da telecamere e secondini. Alessandra Abbado, figlia di Claudio, è la mano che ha reso possibile la sopravvivenza del progetto, sotto l’insegna dell’Associazione Mozart14: "La musica è strumento di riscatto - spiegava ieri con un velo di commozione -. Abbiamo raccolto il testimone delle iniziative di mio padre, perché non potevamo permettere che venissero interrotte. Il sogno, adesso, è che in ogni carcere italiano nasca un coro Papageno. In nessun luogo come in questo si può dimostare che la musica ha un valore etico oltre che estetico. Il coro insegna un metodo di convivenza, è un esercizio di comprensione e ascolto reciproco. Ho visto anche detenuti ballare, ed è stato un momento commovente". Tutto questo, tra otto giorni, sarà testimoniato nell’aula del Senato, su invito diretto del presidente Pietro Grasso, che così ha voluto celebrare con un giorno d’anticipo la Festa Europea della Musica. Le prove, il concerto di ieri e la giornata romana formeranno il materiale per un docu-film di Enza Negroni. "Il carcere - spiegava Claudia Clementi, direttrice della Dozza - è visto dalla collettività come un peso. Noi dimostriamo che anche da qui si può produrre bellezza, restituendo qualcosa alla città. Le storie personali, spesso tragiche, di qui dentro insegnano tanto anche a chi sta fuori". E ieri come veri concertisti - pur digiuni, fino a pochi mesi fa, di qualsiasi nozione musicale - i detenuti hanno concesso pure due bis. Ora li attende Roma, alla prima tournée della loro vita. Pavia: musica in carcere, il convegno sul Progetto CO2 con i detenuti di Franco Mussida Corriere della Sera, 13 giugno 2016 Oggi, 13 giugno, è il gran giorno. Il giorno in cui in una prestigiosa università italiana si tiene un convegno su un tema caro non solo a me, ma a tutta la mia generazione oggi ormai rassegnata e disillusa. Il giorno in cui si certifica che la musica può veramente cambiare il mondo. Lo si è dimostrato attraverso i risultati scientifici ricavati da tre anni di sperimentazione e osservazioni fatte con un centinaio di detenuti in quattro carceri in Italia. Ci credevano tanto quelli del rock and roll, dei Beatles e dei Rolling Stones, di John Baez e di Bob Dylan. Ma poi, vedendo il progredire del fenomeno della musica popolare nei decenni successivi, hanno smesso di crederci. Così ad aiutarci a dimostrare inequivocabilmente che con la musica è davvero possibile cambiare il mondo, ci hanno pensato cento detenuti e un gruppo di almeno il triplo di questi, tra coordinatori, psicologi, musicisti, insegnanti, educatori, maestranze di Opera, Monza, Rebibbia femminile e Secondigliano. E i tantissimi che hanno offerto musica strumentale per riempire le audio-teche, associando a ogni brano la propria soggettiva visione emotiva. Non esiste cambiamento senza un impegno forte, senza una lotta anche dura. Se il medico lotta contro la malattia affinché ogni malato guarisca, il musicista dovrebbe lottare per dare salute interiore, senso costruttivo alla vita emotiva, gioia e intimo appagamento. Sono comprensibili la rassegnazione e la disillusione delle generazioni degli attuali sessantenni e settantenni. Questo stato d’animo, però, si basa su un grave errore di valutazione. Non è infatti la musica aggregata alla politica o alla sociologia che può cambiare il mondo. Non sono né Grillo né Renzi, Salvini, Obama, Putin o Clinton che possono farlo. Anche se la cultura ci prova, loro possono essenzialmente modificare alcune condizioni della vita sociale, distribuire in modi diversi ricchezze e povertà. Cambiare il mondo significa cambiare l’uomo, modificarlo in profondità, interiormente. Trasformare la sua tendenza egotica giudicante e autodistruttiva, cambiare in modo compassionevole il rapporto con se stesso, con gli altri, con l’essere del pianeta. Cento detenuti hanno dimostrato che c’è un’altra strada da percorrere che può condurci a farlo. E che non si tratta né di quella della scienza e della materia, che non hanno compiti etici, né quella delle religioni come si vivono oggi, che si sono chiuse a riccio. Ma si tratta di una diversa dimensione di ricerca magica e laica al contempo. Una ricerca che ha in sé la stessa lucidità di osservazione degli scienziati e la medesima dedizione e venerazione nei