Mascherin (Cnf) intervista il ministro Orlando: “basta processi mediatici” a cura di Giulia Merlo Il Dubbio, 11 giugno 2016 “Il processo mediatico è da stigmatizzare, ma si può combattere solo se le professioni si autodisciplinano”, e ancora “tutelare la professione di avvocato significa tutelare le libertà fondamentali dei cittadini”. Esordisce così, il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, intervistato dagli avvocati nella cornice delle celebrazioni del Cinquantenario dell’Aiga, l’associazione italiana giovani avvocati. Nell’inedita veste giornalistica, il presidente del Consiglio Nazionale Forense Andrea Mascherin, il quale ha affrontato con il ministro i temi all’ordine del giorno nel dibattito pubblico sulle professioni. Come si inserisce la figura dell’avvocato nella tensione sociale tra economia e tutela dei diritti dei cittadini? “Gli avvocati hanno sperimentato sulla loro pelle l’infondatezza del paradigma liberale secondo cui i processi di integrazione dei mercati creano più ricchezza per tutti. Il brusco risveglio si è avuto con la crisi, che ha dimostrato come i mercati non rispondano agli interessi sociali e anzi, abbiano trovato un equilibrio comprimendo l’idea stessa di cittadinanza e diritto. Così, i diritti civili sono diventati un lusso e l’idea stessa di democrazia è stata messa in crisi. L’avvocatura, in questo nuovo panorama, rischia di venire assimilata a tutte le altre professioni che forniscono servizi e dunque di cadere in una logica unicamente economica. Questo processo va interrotto, ma la strada non è quella del corporativismo. Serve una nuova via, fatta di apertura e di integrazione positiva anche con il mercato”. Quale ruolo sociale può allora giocare il professionista, in questo panorama così difficile? “L’avvocato è presidio delle libertà fondamentali e tutelare la professione significa tutelare queste libertà. Però è necessario che la categoria assuma in pieno il suo ruolo di classe dirigente del Paese, non dicendo solo no e chiudendosi nel corporativismo, ma dicendo anche qualche sì ai cambiamenti. Alcune forme di evoluzione sono necessarie e non più rinviabili, come ad esempio le specializzazioni, altrimenti ci si autocondanna all’irrilevanza. In questa direzione è andato anche il mio intervento di accelerazione per l’approvazione della riforma forense”. Lei come Ministro ha scelto la strada di restituire un ruolo tecnico alla figura dell’avvocato, soprattutto per quanto riguarda i meccanismi deflattivi. È questa una delle strade per combattere la crisi della giurisdizione? “Premetto che il numero degli avvocati non c’entra nulla con la crisi della giurisdizione, nè si può pensare di ridurlo con un decreto. È necessario invece un cambio mentale, in cui gli avvocati non stanno solo in tribunale e davanti a un giudice ma diventano soggetti che ricompongono ex ante i conflitti, attraverso strumenti deflattivi come la mediazione e la negoziazione assistita. Una risposta è anche il processo civile telematico, che è stato immediatamente appoggiato dall’avvocatura giovane perché ne intuiva i risvolti professionali di riequilibrio generazionale. Come Ministro, ho intenzione di proporre un ruolo pieno degli avvocati all’interno dei consigli giudiziari, ma deve essere sfruttato per creare meccanismi virtuosi di miglioramento della governance. Abbiamo misurato le performance dei tribunali italiani e io ho personalmente visitato i 10 peggiori d’Italia. Quello che ho riscontrato è che in sei non esiste alcuna carenza di personale amministrativo. È evidente dunque che manca organizzazione, e questo vale da nord a sud. La Sicilia, per esempio, è divisa in due: metà tribunali hanno risultati tra i migliori d’Italia e metà tra i peggiori. L’obiettivo oggi del ministero è di efficientare l’organizzazione, creare un turnover della magistratura e riscrivere un ordinamento che sia meno in funzione dei magistrati e più nell’interesse complessivo”. I processi oggi sembrano farli i criminologi nelle televisioni, e di questo parte della responsabilità è anche dell’avvocatura, ma siamo arrivati alla giuria popolare che condanna come nel far west. Si tratta però di una battaglia culturale che devono combattere avvocatura, magistratura e Ministero. Come si affronta? “È un fenomeno inquietante che va contrastato. Non penso lo si possa fare attraverso una legge, perché usare la norma per disciplinare l’esercizio della libertà di espressione potrebbe provocare danni ancora maggiori. Possono operare e far rispettare i principi deontologici solo i soggetti interessati, come gli avvocati e i giornalisti. Sono contrario a introdurre sanzioni per i giornalisti per comportamenti che ledono i diritti di terzi, però vorrei che la professione mettesse più forza nell’indignarsi di fronte a questi processi distorti. Questi fenomeni sono il frutto di una domanda dell’opinione pubblica, che detta i tempi e non vuol sapere chi è il colpevole, ma vuole un colpevole. Solo le professioni stesse possono mettere un freno a questa giustizia sommaria, attraverso i loro principi di autoregolamentazione e la deontologia professionale”. Come si comporterà il Ministero, rispetto alla sentenza del Tar che censura il decreto sulle specializzazioni? “Il Ministero impugnerà la sentenza del Tar, perché è ingiustificata e inaccettabile. La sentenza contesta il criterio con cui sono individuate le branche di specializzazione, ma si tratta di una scelta che rientra nella discrezionalità politica. Inoltre, nel decreto è prevista revisione periodica delle specializzazioni, in modo da poter partire e poi rivedere ex post in base alla sperimentazione”. Il legislatore è spesso condizionato dall’esigenza di consenso popolare e non sempre punta all’equilibro nell’ordinamento. “Un politico che si disinteressa del consenso è un imbecille, ma se non pensa anche all’equilibrio è un mascalzone. Bisogna bilanciare entrambe, rispondendo anche alla domanda di rassicurazione sociale, che esiste nel Paese. Però devo dire che il compito è reso più arduo dal fatto che in pochi alimentano il dibattito culturale su questi temi. Un diritto penale senza limiti certi produce impunità, ma per far passare questo concetto bisogna intervenire nella società, con una battaglia di tipo culturale. E un tema che mi sta molto a cuore e che, glielo assicuro, non mi porterà certo più consenso, è quello del carcere. Ho dato il mio contributo culturale promuovendo gli Stati generali sullo stato del carcere. Ho sentito, infatti, il dovere di affermare il principio che una persona rimane una persona, a prescindere dagli errori che ha commesso. In questo lavoro, ho avuto tre alleati soprattutto: l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Papa Francesco e Marco Pannella”. Violante: “attenti, siamo passati dalla società civile alla società giudiziaria” di Giorgio Varano Il Dubbio, 11 giugno 2016 C’è un valore che la giustizia, la giustizia penale di un Paese civile, deve avere a cuore almeno quanto la parità tra accusa e difesa, la presunzione di non colpevolezza e altri pilastri dell’ordinamento: è la “reputazione delle persone”. A dirlo è un ex magistrato, ex presidente della Camera e tra le figure che in questi anni più hanno inciso nel dibattito sulla giustizia: Luciano Violante. Il discorso va in aperto conflitto con altre “priorità” indicate di recente dalla magistratura. A cominciare dall’efficacia delle indagini, soprattutto contro la corruzione, posta per esempio da Piercamillo Davigo a difesa delle intercettazioni nel suo saggio pubblicato sull’ultimo numero di MicroMega. Violante va come al solito contro corrente, o almeno contro le correnti della magistratura, e lo ha fatto per l’ennesima volta a un convegno, organizzato dall’Unione delle Camere Penali Italiane in collaborazione con il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Patti e con la locale Camera Penale, tenutosi nei giorni scorsi a Capo d’Orlando sulla separazione delle carriere. La reputazione delle persone, ha detto dunque l’ex presidente della Camera, “è un enorme capitale sociale che può essere distrutto dalle indagini e dal racconto delle stesse, spesso deformato e comunque enfatizzato, anche se poi, a distanza di tempo, si viene assolti”. Il racconto, dunque: cioè le indagini ma anche, anzi soprattutto i resoconti che se ne fanno sui media, spesso corredati dalla trascrizione di intercettazioni quasi sempre coperte da segreto. Non è insomma solo l’azione giudiziaria ad incidere negativamente sulla reputazione di un indagato, ma “l’effetto determinato dal risalto fornito alle indagini dai mezzi di informazione. La sovraesposizione mediatica delle indagini, e la divulgazione di atti spesso coperti dal segreto”, ha ricordato Violante, “non influenza solo l’opinione pubblica ma anche il magistrato che deve giudicare. Respingere la richiesta di un pm può diventare difficile per la pressione mediatica esercitata sul giudice, che può essere condizionato nella decisione finale”. È una particolare sfumatura, questa, di una questione molto particolare: la cosiddetta “verginità cognitiva del giudice”. Nel momento in cui questa viene meno, non solo si tradisce il principio della formazione della prova nel contraddittorio tra accusa e difesa, ma si mette l magistrato giudicante anche nella condizione di sentirsi obbligato a rispondere all’opinione pubblica piuttosto che a cercare la verità. “Occorrerebbe separare le carriere di alcuni pubblici ministeri da quelle di alcuni giornalisti perché spesso sono incrociate”, è la battuta che Violante ha riproposto al convegno di Capo d’Orlando. “Il moltiplicarsi, ormai inarrestabile, dei processi sui media, costituisce preoccupante conferma del rischio che la giustizia penale sia sempre più virtuale e mediatica, con conseguenze, spesso irreparabili, sulla verginità cognitiva del giudice”, ha detto appunto Violante. Che ha poi rammentato quanto la diffusione di notizie non pertinenti al reato possa coinvolgere persone estranee e distruggere loro la vita: “Il coinvolto, soggetto estraneo ai fatti ma intraneo al processo, è spesso persona nota o conosciuta, che valorizza l’interesse per indagini in molti casi prive, altrimenti, di alcun risalto”. Violante ha ancora ricordato come alcuni magistrati si