Quei diritti che valgono solo a metà di Luigi Ferrarella Sette del Corriere, 10 giugno 2016 Un detenuto marocchino si fa 208 giorni di carcere in più del dovuto ma gli dimezzano il risarcimento. Un "buffo" caso di giustizia amministrata "a piacere". Diritti "à la carte", nel senso che bisogna chiederli alla cassa per farseli erogare, altrimenti nessuno te li riconosce all’interno del "menù" teorico? Il dubbio a volte viene quando ci si trova in un ganglio della macchina giudiziaria. E viene soprattutto a coloro che sono più sprovveduti o indifesi. Al punto da vedersi paradossalmente poi rimproverare la propria incapacità di stare al mondo - in questo tipo di mondo - come "colpa" tale da ridimensionare il pur esistente diritto a una riparazione del torto subìto. È il caso buffo, se non fosse molto serio, di un 28enne marocchino che, dovendo scontare una condanna definitiva con fine pena il 3 agosto 2014, era invece stato scarcerato in giugno appena il carcere di Biella aveva segnalato alla Procura che per il medesimo procedimento il detenuto aveva già scontato custodia cautelare dal giugno 2009 al marzo 2010. Era dunque pacifico che il marocchino fosse rimasto in carcere 208 giorni in più, sulla base di un titolo di detenzione emesso per errore, giacché in realtà aveva già scontato in carcere (come custodia cautelare) il periodo corrispondente alla pena da eseguire. Ed era quindi indubbio che dovesse ricevere l’indennizzo di legge per l’ingiusta detenzione patita. Ma ecco che il ministero dell’Economia, attraverso l’Avvocatura dello Stato, obietta che era stata colpa del detenuto, in quanto aveva fornito false generalità e così aveva di fatto indotto in errore il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), a torto convinto che l’uomo non fosse mai stato detenuto in Italia quantomeno dal 1990. Ma la Corte d’Appello, competente a decidere sugli indennizzi, osserva che questa tesi non sta in piedi: non soltanto perché le generalità erano diverse da quelle esatte solo per una lettera, il che "potrebbe verosimilmente essere attribuibile a una erronea comprensione e trascrizione delle generalità dichiarate"; ma anche perché perfino l’erroneo ordine di esecuzione indicava che l’uomo era stato detenuto dal 2010, cosa che evidentemente smentiva l’indicazione che egli non fosse mai stato presente in alcun carcere italiano dal 1990. L’errore, insomma, era invece stato proprio dell’apparato giudiziario, nel momento in cui non era stato trasmesso all’organo della esecuzione il fascicolo del giudizio di primo grado relativo alla custodia cautelare che il marocchino aveva subìto in quella fase del procedimento. Lo Stato, per resistere in giudizio e provare a non pagare, introduce allora un secondo argomento: sarebbe stata comunque "colpa" del detenuto, perché era rimasto inerte una volta ricevuto l’errato ordine di carcerazione. Il detenuto, difeso dall’avvocato Deborah Piazza, spiega però ai giudici che aveva provato molte volte a dirlo agli agenti di custodia, cadendo preda della disperazione e di gesti di autolesionismo per il fatto di non essere creduto, fino a quando proprio l’attivazione del personale penitenziario e i successivi accertamenti informatici avevano fatto venire a galla che il detenuto non era uno di quelli che si inventavano i più disparati pretesti, ma aveva proprio ragione. E tuttavia la Corte d’Appello dimezza ugualmente la somma in teoria indennizzabile al giovane marocchino per i 208 giorni di ingiusta detenzione, da 49.000 euro a 25.000 euro: perché? Perché la legge prevede che non vi sia riparazione per ingiusta detenzione, o vi sia in misura minore, se la vittima ha in qualche modo concorso all’errore di cui domanda la riparazione. Quindi il profilo di "colpa", non grave ma ravvisato, per i giudici starebbe nel fatto che il detenuto "non si è attivato per fare pervenire, anche mediante la direzione del carcere, una istanza direttamente all’autorità giudiziaria, anche eventualmente chiedendo l’ausilio per la redazione ad altri detenuti di nazionalità italiana di maggiore esperienza e capacità"; e "per far valere in modo appropriato il diritto alla scarcerazione non ha contattato il difensore", per la verità d’ufficio e residente per giunta in un distretto diverso da quello del carcere. Come dire: insomma, 208 giorni di carcere in più, ma in fondo te la sei un po’ cercata. Addio Opg, ma per duecento pazienti trovare posto è un’impresa di Michele Bocci La Repubblica, 10 giugno 2016 Procure, Gip e Tribunali di sorveglianza fanno richiesta, ma trovano tutte le porte sbarrate. Oggi in Italia ci sono 195 persone per le quali non c’è spazio nelle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza che devono archiviare per sempre la buia stagione degli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari. La filosofia alla base delle nuove strutture è più sanitaria che carceraria, mira all’assistenza e al recupero di malati psichiatrici giudicati socialmente pericolosi. E infatti non è prevista la presenza della polizia penitenziaria ma solo di personale sanitario. Gli oltre 500 posti a disposizione nelle Rems già non bastano ad accogliere tutti. Ma viste le richieste, c’è il rischio che anche in futuro, quando la riforma sarà definitivamente partita e la capacità di accoglienza salirà a 600, ci si trovi un sistema sottodimensionato. "Il problema è che le Rems oggi vengono usate anche per quello che non sono. Cioè i magistrati chiedono di mandarci persone la cui posizione non è ancora definita dal punto di vista giudiziario, quindi per misure di sicurezza provvisorie. Invece dovrebbero andarci malati con misure definitive, cosa che vorrei fosse chiarita con un decreto legge". A parlare è Franco Corleone, commissario del Governo per l’applicazione della legge che ha stabilito la chiusura degli Opg indicando tra l’altro come termine il 31 marzo 2015. Il lavoro non è finito, visto che restano ancora aperti gli ospedali psichiatrici giudiziari di Montelupo Fiorentino e Rarcellona Pozzo di Gotto (Messina) con dentro una cinquantina di persone. La prossima settimana finalmente chiuderà Aversa, il manicomio criminale più antico d’Italia. Al posto degli Opg stanno nascendo le Rems: oggi sono 24 sulle 30 previste e ospitano circa 520 persone. Ma 195 sono ancora fuori. "Se si procede così i posti non basteranno mai - spiega Corleone. Ne abbiamo parlato anche mercoledì in una riunione con le Regioni e i ministeri della Giustizia e della Sanità. Chi aspetta il giudizio va mandato, anche a seconda della gravità di ciò che ha fatto, nella sezione sanitaria di un carcere, o in un reparto psichiatrico dell’ospedale. Ma ci sono anche Regioni che hanno creato strutture "intermedie" dì assistenza, come ad esempio case famiglia, e che quindi "soffrono" di meno. In Emilia Romagna ci sono 5 ordinanze non eseguite per mancanza di letti nei Rems contro le 44 della Sicilia". Gli Opg in alcuni anni sono arrivati ad ospitare anche 1.400 persone, più del doppio della disponibilità delle Rems. Secondo Corleone non è questo il problema, perché la nuova legge ha cambiato completamente l’approccio verso i malati psichiatrici pericolosi. "Negli Opg c’erano i cosiddetti "ergastoli bianchi", con le persone che restavano dentro tutta la vita. Nei Rems, la misura detentiva è equiparata alla pena per il reato commesso. Se sono previsti 10 anni, si resta dentro non di più. E poi c’è il grande tema dell’assistenza mirata a recuperare queste persone e a re inserirle nella società. Le strutture sono piccole, ci sono stanze a due letti con il bagno, si mangia insieme". Anche dei più pericolosi si occupa comunque il personale sanitario e non ci sono portoni o cancelli a chiudere dentro gli ospiti. Tutti particolari che hanno fatto dire ai sostenitori della riforma che siamo di fronte alla rivoluzione più importante nel mondo delle malattie mentali dai tempi della legge Basaglia. Lo spirito delle Rems è più sanitario che carcerario L’obiettivo è il recupero di soggetti pericolosi. Così le banche hanno finanziato narcos e mafie di Antonio Maria Costa La Stampa, 10 giugno 2016 La più grande industria è il riciclaggio di denaro. Alcune grandi banche hanno finanziato narcotraffico e mafie pagando solo multe. Europol ha pubblicato l’elenco dei criminali più ricercati in Europa; Interpol ha aggiornato gli Avvisi Rossi. Entrambe agenzie individuano i grandi nemici della società: terroristi e mafiosi. Nei due elenchi non appaiono altri pericoli pubblici, per esempio i responsabili di reati concepiti in grattacieli vetro e acciaio. Reati perpetrati davanti a ettari di schermi policromatici BenQ, con grafici e tabelle. L’elenco di questi crimini spaventa: manipolazione dei tassi di cambio e d’interesse, riciclaggio, frode, falsa fatturazione, evasione fiscale, aggiotaggio, vendita di derivati tossici, schemi a piramide Ponzi, violazione delle sanzioni, rischi eccessivi coi risparmi altrui, abuso dei mutuatari - e naturalmente, usura. Delitti che generano un enorme bottino (calcolato freddamente, valutando rendimenti attesi contro l’eventuale penalità), sottratto a un enorme numero di vittime. Secondo le Nazioni Unite la crisi del 2008, frutto della speculazione finanziaria, è costata 1.100 miliardi di dollari in termini di occupazione e produzione persa, e ha estorto ai tesori nazionali 430 miliardi di dollari per assistere (a volte, nazionalizzare) le istituzioni fallimentari. "Occorre evitare nuove crisi, risarcire le vittime, e punire i colpevoli" - così ha pensato l’opinione pubblica dopo il collasso, auspicando riforme, sanzioni, incarcerazioni. È andata diversamente. Alcune riforme hanno fortificato il sistema, ri-capitalizzato le banche, resa più affidabile la loro liquidità. Ma in Europa, l’unione bancaria (gemella dell’unione monetaria) rappresenta lavoro in corso: la singola supervisione (della Bce) è opaca; la singola risoluzione (dalle bancarotte) è complessa; la singola assicurazione (sui depositi) è incerta. Negli Usa la legislazione Dodd-Frank rafforza responsabilità e trasparenza bancaria, per proteggere i risparmiatori. Eppure, dopo l’entusiasmo iniziale, diversi articoli sono stati abrogati dal Congresso, e l’elemento centrale (la separazione tra banche commerciali e quelle d’affari) non è ancora promulgato. Le sanzioni imposte? Globalmente, circa 270 miliardi di dollari, pari a una modesta percentuale dei profitti annuali delle banche. Di incarcerazioni neanche a parlarne: alcuni operatori marginali sono sotto processo, ma nessun presidente, amministratore o consigliere è alle sbarre. C’è di peggio. Durante la crisi, la grande illiquidità generata dal crollo dei prestiti