confronti di ciò che è vivente proprie degli sciamani. È una nuova dimensione dell’arte: un’arte vera e di servizio, un’arte fuori dal mercato. Con il progetto Co2 la musica è servizio, ovvero "serve". Grazie a un diverso modo di ascoltarla, di accostarsi a essa, si è visto che può aiutare ad aprire nuove brecce nell’intimità delle persone devastate emotivamente dalla carcerazione, provando a bonificare in modo naturale quel marciume emotivo fatto di rabbia e odio, con il balsamo della saggezza presente nelle composizioni create dalla genialità, e dalle passioni educate da quelle regole ancestrali e matematiche padroneggiate dai musicisti. Musica di cui si è orientato l’ascolto in modo diverso, musica concessa - per così dire - in uso alla persona, offerta e recepita dai detenuti come acqua per un giardino interiore abbandonato, arido, rinsecchito. Musica per illuminare, per rendere di nuovo percepibile e per riscaldare il vero centro di gravità della nostra vita, specie quella di quegli uomini che vivono in luoghi estremi come le galere: ovvero il loro centro emotivo, il loro cuore. Il loro universo affettivo. La meraviglia è che la musica è un nostro elaborato. Siamo noi che utilizzando il mondo che vibra, quello della vita, abbiamo scoperto e ordinato i suoni; semi sonori in cui sono rinchiuse copie di tutti i nostri sentimenti, semi utili a promuovere positivi cambiamenti d’umore che col tempo possono diventare stabili. I detenuti sono l’avanguardia di questa sperimentazione e non li ringrazieremo mai abbastanza. Sono loro che ci hanno dimostrato che prima o poi daremo alla musica un ruolo diverso da quello immiserito che ora si ritrova ad avere. Oggi è davvero un gran giorno. Nasce in Italia in dodici tra le più importanti città, la prima rete di audioteche divise per stati d’animo prevalenti. Per il momento è solo in ambito carcerario. Ma non ci si fermerà qui, perché la musica è una grande equilibratrice ed educatrice. Con questo metodo può essere utilizzata, in comunità, carceri minorili, ospedali, e in luoghi di grande stress come grandi e piccole aziende. Grazie di cuore a tutti quelli che hanno lavorato a ogni titolo attorno a questo progetto, e che ci hanno aiutato, a dimostrare quello che Le chiavi nascoste della Musica, il titolo del convegno promosso dall’Università di Pavia, rende pubblico: ovvero che la musica di tutte le epoche e di ogni stile, proposta in modo consapevole come strumento educativo del sentire affettivo, è un mezzo straordinario che ha il potere di cambiare l’uomo in meglio e, così facendo, di trasformare il mondo in cui vive. "La tempesta di Sasà". L’uomo che andò all’inferno e fu liberato da Shakespeare La Repubblica, 13 giugno 2016 "La tempesta di Sasà", di S. Striano. Chiarelettere pagg. 221, euro 16. Ex detenuto, ex camorrista, ex analfabeta. Sembra una favola, noir, la vita di Salvatore Striano, napoletano, 43 anni, e infatti ci ha scritto su due opere. Dopo Teste matte, in cui raccontava la sua giovinezza senza scuola, a capo di una gang, l’autore - ora attore affermato - torna in libreria con il suo secondo memoir, La Tempesta di Sasà (entrambi Chiarelettere). La Tempesta inizia con la fine della sua latitanza, in Spagna, quando fa a pezzi e inghiotte la carta d’identità, falsa, per evitare un ricarico della pena. Segue un viaggio nelle carceri italiane e straniere, viste dall’interno, con tre anni nelle celle spagnole e cinque a Rebibbia. Poteva andare a finire male, con un suicidio o perdendo la testa. E invece, Striano, specialista nel rialzarsi, si salva con una delle cose meno valorizzate in Italia: la cultura. Titolo shakespeariano - "La prigionia è una strada per la libertà", diceva il Bardo - e un alto tasso di sincerità, senza nascondere le proprie colpe. Se all’inizio la reclusione era un’"Università del crimine", dove impari a fare anche i reati che non conosci, poi prevale la voglia di riscatto. Inizia a studiare i suoi atti processuali, scrive lettere d’amore per i compagni di detenzione, fa un corso di teatro, che lo porta a frequentare la biblioteca del penitenziario. Nella scena clou il protagonista smette di prendere le gocce con cui lo sedavano, senza scalare, curandosi con i romanzi e con i copioni. Un manuale su come