ergano “a tutori morali della nazione”, e per questo intendano “attribuire alle indagini un significato etico che queste non possono e non devono avere”. L’ex presidente della Camera ha concluso osservando che, accanto alla società politica e alla società civile, si è creata una terza società, che ha definito “la società giudiziaria”, composta da un insieme di cittadini, di esponenti politici, di alcuni settori della magistratura e di alcuni mezzi di informazione che fanno della giustizia penale e della condanna “il punto di verità”. Il che rappresenta una insidia, perché la “legittimazione della magistratura dovrebbe risiedere solo nella legge”, e non “nella volontà della società giudiziaria”. Tanto più che c’è poi “la delegittimazione del magistrato quando questi non risponde alla società giudiziaria”. Violante ha insomma sorpreso persino i presenti al convegno di Capo d’Orlando: i temi in questione sono gli stessi che da tempo solleva, per esempio, l’Unione delle Camere Penali anche con il proprio Osservatorio sull’informazione giudiziaria, e che sui giornali non hanno quasi mai il necessario spazio. O che ne trovano comunque assai meno delle intercettazioni coperte da segreto. Il carcere sovraffollato non è un deterrente efficace contro la criminalità di Bernardina Di Mario (direttrice del carcere di Perugia) umbria24.it, 11 giugno 2016 Il sistema penitenziario e quello dell’esecuzione della pena è stato oggetto negli ultimi anni di uno straordinario sforzo riformatore che ha portato a grandi cambiamenti. La sentenza Torreggiani ed il corposo intervento normativo che ne è conseguito hanno segnato una svolta importante nel sistema dell’esecuzione penale imponendo l’adozione di misure normative volte a ridurre e, tendenzialmente, eliminare il sovraffollamento all’interno degli istituti, ed un ripensamento complessivo del sistema penitenziario che si è così concretizzato in misure di carattere strutturale tendenti a ridefinire l’organizzazione della detenzione. Il sovraffollamento Il carcere, soprattutto in casi di sovraffollamento e condizioni degradanti, non è un deterrente efficace contro la criminalità, in quanto sulla base del cosiddetto ‘effetto dei parì finisce per rafforzare i legami tra i detenuti, allentando, invece, quelli ben più importanti con la società. È stato così delineato un nuovo sistema dove il carcere mantiene la sua centralità solo per i reati più gravi, con una più giusta proporzione tra pena, bene violato e pericolosità sociale. I detenuti Per effetto degli interventi normativi posti in essere la popolazione detenuta in questo istituto è progressivamente diminuita: 560 detenuti del 2013, ora 367. Così come sono progressivamente diminuiti gli ingressi: 627 nel 2013, 176 nell’anno in corso. L’insieme dei provvedimenti normativi adottati hanno determinato anche una radicale trasformazione della composizione della popolazione detenuta, fattore questo da tenere in particolare considerazione avendo inciso positivamente nella gestione dell’intero istituto. Degli attuali 367 detenuti (di cui 239 stranieri), 274 risultano condannati con sentenza definitiva, 17 sono ricorrenti, 18 appellanti e 58 imputati. Sfide del cambiamento Il Nuovo Complesso Penitenziario di Capanne, raccogliendo la sfida del cambiamento, ha posto in essere significative modifiche organizzative e strutturali per superare definitivamente un modello di detenzione sostanzialmente caratterizzato da passività e segregazione, in favore della costruzione di nuovi percorsi di rieducazione e di reinserimento sociale che hanno attribuito un senso nuovo al tempo trascorso in privazione della libertà con benefici effetti sul rischio di recidiva. La deformazione delle dimensioni dello spazio e del tempo della detenzione, che si consuma all’interno di celle chiuse e spesso sovraffollate, impedisce o quantomeno rende estremamente difficoltosa l’attività di osservazione e verifica che conduce alla conoscenza del detenuto, utile sia per le esigenze di sicurezza penitenziaria che per le valutazioni delle capacità di recupero del soggetto. La nuova impostazione adottata da questo istituto, di una esecuzione penale densa di contenuto che consenta di organizzare la giornata detentiva sulla base di progetti che riconducano la cella a mero luogo del pernottamento, è stata possibile grazie al potenziamento dell’offerta trattamentale. Cucina e abbigliamento Determinante, per tale potenziamento, è stato l’intervento delle Istituzioni locali, del privato sociale e del volontariato i cui progetti, sociali e culturali, hanno favorito la coesione e l’integrazione del Nuovo Complesso Penitenziario di Capanne nel tessuto cittadino. Tale coesione ha reso possibile la realizzazione di quattro percorsi formativi (addetto alla cucina, addetto alla piccola manutenzione, addetto alla conduzione e gestione di piccole imprese agricole e addetto dell’abbigliamento) che hanno visto impegnati in attività formativa interna all’istituto ben 60 detenuti. Di questi 13, riconosciuti come più meritevoli, sono stati poi avviati in percorsi di tirocinio formativo nell’ambito di aziende esterne all’istituto. Tutto ciò è stato reso possibile grazie all’attività congiunta di Regione, Provincia, Università degli Stranieri, Università degli studi Perugia e delle cooperative Frontiera Lavoro ed l’Enaip. Sono fiduciosa del fatto che potremmo riproporre dette attività anche nel corrente anno. Strade pulite Dal 2013 quattro detenuti vengono impegnati regolarmente in attività di supporto per il decoro urbano del centro storico di Perugia, sempre in regime di lavoro all’esterno grazie al protocollo siglato tra la Direzione di Capanne ed il Comune nell’ambito del progetto “Perugia Si-Cura”. La casa di accoglienza messa a disposizione dal Comune di Perugia e gestita dall’associazione ‘Ora d’arià permette di ospitare non solo detenuti in permesso premio ma anche i loro familiari. La convenzione con la Gesenu, per la realizzazione di kit da distribuire ai cittadini residenti nel centro storico per la raccolta differenziata consente di impiegare in attività lavorativa interna all’istituto 10 detenuti. Così come la recente convenzione con l’assessorato alla cultura di Perugia sta impegnando tre detenute in attività sartoriali in vista dell’evento Perugia 1416. Attività teatrali Grazie alla collaborazione con il teatro stabile dell’Umbria è attivo il laboratorio teatrale che vede impegnati nove detenuti mentre il protocollo d’intesa con il Coni regionale ha consentito l’intensificazione delle attività sportive. L’attività di formazione scolastica vede l’organizzazione di tre tipologie di corsi: elementare - media e di lingua italiana per stranieri, a cura del Cpia di Perugia. La Convenzione con la Cooperativa sociale 153 Onlus ha consentito il potenziamento dell’Azienda Agricola “Podere Capanne” attraverso l’attivazione di innovazioni produttive come l’allevamento di animali da cortile. Tante altre sono le attività realizzate dalle associazioni di volontariato Caritas Croce Rossa ed Ora d’aria operanti stabilmente all’interno di questa struttura, così come quelle poste in essere offerte alla sensibilità di alcuni club perugini - Lions e Ineervil - per citarne alcuni. Ben 15 sono le scuole tra medie, licei, professionali e tecnici che hanno voluto visitare questo istituto, nell’ambito di progetti finalizzati all’educazione alla legalità, avvicinando e facendo conoscere ai giovani una realtà che, nel loro immaginario, alimentava diffidenza e preconcetti. Sono assolutamente convinta che solo attraverso la piena e diretta conoscenza del nostro ambiente si può entrare con esso in sintonia e vincere quel senso di insicurezza che viene naturalmente determinato dalla carenza di informazioni chiare. Sportello dei diritti dei detenuti La presenza costante, poi, degli studenti della facoltà di giurisprudenza, grazie al protocollo siglato con l’Università degli studi di Perugia, consentendo a loro di poter svolgere tirocini formativi e di orientamento, ha assicurato l’opportunità di poter attivare lo ‘sportello dei diritti dei detenutì, in grado di orientare la popolazione detenuta nel vasto panorama normativo in continua evoluzione. La via del cambiamento intrapreso è stato un processo lungo, meditato e condiviso che ha interessato, in primo luogo, il personale della polizia penitenziaria che, pienamente consapevole del fatto che il rinnovamento del “modo di fare carcere” non poteva che passare attraverso le loro azioni, i loro comportamenti, la loro elevata professionalità ed il loro altissimo senso del dovere ha dimostrato, in modo encomiabile, di saper ripensare il proprio ruolo all’interno dell’Istituto nella certezza dell’importanza che la loro prestazione riveste nell’ambito dei processi di conoscenza della persona detenuta, processi che costituiscono il presupposto ineludibile per l’avvio di un regime detentivo aperto. Uomini e donne della Penitenziaria Colgo quindi l’occasione per ringraziare tutte le donne e gli uomini della polizia penitenziaria che hanno sempre, senza risparmio di energie, supportato la mia attività di direzione dell’Istituto con quel giusto spirito di rinnovamento teso a conseguire livelli di efficienza sempre più elevati, nell’interesse della nostra organizzazione, secondo un processo interattivo nel quale ognuno si è sentito parte attiva del progetto. Ed infatti, specie in struttura come la nostra, spesso impegnata in operazioni complesse il cui successo dipende proprio dal perfetto sincronismo delle energie impiegate, il lavoro di squadra svolto professionalmente da parte di tutti gli attori coinvolti determina il perseguimento del fine ultimo stabilito che nel nostro caso incide, significativamente, sulle libertà fondamentali degli esseri umani. Quale futuro per il carcere di San Vittore e i suoi detenuti? di Chiara Sirianni Il Foglio, 11 giugno 2016 Prosegue il dibattito sulla proposta del governo di vendere alcuni istituti penitenziari, tra cui quello milanese, e ricostruirli in periferia. Parlano al Foglio Luigi Pagano (vicecapo del Dap) e Franco Corleone (garante dei detenuti della Toscana). Un ostello di lusso. Un museo della memoria. Un maxi centro commerciale. Una casa di detenzione destinata alle donne, ai soggetti deboli. O