interbancari ha fornito alla criminalità organizzata (ricca di contante) l’opportunità di penetrare il sistema finanziario. "Non è la mafia a cercare la finanza, ma viceversa", mi dice un magistrato dell’antimafia. Le prove abbondano. Negli Usa la Wachovia Bank ha riciclato 380 miliardi di dollari del cartello messicano di Sinaloa negli anni 2006-10. Nel 2014, grazie alla "procedura differita" offerta dal Tesoro Usa, gli amministratori evitano sanzioni promettendo di "non ricadere nel reato in futuro". La banca è multata di spiccioli: 160 milioni di dollari, pari al 2% del profitto annuale. Similmente la più grande banca in Europa, la londinese Hsbc, ammette di avere riciclato miliardi di narco-reddito, e dozzine di altri crimini. Paga l’ammenda (2 miliardi), evita conseguenze penali e mostra l’ipocrisia che caratterizza la lotta alla droga. Un giovane con qualche grammo di droga in tasca finisce in galera; banchieri che agevolano traffici a tonnellate si godono yacht e jet privati. Ma c’è d’altro ancora. Il presidente Renzi, indispettito per i commenti tedeschi sulle banche italiane, ribatte: "ma che pensino alle loro!" In effetti, la vera bomba nucleare nel cuore dell’Europa è la Deutsche Bank. Con 2 mila miliardi di capitalizzazione (la maggiore nell’Eurozona), è sotto inchiesta per reati in tutto il mondo: manipolazione del tasso Libor (in Inghilterra), riciclaggio di denaro (Russia e Messico), finanziamento al terrorismo (nel Golfo), violazione dell’embargo (Iran), collaborazione con giurisdizioni canaglia (nel Pacifico), falsificazione del rischio (Francia), vendita fraudolenta di strumenti "derivati" tossici (Usa) e così via. A questo punto, il pubblico chiede: perché le banche sono salvate dal contribuente, e i banchieri sono salvati dalla galera? Ora sappiamo la risposta. I crimini finanziari non sono il risultato delle azioni di pochi avidi banksters, ma "il prodotto di una cultura finanziaria che ha perso la bussola morale - avvelenata da frode, avidità e azzardo". Questo dice il governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney. Per rimediare, occorre porre fine alla collusione tra politica e finanza, che non è solo corruzione (politici disonesti comprati dal capitale), ma è inter-dipendenza fra tesori nazionali e banche private, entrambi in dissesto: un contratto di reciproca difesa, che mira a conservare il potere di entrambi. Una situazione irrimediabile? Senz’altro no. Per restituire alle banche il ruolo di mediazione tra risparmiatori e investitori, occorre convertirle in aziende private di pubblica utilità (come acqua e elettricità), specializzate e tassate per disincentivare decisioni lucrose a breve, sconsiderate a lungo. Papa Francesco ha tracciato la via, ricordando la relazione enigmatica di Cristo con il denaro: "nel Tempio nostro Signore scaccia i cambia-valute che speculano; nelle parabole loda chi bene investe i talenti". Nomine, il Csm contro Davigo: "offende le toghe meritevoli" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 10 giugno 2016 Legnini riferisce a Mattarella: "Ho incontrato l’Anm poche settimane fa, non mi ha sollevato il problema". Smentite e precisazioni non sono bastate: l’atto d’accusa di Piercamillo Davigo contro la "prassi orribile" del Consiglio superiore della magistratura sulla spartizione fra correnti nelle cosiddette "nomine a pacchetto", ha provocato irritazione nell’organo di autogoverno dei giudici. Soprattutto per il pulpito da cui è venuta la "predica", e cioè il vertice dell’Associazione nazionale magistrati, che dei gruppi organizzati è culla e sintesi, come s’è visto nell’elezione al vertice dello stesso Davigo. E poi perché con quella dichiarazione il leader dell’Anm rischia di "offendere i magistrati ritenuti meritevoli di guidare gli uffici giudiziari tra cui lo stesso dottor Davigo, nominato solo qualche giorno fa presidente di sezione della Cassazione". La polemica - Così il comunicato ufficiale di Palazzo dei Marescialli dell’altra sera. Stilato e diffuso a stretto giro non per aprire una nuova polemica, ma per affermare che quell’attacco è tanto demagogico quanto incomprensibile. Non fosse altro perché, come ha riferito ieri il vicepresidente Giovanni Legnini al capo dello Stato Sergio Mattarella (che del Csm è presidente), nell’incontro avuto poche settimane fa con l’Anm né Davigo né gli altri rappresentanti della Giunta hanno sollevato il problema. Ma Aldo Morgigni, consigliere di Autonomia e solidarietà, la corrente nata dalla scissione di Magistratura indipendente di cui Davigo fu tra i promotori, non è d’accordo: "Forse chi oggi si scandalizza per le sue parole ha la coda di paglia. Se il presidente dell’Anm non ha il diritto di dire la sua sul funzionamento del Csm, di che cosa dovrebbe parlare? Fra l’altro, nell’occasione in cui Davigo ha fatto le sue considerazioni erano presenti anche gli altri rappresentanti del governo dell’Associazione, e nessuno ha avuto nulla da obiettare". In realtà ciò che contesta, ad esempio, Lucio Aschettino, consigliere della sinistra di Area e presidente della V commissione del Consiglio (competente per gli incarichi direttivi), è la generalizzazione dell’accusa: "Certamente ci possono essere casi in cui le logiche di appartenenza correntizia hanno prevalso sul merito nelle scelte di qualcuno, ma trasformare una patologia in regola è sbagliato. In ogni organismo democratico si manifestano sensibilità diverse che si confrontano, e a volte si contrappongono, anche nella scelta di chi deve ricoprire certi incarichi. I gruppi associativi ne sono l’espressione, e l’Anm dovrebbe essere custode di questo patrimonio; sinceramente, che il presidente ci attacchi su questo punto è sorprendente e paradossale". "Allora lui lasci la Cassazione" - Elisabetta Alberti Casellati, "laica" di Forza Italia che al momento della nomina per la Cassazione ha votato contro Davigo in favore dell’altro candidato, chiede addirittura le dimissioni del presidente dell’Anm dalla sua poltrona alla Corte suprema: "O anche lui ha goduto della "prassi scandalosa", e al buio è avvenuta, per usare le sue stesse parole, la porcheria e il baratto che lo riguarda, oppure dovrebbe avere il coraggio di fare piena luce sulle nomine che sarebbero state spartite, senza gettare fango impunemente su persone e istituzioni". Una difesa d’ufficio che tradisce una certa insofferenza da parte di togati e "laici" verso una denuncia che Davigo ha esplicitato a modo suo, ma molti altri hanno da tempo segnalato. Al punto che la commissione istituita dal ministro della Giustizia Andrea Orlando (presieduta dall’ex magistrato ed ex Guardasigilli Luigi Scotti) per suggerire ipotesi di riforma del Csm, ha avanzato alcune specifiche proposte anche per superare la pratica delle "nomine a pacchetto". Che evidentemente non sono un’invenzione del presidente dell’Anm. Ma forse stavolta la reazione riguarda più chi ha sollevato la questione che non la questione in sé, perché considerato parte del sistema che l’ha generata. Probabile però che Davigo rifiuti a sua volta questa visione, e che la diatriba venga ripresa alla prima occasione utile. Buongiorno Davigo! Il presidente dell’Anm scopre le nomine lottizzate delle toghe di Claudio Cerasa Il Foglio, 10 giugno 2016 Al Consiglio superiore della magistratura "le nomine non convergono sul candidato migliore, ma temo che la prassi sia quella di uno a me, uno a te e uno a lui", che è "una cosa orribile". È con queste parole, pronunciate mercoledì sera in un incontro al Palazzo di giustizia di Milano, che il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, pare aver scoperto all’improvviso la prassi lottizzatoria con cui l’organo di autogoverno delle toghe è solito procedere alla nomina dei suoi componenti ai vertici degli uffici giudiziari sparsi nel paese. Per combattere questa degenerazione, secondo Davigo, occorre "pretendere dal Csm la massima trasparenza e, quindi, che venga messo in intranet tutto quello che è in valutazione, il fascicolo personale di chi fa domanda". E non si parli di privacy: "Chi ricopre un incarico pubblico rinunci alla privacy, perché è al buio che avvengono le porcherie e i baratti". L’improvvisa presa di coscienza di Davigo arriva, forse, in maniera tardiva, se si considera che l’ex componente del pool di Mani pulite è in magistratura dal 1978 e che di nomine, anche nei suoi riguardi, da allora ne ha conosciute parecchie, inclusa quella a presidente di sezione di Cassazione ricevuta qualche giorno fa. Il corto circuito, insomma, è servito, ed è stato comprensibilmente colto al volo dalla consigliera laica del Csm, Elisabetta Casellati, che ha chiesto a Davigo di rinunciare alla nomina appena ottenuta, perché "o anche lui ha goduto di questa prassi scandalosa, e al buio sono avvenute, per usare le sue stesse parole, la porcheria e il baratto che lo riguardano, oppure dovrebbe avere il coraggio di fare piena luce sulle nomine che sarebbero state spartite". Di fronte alle critiche, incluse quelle del Csm - che ha definito le parole di Davigo "gravi, scomposte e sorprendenti" - il presidente dell’Anm ha rettificato le sue dichiarazioni, ma solo precisando che si riferiva alle cosiddette "nomine a pacchetto", anche se a rigor di logica nulla esclude che gli accordi spartitori tra le correnti possano concretizzarsi in deliberazioni del Csm distinte e separate nel tempo. La critica di fondo, dunque, rimane, e siamo sicuri che a tali "porcherie" Davigo ora intenderà subito porre rimedio. L’ex Ministro Martelli: "Io e Scotti fatti fuori per il 41 bis" di Sandra Rizza Il Fatto Quotidiano, 10 giugno 2016 Per cacciare Claudio Martelli dal ministero della Giustizia, all’indomani della strage di Capaci, l’ex capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro avrebbe architettato quello che Marco Pannella tra le più grasse risate ebbe a definire "uno scherzo da prete": far credere a Bettino Craxi che il suo "delfino" voleva scalzarlo, autocandidandosi alla poltrona di Palazzo Chigi. Risultato? Il leader del Psi ci cascò in pieno e non parlò mai più con il suo vice: Martelli restò in via Arenula del tutto isolato e pochi mesi dopo, il 9 febbraio 1993, trascinato da Licio Gelli e Silvano Larini nello scandalo del "conto Protezione", dovette dare le dimissioni. L’episodio, finora inedito, lo ha raccontato lo stesso ex Guardasigilli che ieri nell’aula bunker di Palermo, rispondendo alle domande dei pm del pool Stato-mafia, ha confermato ancora una volta il ruolo di "dominus" attribuito a Scalfaro nelle manovre per rimuovere sia lui che l’ex ministro degli Interni Vincenzo Scotti dalla compagine governativa tra Capaci e via D’Amelio. Il motivo? "Avevamo