dovrebbe funzionare il sistema carcerario, oltre l’avventura umana, piena di speranza. Striano è stato diretto da Matteo Garrone in Gomorra e dai fratelli Taviani in Cesare deve morire, basato sul Giulio Cesare di Shakespeare, vincitore dell’Orso d’oro a Berlino. Calca i palcoscenici teatrali di tutta Italia. Il regista Stefano Incerti ha girato un film sulla sua "espiazione". "L’Arte tira fuori il buono dalle persone", rivela quest’uomo che non ha paura di mettersi a nudo. "Caricate le pistole di libri. Se la gente ogni mattina leggesse o recitasse per un quarto d’ora, prima di uscire di casa, farebbe meno danni". Così il migration compact rischia di restringere libertà e diritti di Raffaele K. Salinari Il Manifesto, 13 giugno 2016 Sin dalla loro nascita ufficiale come componente integrante della Guerra Fredda, nel 1946 a opera del presidente Usa Truman, gli aiuti allo sviluppo sono sempre stati in qualche modo condizionati e condizionanti. Allora, parlando al Congresso, Truman disse che il ruolo americano era quello di portare ogni paese che avesse seguito il suo modello economico allo stesso livello di vita degli statunitensi. Un sogno che si è poi rivelato un incubo per molti. Nella storia degli aiuti allo sviluppo i periodi più significativi partono dalla cosiddetta "cooperazione tecnica" degli anni 60, l’idea cioè che una sufficiente infrastrutturazione di quello che allora veniva definito Terzo Mondo, avrebbe portato le nazioni appena indipendenti a un livello di accumulazione del capitale tale da consentire l’avvio di un ciclo positivo, di ricchezza per tutti. In realtà gli ingenti prestiti forniti a governi, perlopiù dittatoriali, essendo stati eliminati tutti i leader democratici che rimettevano in discussione il modello di sviluppo post coloniale - vedi Lumumba, portarono a due evidenti risultati: costruire infrastrutture funzionali all’esportazione delle materie prime a basso costo, e un indebitamento il cui servizio sarebbe esploso vent’anni dopo consentendo ai donatori di gettare una seria ipoteca sulla sovranità economica e politica di quei Paesi. Negli anni 70 la competizione Est-Ovest fa propendere invece per un approccio più "di base", a causa delle rivoluzioni in Nicaragua, dell’indipendenza di ispirazione socialista delle ex colonie portoghesi e della sconfitta Usa in Vietnam, nonché dell’inimmaginabile rivoluzione iraniana. Nascono allora le politiche di cooperazione basate sui "basic needs": acqua potabile, cibo, prevenzione sanitaria e una attenzione alle zone rurali, allora ancora prevalenti. Tutto questo, funzionale ad "asciugare l’acqua" in cui nuotava il potenziale pesce rivoluzionario, tramonta bruscamente dopo la caduta del muro di Berlino per essere sostituito dagli aiuti condizionati al rispetto dei diritti umani e della democrazia; in concreto un assist ai nuovi governi multi-partitici che in quegli anni scalzavano i residui del socialismo africano e si adeguavano al nuovo corso liberista. Molte volte i Governi africani si sono lamentati di queste condizionalità che, sotto l’egida dei diritti umani tendevano a profilare forme di gestione privatistica della cosa pubblica che mantenessero inalterate le relazioni tra paesi produttori e consumatori. Prova di questo strumento sono anche le varie "rivoluzioni arancioni" in Europa o la situazione di alcune democrazie popolari in America latina. Adesso, ultimo ma non per importanza, arriva nel Migration Compact, ove risulta centrale la condizionalità inerente alla gestione dei flussi migratori. È una ennesima evoluzione, o involuzione, dunque, di prassi molto ben consolidate nel tempo, e che ha mostrato la sua indubbia efficacia nel condizionare le politiche estere e interne di interi continenti. In particolare la sottolineatura sul ruolo del settore privato la dice lunga su cosa rischiano di essere queste politiche di aiuto alla gestione dei flussi migratori: un’ulteriore messa a punto delle divisione internazionale del lavoro, operata dalle stesse multinazionali che hanno deciso che i "veri" diritti umani non sono quelli universali ma solo quelli di chi se li può comperare. Dunque bisognerà vigilare su cosa realmente sarà proposto e soprattutto riproporre come criterio di valutazione e di efficacia quello