nessuna di queste ipotesi. Il destino del carcere milanese di San Vittore è incerto. Il governo vorrebbe venderlo, insieme con altri penitenziari, alla Cassa depositi e prestiti, che con la sua area real estate è specializzata nel valorizzare immobili. Vero è che di un eventuale spostamento di “San Vitùr”, collocato in una zona centralissima della città, si dibatte - inutilmente - da decenni. Ma se il tema torna, a pochi giorni dai ballottaggi delle elezioni amministrative, è anche per via di quella parte di sinistra meneghina che si identifica volentieri in Giuseppe Sala. In passato l’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, ha ribadito quanto San Vittore fosse “un quartiere di Milano, o meglio, come ricordava il cardinale Martini, il cuore di Milano”. Un cuore che però è stato spesso malato, in condizioni difficili. L’edificio risale al 1879 ed è il classico Panopticon citato da Foucault nel suo “Sorvegliare e punire”: al centro si trova una rotonda e lungo la circonferenza, su ciascun piano, le celle con le sezioni a forma di raggio. Due raggi sono chiusi: vanno interamente ristrutturati. Per Alessandra Naldi, Garante dei diritti delle persone private della libertà per il comune di Milano, a oggi i detenuti sono 1.000, a fronte di una capienza di 600. Nonostante tutto, la prima della Scala si trasmette in diretta qui, su un maxi schermo a disposizione dei detenuti e delle autorità. Periodicamente nel cortile della sezione femminile si organizzano degli aperitivi aperti ai visitatori. È un patrimonio umano che rischia di andare disperso? “Sono personalmente affezionato alla struttura, ma non ne farei una guerra ideologica”, dice al Foglio Luigi Pagano, che prima di essere vicecapo del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è stato per tanti anni il direttore del carcere di piazza Filangieri. “Se resta in città è fondamentale ristrutturare. Se si vuole portare in periferia, si garantiscano servizi di collegamento. Credo sia cruciale focalizzarsi non tanto sulla struttura in sé, quanto piuttosto sul senso della pena”. Se ci si propone di riformare la pena, non si può non ripensare anche lo spazio penitenziario. Un principio emerso anche nel corso dei tavoli di lavoro, voluti e organizzati dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, che hanno visto riuniti esperti e operatori del settore per definire una migliore fisionomia del carcere. “Si è parlato di modelli possibili, ragionando di come l’architettura possa dare un senso allo spazio, anche detentivo”, dice al nostro giornale Franco Corleone, già sottosegretario alla Giustizia e Garante dei detenuti della Toscana, e attento studioso delle interazioni fra urbanistica e politiche penitenziarie. La geografia carceraria italiana è storicamente molto diversificata. Alcune strutture sono state chiuse per il bene di tutti, come il carcere di Savona o quello di Favignana. Altre aree sono state dismesse con successo. A Saluzzo (Cn) il carcere degli ergastolani è diventato un museo della memoria, completo di pinacoteca. A Firenze l’ex carcere di Santa Verdiana ospita una delle sedi della facoltà di Architettura. E San Vittore, che futuro deve attendersi? “Sarebbe una ferita insanabile se venisse destinato ad altro, per esempio a un albergo”, dice Corleone. Se l’architettura è datata, si può attuare un recupero significativo. Per esempio cambiando, appunto, la fisionomia della pena. Spiega Corleone: “Potrebbe essere riconvertito a un luogo di detenzione leggera. Di passaggio, verso il ritorno nella società civile: una casa della semilibertà, per gli ultimi anni di reclusione. Una struttura aperta, all’interno della città: magari con dei punti vendita dei tanti prodotti realizzati nei penitenziari italiani. Va vista con favore ogni idea intelligente che sia in grado di rendere l’area un reale punto di contatto fra l’universo carcerario e i liberi cittadini”. Lo sfogo di Rita Bernardini. “Il garante in Abruzzo? Un altro nulla di fatto” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 giugno 2016 Lunedì prossimo il consiglio regionale dell’Abruzzo tornerà a riunirsi a l’Aquila con all’ordine del giorno la nomina del Garante dei detenuti. Da cinque anni doveva essere nominato per legge. Ma ancora nulla di fatto. Per questo motivo è stato indetto un sit in davanti al Palazzo dell’Emiciclo a L’Aquila per un presidio alle ore 11 per chiedere di non rinviare ulteriormente un adempimento su cui l’Abruzzo è già in grandissimo ritardo. La manifestazione è stata indetta da Maurizio Acerbo, membro della direzione nazionale di Rifondazione Comunista, e da Vincenzo Di Nanna, segretario di Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi. “La legge istitutiva del Garante è inapplicata da cinque anni. Tale ritardo ? spiegano gli organizzatori ? danneggia non solo le persone sottoposte a misure restrittive, ma l’intero sistema carcerario. Il leader radicale Marco Pannella, ormai quasi un anno fa, aveva lanciato la candidatura di Rita Bernardini la cui competenza in materia è indiscussa e testimoniata da decenni di impegno concreto: nonostante un appello che ha visto firmatari illustri e trasversali, oltre 2.000 adesioni sui social network e le dichiarazioni della stessa candidata, che si è detta disponibile a farsi da parte purché avvenga finalmente la nomina, il Consiglio Regionale non ha ancora provveduto ad eleggere il Garante dei detenuti”. Concludono sempre Di Nanna e Acerbo: “Dopo il commosso omaggio reso a Marco Pannella dalle istituzioni e dai cittadini italiani e abruzzesi in occasione della sua scomparsa, torniamo ad auspicare che venga finalmente eletto il Garante, richiesta che Pannella ha instancabilmente ripetuto fino a quando la malattia non gli ha impedito di partecipare alla vita pubblica”. Noi de Il Dubbio abbiamo intervistato Rita Bernardini, la diretta interessata, per saperne di più. Che cosa si aspetta dalla riunione del consiglio nazionale dell’Abruzzo? “Nulla. È da più di un anno che rimandano in continuazione l’elezione del Garante. Sia dall’amministrazione regionale che provinciale c’è una evidente mancanza di volontà”. Come se lo spiega? “Lo aveva spiegato molto bene Marco Pannella. In un’intervista a Radio Radicale disse che era preoccupato. Notava che tutti dicono di volermi eleggere, ma in realtà vorrebbero farmi fuori perché sanno che sono cocciuta come lui. Pannella disse che chiacchierano, sanno solo chiacchierare, ma non stanno dimostrando di lottare duramente per la mia elezione”. Nel 2011 la regione Abruzzo si è dotata della legge che prevede l’istituzione dell’ufficio del Garante. Eppure sono passati 5 anni e ancora non è stato eletto. “Come ripeto, Marco Pannella aveva fatto intendere il motivo. Alcuni mesi fa, all’ennesima seduta inconcludente, ho detto che se il problema riguarda il mio nome, allora mi faccio da parte purché si elegga un Garante il prima possibile. È evidente che il problema sia da individuare nella partitocrazia che vuole spartirsi la torta in tutte le istituzioni. Non a caso vengono eletti garanti dei detenuti che appartengono sempre ai partiti che rendono il Garante una semplice figura burocratica di stampo partitocratico. Quando si propongono nomi diversi dall’establishment politico, accade questo cortocircuito e tutto si ferma”. Come è nata la sua candidatura? “È nata grazie ai rapporti di stima intellettuale tra Marco Pannella e Luciano D’Alfonso, il presidente della regione Abruzzo. Quest’ultimo ha riconosciuto la mia competenza e dedizione sul campo. Ha voluto la mia candidatura nonostante io non sia in linea con la sua storia di appartenenza politica. La candidatura l’ho accolta con entusiasmo, soprattutto perché l’Abruzzo era terra di origine di Pannella”. Per pochi voti, nella precedente riunione del consiglio nazionale non è stata eletta. “Sì, per essere eletta sarebbero bastati 21 voti. Invece ne ho presi 18”. Sono stati decisivi i voti contrari dei grillini? “Diciamo che loro erano stati chiari fin dall’inizio che non mi avrebbero votata. Per loro il mio bagaglio politico e sociale non bastava. Le condanne che avevo riportato per disobbedienza civile sono, per loro, un ostacolo etico. So che si dichiarano “gandhiani” e ammirano Nelson Mandela. Beh non avrebbero appoggiato nemmeno uno come lui visto che è stato in prigione. Ma non scarico la colpa ai grillini: parliamo di tre voti, e altre parti politiche lontane dalle idee del Movimento 5Stelle non me li hanno concessi”. Nel caso venisse eletta Garante dei detenuti, cosa farebbe? “Utilizzerei innanzitutto il potere di visitare a sorpresa gli istituti penitenziari, cosa che peraltro già facevo quando ero stata parlamentare. Inoltre avrò la possibilità di accedere a tutte le documentazioni, cosa che non possono fare i cittadini normali e mi occuperò personalmente di tutte le denunce che mi arrivano. Vigilerò affinché vengano rispettati i diritti umani. Il garante dei detenuti non avrà solo la possibilità di vigilare sull’operato degli istituti penitenziari, ma anche su tutti gli istituti che riguardano la privazione della libertà. Dalle Rems, passando per le carceri, fino ai centri di accoglienza”. In Abruzzo in qualche modo lei ha sopperito alla mancanza del Garante. “Sì, a Pasqua ho visitato tutti gli istituti penitenziari abruzzesi. Ho potuto verificare di persona il disagio che esiste in quelle carceri. Non tutti i detenuti hanno la possibilità di partecipare alle attività educative, o avere risposte dai magistrati di sorveglianza. In alcuni istituti ho riscontrato il sovraffollamento e comunque ho incontrato il disagio sociale che dall’esterno viene scaricato dentro al carcere. Poi c’è il problema della psichiatria. Nonostante la chiusura degli Opg, nel carcere di Pescara ad esempio ho visto un reparto psichiatrico dove sono isolati i casi più gravi. Insomma c’è una realtà drammatica anche in Abruzzo e ci vorrebbe appunto un Garante dei detenuti per portare questa realtà all’esterno”. Abruzzo: Garante detenuti, Comitato 3e32 e Sel insistono su nomina Bernardini cityrumors.it, 11 giugno 2016 Anche il comitato 3e32/CaseMatte dell’Aquila, costituitosi nel post sisma, prenderà parte al presidio che Rifondazione Comunista e Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi hanno