esagerato - ha detto il politico - nel contrasto a Cosa nostra". È una deposizione-fiume, quella di Martelli, che ricostruisce l’estate degli attentati a Falcone e Borsellino e i torridi mesi che seguirono: la dura opposizione scatenata in Parlamento contro il "decreto antimafia" che istituiva il 41 bis (carcere duro), il tentativo di impedirne la conversione in legge, e nelle settimane successive gli scontri con Craxi, le accuse della P2, fino all’allontanamento da via Arenula e a quella che ha definito "la sistematica distruzione" di tutte le iniziative messe in campo contro la mafia. "Dopo che me ne andai - ha raccontato Martelli - ho visto giorno dopo giorno smantellare tutte le azioni studiate con Falcone che si erano rivelate efficaci fino alla cattura di Totò Riina". Ma il tema al centro dell’esame è il 41 bis ("lo scrivemmo a casa mia io e Loris D’Ambrosio", ha ricordato l’ex numero due del Psi), attorno al quale, secondo i pm di Palermo, ruota la seconda parte della trattativa tra boss e istituzioni nella stagione che conduce vorticosamente a quello che lo stesso ex Guardasigilli ha definito il "cedimento" dello Stato. Tra i primi a manifestare dubbi sul carcere duro, già a pochi giorni dal botto di Capaci, è proprio l’ex presidente Scalfaro. "Al la vigilia del varo del decreto antimafia, il 7 giugno del 1992, mi recai al Quirinale con Scotti - ricorda Martelli - per spiegare che la norma era urgente e costituzionale. Ma il presidente si mise a parlare di politica, chiedendo consigli sul nuovo presidente del consiglio: parlò di Craxi, di Giuliano Amato e più volte fece il mio nome, sembrava volesse darmi l’incarico". Fu poco dopo che lo raggiunse la telefonata di Pannella: "Scalfaro ti ha fatto uno scherzo da prete, va dicendo che vuoi candidarti al posto del tuo segretario". La conclusione? "Craxi si infuriò, Amato mi disse che dovevo rinunciare alla Giustizia, io mi impuntai ma restai in carica per pochi mesi, del tutto delegittimato. Volevano toglierci di mezzo". E non è tutto. Martelli ha raccontato le resistenze della Dc, del Pds, e di gran parte del Parlamento, al 41 bis ("Non c’era uno che dicesse: teniamo duro"), ricordando che senza la strage Borsellino il decreto antimafia non sarebbe mai stato convertito in legge. "Se passò - ha spiegato - è perché al Senato imposi la fiducia". Ma la linea dura dello Stato ha durata breve. Ed ecco che il nuovo Guardasigilli Giovanni Conso fa dietrofront: il 21 febbraio 1993, fresco di nomina, revoca il carcere duro a Poggioreale e Secondigliano, e alla fine dell’anno rifiuta di prorogare centinaia di 41 bis per altrettanti boss. E qui Martelli è sbottato: "La commissione Pisanu ha escluso la responsabilità politica nella trattativa e si è concentrato su quella dei carabinieri, ma io credo che le responsabilità politiche sono conclamate. Quando un ministro della Giustizia dichiara di aver levato il 41 bis a centinaia di detenuti per dare un segnale di distensione, che dubbio c’è?". Geografia giudiziaria: come cambierà la riforma di Giulia Merlo Il Dubbio, 10 giugno 2016 Dopo quattro anni il ministero ha redatto una bozza per razionalizzare i distretti. La riforma della geografia giudiziaria del 2012 è stata un terremoto che ha modificato il volto e i modi dell’accesso alla giustizia per i cittadini. Punti cardine del decreto legislativo, infatti, sono stati l’eliminazione di trenta tribunali, ridotti a 135, la soppressione delle sezioni distaccate e il drastico taglio degli Uffici dei giudici di pace. La riforma, tuttavia, rimane incompleta e la Commissione Vietti ha redatto nel 2016 la bozza di una nuova delega al governo per ultimarla, razionalizzando la distribuzione delle Corti d’Appello e ridisegnando circondari e distretti. A distanza di quattro anni dalla prima riforma e all’inizio del nuovo progetto, il Consiglio Nazionale Forense ha analizzato gli effetti e individuato linee guida future. A partire dall’assunto che "La riforma tocca il cuore della giurisdizione: bisogna interrogarsi sul metodo, anteponendo a considerazioni numeriche il valore dell’amministrazione della giustizia. Non è possibile pensare ad un ufficio giudiziario solo in base a indici perché, soprattutto nei territori più difficili, la presenza di un tribunale equivale alla presenza dello Stato", come spiegato dal coordinatore della commissione, l’avvocato Giuseppe Iacona. Principio di prossimità - Secondo Davide Carnevali, dell’Istituto di Ricerca sui Sistemi Giudiziari del Cnr, la riforma muove da una ridefinizione del principio di prossimità, non considerata più in termini geografici ma tecnologici. La tendenza è quella di utilizzare politiche di convergenza, costituendo unità operative omologhe in ambiti territoriali omogenei. "La pecca della riforma, però, riguarda il metodo: sono mancate un’analisi scientifica e una fase di sperimentazione. Obiettivo della legge era la riduzione delle corti secondo principi di efficienza ed economicità, ma un intervento così incisivo avrebbe richiesto di ripensare in modo più complessivo la giustizia italiana". La mancanza di una disponibilità alla spesa, perché la legge delega prevedeva la clausola di invarianza, però, non ha permesso nei fatti di ottenere quei risultati alla base del progetto. I dati del ministero - "Il valore considerato è stato la produttività dell’ufficio, in ottica di un efficientamento", ha spiegato Fabio Bartolomei, della Direzione generale delle statistiche del ministero della Giustizia: "Abbiamo cercato un equilibrio tra prossimità, costi e specializzazione degli uffici". L’obiettivo è stato di creare uffici specializzati, cui assegnare categorie di affari omogenee. Nella precedente geografia, 63 tribunali avevano meno di 15 giudici e i 55 tribunali più piccoli servivano solo il 10% della popolazione. Uno studio sulla correlazione tra dimensione e produttività, invece, ha dimostrato che la dimensione ideale è di 40-80 giudici per tribunale. Non troppo piccolo, ma nemmeno troppo grande, dunque. Quanto al taglio delle sedi, il modello è l’Europa continentale. "Solo Portogallo, Spagna, Grecia e Italia pre-riforma hanno in media due corti per 100mila abitanti. Gli stati centrali ne hanno una. Inoltre, ovunque la tendenza sistematica è di chiudere i tribunali più piccoli". Unica pecca, rilevata anche da Bartolomei, è che la riforma si sia voluta fare a costo zero. "Soffriamo la mancanza di budget per la fase di transizione. La vera riduzione dei costi, infatti, avrebbe dovuto passare per l’investimento in risorse umane e tecnologia". Le Corti d’appello - Analizzando i dati Istat, uno studio dell’università Cà Foscari ha mostrato come non sia possibile procedere a tagli lineari di riduzione del numero delle 26 Corti d’Appello. Le corti, infatti, sono diverse in termini orografici (per estensione e numero di abitanti), di domanda di giustizia espressa dal territorio (Roma e Napoli hanno assorbito nel 2014 il 25% del carico giudiziario in appello del Paese) e di arretrato. Inoltre, se oggi poco più di un milione di cittadini impiega due ore per raggiungere la Corte d’appello più vicina, nello scenario con 16 Corti si arriverebbe a oltre sei milioni. "Il significato - ha concluso il consigliere Cnf Enrico Merli - non è di difendere lo status quo ma incrociare gli indicatori per individuare qual è il modello più corrispondente alla domanda di giustizia". Altrimenti, il rischio è di allontanare dalla giustizia una parte consistente della popolazione. La mossa che salva Bossetti "il test del Dna non è valido" di Luca Telese Libero, 10 giugno 2016 Un asso nella manica. Un colpo di scena, gelosamente custodito fino ad ora, sulla prova decisiva del processo per l’omicidio di Yara Gambirasio. La difesa di Massimo Bossetti si presenta questa mattina all’udienza decisiva della propria arringa a puntate, al Tribunale di Bergamo, non solo armata del suo noto cavallo di battaglia sull’anomalia del Dna mitocondriale (che inspiegabilmente non corrisponde a quello del muratore di Mapello, e di cui più volte si è già parlato durante il processo), ma con una nuova sorpresa, che riguarda anche gli esami cruciali sul Dna nucleare. Questa prova è un documento trovato fra le stesse carte dell’accusa. Non proviene da una perizia di parte difensiva, ma da un lavoro minuzioso condotto dal genetista Marzio Capra (e da tutto il pool) sulla stessa documentazione fornita dai Ris dei carabinieri, i cosiddetti "raw data". Chi ha seguito il processo sa che su quei dati si giocarono ben quattro cruciali udienze di battaglia in aula. Nei giorni del dibattimento sui campioni di Dna che l’accusa considerava più importanti, ovvero quelli raccolti sulle famose mutandine di Yara (i reperti "g20" e "g31 est") i capitani dei Ris che avevano condotto l’esame, professionisti stimati e esperti, vacillarono più volte durante gli interrogatori. I due capitani chiesero - e ottennero - per ben due volte una sospensione del controinterrogatorio e una pausa di due settimane per prepararsi meglio. Motivarono la richiesta sostenendo di avere dati e referti delle analisi "in disordine in laboratorio". Alla fine del braccio di ferro produssero le famose "brutte copie" dei dati degli esami (i "raw data" di cui sopra). Oggi Paolo Camporini e Claudio Salvagni illustreranno un elettroferogramma (uno dei grafici delle analisi decisive compiute nell’ottobre 2011) che - a loro avviso - prova che la taratura della macchina non era a punto. Se l’illustrazione di questo esame dovesse essere convincente, potrebbe davvero realizzarsi un colpo di scena. Anche perché questa disamina non proietta la sua ombra solo sul primo grado, ma anche su un eventuale appello, perché colpisce il cardine su cui poggia tutto il teorema accusatorio. Le anomalie che accompagnano gli esami del Dna fino ad oggi sono state già tante. Gli stessi inquirenti, sotto interrogatorio, dovettero ammettere che non si conosceva il vero motivo per cui il dna mitocondriale di "Ignoto uno" (quello trovato sul campione della mutandina) non avesse nulla a che fare con la sequenza genetica mitocondriale dell’imputato. Poi dovettero riconoscere che il dna della mamma di Bossetti, compatibile con quello di "Ignoto uno" (individuato nel 2012) al momento dell’esame era stato confuso con un altro campione dove c’era il dna di Yara (e quindi non riconosciuto). Per questo, malgrado un’inchiesta a tappeto, Ester Arzuffi in un primo momento non era stata identificata. Dai referti si legge poi delle tante difficoltà dalla caratterizzazione del Dna di Yara, ricavato con esami su tutte e dieci le unghie. Quindi sono emersi numeri sbarrati a penna sulla sequenza genetica attribuita a "Ignoto uno", e poi inspiegabili "alleli soprannumerali" che nulla hanno a che fare con quelli del muratore. Come è stata risolta la non coincidenza di questi dati dall’accusa? Semplicemente non considerando l’allele in più. Come se un poliziotto che ha tra le mani un identikit simile a quello di un sospetto, tranne che per il naso, risolvesse il problema cancellando con una gomma proprio quel tratto fisionomico. Tutti i problemi dei due campioni trovati sulla mutandine, sul piano procedurale, sono diventati pubblici: l’esame decisivo è stato condotto senza contraddittorio e senza avvocati (all’epoca non c’erano indagati) e per di più, secondo quanto riferiscono i Ris, non è stato mai filmato. L’esame, sempre a detta del colonnello Lago, non può essere ripetuto, anche se una sentenza della Corte Costituzionale prodotta del caso Meredith prevede che in linea di principio la "ripetibilità" sia necessaria per poter utilizzare un Dna come elemento di prova. Per giunta il campione di Dna di "Ignoto uno" che inchioderebbe Bossetti nella documentazione del processo e nei verbali di accompagnamento risultata avere "quantificazioni" diverse. Ma come avrebbe fatto a lievitare, visto che la provetta è la stessa, e non è stata aperta? Il campione è stato addirittura distrutto - secondo quanto testimoniato da Lago - durante le analisi. Di questi esami restavano dunque - fino a ieri - solo gli elettroferogrammi, ovvero referti che all’epoca non avevano valore processuale, ma solo investigativo. Come se si avesse lo scontrino del pasto, ma non le porzioni, dopo averlo consumato. Un bel pasticcio. Bene, questa mattina in Aula arriva il colpo di scena, quella carta che Capra e compagni ritengono decisiva, e che hanno trovato tra gli stessi dati prodotti dall’accusa. Oggi scopriremo se nella loro illustrazione delle prove, gli avvocati di Bossetti saranno convincenti: se riusciranno, cioè, a squalificare anche il Dna nucleare. Se questo accadesse, riuscirebbero nel virtuosismo di smontare una pro, usando dati che secondo la pm servivano per mandare Bossetti all’ergastolo. Sarebbe un bel paradosso. Mandato di arresto europeo nullo senza quello nazionale di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 10 giugno 2016 Corte Ue - Sentenza 1 giugno 2016 n. 241/15. No all’esecuzione del mandato di arresto europeo se le autorità dello Stato di emissione non indicano l’esistenza di un mandato nazionale, aggiuntivo e diverso da quello Ue. La Corte di giustizia Ue, con la sentenza del 1° giugno (C-241/15), alza il livello di tutela dei destinatari dei provvedimenti di consegna nello spazio Ue. Aggiungendo, rispetto al dato letterale della decisione quadro 2002/584 sul mandato di arresto europeo e le procedure di consegna tra Stati membri (recepita in Italia con Dlgs 69/2005), in via di fatto, un motivo di rifiuto alla consegna: si esclude che le esigenze di celerità possano sovrastare le garanzie procedurali. A rivolgersi alla Corte Ue i giudici rumeni alla prese con la richiesta di consegna delle autorità ungheresi. Destinatario del provvedimento un cittadino rumeno che aveva provocato un incidente stradale in Ungheria. Budapest aveva emesso un mandato di arresto europeo senza indicare, nella richiesta e nel formulario, il provvedimento nazionale. Una lacuna che impone - osserva la Corte Ue - alle autorità dello Stato di esecuzione di bloccare la consegna. È vero - riconosce la Corte - che l’articolo 8 della decisione quadro, modificata dalla 2009/299 che rafforza i diritti processuali delle persone e promuove l’applicazione del reciproco riconoscimento delle decisioni pronunciate in assenza dell’interessato (recepita con Dlgs 31/2016), non indica in modo esplicito la necessità di un mandato di arresto nazionale. Ma, poiché la norma non aggiunge l’aggettivo "europeo" in riferimento al mandato di arresto, è evidente che il legislatore intendeva riferirsi alla necessità di un provvedimento nazionale differente da quello Ue. In caso contrario, "il mandato di arresto europeo potrebbe fondarsi su sé stesso", mentre è chiaro, interpretando l’articolo 8 e altre disposizioni, che l’indicazione di sentenza esecutiva, di qualsiasi decisione giudiziaria esecutiva o di un mandato di arresto, implica un richiamo ad atti nazionali. Così, eventuali procedure semplificate ammesse sul piano nazionale ma non conformi a quest’interpretazione rendono ineseguibile il mandato Ue, che richiede tutela giudiziaria su due livelli: uno nello Stato di adozione e uno in quello di esecuzione. Se è vero, poi, che l’assenza del mandato nazionale non è né tra i motivi di non esecuzione obbligatori né tra quelli facoltativi, è anche vero che la sua assenza tocca la validità del provvedimento (che in pratica non esiste) e comporta l’impossibilità di esecuzione. Salvo che lo Stato di emissione non colmi la lacuna, fornendo, senza ritardo, le informazioni necessarie allo Stato di esecuzione. Soggiorno illegale, condanna all’espulsione in sostituzione della pena pecuniaria Il Sole 24 Ore, 10 giugno 2016 Stranieri - Reato di ingresso e soggiorno illegale dello straniero nello Stato - Sentenza di condanna all’espulsione in sostituzione della pena pecuniaria - Mezzo di impugnazione - Appello - Ragioni. La sentenza di condanna emessa del giudice di pace in relazione al reato di ingresso e soggiorno illegale dello straniero nel territorio dello Stato con applicazione della misura dell’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva della pena pecuniaria è appellabile e non ricorribile per cassazione. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 17 dicembre 2015 n. 49871. Stranieri - Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato - Condanna all’espulsione come pena sostitutiva - Presupposti - Indicazione. In caso di condanna per la contravvenzione di illegale ingresso o soggiorno nel territorio dello Stato, l’applicazione dell’espulsione in sostituzione della pena pecuniaria è subordinata al rispetto delle indicazioni contenute nell’art. 7 della direttiva della Comunità Europea n. 115 del 2008 e, di conseguenza, alla verifica in concreto del pericolo di fuga e, quindi, di sottrazione del condannato alla procedura di rimpatrio. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 24 giugno 2013 n. 27604. Stranieri - Sentenza di condanna all’espulsione in sostituzione della pena pecuniaria - Mezzo di impugnazione - Appello. È appellabile, e non ricorribile per cassazione, la sentenza di condanna emessa del giudice di pace con applicazione della misura dell’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva della pena pecuniaria. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 4 gennaio 2011 n. 52. Stranieri - Sentenza del G.d.P. di condanna all’espulsione in sostituzione della pena pecuniaria - Mezzo di impugnazione - Appello. È appellabile, e non già ricorribile per cassazione, la sentenza del giudice di pace di condanna alla misura dell’espulsione in sostituzione della pena pecuniaria stante la "ratio legis" di consentire lo scrutinio nel merito ove siano irrogate sanzioni incidenti sulla sfera di libertà dell’imputato. • Corte cassazione, sezione I, ordinanza 14 dicembre 2010 n. 43956. Ammissibilità del ricorso avverso i provvedimenti di sostituzione delle misure cautelari Il Sole 24 Ore, 10 giugno 2016 Misure cautelari personali - Ordinanza emessa in seguito a perdita di efficacia della precedente - Ricorso per saltum - Ammissibilità. In tema di impugnazioni delle misure coercitive, è ammissibile la proposizione del ricorso "per saltum" avverso il nuovo provvedimento cautelare emesso a seguito della perdita di efficacia della precedente ordinanza. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 10 febbraio 2016 n. 5497. Misure cautelari personali - Provvedimento di rigetto di richiesta di revoca o modifica di misura coercitiva - Impugnabile per saltum - Esclusione. In tema di misure cautelari, il provvedimento con il quale il giudice per le indagini preliminari respinge la richiesta di revoca o di modifica di una misura cautelare personale non è impugnabile "per saltum" mediante ricorso per cassazione, trattandosi di rimedio esperibile, ai sensi dell’articolo 311 cod. proc. pen., unicamente contro le ordinanze genetiche che dispongono la restrizione della libertà. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 19 maggio 2015 n. 20565. Misura cautelare - Revoca modifica o estinzione - Ricorso per saltum - Ammissibilità - Esclusione. Il ricorso immediato per cassazione può essere proposto, ai sensi dell’articolo 311, comma secondo, cod. proc. pen., soltanto contro le ordinanze che dispongono una misura coercitiva e solo nel caso di violazione di legge, nonché, secondo l’articolo 568, comma secondo, cod. proc. pen., contro i provvedimenti concernenti "lo status libertatis" non altrimenti impugnabili: ne consegue che avverso i provvedimenti di sostituzione o modifica delle misure cautelari è ammesso esclusivamente il rimedio dell’appello, previsto dall’art. 310 del codice di rito. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 30 aprile 2013 n. 18963. Misure cautelari personali - Ordinanze applicative di misure coercitive - Impugnabilità - Ipotesi di ammissibilità del ricorso per saltum. In tema di impugnazioni delle misure coercitive, il ricorso cosiddetto "per saltum" in cassazione può essere proposto solo avverso le ordinanze genetiche delle misure coercitive, essendo invece inammissibile con riferimento a tutti i restanti provvedimenti ad esse relativi, unicamente impugnabili, a norma dell’articolo 310 cod. proc. pen., con il mezzo dell’appello. • Corte cassazione, sezione Fallimentare, sentenza 9 agosto 2012 n. 32161. Uomini, ora fate sentire la vostra voce contro la violenza sulle donne di Lucia Annibali e Alessia Morani* Corriere della Sera, 10 giugno 2016 Tre donne uccise nelle ultime 48 ore. Una strage intollerabile. Cercare una soluzione è un dovere di ognuno di noi. Occorre però arrivare alla radice del problema: le leggi ci sono, manca quella che da più parti viene evoca: una rivoluzione culturale. Crediamo che a questo punto sia necessario un cambio di passo per arrivare a centrare l’obiettivo. Dobbiamo spostare la questione dalle donne agli uomini: la loro voce non si sente. È a ognuno di loro che lanciamo un appello: costruire una rete di uomini contro la violenza sulle donne. Perché, dunque, coloro che possono dare un contributo a veicolare i più efficaci messaggi sul femminicidio non si ritrovano in una realtà che concretamente si metta a disposizione? Si tratta di mettere in pratica con un gesto concreto quella rivoluzione culturale di cui tanto si parla. E la