dell’equità e della democrazia economica nei Paesi di emigrazione, onde evitare che la crisi dei migranti diventi, ancor di più, un’occasione per restringere le libertà su scala planetaria in nome della sicurezza delle frontiere europee. Lo sporco modello turco prototipo delle politiche europee di Filippo Miraglia (Arci) Il Manifesto, 13 giugno 2016 Frontiere e diritti. Il governo italiano va fiero della sua proposta, in realtà la Ue replicherà così l’accordo con Erdogan, rafforzando i regimi da cui i migranti fuggono. La Commissione europea ha presentato nei giorni scorsi al Parlamento europeo la sua proposta sulla gestione delle relazioni con i paesi terzi in materia di gestione dei flussi migratori. Com’è già accaduto più volte in questi ultimi mesi, leggiamo fiumi di parole che denotano interesse per le vite umane e per le vittime dei naufragi, dichiarazioni di impegni condivisi dai governi e dalle istituzioni dell’Ue sull’accoglienza. Le proposte concrete però vanno esattamente nella direzione opposta. Il modello proposto trae ispirazione dal vergognoso accordo con la Turchia e dal Migration Compact del nostro presidente del Consiglio. Si punta cioè, come più volte ci hanno spiegato, a scambiare aiuti economici e sostegno politico ai governi dei paesi d’origine e di transito (qualunque sia il tipo di regime), con politiche di blocco dei flussi. Si tratta cioè, come già abbiamo denunciato, dell’esternalizzazione delle frontiere e dei controlli dei flussi migratori verso l’Unione europea. Il cinismo caratterizza l’analisi e soprattutto le proposte: salvare vite umane e gestire i flussi in maniera ordinata, si ripete più volte. In che modo? Regalando miliardi, come già fatto con Erdogan, ai tanti come lui in giro per l’Africa. Chiedendo loro, in cambio, di fermare le persone che scappano proprio dalla violenza dei regimi con i quali intendiamo fare accordi. È il caso dell’Eritrea di Isaias Afewerki (presidente dal 1993), del Gambia di Yahya Jammeh (presidente dal 1994), dell’Egitto di Abd al-Fattah al-Sisi (quel campione dei diritti umani che tutti conoscono). La lista dei paesi è lunga: Algeria, Egitto, Eritrea, Etiopia, Costa d’Avorio, Gambia, Libia, Ghana, Guinea, Mali, Marocco, Senegal, Niger, Nigeria, Senegal, Sudan. Insomma, il progetto è ambizioso e il quadro è molto chiaro. Utilizzare fondi per lo sviluppo come arma di ricatto verso i paesi di origine e di transito: chi più si riprende le persone espulse e meglio coopera al controllo dei flussi migratori, più risorse riceverà. Invece i paesi che non si impegneranno a fare i gendarmi dell’Europa saranno penalizzati, con una sorta di sistema a punti. Quella che una volta si chiamava cooperazione allo sviluppo, solidarietà tra i popoli, si trasforma in sostegno ai governi e al loro potere, condizionato dal rispetto delle indicazioni che i governi dell’Unione europea e la Commissione daranno in materia di gestione dei flussi e delle frontiere. Fermare il maggior numero di persone che scappano. Se riescono a passare i loro confini, bloccarli nei paesi di transito. Se non muoiono dopo le torture e le violenze dei trafficanti (in Libia e non solo), rimandarli indietro, con il consenso di questi governi. Non c’è che dire, un vero capolavoro da grandi statisti. Pericolosissimo anche il dialogo che si vuole aprire con una Libia dilaniata dai conflitti, con cui l’Europa conta di fare accordi per il controllo delle partenze usando l’agenzia Frontex. Una proposta coerente con l’atteggiamento che Bruxelles sta tenendo con la Turchia di Erdogan, considerato un esperimento di successo. Con i 6 miliardi erogati in base a quell’accordo, sono stati fermati i siriani che scappano dalle bombe, costringendoli nelle galere turche o rispedendoli in Siria. L’Europa non sta chiedendo al governo turco, a quello eritreo o a quello del Gambia di rispettare i diritti umani e di consentire elezioni democratiche per avere il sostegno dell’Ue. Al contrario, si sacrificano i diritti umani e qualche secolo di civiltà europea in cambio di una proposta con la quale i governi dell’Unione europea, e la Commissione, pensano, forse, di fermare la frana populista, razzista e fascista che sta travolgendo i paesi del continente. L’esperienza austriaca sta lì a