organizzato per le 11 di lunedì prossimo davanti al Palazzo dell’Emiciclo in occasione del Consiglio regionale che all’ordine del giorno ha, tra l’altro ancora la nomina del garante dei detenuti. “La Regione Abruzzo - si legge in una nota del Comitato - è l’unica in Italia rimasta, ad oggi, senza garante dei detenuti. Questa figura, indipendente e prevista in tutti i territori italiani, nasce con la funzione di vigilare su tutte le forme di privazione della libertà, dalle carceri, alla custodia nei luoghi di polizia, alla permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione, alle residenze di esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche (Rems), fino ai trattamenti sanitari obbligatori (tso). Lunedì 13 giugno il Consiglio regionale discuterà all’Aquila sulla sospirata nomina, a ben cinque anni dell’istituzione della figura del garante a livello nazionale”. Per il Comitato si tratta di “Una delle tante mancanze di un governo regionale cui stanno a cuore più le infrastrutture e i tagli, anziché la salute e i diritti dei propri cittadini. Invitiamo tutte e tutti a partecipare al presidio per spingere il Consiglio regionale a nominare il garante dei detenuti. Per la salvaguardia dei diritti di tutte e tutti”, conclude il Comitato 3e32. Sel Abruzzo: “Basta perdere ulteriore tempo, eleggere Bernardini”. Come Sel / Sinistra Italiana abbiamo già espresso da tempo la nostra posizione e con questo comunicato stampa torniamo di nuovo a ribadirla. Per Sel / Sinistra Italiana la tutela dei diritti che sono riconosciuti a livello costituzionale alle persone private della libertà personale è una priorità. Pertanto diventa obbligatorio farlo entro la seduta del 13 giugno senza perdere ulteriore tempo proprio per dare una risposta concreta per i diritti dei detenuti. Naturalmente siamo concordi che bisogna eleggere Rita Bernardini, che si è sempre distinta in questi anni per la difesa dei diritti ‘degli ultimì come pure per la sua indipendenza; quindi una personalità dalle comprovate capacità di ricoprire questo importante ruolo di garanzia. Per questi motivi Sel sosterrà ancora una volta con convinzione la sua nomina a tale incarico. Infine saremo presenti con una delegazione al presidio davanti al Palazzo dell’Emiciclo a L’Aquila promosso dalle organizzazioni che sostengono la candidatura di Rita Bernardini a garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, che tra l’altro fu proposto lo scorso anno con tenacia da Marco Pannellà, si legge in una nota congiunta firmata da Tommaso Di Febo (Coordinatore Regionale SEL) e Mario Mazzocca (Sottosegretario regionale con delega all’Ambiente e Capogruppo SEL). Ministro della Giustizia risponderà all’interpellanza di Melilla. Martedì 14 giugno il Ministro della Giustizia risponderà alla mia interpellanza sulla situazione delle carceri abruzzesi. Al 31 maggio 2016 negli 8 carceri abruzzesi vi sono 1.694 detenuti, 107 in più rispetto alla capienza regolamentare. Dunque nonostante la legge sulla concessione delle pene alternative che ha consentito l’alleggerimento della popolazione carceraria, persiste in Abruzzo un sovraffollamento di 107 detenuti. Le donne sono 66. Gli stranieri sono 2014. Lo annuncia il deputato abruzzese di Sel, Gianni Melilla. “I tentativi di suicidio e i casi di autolesionismo sono all’ordine del giorno. Nell’ultimo anno di cui disponiamo i dati vi sono stati 1 suicidio, 31 tentativi di suicidi e 118 casi di grave autolesionismo. Negli ultimi 10 anni nel solo carcere di massima sicurezza di Sulmona vi sono stati ben 13 suicidi. Le condizioni igieniche e sanitarie continuano a destare serie preoccupazioni. Per i tossicodipendenti e i malati psichiatrici avrebbero bisogno di cure ben più appropriate al fine di un loro recupero. Il lavoro per i detenuti in carcere é assolutamente carente. In poche parole il trattamento carcerario non assume il contenuto costituzionale della rieducazione e del recupero. Si assiste comunque ad esperienze positive in alcuni carceri come quello di Pescara. Il personale di polizia penitenziaria è sotto organico, e spesso è costretto a turni di lavoro stressanti con ricorso continuo agli straordinari. È’ necessario investire nuove risorse finanziarie e umane nel sistema penitenziario abruzzese per sostenere i processi in atto di miglioramento delle condizioni della popolazione carceraria”, conclude Melilla. L’Arci Provinciale di Teramo tramite una sua delegazione parteciperà al presidio, promosso da Maurizio Acerbo (Rifondazione Comunista) Vincenzo Di Nanna (Amnistia Giustizia Libertà Abruzzi), per l’elezione a garante dei detenuti dell’Onorevole Rita Bernardini. “Lo facciamo perché lunedì non sia un’ulteriore presa in giro nei confronti dei detenuti abruzzesi che aspettano ormai da troppo tempo una figura che possa tutelare i propri diritti e che li aiuti nel reinserimento nella società civile. Lo facciamo perché una legge, approvata ormai da sei anni, che prevede una figura di garanzia per i detenuti che in Abruzzo, sebbene gli episodi di suicidi, vedi Sulmona, e di vessazione non mancano, ancora non viene attuata. Lo facciamo perché la riscoperta, nella nostra comunità della figura di Marco Pannella non sia stata una ennesima sterile passerella”, ha dichiarato il Presidente Giorgio Giannella. Calabria: allarme sicurezza e degrado nelle carceri di Emanuela Carucci Il Giornale, 11 giugno 2016 Due detenuti di origine africana hanno distrutto tutto quello che c’era nelle loro celle. Il problema più grande: manca il personale penitenziario. È accaduto a Palmi, in provincia di Reggio Calabria: un detenuto di origine africana, in un raptus ha rotto tutto quello che aveva nella sua cella. Pochi giorni fa un episodio simile è accaduto nel reparto psichiatrico del carcere di Reggio dove un altro detenuto di origine africana ha devastato la cella, divelto i mattoni a mani nude e procurato una frattura alla mano a un assistente della polizia penitenziaria. Sul caso intervengono Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria) ed il segretario generale aggiunto, Giovanni Battista Durante. “I nostri agenti sono ormai allo stremo” dichiarano in una nota che mette in evidenza proprio la mancanza di personale penitenziario in Calabria. Secondo le parole dei due sindacalisti il problema è molto più grande: “A livello nazionale - continuano - mancano circa settemila unità”. Inoltre, secondo Capece e Durante, la legge Madia ha previsto un taglio di circa quattromila agenti. Damiano Bellucci, il segretario nazionale del Sappe, in un’intervista dichiara che in particolare: “In Calabria la situazione è davvero insostenibile - e continua - bisognerebbe inviare almeno quattrocento agenti per far fronte alle esigenze di istituti come Crotone, Palmi, Reggio Calabria, Catanzaro e Rossano (in provincia di Cosenza). “I numeri parlano chiaro; a detta di Bellucci, a Crotone ci sono circa 150 detenuti e 30 agenti di polizia e ad Arghillà, in provincia di Reggio Calabria, per 300 detenuti, ci sono solo 90 poliziotti. Insomma, gli ultimi episodi di disperazione all’interno delle carceri calabresi non sono che la punta di un iceberg. La realtà drammatica della mancanza del personale penitenziario disegna una grande emergenza. In ragione del sovraffollamento degli istituti penitenziari, più in generale problema di tutto il Paese. Alghero: viaggio virtuale nella vita da detenuto del 1940 alguer.it, 11 giugno 2016 Giovedì prossimo l’inaugurazione della sezione multimediale del museo della memoria carceraria di Tramariglio “Giuseppe Tomasiello”. Per l’occasione “notte bianca” al Parco di Porto Conte C’è la sala di prima immatricolazione con le macchine fotografiche d’epoca per le foto segnaletiche, il tavolo del medico e il vestiario dato in consegna, ma anche la sala del barbiere, il cinema e la sala svago. Non manca il “pancaccio” e il “buiolo” della cella di rigore e neppure il materiale della sartoria della colonia penale. Insomma un vero e proprio viaggio virtuale per riportare il visitatore nell’atmosfera degli anni 40 quando a Tramariglio funzionava la colonia penale e dove per circa un ventennio passarono parte della loro vita circa 5mila detenuti. Sarà inaugurato giovedì prossimo 16 giugno, all’interno del museo della memoria della casa di lavoro all’aperto “Giuseppe Tomasiello” di Tramariglio, una nuova sezione tutta multimediale ed interattiva davvero interessante che è finalizzata a ricostruire la giornata tipo di un detenuto. Una sezione che completa ed arricchisce l’intero percorso museale inaugurato nel luglio 2013 dall’allora ministro della Giustizia Cancellieri, ma che da soprattutto conto del grande lavoro di recupero e digitalizzazione dell’archivio carcerario di Tramariglio svolto da detenuti dei carceri di Bancali e Alghero in regime di art 21 (semilibertà). La giornata del 16 giugno prevede al mattino l’inaugurazione ufficiale riservata alle istituzioni a partire dalle ore 11 mentre nel tardo pomeriggio apertura ufficiale dalle 17 e avvio nell’iniziativa “una sera al museo” che chiuderà alle 21. Durante la serata previsto anche un momento musicale con il Coro polifonico algherese alle 20. Il progetto di allestimento del museo “Tomasiello”, trova il suo apice nella valorizzazione dell’archivio come bene culturale: presso la sala studio allestita al Parco cultori di varie discipline potranno consultare e studiare carte, fascicoli, mappe, registri, relativi alla vita quotidiana di agenti e detenuti, documenti sui piani di bonifica, e sulle costruzioni di opere infrastrutturali indispensabili nella colonia penale. L’archivio, custodito in pratiche e sicure scaffalature, si snoda per quasi 100 metri lineari, ed è costituito da oltre 1.300 registri e circa 5.000 fascicoli. Sono disponibili inoltre due scanner planetari per l’acquisizione ottica conservativa. L’archivio ha inoltre fornito una mole impressionante e significativa di dati e notizie essenziali per l’allestimento di un “Museo della memoria carceraria della Casa di lavoro all’aperto di Tramariglio”, dove sono analizzati vari aspetti della vita tra le sbarre. Il modello museale focalizza l’attenzione sulla vita nella colonia penale di Tramariglio, dove i reclusi erano addetti a mansioni di tipo agro-zootecnico e artigianale, ed