rivoluzione, qui e oggi, la possono fare solo gli uomini per gli uomini, affrontando un percorso di liberazione simile a quello che ha portato le donne all’emancipazione. Perché è vero: le leggi ci sono, il problema è educativo. Ma la voce delle donne da sola non basta. Accanto a loro devono devono esserci gli uomini. Solo insieme possiamo vincere questa battaglia. Solo ascoltando le loro voci, le loro testimonianze, possiamo estirpare la violenza di genere dalle feroci cronache quotidiane. Ecco perché chiediamo agli uomini di sottoscrivere questo appello. Lo chiediamo ai politici in modo trasversale per primi, che potrebbero farsi carico di iniziative sui territori, agli intellettuali e ai personaggi dello spettacolo affinché mettano a disposizione la loro notorietà per parlare ai più giovani. Lo chiediamo ai giornalisti, ai medici, agli studiosi, e soprattutto a coloro che hanno superato l’incubo di scoprire la violenza dentro di sé e sono riusciti ad affrontarla. Vi chiediamo di esserci, di prendere posizione pubblicamente contro il femminicidio. Vi chiediamo di scendere in campo in prima persona per aiutare chi è preda di una violenza cieca, per comprendere quali sono i meccanismi che l’hanno causata e per scoprire insieme come fronteggiarla. Lo chiediamo agli uomini perché dove le leggi, che pure ci sono, non riescono ad arrivare, possono invece fare la differenza la cultura e l’informazione. Con la voce degli uomini contro la violenza sulle donne. *Lucia Annibali, avvocato. Alessia Morani, vice capogruppo Pd alla Camera In questo tempo rosso di sangue e vergogna di Alessandro Tessari* Avvenire, 10 giugno 2016 Caro direttore, tra monsignor Galantino e il ministro Alfano, io - laico e agnostico - sto dalla parte di Galantino. Senza se e senza ma. Torno sulla questione, mentre l’Europa confeziona e attiva un nuovo "compact" per tentare di regolare il premere di uomini, di donne e di bambini alle sue porte. Molti vecchi come me, che possono avere avuto responsabilità politiche in passato, oggi si trovano smarriti e senza risposte plausibili di fronte al volto nascosto di tanti "poteri forti". La questione delle questioni del nostro tempo, è la migrazione ingovernabile che unisce come mai le due sponde del Mediterraneo, tingendolo di rosso. Dove il rosso più acceso è quello della nostra vergogna, persino più del sangue di tanti innocenti. Su questo dramma, due disarmanti semplicità: una è quella di Galantino che allarga le braccia con l’affetto misericordioso del sacerdote e l’altra è quella di chi, con cipiglio urticante, ci dice che lui fa "il ministro". E lascia intendere che certi atteggiamenti "da prete" lui non se li può permettere. Come mi sarebbe piaciuto vedere quel cipiglio quando Alfano siede in Europa con i suoi colleghi, non per litigare sulle quote di migranti, trattati come quote latte (miserabile lettura di questo evento biblico), ma per urlare in faccia all’Europa quanta nostra responsabilità c’è in quelle guerre africane e mediorientali. Responsabilità dell’intera Europa, dell’intero Occidente che con sgradevole ossimoro chiamiamo "cristiano". Non solo abbiamo un tornaconto immediato nella vendita sottobanco di armi perché le guerre non finiscano mai, ma abbiamo il torto di lunghi silenzi imbarazzati, dopo secoli di razzia coloniale. Razzia che oggi possiamo derubricare a "colonialismo artigianale", di fronte alla odierna svendita, su grande scala industriale, dell’Africa ai grandi Paesi emergenti che per i loro interessi la stanno rendendo una terra invivibile. In questi silenzi omertosi, ecco le frasi che sembrano ovvie: "Mica possiamo ospitarli tutti", dice Alfano. Certo, ministro. Ma lei, che è appunto ministro, alcune cose le può fare: mandi le navi da crociera a prelevare i poveracci che scappano, certamente pagherebbero volentieri il biglietto intero di prima classe, sarebbe molto più economico delle migliaia di euro pagati alle mafie nostrane e magrebine per questa tratta di schiavi da macello. E se gli "hotspot", ministro, li facessimo sulle navi da crociera, non sarebbe meglio? E non si annunciassero come il prolungamento delle stive invase dalla nafta, dall’orina e dall’odore della morte? Perché l’Europa, questa vigliacca Europa che non ha il coraggio di mettere in discussione alcune potenti rendite di posizione, non comincia a concordare con le parti la riduzione dei nostri guadagni, nel deforestare, nel succhiare dal sottosuolo tutto ciò che possa rendere ancora più grassa la nostra esistenza? Per consentire all’Africa di ritrovare una sua dignitosa e possibile vivibilità? E se qualche volta ascoltassimo anche noi, atei inveterati, agnostici e razionalisti, quelle parole - da vescovo, da prete, da pastore, che non gira la testa da un’altra parte per il puzzo delle sue pecorelle - che ci vengono da chi guarda un po’ più lontano di noi? E se questo ci spingesse a reagire alla suicidaria deriva denatalistica dei nostri Paesi arricchiti male e con insopportabili sperequazioni, per aver confuso il valore delle cose? Chissà che in queste migrazioni di uomini e donne, privi di tutto, ma pieni di speranza e di figli, anche noi non ritroviamo un senso alle nostre vite, alla nostra declinante civiltà. *Docente di Filosofia della scienza e già parlamentare del Pci e del Partito radicale Lettera di un detenuto sul dolore Il Centro, 10 giugno 2016 Ha scritto al vescovo dopo aver letto l’omelia di Petrocchi sul 6 aprile. Un detenuto nel carcere di Rebibbia, Stefano F. autore di due omicidi, ha scritto la seguente lettera all’arcivescovo Giuseppe Petrocchi dopo aver letto l’omelia che l’arcivescovo ha pronunciato in occasione del settimo anniversario del terremoto. "Sono anni che cerco di capire il significato della Misericordia, ma da qualche tempo ho sentito dentro di me quel sentimento bellissimo chiamato amore, non solo l’amore per una persona cui si è legati ma l’amore per il prossimo. Spesso mi sono detto: "è inutile che cerchi risposte perché quando sarà il momento, arriveranno da sole". Nella mia vita sono stato sempre egoista, pensavo solo al mio bene, e così invece di farmi del bene, mi sono causato dolore. Potete immaginare come si comporta una persona che non rispetta le regole, uno che pensa solo a riempirsi la pancia incurante di chi muore di fame. Io ero così! Pian piano, ho cominciato a privarmi di qualcosa per darla a qualcuno: mi sentivo bene anche se andavo incontro a delle difficoltà. Il potere aiutare chi aveva bisogno riempiva il vuoto che sentivo dentro di me. Solo comportandomi in questo modo, ho cominciato a capire il significato della Misericordia e l’essere misericordiosi! Leggendo l’Omelia dell’Arcivescovo Giuseppe Petrocchi, pronunciata nella chiesa di San Giuseppe in occasione del settimo anniversario del sisma, nel cuore ho sentito una fitta di dolore, dolore per le persone che hanno perso i propri cari. Nell’omelia monsignor Petrocchi parla delle vittime che hanno perso la vita per aiutare i propri familiari, specialmente menziona le mamme che, per soccorrere i propri figli, venivano investite dalle macerie. Ci sono state 309 vittime durante quel sisma: madri, padri, figli, fratelli, sorelle. Che triste il solo pensare a quello che è accaduto in quei pochi secondi di terrore! C’è anche chi ha perso la vita per salvare un amico o un’amica e credo che molti, non curanti del pericolo, abbiano perso la vita per andare a prestare soccorso. I tanti gesti d’amore dovrebbero farci riflettere! L’Arcivescovo parla del bell’esempio delle persone che si aiutano a vicenda dopo la tragedia: chi offriva un pasto caldo, chi si adoperava per offrire indumenti, chi pensava a far giocare i bambini per distrarli e allontanarli da eventuali altri pericoli. Tutti gesti d’amore verso il prossimo che ognuno di noi dovrebbe poter fare. Questi esempi mi evocano una vicenda di cui sono stato spettatore nel lago di Castel Gandolfo. Un ragazzo, per salvare un bambino che stava annegando, senza pensarci due volte si gettò in acqua e con tutte le forze cercò di trascinarlo fino a metterlo in salvo sul pattino del guardia spiaggia. Stremato per lo sforzo, si abbandonò alle acque del lago. Quando dopo due giorni fu ritrovato il suo corpo, i giornali riportarono alcuni particolari notati nel suo viso: sembrava avere un’espressione compiaciuta, forse perché felice di aver salvato una giovane vita. Quel ragazzo non era un parente, neppure un amico di famiglia, era un romeno. L’amore verso il prossimo può spingere a gesti di grande eroismo come questo. Dopo aver letto l’omelia di Petrocchi tutta impostata sulla carità, sul dono di sè ad imitazione di Cristo che per amore si caricò delle nostre debolezze, mi sono seduto sul letto e, nel buio cupo della mia cella, ho chiuso gli occhi immaginando il dolore delle persone terremotate e, senza accorgermene, mi sono trovato in lacrime. Grazie, Monsignore, per le riflessioni che mi ha indotto a fare. Penso che il Giubileo della misericordia stia toccando il cuore di tutti. Chi, infatti, non sente il richiamo della solidarietà alla comunione come chiede Nostro Signore Gesù?". Umbria: Rocca e carcere, stretta collaborazione tra cultura e lavoro di Sara Fratepietro tuttoggi.info, 10 giugno 2016 Firmato il protocollo d’intesa tra Polo museale dell’Umbria e Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria. Realizzare una sorta di museo nel museo, realizzando un percorso espositivo ed eventi all’interno della Rocca albornoziana per valorizzare la sua recente storia, quando cioè era sede del carcere di Spoleto (lo è stato per circa 150 anni). Ma anche attivare dei laboratori, dopo il successo della sperimentazione avvenuta nei mesi scorsi, all’interno della casa di reclusione di Maiano per realizzare il merchandising del sito Unesco Italia Langobardorum. E ancora la possibilità, per l’Amministrazione penitenziaria, di usare gratuitamente gli spazi della Rocca per eventi di significativa rilevanza culturale e scientifica. E infine, ma forse più importante, valorizzare e migliorare il decoro della Rocca e del suo Parco con attività specifiche, compreso l’impiego del personale recluso a Maiano, con 4 detenuti che potranno trovare lavoro temporaneamente all’interno della fortezza. È questo ciò che prevede il protocollo d’intesa firmato giovedì mattina dal direttore del Polo museale dell’Umbria Marco Pierini e dal provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Toscana e l’Umbria Giuseppe Martone. Ad illustrare nel dettaglio le attività pensate è stata la direttrice del museo del Ducato Longobardo, Rosaria Mencarelli, durante una conferenza stampa a cui hanno preso parte un cospicuo numero di agenti della