dimostrare che si ottiene esattamente il risultato opposto. Ma per i nostri esimi statisti questo non conta. Pensano evidentemente di essere più furbi e abili del capo del governo austriaco, che ha dovuto dimettersi per il flop del suo partito alle recenti presidenziali. Tutto ciò sulla pelle di quei bambini, quelle famiglie, quelle persone che, in assenza di canali umanitari, programmi di ricerca e salvataggio, possibilità di vie di ingresso sicure e legali, dovranno pagare sempre di più e rischiare sempre di più. E aumenteranno inesorabilmente, visto che verranno foraggiati e rafforzati proprio quei governi da cui fuggono. Dall’altra parte della gabbia di Daniela Monti Corriere della Sera, 13 giugno 2016 Il gorilla ucciso a Cincinnati, le tigri prigioniere in Tailandia: cresce il dibattito sul diritto alla libertà degli animali. L’epilogo drammatico della vita di Harambe, il gorilla di pianura occidentale - specie a rischio di estinzione - ucciso nello zoo di Cincinnati dopo che un bimbo di 3 anni era caduto nel fossato in cui l’animale viveva, ha portato allo scoperto il disagio che sempre più persone provano alla vista di un primate in gabbia. "Non possiamo più trovare giustificazioni alla loro detenzione", scrive il New York Times raccogliendo le voci di un gruppo di studiosi. E uscendo dagli istituti di ricerca, il clima è lo stesso: anche stare dall’altra parte della gabbia - dalla parte di quelli che guardano - è diventato scomodo. Su Twitter l’hashtag con il nome del gorilla ha raccolto migliaia di commenti (al netto delle invettive contro la disattenzione colpevole della madre del bimbo): "Lo zoo ha preso la decisione giusta? Sono indecisa sulla questione". "La morte di Harambe cambierà qualcosa?". "Trovo folle che le persone siano più empatiche verso un gorilla che verso un bambino". A un anno e mezzo dalla sentenza della Corte di Buenos Aires che ha riconosciuto all’orango Sandra lo status di "persona - non umana", con il diritto ad essere liberata perché "illegittimamente detenuta", il dibattito sui nostri obblighi etici verso gli animali è cresciuto. La petizione online "Giustizia per Harambe" ha raccolto 500 mila firme; un’altra petizione che chiede una legge per punire i visitatori negligenti che provocano danni negli zoo ha superato le 200 mila. La foto di Harambe postata su Instagram dalla Peta con la scritta "la cattività non è mai accettabile" è stata condivisa 16 mila volte. La liberazione di decine di tigri malconce dal tempio buddista di Kanchanaburi, in Tailandia, va nella stessa direzione: i monaci erano arrivati a narcotizzarle perché i turisti potessero farsi il selfie con la tigre. Se c’è un limite di decenza alle sofferenze che possiamo infliggere agli animali, qui è stato superato. Solo un’ondata emotiva destinata a spegnersi in fretta? Paola Cavalieri, la filosofa italiana che con Peter Singer lavora al progetto Grande Scimmia per estendere a scimpanzé, gorilla e oranghi i diritti umani fondamentali, è convinta di no. È il nostro sguardo che sta cambiando, "le reazioni alla morte di Harambe dimostrano che quando osserviamo una grande scimmia cominciamo a vedere noi stessi sotto la pelle di un’altra specie". Ecco perché l’abbattimento del gorilla fa tanto discutere: il confine che separa il bimbo caduto nel fossato dall’animale che in quel fossato abitava si è fatto più sfumato, "avreste dovuto trattarlo come uno di noi, non fare subito il Far West: è questo il senso della protesta contro il modo in cui lo zoo si è mosso", dice Cavalieri. "I nostri atteggiamenti verso gli animali stanno cambiando, ma rimangono confusi, contraddittori, incoerenti", scrive Peter Singer sul Los Angeles Times. Chi ora si indigna "dovrebbe riflettere su situazioni meno eclatanti, dove la scelta di uccidere è meno giustificabile, si tratti di sport, moda o perché la gente preferisce un cibo piuttosto che un altro". Situazioni meno eclatanti come quella dei nostri animali domestici, reclusi pure loro, non negli zoo, ma negli appartamenti di città: le conseguenze del prendere sul serio gli animali comportano la rimessa in discussione di un’infinità di cose. "Ma un conto è imprigionare per trarre vantaggi economici, in nome del paradigma che ci vede padroni dell’universo, un