arrivavano solo se “meritevoli” del lavoro all’aperto, considerato come un premio da destinare a quei ristretti che avevano dato evidenti prove di emenda e di ravvedimento. Le testimonianze materiali ed immateriali valorizzano il bene culturale archivistico, la memoria dei luoghi, le vite dimenticate dei detenuti e degli agenti di custodia, come Giuseppe Tomasiello, giovane agente di custodia che a Tramariglio perse la vita per mano di un detenuto, la cui figura, caduta nell’oblio, è stata riscoperta e valorizzata grazie a questo progetto. Telefono Azzurro apre ludoteca nel carcere di Chiavari Agi, 11 giugno 2016 Uno spazio accogliente, in cui i volontari cercheranno di rendere meno traumatiche le relazioni di bambini e ragazzi con genitori detenuti, attraverso giochi, attività formative e di assistenza. È la nuova Ludoteca nella Casa di Reclusione di Chiavari, inaugurata oggi nell’ambito del progetto ‘Bambini e Carcerè di Telefono Azzurro. Saranno i volontari del gruppo territoriale di Lavagna a portare avanti il neonato progetto di Chiavari, tappa ligure del progetto di Telefono Azzurro e 18esima sede dell’attività: al momento, ‘Bambini e Carcerè opera già in 17 strutture in tutta Italia ed è in fase di attivazione anche a Voghera e Santa Maria Capua Vetere. In queste strutture vengono seguiti mensilmente circa 857 minori attraverso la presenza di 224 volontari adeguatamente formati. Dalle statistiche del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria emerge che, al 31 dicembre 2015, la popolazione detenuta è pari a 52.475; di questi, circa 22.361 sono anche genitori. “Il progetto Bambini e Carcere, nato nel 1993 a Milano, ha l’obiettivo di favorire il rapporto dei minori con i genitori detenuti, anche in un contesto come la realtà carceraria spesso difficile da comprendere, soprattutto per un bambino”, ha commentato Ernesto Caffo, Presidente di Telefono Azzurro e Docente di Neuropsichiatria Infantile. Due i momenti fondamentali: la ‘preaccoglienzà e il colloquio in ludoteca. Il primo è quello precedente all’incontro con il genitore detenuto e ha come scopo quello di allentare la tensione dovuta alle procedure per entrare nel carcere. Superata questa fase, l’attività entra nel vivo con l’incontro tra genitori e figli. I volontari, in questo contesto, avviano attività che permettono a genitori e figli di essere i veri protagonisti: giochi, laboratori, animazione e assistenza, con l’unico obiettivo di tutelare la crescita psico-affettiva del minore e garantire un ambiente sereno per la coltivazione del rapporto con i genitori.Stamane, all’inaugurazione sono intervenuti anche Paola Penco, Direttrice del Carcere, Andrea Tonellotto, Comandante del Carcere, Roberto Levaggi, Sindaco di Chiavari e Luigi Barbieri Vice Sindaco di Lavagna. Bologna: rivolta e incendio all’Ipm del Pratello, denunciati 12 giovani detenuti La Repubblica, 11 giugno 2016 Sono dodici i giovani detenuti denunciati per la protesta che la sera del 31 maggio ha creato tensione nell’Istituto penitenziario minorile di via del Pratello. Le denunce riguardano 11 ragazzi maghrebini e un italiano, ritenuti responsabili di aver incendiato quattro materassi da cui si è sprigionata una densa nuvola di fumo. I primi ad intervenire per cercare di riportare la situazione alla calma furono gli agenti della polizia penitenziaria e infatti due di loro rimasero intossicati e finirono al pronto soccorso. Le accuse nei confronti dei ragazzi detenuti sono per incendio, danneggiamento, lesioni, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Dei dodici, cinque sono minorenni. La presenza dei maggiorenni nel carcere minorile si spiega con il fatto che la struttura del Pratello ospita anche ragazzi di età superiore ai 18 anni, che stanno scontando una pena per reati commessi quando erano ancora minori. L’episodio del 31 maggio è stato duramente condannato dai sindacati Cgil Fp e Uil-Pa, che in un comunicato hanno denunciato inoltre “la grave carenza di personale in cui versa da tempo l’Istituto bolognese”. Ancona: bambini in visita ai padri detenuti, arrivano i giochi in sala attesa e area verde di Enrico Fede vivereancona.it, 11 giugno 2016 Montacuto è più accogliente con la sala d’attesa per i bambini e i nuovi giochi nell’area verde. Sono stati i detenuti a realizzare i dipinti e installare i nuovi arredi, pensati per i loro bambini o amici a quattro zampe. Secondo la dirigente dell’istituto penitenziario Santa Lebboroni, “il momento del controllo dell’identità e degli effetti personali dei familiari, per i bambini diventa un momento di attesa”. Ecco allora che i divisori utilizzati in precedenza diventano pannelli su cui i detenuti hanno dipinto Gatto Silvestro, Tom e Jerry e i personaggi di Winnie the Pooh. Entrando nel cuore della struttura, all’area verde allestita nel 2015 dall’associazione anconetana per il recupero delle tossicodipendenze “Fedecostante”, i carcerati hanno aggiunto uno scivolo, una casetta e tre tavolini per i più piccoli - al fianco dei tre tavoli da pic-nic per gli adulti protetti da gazebo - donati dall’associazione Soroptimist International. La presidente di quest’ultima, Antonella Daniela - oltre a promettere una nuova targhetta per l’area verde. Quanto ne emerge è uno spaio che potrà essere molto importante per i bambini di ogni età, ma che è anche già stato importantissimo per i reclusi. Proprio loro parlano durante un piccolo buffet inaugurale. Il signor Rocco ha parlato di “una bella esperienza. Spero di usufruirne se mi porteranno i bambini”. Mentre Paolo Carpisassi, che spiega di avere un figlio ormai 30enne, non vede l’ora di riabbracciare la sua cagnolina Lucrezia - una bastardina presa al canile di Ancona - perché, ricorda: “il lunedì può venire mia moglie e portarmela”. Ancona: anche cani e gatti in visita ai detenuti La Stampa, 11 giugno 2016 Nel carcere di Montacuto ad Ancona i detenuti potranno abbracciare in un’area verde oltre ai loro figli in visita anche i propri cani e gatti. L’iniziativa è nata dalla richiesta di un detenuto che aveva un cane molto vecchio e aveva chiesto alla direzione del carcere di poterlo rivedere prima che morisse. Un desiderio esaudito dalla direttrice del carcere, Santa Lebboroni, e che riguarda anche i gatti, ammessi in visita con il trasportino. L’iniziativa è stata presentata in occasione di una donazione del Soroptimist di Ancona alla casa di reclusione (giochi, matite, ecc. per i bimbi in visita ai parenti reclusi). Alla cerimonia erano presenti anche alcuni detenuti. Paolo, padrone di Lucrezia, una bastardina presa al canile, ha detto di “non vedere l’ora di rivederla e giocare con lei”. Per Luca, l’area verde di Montacuto “è uno spazio molto bello, qui puoi vivere un momento di libertà”. Padova: il “Canto libero” del coro di detenuti al Due Palazzi di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 11 giugno 2016 Nell’auditorium del carcere spettacolo di fine anno dei corsi scolastici. Tutto pieno, martedì, fino all’ultimo gradone, l’auditorium della casa di reclusione Due Palazzi per lo spettacolo di fine anno del Cpia (Centri provinciali istruzione adulti) ovvero la struttura alla quale fanno anche capo le scuole interne al carcere. Ad esibirsi, il coro Canto Libero composto da una ventina e più di detenuti assieme ad alcuni esterni dell’associazione padovana Coristi per Caso che tre anni fa hanno iniziato a cantare e far cantare, in prigione. Tutti assieme hanno raccontato e cantato una storia, che porta la firma di Gabriel Garcia Marquez, e si intitola “L’annegato più bello del mondo”. Musiche e testi delle canzoni del maestro Alejandro Saorin Martinez. Tra gli spettatori, moltissimi detenuti, gli insegnanti dei corsi scolastici del carcere con Daniela Lucchesi in prima fila, coordinatrice del progetto-coro; Ottaviano Casarano, il direttore del Due Palazzi assieme ad alcuni collaboratori; educatori, volontari e Maria Cinzia Zanellato, regista teatrale, che una ventina d’anni fa ha portato il teatro dentro quel carcere: un laboratorio per i detenuti, un’attività dalla quale escono veri prodigi. Qualcosa che lì, dietro le sbarre, fa la differenza, fa scoprire un nuovo linguaggio anche interiore, mette alla prova nella condivisione delle proprie debolezze, crea gruppo e relazioni. Insomma, segna un cammino di cambiamento, fa crescere le persone. Davanti a un pubblico attento e partecipe (e con la collaborazione degli agenti di custodia sempre oltremodo disponibili) i detenuti coristi e lettori hanno messo in piedi un piccolo miracolo. Riad, Mahmud e Arbi all’inizio dell’anno incerti nella lettura in italiano e poi sciolti e intensi; Lillo, napoletano, un lungo passato di attore in una compagnia specializzata in De Filippo, che al termine ha declamato ‘A livella di Totò da vero maestro; Raffaele, Lorenzo, Luis, Juan Carlos, Zilfo, Arbi, Tonino, Luca, Victor, Mario “lo scrittore” e gli altri. Per tutti il calore di tanti applausi e una speciale soddisfazione. Poi, i cancelli si sono aperti: chi è uscito, chi è rientrato. In cella. La grande illusione della guerra giusta di Massimo Cacciari La Repubblica, 11 giugno 2016 Oggi è sparita la dimensione politica degli sforzi bellici: non sappiamo nemmeno per quale pace combattiamo. In un’epoca di incertezza diffusa in cui Amico e Nemico si scambiano continuamente i ruoli, l’unica strada possibile per sottrarsi alla barbarie è riflettere sulla genesi filosofica della parola “conflitto”. Quando altro non è possibile affermare se non che la forma della guerra si è andata radicalmente modificando e che nessun Sovrano sembra oggi in grado di porla in una qualche forma giuridico-politica, proprio allora, forse, diventa più necessario ritornare a pensare i termini fondamentali del problema. Nulla appare oggi scontato o di per sé evidente; nessun paradigma regge alla esperienza fattuale. Allora tutto dovrebbe reimpo-starsi, appunto, dalle fondamenta. E qui troviamo una parola originaria della nostra civiltà, sul cui sfondo hanno continuato a proiettarsi i diversi e, almeno all’apparenza, contrastanti modi in cui l’Occidente ha detto e fatto la guerra. Essa ritorna per forza propria; noi non facciamo che trarla fuori dal suo “eterno passato”, a farne cioè, letteralmente, esegesi, ogni volta che facciamo