polizia penitenziaria (guidati dal comandante Marco Piersigilli) e rappresentanti istituzionali, in primis il direttore del carcere spoletino Luca Sardella. Il primo appuntamento in programma è l’inaugurazione della mostra "In-visibile. L’arte che rende l’invisibile visibile", nell’ambito del Festival dei Due Mondi (grazie all’attivissimo Giorgio Flamini). Ma ne seguiranno altri, con l’obiettivo di rendere la Rocca più vicina alla città, come spiegato da Pierini e Mencarelli, ribadendo quanto già espresso durante un recente incontro. Lo scopo, infatti, è quello di un dialogo tra i due enti e con la città, a partire dalla valorizzazione della storia. Il tutto sulla scia di quanto già fa il Comune di Spoleto con un analogo protocollo con la casa di reclusione di Maiano, che vede l’impiego di alcuni detenuti per lavori a favore della città, come ricordato dal vice sindaco Maria Elena Bececco. Ma l’attività del penitenziario spoletino è da sempre intimamente connessa con l’esterno, come ben noto. Dall’incontro di ieri è stata lanciata anche un’altra idea: quella di recuperare, in collaborazione con l’Archivio di Stato (a rappresentarlo c’era la direttrice Giovanna Giubbini), gli archivi del carcere e creare dei percorsi formativi. L’importanza di quei fogli, ma soprattutto di quello che non è scritto nei faldoni, del recupero delle storie, del ricordare la vergogna provata in passato da chi lavorava nel penitenziario o dei tanti familiari che hanno varcato la porta della Rocca, è stata invece sottolineata dal dottor Morettoni del provveditorato regionale. Mentre l’importanza dell’intesa per la polizia penitenziaria è stata sottolineata dal comandante Piersigilli, che ha ricordato come nella struttura cittadina operino funzionari ed ispettori di Spoleto, per cui l’iniziativa è molto sentita. Ed ha anche lanciato l’idea a Martone di organizzare un evento alla Rocca il prossimo anno in occasione del bicentenario dalla fondazione del Corpo, "anche perché - ha ricordato - ricorreranno anche i 25 anni da uno storico evento: per il Festival suonò infatti la banda nazionale della polizia penitenziaria". Un evento insomma da ripetere, è stato il suo suggerimento tra le righe. Paola: suicidio del detenuto Morabito, l’on. Enza Bruno Bossio (Pd) interroga il ministro Ristretti Orizzonti, 10 giugno 2016 Nei giorni scorsi, il caso del detenuto Maurilio Pio Morabito, 46 anni, di Reggio Calabria, morto suicida in una cella del Reparto di Isolamento della Casa Circondariale di Paola, in Provincia di Cosenza, lo scorso 29 aprile 2016, intorno all’una di notte, è finito sulla scrivania del Ministro della Giustizia Onorevole Andrea Orlando grazie ad una circostanziata Interrogazione Parlamentare, con richiesta di risposta scritta, presentata dall’Onorevole Enza Bruno Bossio, Deputata del Partito Democratico e membro della Commissione Bicamerale Antimafia. Il Morabito, che aveva avuto problemi di tossicodipendenza, da circa un mese, dopo essere stato trasferito dalla Casa Circondariale "Arghillà" di Reggio Calabria, si trovava ristretto presso la Casa Circondariale di Paola, dovendo espiare una pena detentiva di 4 mesi di reclusione. Il suo fine pena era previsto per il prossimo 30 giugno. L’Onorevole Bruno Bossio, grazie anche alle informazioni acquisite dalla visita ispettiva effettuata da una Delegazione dei Radicali Italiani guidata dal radicale Emilio Enzo Quintieri, effettuata nei giorni successivi al decesso del Morabito, ha riferito che quest’ultimo avrebbe posto in essere il gesto auto-soppressivo mediante impiccagione, utilizzando una coperta, che è stata annodata a forma di cappio alla grata della finestra della cella, nel reparto di isolamento, del predetto Istituto Penitenziario che, all’epoca dei fatti, ospitava 182 persone detenute a fronte di altrettanti posti detentivi. Nell’ambito della visita ispettiva, la Delegazione Radicale, aveva potuto verificare che la cella n. 9 in cui si è impiccato il Morabito era "liscia" cioè priva dell’arredo ministeriale, sporca e maleodorante e che il citato detenuto non era stato sottoposto a "sorveglianza a vista" nonostante, già in altre occasioni, avesse manifestato propositi suicidari e compiuto vari atti autolesionistici, nonché distrutto due celle, una delle quali mediante l’incendio di un materasso posta nel primo reparto detentivo e l’altra nel reparto di isolamento dirimpetto alla cella in cui si è impiccato. Sul decesso del Morabito, la Procura della Repubblica di Paola, a seguito della denuncia dei familiari, ha aperto un Procedimento Penale, al momento nei confronti di ignoti, per il delitto di istigazione o aiuto al suicidio previsto e punito dall’Art. 580 del Codice Penale al fine di appurare le cause, le circostanze e le modalità del decesso. Infine, la predetta Autorità Giudiziaria, oltre ad aver disposto l’acquisizione dei filmati delle telecamere di sorveglianza presenti nel reparto detentivo, ha anche ordinato l’esame autoptico sulla salma del Morabito, effettuato lo scorso 7 maggio presso l’Ospedale Riuniti di Reggio Calabria dal Dottore Mario Matarazzo che dovrà concludere la relazione peritale nelle prossime settimane. Nell’Interrogazione (atto n. 4-13360 del 07/06/2016, Seduta n. 633 della Camera dei Deputati) sono stati richiamati, oltre al suicidio di Morabito, gli altri 12 suicidi e le altre 21 morti per malattia, assistenza sanitaria disastrata, overdose o per cause ancora da accertare, avvenuti dall’inizio del 2016, negli Istituti Penitenziari italiani. Dal 2000 ad oggi, i "morti di carcere" sono stati 2.527, 900 dei quali per suicidio. La maggior parte dei suicidi che avvengono negli stabilimenti penitenziari - ha denunciato con forza la Deputata calabrese - si è verificata nei reparti di isolamento e, ancor di più, nelle "celle lisce", cioè completamente vuote, (come quella in cui il Morabito è stato collocato, per diversi giorni, in condizioni al limite della tollerabilità, nella Casa Circondariale di Paola) nonostante, da tempo, tali pratiche (collocazione dei detenuti in isolamento ed in celle lisce), secondo gli esperti, siano ritenute "assolutamente controproducenti" poiché pur togliendo dalla cella tutto ciò che potrebbe essere usato dai detenuti per suicidarsi, il modo di farlo lo trovano lo stesso. In tanti Istituti Penitenziari - come proprio la stessa Onorevole Bruno Bossio ha già avuto modo di denunciare al Governo - con altra Interrogazione a risposta in Commissione Giustizia, rimasta inevasa, a seguito della visita ispettiva alla Casa di Reclusione di Rossano e, direttamente, al Dott. Santi Consolo, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria durante la sua audizione presso la Commissione Bicamerale Antimafia - l’utilizzo del reparto e dell’istituto dell’isolamento in modo difforme dalla normativa vigente in materia e cioè all’infuori dei casi stabiliti dall’Art. 33 dell’Ordinamento Penitenziario (motivi giudiziari, sanitari o disciplinari). Ha richiamato anche il fatto che il detenuto Morabito avesse, più volte, chiesto con delle missive, di essere trasferito in un Istituto Penitenziario dotato di una "Sezione Protetta" poiché aveva fondato timore di essere vittima di aggressioni, avendo ricevuto minacce di morte conseguenti a non meglio precisati fatti occorsi quando era ristretto presso la Casa Circondariale Arghillà di Reggio Calabria. Inoltre, stando a quanto riferito dai familiari del detenuto morto suicida, sarebbero state numerose le richieste di colloquio fatte anche al Direttore della Casa Circondariale di Paola e mai tenute in considerazione dallo stesso, in violazione di quanto prescrive l’Art. 75 c. 1 dell’Ordinamento Penitenziario. Pertanto, l’Onorevole Enza Bruno Bossio, ha chiesto al Ministro della Giustizia Onorevole Andrea Orlando, di conoscere : a) se e di quali informazioni disponga in ordine ai fatti rappresentati, anche con riferimento ai casi specifici segnalati e se questi corrispondano al vero; b) se non ritenga, in via cautelativa, di assumere le iniziative, per quanto di competenza, nel rispetto dell’attività della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Paola, volte ad avviare una indagine amministrativa interna al fine di chiarire la causa, le circostanze e le modalità del decesso del detenuto Morabito ed appurare se nei confronti dello stesso siano state messe in atto tutte le misure di sorveglianza custodiale e sanitaria, previste e necessarie, e quindi se non vi siano responsabilità disciplinarmente rilevanti in capo al personale dell’Amministrazione Penitenziaria; c) quali siano le motivazioni che hanno condotto all’improvviso trasferimento del Morabito dalla Casa Circondariale di Arghillà di Reggio Calabria alla Casa Circondariale di Paola chiarendo, altresì, per quali ragioni, il predetto detenuto non sia stato trasferito, sin da subito o comunque dopo le sue richieste, presso altro Istituto Penitenziario dotato di reparti "protetti" visto che era stato gravemente minacciato ed aveva fondato timore di essere aggredito invece di essere tenuto a giudizio dell’interrogante, impropriamente, nel reparto di isolamento della Casa Circondariale di Paola; d) se e quali problemi di salute presentava il detenuto Morabito all’atto della visita obbligatoria di primo ingresso presso la Casa Circondariale di Arghillà di Reggio Calabria e poi presso quella di Paola, ricavabili dal suo diario clinico e se risulti se lo stesso, durante tutto il periodo detentivo, sia stato adeguatamente assistito dal punto di vista sanitario; se intenda chiarire, infine, se lo stesso fosse sottoposto a particolari trattamenti terapeutici per le sue condizioni personali; e) se risulti veritiero il fatto che il detenuto Morabito abbia chiesto, più volte, di poter avere un colloquio col Direttore della Casa Circondariale di Paola e che le sue istanze siano rimaste tutte inevase; f) se risulti che, il Direttore della Casa Circondariale di Paola offra, con particolare frequenza, ai detenuti la possibilità di poter avere con lo stesso dei periodici colloqui individuali e se e quante volte il predetto si sia recato ad ispezionare i locali ove sono ristretti i medesimi, anche tramite la visione delle annotazioni apposte negli appositi registri previsti dalla normativa; g) per quali motivi, il signor Morabito, sia stato recluso nell’istituto di cui in premessa visto che la pena da espiare era di soli 4 mesi di reclusione e se, in ogni caso, corrisponde al vero che questi abbia presentato istanza alla competente Magistratura di Sorveglianza per la concessione di una misura alternativa alla detenzione prevista dall’Ordinamento Penitenziario (detenzione domiciliare, affidamento, e