altro è tenere gli animali in casa per proteggerli dai pericoli esterni", riflette Cavalieri, assolvendoci. E a lenire i sensi di colpa per il gatto agli arresti domiciliari c’è il dossier pubblicato da Animal Ethics: in Gran Bretagna 55 miliardi di uccelli vengono uccisi ogni anno dai gatti domestici, che hanno provocato l’estinzione di 33 specie di volatili. Farli uscire è criminale, è la sintesi del rapporto. Agire bene con gli animali è la cosa più difficile. "Ma ogni ondata di sdegno è un mattone su cui costruire un futuro diverso - chiude la filosofa Cavalieri. New Scientist, che non è certo una rivista animalista, ha pubblicato un mio articolo in cui sostengo la necessità, negli stati africani, di territori in cui gli elefanti siano sovrani, tutelati dal diritto internazionale, per proteggerli dal bracconaggio. Solo un paio di anni fa, chi lo avrebbe ritenuto possibile?". Caso Regeni. Ora Cambridge non aiuta, come Il Cairo e le fiction di Marina Calculli e Francesco Strazzari Il Manifesto, 13 giugno 2016 Verità per Giulio Regeni. Il silenzio non sostiene la ricerca della verità. Né i ricercatori. C’è probabilmente una bella dose di arroganza nella cautela dei legali di Cambridge e nell’indicazione data a Maha Abdelrahman, la supervisor di Giulio Regeni, di non rispondere alle domande degli inquirenti italiani: qualcosa che sciaguratamente, sebbene assai prevedibilmente, rinfocola polemicamente l’ipotesi che Giulio fosse una pedina in mani altrui. In barba a tutte le petizioni ‘per la verità’ e all’appello di Paola Regeni, mamma di Giulio, che solo pochi giorni prima invitava dalle solenni sale della prestigiosa università britannica a collaborare, alcuni stereotipi sulla superficialità del Belpaese hanno forse prevalso sulla scelta della faculty britannica di non fidarsi. Eppure le istituzioni italiane non possono certo essere accusate di averla buttata in retorica roboante. Roma ha cercato di fare pressioni sul Cairo, rispedendo al mittente le plurime versioni che l’Egitto ha tentato di rifilare al mondo. E mentre ritirava l’ambasciatore, Parigi, Londra e Berlino trovavano occasioni per nuovi affari. È però indubbio che ad alimentare le riserve dell’ateneo britannico, trincerandole attorno a regolamenti in difesa della libertà accademica, ci sia stata l’aggressiva cacofonia mediatica che, fin dall’inizio della sfortunata vicenda di Giulio, ha navigato a mille nodi contro l’ovvio. Su buona parte dei media è partito un giro di vite che, distogliendo l’attenzione da un’indagine politicamente costosa, si è stretto attorno ai protocolli della ricerca accademica, ignorandone deliberatamente le prassi: abbiamo visto illustri commentatori del lusco e del brusco equiparare i metodi d’indagine e validazione scientifica a tecniche di spionaggio, e le due supervisor di Giulio bollate come "cattive maestre". La stessa ricerca di Giulio è stata ridotta ad una azione "per conto di" - derubandolo dell’appassionata soggettività che la sua ricerca ha voluto esprimere. Arrampicandosi sugli specchi di beghe complottistiche e piste di spionaggio in cui l’ignaro Giulio sarebbe stato incastrato - teoremi che a distanza di mesi si confermano esercizi di dietrologia speculativa privi non solo di prova ma anche di indizio - si è finito per relegare sempre più ai margini l’ipotesi più plausibile. Ovvero che Giulio, scomparso nel quarto anniversario della rivoluzione contro Mubarak, il 25 gennaio (giorno di raid e rastrellamenti più intenso del solito) potesse essere stato intrappolato nella morsa di un regime che pratica sistematicamente la tortura come strumento di controllo della società, che ha chiuso il 2015 con 1.411 casi di sparizioni forzate e 625 casi di tortura accertati, ed è logorato da paranoia da complotto tipica delle dittature instabili. Un regime peraltro politicamente accreditato proprio dal governo italiano. Si tratta di uno scenario evidentemente troppo realistico per essere preso sul serio dai fabbricanti immaginifici di 007 avventurieri e cospirazioni internazionali. Mancano certamente ancora molte tessere per comporre il puzzle che possa restituire almeno la verità al corpo martoriato di Giulio Regeni, ai suoi cari e ai tanti che fra noi si sono mobilitati. Eppure tutti gli