la guerra. Questa parola dice: “Polemos (il Colli non lo traduce; Diano: il conflitto; Marcovich: guerra) è padre di tutte le cose, di tutte è re, e gli uni édeixe(valore gnomico: ha mostrato e sempre mostra) dèi, e gli altri uomini, gli uni epoíese (come prima per édeixe: ha fatto e fa) schiavi, gli altri liberi” (Eraclito). Polemos non “sostituisce” Zeus, ma stabilisce un Principio a tutti gli essenti comune, un Principio cui tutti per necessità obbediscono, anche se non lo sanno, quel Principio che parla nel Logos stesso di Eraclito. Tale Principio è pater, cioè potens, solo esso ha patria potestas effettiva. La sua potenza, cioè, non si manifesta distruggendo, ma ponendo: essa costituisce gli uni come dèi, gli altri come uomini; essa rende gli uni schiavi, gli altri liberi. Il Principio-Polemos genera distinguendo, ovvero tutti accomuna proprio nel costituirli come differenti. Polemos pone gli opposti e tra gli opposti deve esservi contesa, éris. La guerra individua, fa emergere il carattere-dèmone di un individuo contral’altro, entrambi nel loro opporsi manifestano questo comune: il porsi, cioè, di ciascuno come se stesso nella sua differenza dall’altro. Nello spasmo in cui si è trasformato e serrato in sé il nostro spazio-tempo, popoli e culture vanno incrociandosi e affastellandosi gli uni con gli altri, eliminando ogni “amicizia” o “prossimità”. Più ci si meticcia semplicemente e meno ci si ospita. Sono movimenti tellurici, zolle di crosta terrestre alla deriva, che oggi danno di cozzo. La guerra perde ogni forma. Dove si svolge? Al centro o alla periferia del “comando”, alle porte di Roma o a Palmira? In qualsiasi punto in cui esploda, il conflitto può farsi catastroficamente centrale. È guerra diffusa, policentrica; ogni esplosione minaccia di travolgere il tutto. L’ordinato gioco tra parte e intero, che ci era apparso nell’idea di Polemos, è travolto. Non solo il concetto di guerra giusta crolla definitivamente, ma la stessa definizione di Nemico si fa ardua. Essa diviene preda dell’occasionalità più nuda. Amico e Nemico si scambiano i ruoli con “insostenibile leggerezza”, rendendo esercizio di scuola il paradigma schmittiano. L’assenza di limiti della guerra contemporanea si era già imposta con il tramonto dello ius belli; le grandi guerre civili mondiali dell’altro secolo avevano già fatto crollare ogni differenza tra combattenti e non combattenti, avevano già fatto uso di ogni strumento ideologico per demonizzare il nemico e ricorso a ogni mezzo terroristico. (Nulla rende più evidente la confusione che regna oggi in questo campo dello scriteriato uso del termine “terrorismo”, applicato indistintamente a ogni azione che sfugga a una logica classica di affrontamento tra eserciti. Terrorismo significa terrorizzare le popolazioni “innocenti”; i combattenti non sono terrorizzabili per definizione). Oggi questa assenza di limiti assume una forma diversa, totale: da un lato, tende a sparire il “campo di battaglia”; dall’altro, Amico e Nemico si fanno interscambiabili. Ma soprattutto assenza di limiti viene a significare l’assoluta impotenza a definire la guerra in termini morfogenetici. Per la sua capacità di produrre nuove forme politiche, nella sua dimensione costituente, si era sempre potuto parlare di arte della guerra e di una virtus bellica. Questi timbri erano anche avvertibili nell’arcaico termine Polemos. Oggi è la stessa politicità della guerra (la comune radice di pólemos e pólis) che non riesce più a esprimersi. Quale ordine si intende difendere dal presunto attacco? E quale costituire dopo l’auspicata disfatta dell’aggressore? Insomma: per quale pace si fa la guerra? Se non si sa chi sia il Nemico e dove stia, e tantomeno si conosce chi sia l’alleato, la guerra finirà con l’essere condotta con i mezzi più disparati, e con efficacia scarsa o nulla. Così Polemos, non più pater, finisce con l’apparire sempre ingiusto. Non sapendo dare più al termine “guerra” un significato, si tenta di rimuoverne l’esistenza stessa derubricandola alla famiglia del “sorvegliare-e-punire”, ad azione di intelligence e di polizia. E si sogna che tra politica e guerra si possa scavare l’abisso. Compaiono spezzoni delle antiche “grandi forme”, dei tradizionali “eroici” tentativi di mettere in forma il Gioco crudele - come relitti sulle nostre spiagge abbandonati dalla colossale risacca dell’ultimo secolo. Con fiducia particolare ci si abbarbica all’idea di “giusta guerra difensiva”. Ma che significa? Difesa del territorio? E quali ne sono i confini reali? Difesa dell’onore? E come impedire, allora, che essa possa farsi anche preventiva, se entra in gioco l’onore di uno Stato? Defensio innocentium? Ma quale Stato non ha da più di due secoli reso “colpevoli” i suoi cittadini? Quale “scala di valore” può affermare se stessa assoluta? Dove siede il Tribunale dell’Umanità? Spezzoni, frammenti, balbettii che si inseguono nel nostro mondo successivo al crollo della forma politico-militare imposta dai grandi Titani usciti vincitori dalla seconda Grande guerra. Ripetere frammenti e balbettii non renderà più chiara la visione. Tantomeno se si crederà di uscire da questa fase epimeteica inseguendo di nuovo il sogno del supremo Tribunale, capace di ridurre ogni conflitto a formalismo giuridico e a perseguire come un crimine la guerra. Questo sogno non fa che esprimere l’indisponibilità europea, e ormai sempre più di tutto l’Occidente, ad affrontare la “prova del fuoco”. In Polemos il dissidio, in tutte le sue forme, era concepito e affrontato come segno di Dike, della Necessità, e perciò i distinti nel loro opporsi erano anche sempre visti nel Comune, cui appartengono e il cui Logos è pre-potente rispetto a ogni loro manifestazione di potenza. Questa prospettiva appartiene al nostro linguaggio più originario e non può perciò essere definita utopistica. Forse essa ci indica ancora una non vana, non cieca speranza per conferire un senso costituente, morfogenetico all’attuale tumulto, anche se ignoriamo per quali vie e attraverso quali tragedie essa potrà mai realizzarsi. Questo testo è un estratto del saggio Il tramonto di padre Polemos, contenuto nella raccolta Senza la guerra (Il Mulino, pagg. 125, euro 12) Il piano Ue per i migranti: progressi e molte ambiguità di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 11 giugno 2016 Il nuovo piano dell’Unione Europea ha soprattutto un merito: quello di affrontare infine il problema, ma si intravedono notevoli limiti. È un passo avanti, sì, ma su un terreno assai scivoloso: e dunque è un passo incerto, gravato da un notevole fardello di ambiguità. Il nuovo piano dell’Unione Europea per i migranti (con le relative intese bilaterali sui rimpatri e sui flussi) ha soprattutto un merito: quello di affrontare infine il problema; e nel senso giusto, ovvero mutando - da passiva ad attiva - la posizione di noi europei verso un fenomeno di riallocazione globale di esseri umani mai visto dalla Seconda guerra mondiale in avanti: non più spettatori di un dramma biblico ma attori di una palingenesi collettiva. La filosofia alla base del piano coincide, in buona sostanza, con il Migration compacttanto caro a Matteo Renzi. E tuttavia i limiti che si intravedono sono notevoli: anzitutto per la scarsa disponibilità dei singoli Stati ad aprire i cordoni della borsa, come s’è capito già ieri in Lussemburgo alla riunione dei ministri degli Interni. Qualcosa s’è mosso, certo. Federica Mogherini e Frans Timmermans, vicepresidenti della Commissione, hanno proposto alle capitali dell’Unione di mettere assieme le risorse confezionando “accordi su misura”: 8 miliardi nel breve, fino a 62 nel lungo termine, da concedere almeno a nove Paesi (sette africani) cui dare sviluppo e cooperazione in cambio del ritorno in patria dei loro migranti irregolari e di un freno alle nuove partenze. È in sostanza il modello Erdogan esportato al Sud del Mediterraneo. Diecimila morti in mare solo dal 2014 sono del resto una cifra che non ci consente di girarci dall’altra parte. Però le perplessità rimangono forti. E, come si intuisce dal riferimento a Erdogan, non solo per le pur gravi ragioni economiche (“i soldi non sono il focus del piano, non è il momento di discutere gli aspetti finanziari”, s’è giunti a dire ieri in Lussemburgo). Angelino Alfano ha ragione quando sostiene che “l’Europa può diventare protagonista solo se prende su di sé tutto il sistema delle migrazioni, anche nel rapporto con i Paesi terzi dell’Africa”. Ma è difficile non sottoscrivere i dubbi del Financial Times il quale, pur rallegrandosi che l’Europa aprisse “finalmente” ai propri vicini, poneva l’altro giorno la questione etica (la stessa che si può sollevare sull’accordo con la Turchia): per chiudere la maggiore rotta sahariana, l’Europa, tanto fiera dei propri valori democratici, dovrà ad esempio venire a patti con Paesi come il Sudan, con la sua storia di violazioni dei diritti umani. O invogliare atteggiamenti ricattatori: il Niger ci ha già chiesto un miliardo, il 14 per cento del suo Pil, per collaborare. Diciamolo: è nello scorrere l’elenco dei potenziali partner che vengono i dubbi più seri: Etiopia, Mali, Libia (se le condizioni lo consentiranno) e così via… In alcuni casi parliamo di Stati falliti, di guerre civili aperte, di scenari terroristici. Immaginiamo di coinvolgere la Libia (quale piano serio potrebbe, d’altra parte, escluderla?). A chi daremmo i soldi? Con quali garanzie? Come evitare che il primo tiranno apra - per “accontentarci” - qualche lager nello stile del (compianto) Gheddafi e trasferisca il tesoretto in un paradiso offshore anziché farne un volano di benessere per la sua gente? La triste verità è che i quattrini europei dovrebbero essere accompagnati da un esercito di maestri, medici e ingegneri, a sua volta protetto - in ovvio accordo con i “partner” africani - da soldati europei ben lungi dall’esistere: non certo per fisime neocoloniali, ma per risarcire popoli e nazioni di una decolonizzazione basata sulla fuga dalle responsabilità. Si tratterebbe naturalmente di aprire vere trattative bilaterali con quei pochi Stati (Marocco e Tunisia, ad esempio) strutturati e affidabili come alleati del Mediterraneo meridionale. E infine di stare in Africa per evitare che l’Africa intera