altro) ed in caso affermativo, per quali ragioni, gli sia stata negata ed h) se e quali iniziative il Ministro interrogato intenda assumere per assicurare che l’isolamento nei confronti dei detenuti venga disposto solo ed esclusivamente in circostanze eccezionali e, comunque, nei soli casi tassativi stabiliti dal legislatore, proibendo all’Amministrazione Penitenziaria di utilizzare sezioni o reparti di isolamento per altri motivi in applicazione di quanto disposto dall’Articolo 73 del Regolamento di Esecuzione Penitenziaria e se non ritenga, altresì, di dover intervenire con urgenza per emanare delle direttive soprattutto per quanto attiene l’esecuzione dell’isolamento, poiché, ancora oggi, come accertato dalla Delegazione Radicale nella Casa Circondariale di Paola, esistono delle "celle lisce", prive di ogni suppellettile, in cui vengono collocati i detenuti che, invece, dovrebbero essere posti secondo l’interrogante in "camere ordinarie" che presentino le caratteristiche indicate dall’Articolo 6 dell’Ordinamento Penitenziario. Sondrio: oltre mille firme per Racchetti garante dei detenuti di Camilla Martina Il Giorno, 10 giugno 2016 Continua la battaglia dei cittadini a favore del garante dei detenuti. Volge al termine la raccolta di firme da parte di associazioni e singoli cittadini valtellinesi a sostegno della causa di Francesco Racchetti, garante delle persone limitate nella libertà, recentemente dimessosi dall’incarico per l’impossibilità di operare, a seguito dell’insediamento della nuova direttrice della Casa circondariale di Sondrio, Stefania Mussio. Le firme, più di 1.000, accompagnano una lettera aperta da consegnare al sindaco di Sondrio e al presidente del Consiglio comunale. A breve, verrà inviata anche a prefetto di Sondrio, presidente Provincia di Sondrio, Ministro della Giustizia Andrea Orlando, Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria della Lombardia, dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Garante nazionale, coordinamento dei Garanti territoriali, direttrice del carcere di Sondrio. "Il senso della nostra mobilitazione - spiega Anna Fistolera, portavoce di quanti hanno preso a cuore la causa - era portare all’attenzione dell’opinione pubblica la questione. Il risultato ottenuto ci sembra ottimo, considerando che la raccolta è stata poco sistematica. Se l’avessimo portata avanti in maniera più organizzata, ora ne conteremmo molte di più". Oltre che da Sondrio, ne sono arrivate anche da Tirano e Morbegno e hanno aderito le più rappresentative organizzazioni e associazioni di volontariato e no (Lavops, Bottega della solidarietà, Spartiacque, Quarto di luna, sindacati ecc.). I militanti percepiscono le dimissioni di Racchetti come "brutto episodio per la vita cittadina e democratica", anche in considerazione dell’importanza del lavoro svolto dal garante che ha contribuito a "ripensare il carcere in maniera diversa, quale parte integrante della società". Carcere in cui si è appena svolta la festa della Polizia, alla presenza di autorità e forze dell’ordine, dalla quale sono emersi alcuni dati indicativi. Uno fra tutti le recidive: su 100 detenuti che escono 70 tornano a delinquere nel giro di poco. Da qui l’importanza del carcere come luogo di rieducazione. Genova: "La vita in carcere", in una guida tutto quello che un detenuto deve sapere Redattore Sociale, 10 giugno 2016 Le informazioni fornite vanno dalla perquisizione all’ingresso, ai servizi di sostegno esterni al carcere, alle misure alternative alla detenzione. È curata dai volontari della Rete carcere del Csv di Genova e tradotta in 3 lingue. La "Guida per orientarsi alla vita in carcere e oltre" è un opuscolo informativo per agevolare i detenuti nella comprensione delle leggi e delle regole che disciplinano il regime penitenziario in Italia, curato dalla Rete carcere del Csv di Genova Celivo. La Guida fornisce indicazioni utili già sui primi momenti dopo l’ingresso nella struttura carceraria, come la perquisizione, il ritiro degli oggetti personali, l’immatricolazione. Ma contiene anche informazioni riguardanti il tema della salute, i riferimenti normativi, le possibilità di affidamento terapeutico. Un’attenzione particolare è dedicata poi alle misure alternative alla detenzione, i requisiti per richiederle, le modalità di svolgimento. Inoltre, vengono fornite informazioni su alcuni servizi esterni al carcere che offrono sostegno, non rivolti espressamente a chi ha terminato un periodo di reclusione, ma disposti ad accogliere chiunque sul territorio genovese si trovi in difficoltà rispetto al pasto ed al ricovero notturno. Infine, in allegato alla Guida si citano le associazioni attive all’interno delle carceri della provincia di Genova e le attività che svolgono a favore dei detenuti. Il documento è la versione aggiornata dell’omonimo opuscolo realizzato e promosso nel 2004 dalla Conferenza regionale volontariato e giustizia Liguria, basata sulla "Guida per i detenuti" prodotta nel 2001 dallo Sportello giustizia presso il Centro di servizio per il volontariato di Rovigo. L’aggiornamento è stato curato dai volontari delle associazioni che fanno parte della Rete carcere del Csv di Genova, nelle carceri di Marassi, Pontedecimo e Chiavari. La traduzione in spagnolo è stata realizzata in maniera volontaria da Marta Carmilla, mentre quella in inglese e francese dagli studenti del liceo linguistico internazionale Grazia Deledda di Genova. Cagliari: incendio all’Ipm di Quartucciu, i poliziotti salvano la vita a tre detenuti La Nuova Sardegna, 10 giugno 2016 Il rogo è stato appiccato probabilmente da tre ragazzi. Il segretario regionale del Sappe, Luca Fais. "Momenti di estrema tensione e pericolo, gestiti però con grande coraggio e professionalità". Momenti di tensione e di paura nel carcere minorile di Quartucciu si sono vissuti a causa di un incendio appiccato in una cella da tre detenuti. Lo ha reso noto il segretario regionale del Sappe, Luca Fais. "Sono stati momenti di grande tensione e pericolo, gestiti però con grande coraggio e professionalità dai poliziotti penitenziari - racconta Fais -. Nonostante un fumo denso, i poliziotti hanno salvato la vita ai tre detenuti che avevano dato fuoco a tutto il materiale che si trovava nella cella. Alcuni sono rimasti intossicati". Secondo il sindacalista, "a incidere pesantemente su questi eventi sono le criticità del reparto di polizia penitenziaria di Quartucciu. Come può una Direzione con un organico di 20 unità fare fronte per garantire i livelli minimi di sicurezza quantificati in 15 posti di servizio? I poliziotti penitenziari di Quartucciu, nei primi quattro mesi dell’anno, hanno espletato un totale di 2.400 ore di lavoro straordinario e vengono regolarmente richiamati in servizio anche durante il riposo settimane e le ferie". Carceri ad alta tensione, quindi, "anche in Sardegna - conclude Fais - ma lo sono per gli agenti di polizia penitenziaria, sempre più al centro di gravi eventi critici come quello di Quartucciu". Oristano: sempre meno spazio per i detenuti sardi di Michela Cuccu La Nuova Sardegna, 10 giugno 2016 I numeri del carcere di Massama nella festa del Corpo di polizia penitenziaria Su 338 carcerati 52 sono comuni, gli altri sono legati alla criminalità organizzata. Trecento trentotto detenuti, la maggior parte, in regime di Alta sicurezza. Eppure, nell’Istituto di Massama, dove sono in 52 a scontare l’ergastolo e altrettanti i detenuti comuni, si cerca di creare un regime di "apertura", se questo termine non contrastasse in maniera assoluta con la realtà detentiva. Mostre, scuola, partecipazione ad eventi e lavoro fuori dalla cella, come nel caso della partecipazione agli scavi archeologici di Mont’e Prama, sono alcuni dei momenti di "apertura" di un carcere che per tanti, in realtà non si aprirà mai. Un lavoro per nulla semplice, dove molti degli obbiettivo sono stati raggiunti grazie all’impegno degli agenti di polizia penitenziaria. Il bilancio è stato fatto ieri, mattina nel corso della cerimonia in occasione del 199° anniversario dell’istituzione del Corpo di polizia penitenziaria. Il ruolo degli agenti all’interno del carcere di Alta sicurezza, dove la maggioranza dei detenuti arriva da fuori Sardegna (solo una cinquantina sono sardi), è stato sottolineato nella relazione del comandante di reparto, Salvatore Cadeddu, che ha ricordato l’istituzione della sezione Alta sicurezza 1. Una sezione che ospita trenta tra capi mafia e di clan camorristici o della ‘ndrangheta e della Sacra Corona unita, già in regime di 41 Bis, dunque con le massime misure restrittive legate alla loro pericolosità criminale. Cadeddu ha sottolineato la grande mole di lavoro che nell’arco dell’ultimo anno ha comparto anche 970 traduzioni, con l’impiego di un numero altissimo di agenti, con un lavoro e compiti profondamente diversi dal quelli del passato recente, quando, quello di Oristano era carcere mandamentale con un servizio rivolto soprattutto al territorio. Un carcere posto costantemente sotto l’osservazione degli organi di garanzia. In occasione della recente protesta dei detenuti in regime di Alta sicurezza, per il sovraffollamento delle celle e per le difficoltà a poter avere relazioni con i familiari, quasi tutti residenti lontano dall’isola, è stata qui la prima tappa del Garante nazionale per i detenuti. La recente nomina, da parte del Comune di Oristano, di un Garante locale è una ulteriore conferma di quanta attenzione dall’esterno abbia l’istituto di Massama. Aspetti sottolineati dal direttore, Pier Luigi Farci, che ha avuto parole di ringraziamento per le istituzioni ma soprattutto per il personale. E per la prima volta, il direttore ha espresso parole di encomio nei confronti dei detenuti comuni "che hanno garantito l’ordine interno durante la protesta dei detenuti di Alta sicurezza. A Massama però si fa anche altro. Di recente, l’artista Salvatore Garau ha girato un docu-film "La tela" che racconta della vita in cella e presto ci sarà un’asta dei lavori artistici realizzati dai detenuti. Belluno: carcere di Baldenich, ha un lavoro quasi la metà dei detenuti Corriere delle Alpi, 10 giugno 2016 In prima linea per dare attuazione "al principio costituzionale della finalità rieducativa della pena" e in questo senso "avere quasi la metà della popolazione carceraria lavorante, che beneficia cioè di un impiego, è un dato da ritenersi soddisfacente". A certificare la bontà del "modello bellunese" sono le parole del direttore della casa circondariale di Baldenich, Tiziana Paolini, arrivate a chiudere la cerimonia per il 199° anniversario della fondazione del Corpo di polizia penitenziaria, tenutasi ieri anche a