elementi tangibili emersi sin da quel 3 febbraio in cui venne trovato il corpo di Giulio, riconducono esclusivamente alle fosche stanze del potere egiziano e a faide tra agenzie d’intelligence rivali. Chi studia la struttura del potere nei paesi arabi sa che spesso le istituzioni - in particolare quelle militari o i servizi segreti - costituiscono veri e propri protettorati interni, enclaves autoritarie appannaggio di uomini di potere, spesso in lotta tra di loro. È, cioè, assai plausibile che in un contesto post-rivoluzionario queste dinamiche di competizione risultino esacerbate e ripetuti cambi di regime diventino quasi fisiologici. Le diverse verità forniteci ufficialmente dall’Egitto tradiscono, d’altra parte, l’imbarazzante e maldestro tentativo di coprire lotte di potere interne. La tradizione di deparecidos, torture sistematiche e avvitamento autoritario fanno montare il sospetto che il corpo di Giulio Regeni sia stato sacrificato sull’altare di una escalation di vanità, ambizioni e punti di non ritorno che permeano le rivalità tra diversi corpi d’intelligence. Poter svolgere ricerca accademica, come Giulio stava facendo, è condizione fondamentale per poter conoscere questi meccanismi. Mentre è importante sottolineare come l’ossessione di avvalorare tesi di spionaggio, unita alla criminalizzazione dell’Università di Cambridge, abbia più o meno inconsciamente fatto il gioco del regime. Tuttavia, non abbiamo firmato petizioni a sostegno dei colleghi, vedendo in queste un riflesso corporativo, mentre li abbiamo invitati a spiegare i come e i perché del fare ricerca e produrre conoscenza socialmente condivisa su temi più sensibili. Il silenzio che è stato opposto a questi inviti, anche in aule universitarie, rafforza i peggiori argomenti di chi la vuole inibire, e suona come malcelata spocchia. Le università dovranno certamente tutelare meglio i propri ricercatori, oltre a disinnescare la trappola nella quale la morte di Giulio presta argomenti alla gogna mediatica nei confronti della ricerca sul campo e dei suoi metodi. Ciò che vediamo è invece un arroccamento difensivo: più silenzi, più gerarchia, più autorizzazioni, distorsione di fondi su progetti politicamente innocui e privi di riscontro empirico, maggiore spazio al rischio calcolato da assicuratori privati. Il modo migliore attraverso cui le istituzioni accademiche potranno proteggere i propri ricercatori è invece dare voce ai rischi e alle pressioni in cui s’incorre, rendere trasparenti le pratiche in sistemi politici autoritari e corrotti. Interrogata sulle metodologie della ricerca, l’Università di Cambridge dovrebbe chiarire, grazie alla autorevolezza di cui è investita, che nessuna università impone ai propri dottorandi domande, temi di ricerca e metodi d’indagine. Giulio è l’unico lodevole responsabile per aver scelto cosa studiare nella sua tesi di dottorato. Il rischio è che nella foga cautelativa dei propri affiliati e della propria immagine istituzionale, le università sacrifichino la ricerca sul cambiamento politico, sulla contestazione e l’incertezza - regalando la nostra conoscenza ai think-tank, alle società di consulenza, ai rapporti di intelligence, al reportage giornalistico (dove ancora sopravvive). È anche per questo che il silenzio di Maha Abdelrahman e dell’Università di Cambridge suona ancora più inopportuno e ostile. Bangladesh: quasi duemila arresti per terrorismo di Emanuele Giordana Il Manifesto, 13 giugno 2016 Caccia agli islamisti dopo l’ondata di violenze contro minoranze, blogger, atei, miscredenti e attivisti lgbt. Daesh ha rivendicato l’uccisione di Nitya Ranjan Pandey, un volontario che lavorava in un monastero hindu. L’ondata di omicidi mirati di "miscredenti", atei, blogger, attivisti lgbt non accenna diminuire in Bangladesh dove venerdi è stato ucciso Nitya Ranjan Pandey, di 60 anni, un volontario che lavorava in un monastero hindu nel distretto di Pabna, cinque ore di macchina a Ovest della capitale. Daesh ha rivendicato attraverso l’agenzia Amaq, monitorata dal Site Intelligence Group. Nel giro di un mese, tre appartenenti a minoranze sono stati uccisi: un sacerdote hindu, Ananda Gopal Ganguly, di 70 anni, il proprietario cristiano di un negozio - Sunil Gomes di 60 - e, a metà