salga da noi (quale sarebbe la differenza tra un profugo “con diritto d’asilo” e una mamma “migrante economica” che scappa col neonato dalla carestia?). Siamo, come si vede, di fronte a condizioni che al momento rendono perlomeno claudicante il piano dell’Unione. A meno che non si dichiari un obiettivo alto e nobile per centrarne uno basso e inconfessabile: lo stop ai flussi purchessia, pagando ai nostri confini buttafuori mascherati da “partner” e da capi di Stato. In questa distanza morale e politica l’Europa potrà liquefarsi o decidersi infine a esistere davvero. Le parole degli uomini sulla violenza maschile di Alberto Leiss* Il Dubbio, 11 giugno 2016 La parola femminicidio è ormai entrata nell’uso corrente. E niente come il linguaggio registra i cambiamenti che avvengono nelle zone più radicali della psicologia e del sentimento comune: in termini filosofici e psicanalitici - con Lacan e col femminismo della differenza - si parla del simbolico. Sono state donne a proporre e utilizzare questo termine, e sono le donne a aver compiuto nell’ultimo mezzo secolo una rivoluzione politica e simbolica che ha prodotto enormi cambiamenti nelle nostre vite, e che sta correndo in tutto il mondo. Uno degli effetti, mi pare, è che la violenza maschile contro le donne, per secoli e millenni accettata più o meno come un dato di fatto, e persino giustificata in termini etici e giuridici, oggi fa giustamente scandalo. Il “delitto d’onore” è scomparso dal nostro codice solo all’inizio degli anni 80 del secolo scorso. Oggi un rapper palestinese - Tamer Nafar - si scaglia contro questa pratica dove sopravvive nel mondo arabo. La violenza contro le donne è diventata una cosa inaccettabile, insopportabile. Non è quindi solo l’evidenza statistica - certo raccapricciante - delle aggressioni che le donne subiscono da mariti, compagni, padri e fratelli, da sconosciuti per la strada o al pub, a generare la reazione, registrata dal sistema mediatico con sempre maggiore spazio. Con enfasi, ma anche con seri approfondimenti. C’è la nuova libertà e autonomia femminile, e qualcosa che sta contagiando contraddittoriamente, ma anche positivamente, l’universo maschile. Ne scriviamo e discutiamo con l’emozione, e l’orrore, degli ultimi delitti: Sara, aggredita, strangolata e bruciata alla Magliana di Roma dal compagno che non accettava la separazione. Michela, uccisa con un colpo di pistola dal suo fidanzato (anche lui ex guardia giurata), che ha poi dato la “notizia” su WhatsApp e si è suicidato con la stessa Smith & Wesson. È un copione che si ripete: maschi privi di equilibrio, di reale capacità di riconoscere e amare l’altra, non riescono ad accettare di essere lasciati, la donna è un oggetto di possesso, vincono la gelosia e la furia omicida. Forse non è più la violenza quotidianamente esercitata dal patriarca sicuro del suo ruolo, accettata con sottomissione da mogli e figli, ma il caso estremo di una tragica resistenza ad accettare il cambiamento femminile: l’autonomia, la libertà, la differenza del desiderio. Sulle pagine della 27esima ora del Corriere della Sera Lucia Annibali, colpita dall’acido versato per ordine dell’ex fidanzato, e Alessia Morani, vice capogruppo del Pd alla Camera, chiedono agli uomini di “scendere in campo in prima persona” contro la violenza. Ida Dominijanni ha scritto su Facebook: “Voglio essere certa che tutti gli uomini che mai brucerebbero viva una donna stiano organizzando via social una oceanica manifestazione di stigmatizzazione dell’omicida di Sara. Se invece non ci avete ancora pensato, datevi una mossa”. Sono domande e provocazioni da ascoltare e da accogliere. E sta anche succedendo più che in passato che uomini di diversa estrazione e collocazione avvertano il bisogno se non altro di prendere la parola, di non allontanare da sé la drammatica evidenza: siamo noi a esercitare queste violenze, e i femminicidi sono la manifestazione più estrema di una cultura - o meglio povertà di cultura - basata sul possesso, purtroppo ancora enormemente diffusa, e forse persino in ripresa. Non si parte proprio da zero. Esattamente 10 anni fa con alcuni amici della rete di maschile plurale rendevamo pubblico un testo che diceva appunto questa semplice verità rimossa: la violenza maschile ci riguarda, prendiamo la parola come uomini. Aveva raccolto migliaia di adesioni, anche di maschi collocati in posizioni rilevanti, nella politica e nella cultura. È proseguito un cammino difficile, ma credo non inutile. È vero, non ci sono state finora “manifestazioni oceaniche” ma si sono moltiplicate relazioni individuali e di gruppo in cui gli uomini mettono in gioco e in discussione la propria maschilità. Così come sono proseguiti, non senza conflitti anche acuti, gli scambi con le donne. Anche sul terreno arduo della violenza. A Torino - ma è solo uno dei numerosi possibili esempi - gli uomini del Cerchio degli uomini e le donne del centro Donne e futuro sono impegnati/e insieme per trovare pratiche condivise nell’affrontare la violenza maschile. Cominciano a diffondersi anche in Italia servizi e iniziative rivolte specificamente agli uomini che agiscono violenza (una rassegna a più voci, femminili e maschili, è nel libro Il lato oscuro degli uomini, Ediesse, a cura dell’Associazione Le Nove). Gli scopi sono diversi: prevenire la spirale violenta, dando ascolto ai maschi che volontariamente si sottopongono a percorsi per liberarsi dai comportamenti aggressivi. Ridurre le recidive per gli uomini già immessi nel circuito giudiziario. È un tema molto delicato: io penso che l’iniziativa maschile in questo campo non possa mai prescindere dallo scambio con le donne che da decenni lavorano con i centri antiviolenza. E che le iniziative del governo e delle istituzioni locali - ho visto che sui recenti casi di femminicidio ha finalmente detto qualcosa, sulla cultura e la prevenzione, anche la ministra Boschi, da poco investita della delega alle pari opportunità - maneggino con grande cura i finanziamenti previsti dalle recenti norme, che comunque sono largamente insufficienti. Ma il punto per me più importante è di nuovo simbolico, e riguarda la mente e il desiderio di noi maschi: la libertà delle donne può essere per noi l’occasione di un cambiamento che migliori le nostre vite? Che ci metta di più in sintonia con quella parte dei nostri sentimenti e dei nostri corpi che le ipoteche patriarcali e maschiliste in fondo soffocano da millenni? Sarebbe interessante - è un’idea che mi ha suggerito Stefano Ciccone - parlarne pubblicamente in un incontro dall’ipotetico titolo Prima della violenza. Un appuntamento per tutti gli uomini che si riconoscono in questi interrogativi, magari da tenere alla ripresa, entro ottobre. Prima di sentirsi obbligati a farlo nella scadenza del 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne. *giornalista, della rete maschile plurale Terre des Hommes: bambini sfruttati sul lavoro o costretti a combattere di Carlo Lania Il Manifesto, 11 giugno 2016 In Giordania sono manovali e spazzini. In Libano vengono impiegati nelle piantagioni di pomodori e tabacco. In Iraq, invece, chiedono l’elemosina nelle strade oppure provano a racimolare qualche soldo vendendo gomme e caramelle. In Turchia, infine, lavorano come piccoli operai nelle fabbriche tessili, oppure come facchini nei mercati. Un fenomeno che si sta rapidamente espandendo anche in Grecia e negli stati europei nei quali sono rimasti intrappolati dopo la chiusura della rotta balcanica. Nelle pieghe del dramma dei rifugiati c’è anche l’inferno in cui sono costretti e vivere milioni di bambini. Cinque anni di guerra civile in Siria hanno infatti ridotto allo stremo quanti sono fuggiti cercando rifugio nei paesi confinanti. Finiti da tempo i risparmi, con gli adulti impossibilitati a lavorare perché mutilati o a causa dei divieti imposti dai paesi che li accolgono, la sopravvivenza delle famiglie è sempre più spesso nelle mani dei bambini costretti a svolgere lavori pesanti e sottopagati. Sfruttati e - specie le bambine - sempre a rischio di molestie sessuali da parte di datori di lavoro senza scrupoli. Ma, paradossalmente, più fortunati dei loro coetanei che in Iraq e nel nord del Libano, al confine con la Siria, vengono arruolati dalla varie milizie e trasformati in bambini soldato. “Tra le più odiose conseguenze della guerra in Siria c’è l’impressionante incremento del lavoro minorile, sia tra i bambini all’interno del Paese, sia tra quelli che sono rifugiati all’estero assieme alle loro famiglie o da soli”, denuncia Terre des Hommes. In occasione della giornata contro il lavoro minorile che si celebrerà il 12 giugno l’organizzazione, presente in tutti i paesi in cui si trovano i profughi siriani, ha messo a punto un rapporto intitolato “We struggle to survive” (Ci sacrifichiamo per vivere) in cui raccoglie le testimonianze di 97 bambini e ragazzi lavoratori tra gli 8 e i 18 anni (86 siriani e 11 iracheni). Più del 50% degli intervistati ha affermato di lavorare più di 7 ore al giorno e il 33% lavora 7 giorni su 7. Ai maschi spettano i lavori più duri, mentre le bambine vengono impiegate nei saloni di bellezza oppure come tessitrici, ma anche per fare e pulizie domestiche. “Qualunque tipo di lavoro - ha spiegato una bambina - basta che non sia pericoloso, non comprometta la reputazione o vada contro la religione”, ha raccontato una bambina. “Vendere per strada può dare problemi, si può essere cambiati per mendicanti. Inoltre non bisogna entrare i commerci illegali come vendere alcolici, prostituirsi o rubare, perché è contro l’Islam”. Una paga media in Giordania varia tra i 3 e i 6 euro al giorno, in Iraq chi trova lavoro in un hotel o in un ristorante può guadagnare 400 dollari al mese, mentre un lustrascarpe o un manovale ne guadagna 8-10 dollari al giorno. “Particolarmente preoccupante - spiega il presidente dell’organizzazione, Raffaele Salinari - è la presenza di lavoro minorile in Turchia, un paese che aspira ad entrare nell’Unione europea, e l’affacciarsi di questo fenomeno sulla rotta balcanica, con alcuni casi di bambini lavoratori rilevati nella zona di Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia, a causa della mancanza di un’adeguata assistenza umanitaria ai migranti”. L’organizzazione chiede quindi