maggio, un monaco buddista di 75, Mongsowe U Chak, ucciso nel tempio dove viveva solo nel Sud del Paese. Il nuovo omicidio avviene mentre già la polizia del Bangladesh ha messo in piedi una caccia agli islamisti che avrebbe già visto fermi e arresti di almeno 1800 persone. La caccia all’uomo è mirata soprattutto a due gruppi fuori legge - Jamaat-ul-Mujahideen Bangladesh (Jmb) e Ansarullah Bangla Team (Abt) - ma anche agli attivisti di un partito legale, la Jamaat-e-Islami, la più vasta e importante organizzazione islamista del Bangladesh. La caccia è in realtà cominciata in grande stile dopo assassinio, alcuni giorni fa, di Mahmuda Aktar, la giovane moglie di un investigatore di polizia impegnato nelle indagini sui movimenti jihadisti che colpiscono attivisti e minoranze. Mahmuda è stata uccisa a Chittagong, la seconda città del Bangladesh, davanti al figlioletto di sei anni. Sarebbe stata giustiziata proprio per il lavoro del marito, legato alle indagini che cercano di capire chi è dietro all’uccisione di laici e sacerdoti, minoranze e omosessuali, blogger e attivisti. In particolare il marito indagava sul Jmb, gruppo islamista messo al bando nel 2005 e che vorrebbe fare del Bangladesh un Paese governato dalla sharia. Si ispirerebbero ai talebani afgani e avrebbero simpatie per Al Qaeda anche se il 10 giugno Ansar al-Islam (Aai) - la "divisione" bangladese di Al Qaeda nel Subcontinente indiano (Aqis), costola di Al Qaeda in Asia sudorientale - ha emesso un comunicato di condanna dell’azione ai danni della donna. Un elemento che complica il quadro tra gli islamisti stessi, divisi tra simpatie qaediste e ammirazione per Daesh, in un reticolo di sigle e secessioni interne. Il governo reagisce come sempre, col pugno duro da un lato e con la negazione che Daesh esista dall’altro anche se, ricordava ieri Al Jazeera, su una trentina di attentati quest’anno (nel mirino anche le minoranze sciite o altre ritenute apostate dagli islamisti) Daesh ne avrebbe rivendicate 21 e Al Qaeda la maggior parte delle restanti. Daesh ha anche rivendicato l’assassinio di stranieri come nel caso degli italiani Cesare Tavella e Piero Parolari, quest’ultimo salvatosi per miracolo. Per il governo laico della premier Sheikh Hasina, la responsabilità è comunque di gruppi locali e non di emanazioni del Califfato. Sui gruppi fuorilegge il governo ha scelto il pugno di ferro da tempo: sui militanti di Abt c’è una taglia di 23mila dollari e recentemente cinque sospettati di appartenere a Jmb sono stati uccisi in scontri a fuoco con le forze dell’ordine mentre sei dei suoi leader sono stati impiccati nel 2007 dopo che l’organizzazione aveva messo a punto, nel 2005, l’esplosione in un solo giorno di 500 bombe, il che rende bene l’idea della loro capacità logistico organizzativa. Ma il pugno duro non sembra sufficiente né è detto che l’ondata di quasi duemila arresti possa fermare quella che sembra una deriva che consente comunque a questi gruppi di colpire indiscriminatamente i loro bersagli. Quanto ciò significhi una forza reale di Aqis o di Daesh resta da vedere. I due gruppi si guardano in cagnesco - come in altre aree del pianeta - anche se hanno progetti vagamente simili in cui vorrebbero avere la supremazia nel movimento islamista. Il problema vero resta forse la galassia attorno alla Jamaat, nata nel 1941 quando esisteva ancora l’India britannica e che era contraria sia alla Partition sia alla Muslim League, allora la più importante organizzazione musulmana. Oggi è un partito legale anche se nel 2013 la Suprema Corte ha cancellato la sua registrazione come partito in quanto contraria all’indipendenza del Paese del 1971. Libia: uccisi 12 detenuti filo-Gheddafi dopo rilascio da carcere Askanews, 13 giugno 2016 Accusati di aver partecipato a repressione rivolta 2011. Dodici persone, accusate di aver partecipato alla repressione della rivolta in Libia contro il regime di Muammar Gheddafi nel 2011, sono state uccise subito dopo essere state messe in libertà condizionale. L’ha indicato oggi la procura di Tripoli. I 12 sono stati uccisi da sconosciuti, all’indomani della loro liberazione. Per identificare i responsabili delle uccisioni, la procura ha annunciato la messa in opera di "una commissione d’inchiesta speciale".