ai governi che ospitano i rifugiati e alle agenzie umanitarie di adottare subito meccanismi di protezione dei bambini e di prevenzione del loro sfruttamento. La ragazza morta di overdose a sedici anni e il sottomondo che non vogliamo vedere di Paolo Fallai Corriere della Sera, 11 giugno 2016 Oggi l’eroina è confinata in quella sterminata periferia tutta uguale dove vivono i nuovi miserabili della nostra società. Sono passati sessant’anni dall’”Urlo” di Allen Ginsberg: “Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, trascinarsi all’alba in cerca di una siringata rabbiosa di droga”. Oggi non urla più nessuno. L’eroina è confinata in un sottomondo che ci rifiutiamo di guardare, in quella sterminata periferia tutta uguale dove vivono non “le menti migliori” ma i nuovi miserabili della nostra società. Fino a quando la morte di una ragazzina di 16 anni non ci sbatte in faccia il colore livido della nostra indifferenza. Il giovane corpo di Sara Bossi rannicchiato su una lettiga arrugginita all’interno di uno degli ospedali più grandi di Roma, non racconta solo la sua disperata adolescenza. Sua madre, Katia Neri, è stata interrogata per lunghe ore ieri dagli investigatori, sullo spaccio di stupefacenti, sui rapporti con gli amici afgani della figlia e su quello che succedeva nei meandri del Forlanini dove anche lei aveva dormito. E anche la nonna di Sara - è stata la stessa Katia Neri a raccontarlo agli investigatori - sarebbe morta anni fa per una overdose. Un gene di disperazione si è impossessato di tre generazioni della stessa famiglia. Ma noi dove eravamo quando succedeva tutto questo? E i servizi sociali di uno Stato che dovrebbe essere civile? Nessuno nelle peregrinazioni di quella ragazzina tra un centro di recupero nel Frusinate, da cui ha tentato di fuggire buttandosi da una finestra del terzo piano; l’ospedale Gemelli di Roma dove le hanno curato le fratture; e ancora un centro minori in provincia di Perugia, nessuno ha saputo o capito la sua storia. Sara si è aggirata in quei luoghi che sono a 50 metri dalle nostre case ma è come fossero invisibili, le stazioni come Termini, gli orli slabbrati di quartieri come Pigneto o Ostiense, fino all’ultima fermata: un ospedale mezzo abbandonato. Davvero non possiamo più permetterci di chiudere gli occhi. Caso Regeni: i silenzi di Cambridge vogliono nascondere le loro responsabilità” di Carlo Bonini La Repubblica, 11 giugno 2016 Parla Federico Varese: “Non hanno intuito i rischi di quella ricerca e così non hanno sottratto un loro dottorando al suo destino”. Dopo l’omicidio di Giulio Regeni, in splendida solitudine, Federico Varese, criminologo e professore alla Oxford University, aveva avuto il coraggio di scuotere l’Accademia e le sue consuetudini felpate, accusando l’università di Cambridge, di cui Giulio era dottorando, di non aver saputo o voluto intuire il rischio della “ricerca partecipata” in un Paese come l’Egitto. Di aver in qualche modo abdicato alla sua responsabilità. Ora, dopo il rifiuto dei professori di quella stessa università di collaborare con l’inchiesta della Procura di Roma, quella provocazione civile, si fa indignazione. “Sono sgomento”, dice. Sgomento? “Non saprei trovare un altro aggettivo di fronte allo shock per quello che ho visto e ascoltato. Dopo la morte di Giulio ero convinto di aver detto alcune scomode verità sulla responsabilità morale che in quella morte ha avuto Cambridge. Ma non pensavo di aver ragione più di quanto volessi averne. Come è possibile che di fronte alle parole di una madre che dice “Vi ho affidato mio figlio con sacrificio e con fiducia” si risponda con il silenzio? Come può stare insieme la richiesta formale avanzata da Cambridge al Governo Britannico e l’appello firmato anche dal sottoscritto e da migliaia di professori e ricercatori che chiedeva un’indagine accurata e indipendente sulle cause della morte di Giulio con la decisione di non collaborare con la Procura di Roma, riservandosi di decidere se e come consegnare atti utili all’indagine?” Lo chiedo io a lei che in un’Università inglese lavora. Come si spiega? “Il non rispondere genera sospetti. Ma io, per convinzione e metodo, mi tengo sempre molto lontano dal sospetto, perché è una categoria del pensiero che non avvicina mai alla verità. E dunque propendo per la risposta insieme più semplice e, a ben vedere, drammatica”. Quale? “Che il silenzio sia una scelta fatta dai legali che tutelano gli interessi dell’Università. E per loro la priorità è una sola: mettere al riparo Cambridge da possibili richieste di risarcimento danni per eventuali responsabilità nella mancata tutela della sicurezza del ragazzo. Ma questo, come dicevo, è persino peggio”. Perché? “Perché di fronte a una tragedia come quella di Giulio Regeni non si possono delegare a degli avvocati decisioni che interpellano questioni cruciali che hanno a che fare con i diritti fondamentali. Perché questo, per un’università, significa delegare la propria autorità morale. E una volta fatto questo passo quell’autorità non può più essere invocata di fronte a nessuno. A quale titolo Cambridge potrà spendersi su questioni che interpellano il rispetto dei diritti umani se rifiuta di collaborare con la magistratura italiana in un caso di palese violazione di quei diritti? Per giunta di un proprio dottorando”. Cambridge si difende sostenendo che non vede a quale titolo debba rispondere di cose che esulano dalla sua sfera di responsabilità. “È proprio questo il punto. Qui non si discute di responsabilità giuridica, penale o civile. Ma morale. E quella ha più padri. È evidente che i responsabili giuridici dell’omicidio di Giulio sono i suoi assassini materiali e i loro mandanti. Ma è pur vero che una parte di responsabilità morale la porta anche l’università che non è riuscita a sottrarre quel ragazzo al suo destino non intuendo che una “ricerca partecipata” aumenta il rischio. Perché il ricercatore entra a far parte della comunità che indaga. Con tutto quello che ne consegue. Anziché difendersi con il silenzio, Cambridge potrebbe lavorare a una riforma di questo tipo di ricerche sociali sul campo. Magari, come accade per le ricerche scientifiche, affiancando al dottorando un secondo tutor responsabile esclusivamente per gli aspetti connessi alla sicurezza”. Può essere che in fondo l’Accademia è simile a tutte le latitudini? “Temo di doverle dare ragione. Forse continuiamo tutti a dare troppo peso agli intellettuali, dimenticandoci che, dopo tutto, le università sono fatte di uomini, donne, burocrati, che, se in difficoltà, lottano per la propria sopravvivenza, anche abdicando alle ragioni della loro missione. Del resto, negli anni del ventennio fascista, quanti furono i professori delle nostre Università che si rifiutarono di prestare giuramento al Regime? Pochi. Pochissimi”. Non pensa che sulla decisione di Cambridge abbia pesato anche l’assoluto disinteresse mostrato dal governo inglese alla vicenda Regeni? “Sicuramente il silenzio del governo inglese non ha contribuito a creare un clima di coraggio. Giulio, nonostante fosse un figlio adottivo dell’Inghilterra, continua ad essere considerato da Downing Street un semplice cittadino italiano morto in circostanze violente in un Paese terzo. E la cosa fa più impressione se pensiamo che Giulio era l’immagine del giovane cittadino dell’Europa. Dico di più. Fa ancora più impressione se pensiamo che Cameron sta provando a convincere il Paese a non staccarsi dall’Europa”. Libia: milizie Misurata liberano detenuti Isis a Sirte Agi, 11 giugno 2016 Le milizie di Misurata che fanno capo all’operazione “al Bunian al Marsus” hanno liberato diversi civili che erano stati arrestati dallo Stato islamico nelle carceri di Sirte. Secondo quanto riferisce il sito informativo libico “al Wasat”, molti di questi detenuti hanno subito torture in carcere. Il portavoce dell’operazione militare, comandante Mohammed al Ghasri, ha spiegato che i suoi uomini sono ormai entrati nel centro di Sirte, roccaforte del gruppo jihadista da circa un anno. Dopo aver bombardato i centri dello Stato islamico a Sirte con i colpi di mortaio e raid aerei, le milizie di Misurata sono entrate in città nella notte grazie alla ritirata dei jihadisti. L’operazione per la ripresa di Sirte è iniziata il 12 maggio scorso. Secondo quanto riferisce l’emittente televisiva “al Arabiya”, alcuni aerei non identificati hanno rotto la situazione di calma relativa che si registra oggi a Sirte bombardando alcune postazioni che si ritiene siano dello Stato islamico (Isis). L’emittente televisiva di Tripoli “al Naba” ha trasmesso oggi la preghiera del venerdì in diretta da una moschea del centro cittadino. La liberazione di Sirte rappresenta certamente un grande successo per l’esecutivo libico di Tripoli sostenuto dalle Nazioni Unite. Gli analisti, tuttavia, continuano a considerare lo Stato islamico come un pericolo mortale per i fragili equilibri della Libia. Al Ghasri prevede che le operazioni continueranno al massimo per altri due o tre giorni prima della conquista completa della città. Secondo Mattia Toaldo, analista sulla Libia dell’European Council on Foreign Relations a Londra, è ancora presto per cantare vittoria: potrebbe volerci diverso tempo per ripulire del tutto la città della presenza dello Stato islamico, non solo in termini di uomini ma anche esplosivi e mine. “A quanto risulta - spiega l’analista ad ‘Agenzia Novà - l’intenzione delle forze di Misurata è di dare le chiavi della città alle autorità locali. C’è la consapevolezza che il precedente atteggiamento vessatorio verso la città di origine di Muhammar Gheddafi è stata una delle cause dell’avvento dell’Isis”. L’area di Sirte, per altro, è territorio della tribù dei Warfallah, fra le più numerose del paese e protette dal defunto colonnello Gheddafi. “Politicamente, il governo di accordo nazionale, e soprattutto Misurata e Jadhran, ne escono rafforzati, ma è anche vero che ora dovranno essere bravi a mantenere alta l’attenzione internazionale sulla Libia nonostante la caduta di Sirte”, ha detto Toaldo. “Bisogna stare in guardia - ha aggiunto - sia alla reazione dell’Is, prevedibilmente con attentati terroristici, che di Haftar che sembra essere stato marginalizzato da questa battaglia e tornerà alla carica”.