Belluno. "Tenere i detenuti occupati e, non ultimo, nelle condizioni di poter inviare un contributo economico alle famiglie contribuisce a lasciarli più tranquilli. In questo senso il nostro è un sistema che funziona, grazie soprattutto alla convenzione con le cooperative Lavoro Associato e Sviluppo Lavoro, che ha portato alla creazione di una rete per l’impiego dei detenuti con soggetti quali la Cafiero, Fedon, Elettroplast, Bortoluzzi Sistemi, Unifarco, Da Rold trasporti e Fb System". Fin qui i dati positivi di una realtà carceraria che i suoi problemi comunque li ha. "L’anno appena trascorso è stato un anno difficile, nel quale tutto il personale, che non posso non elogiare per la professionalità, è stato chiamato a far fronte a situazioni complicate. La tentata fuga di ottobre 2015, la protesta di fine febbraio e, purtroppo, il suicidio di un detenuto a maggio sono situazioni che lasciano il segno, ma non sono assolutamente imputabili a un servizio non efficiente, anche se non nascondo che l’organizzazione della vigilanza è stata appositamente rivista in alcuni suoi punti". Il tutto a fronte di una capienza regolamentare "di 87 posti, ad oggi tutti occupati. Si evidenzia comunque un problema di sovraffollamento nella sola sezione maschile. Questo a fronte di un persistente problema di organico tra gli addetti alla vigilanza, visto su 98 unità previste ce ne sono solo 92. Una carenza ancora gestibile, anche se non vanno trascurati i mutamenti che hanno interessato il carcere di Baldenich. A dicembre 2015 è stata aperta la sezione "nuovi giunti, a marzo di quest’anno, dopo la chiusura del reparto femminile, quella di articolazione per la tutela della salute mentale, già esaurita. C’è poi la sezione transessuali, che ospita 9 persone. I cambiamenti sono stati importanti, è cambiata l’organizzazione del lavoro, le difficoltà quotidiane ci sono. Specie in una struttura che applica il regime di "celle aperte", che consente maggior libertà di movimento ai detenuti". Baldenich che cambia anche a livello strutturale. Completato nel 1933, l’edificio ha visto una prima decisa ristrutturazione nel 2005, proprio con l’apertura della sezione transessuali. Tra il 2011 e il 2013, poi, è stato incorporato un padiglione dell’ex officina Rizzato, dove hanno trovato posto laboratori per le attività lavorative e aule per la formazione. "Passano gli anni, ma certi riferimenti, per i detenuti e per il personale restano", ha aggiunto la Paolini, "come don Olindo, il cappellano del carcere: una figura generosa e discreta". Sulla lista dei ringraziamenti del direttore di Baldenich anche le sigle sindacali: "Con loro rapporto sempre leale e di costruttivo confronto, finalizzato a migliorare l’efficienza della struttura". Chieti: 45 detenuti "sex offenders", sono la metà di tutti i presenti di Arianna Iannotti Il Centro, 10 giugno 2016 Il carcere di Madonna del Freddo tra i pochi in Italia che li recupera con gli psicologi dell’Ateneo La direttrice Ruggero: "Li aiutiamo a tornare in società". Premiati gli agenti di lungo corso. Li hanno mandati nel carcere teatino forse grazie alla buona fama della struttura, tranquilla e ben gestita. Ma per la polizia penitenziaria di Chieti rappresentano un problema, essendo detenuti da "proteggere" di più. Proteggere da cosa? Innanzitutto dai detenuti comuni, che li chiamano "infami" e con cui non possono convivere. Loro sono i "sex offenders", etichetta che l’ordinamento penitenziario italiano ha mutuato dall’inglese, quasi a sterilizzarne il tipo di reato. È la categoria di chi si è macchiato di molestie, abusi e violenza sessuale, ci sono i pedofili, i femminicidi e persino gli infanticidi. Nel carcere di Madonna del Freddo ce ne sono 45, quasi la metà della popolazione detenuta, che ammonta a 110 unità. Sui 110, 21 sono le donne, 3 di loro sono "sex offenders". La sezione è stata aperta a marzo 2015 e richiede un tipo di lavoro particolare da parte degli 80 agenti di polizia penitenziaria. Ma il carcere teatino si è distinto anche questa volta. Oltre ad aver avviato un progetto di integrazione dei "sex offenders" con i detenuti comuni, permettendo loro di partecipare ad alcune attività insieme agli altri, è uno dei sei penitenziari italiani ad aver avviato un progetto di ricerca e intervento sugli autori di violenza nelle relazioni intime, diretto a prevenirne la recidiva. "È un progetto altamente qualificante", ha detto il comandante della polizia penitenziaria teatina, Alessandra Costantini, "che pone l’attività di osservazione e la competenza dei poliziotti penitenziari in prima linea, al fine di monitorare questo tipo di criminali e operare su di loro un tentativo di contenimento e, dove è possibile, di recupero". "Questa iniziativa", ha aggiunto la direttrice del carcere, Giuseppina Ruggero, "ci pone tra i sei istituti di pena italiani di riferimento sui reati a sfondo sessuale e ci dà il grandissimo compito di comprendere i fattori scatenanti di questi crimini per restituire alla società persone migliori. Posto che non esiste né la pena di morte, né il carcere a vita, prima o poi questi soggetti devono infatti tornare in società". Per svolgere questo compito, il penitenziario ha attivato collaborazioni sia con la facoltà di Psicologia dell’università d’Annunzio sia con gli psicologi della Asl teatina. Il progetto è stato illustrato nel corso delle celebrazioni per il 199° anniversario della polizia penitenziaria festeggiato ieri a Madonna del Freddo anche dagli agenti del carcere di Vasto, diretto sempre dalla Ruggero. La casa lavoro di Vasto, la più grande d’Italia, ospita circa 150 persone (tutti maschi), di cui una trentina di detenuti e circa 120 internati. Per internato si intende un soggetto sottoposto ad espiazione di misura di sicurezza perché ritenuto socialmente pericoloso. "Per loro", ha spiegato il comandante della polizia penitenziaria di Vasto, Nicola Pellicciaro, "è obbligatorio il lavoro in carcere, ma il problema è che a Vasto il lavoro non c’è e, ad eccezione di chi fa lavori domestici e in campagna, un terzo degli internati è costretto ad oziare". La cerimonia è continuata con il conferimento della Croce d’oro per anzianità di servizio al sovrintendente capo Cesare Di Michele e della Croce d’argento per anzianità di servizio all’ispettore superiore sostituto commissario, Sandro Garofalo. Poi gli istruttori Mario Prete e Claudio Cauti e gli assistenti capo Gabriele Di Giovanni e Antonio Gervaso si sono esibiti in pratiche di autodifesa. A chiudere la Festa c’è stata l’esibizione al sax di Antonio D’Avanzo. Messina: il 18 giugno protesta dell’Ugl davanti al carcere di Gazzi strettoweb.com, 10 giugno 2016 "Lo avevamo già preannunciato e dopo un confronto con la segreteria regionale e quella provinciale, abbiamo deciso di manifestare davanti al carcere di Messina Gazzi". È quanto dichiara Alessandro De Pasquale segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria che il 18 giugno 2016 sarà presente, insieme a molti dirigenti sindacali dell’Ugl, davanti al penitenziario di Gazzi per esprimere la propria indignazione sulle pessime condizioni strutturali e organizzative dei penitenziari siciliani. L’Ugl Polizia Penitenziaria ha anche inviato una nota ai vertici dell’amministrazione penitenziaria dove, tra le altre cose, afferma che non procedendo alla rotazione dei dirigenti direttori penitenziari, potrebbe rappresentare un limite al miglioramento della qualità del lavoro e alla chiarezza organizzativa. Secondo De Pasquale, ci sono Direttori che hanno governato carceri per quasi 15 anni e pertanto la rotazione deve essere applicata come misura di arricchimento del bagaglio professionale del dirigente e di efficienza dell’organizzazione degli uffici. L’Ugl ha scelto il carcere di Messina come prima tappa perché, insieme a quello di Palermo Ucciardone, perché principalmente barcollerebbe sulle misure preventive da adottare per rendere salubri e sicuri i luoghi di lavoro dove operano le donne e gli uomini della polizia penitenziaria. Nel carcere di Messina - aggiunge De Pasquale - i poliziotti da oltre un anno non hanno acqua calda corrente, mentre le donne poliziotto non hanno neanche i servizi igienici nel posto di servizio, rendendolo non in linea alle elementari disposizioni normative. L’Ugl Polizia Penitenziaria - conclude De Pasquale - manifesta anche contro il sovraffollamento delle carceri siciliane e contro le inadeguatezze delle strutture penitenziarie, temi all’ordine del giorno a cui lo Stato italiano non riesce a trovare adeguate soluzioni. La manifestazione si terrà davanti al carcere di Messina Gazzi il 18 giugno 2016, dalle ore 11.00 alle ore 13.30. Roma: Regina Coeli, detenuti e musicisti suonano "Musica dentro" agenpress.it, 10 giugno 2016 Martedì 21 giugno 2016, a partire dalle ore 15, nel carcere di Regina Coeli a Roma, si terrà "Musica dentro", l’evento con cui musicisti e detenuti festeggeranno insieme la Festa internazionale della musica. Lo spettacolo conclude l’edizione di quest’anno del progetto di musicoterapia in carcere "Musica dentro" voluto dall’associazione "A Roma, Insieme - Leda Colombini" e dalla direzione del penitenziario e coordinato dalla musicoterapista Silvia Riccio. "Musica dentro", che si tiene a Regina Coeli dal 2014, è un laboratorio di musicoterapia che permette ai detenuti di esprimersi e comunicare con il gruppo attraverso la musica, l’improvvisazione musicale, l’uso della voce e degli strumenti e il movimento. Lo spettacolo prevede improvvisazioni e musiche ideati dai detenuti che hanno partecipato al progetto e che suoneranno insieme a musicisti professionisti, spaziando dal jazz alla classica, dal fado portoghese agli stornelli romaneschi. Tra loro, i chitarristi Fabio Caricchia e Stefano Doneghà, la cantante Isabella Mangani, l’arpista Chiara Frontini, il chitarrista e bassista Valerio Mileto, il pianista Francesco Valori e il percussionista Massimo Ventricini. Per assistere all’evento, i giornalisti iscritti all’albo devono comunicare all’associazione A Roma insieme al numero 06.68136052 i propri dati personali e il numero della tessera di iscrizione entro e non oltre le ore 12 di venerdì 10 giugno 2016. Durante l’evento i giornalisti possono utilizzare macchine fotografiche e telecamere, nel rispetto delle indicazioni della Direzione del penitenziario, nel rispetto della riservatezza delle persone presenti e comunque mai con inquadrature ravvicinate e in primo piano. Dal 1994 l’associazione "A Roma Insieme - Leda Colombini", presieduta da Gioia Cesarini Passarelli, svolge diversi progetti nell’area trattamentale dei penitenziari di Roma. Tra questi, i laboratori di musicoterapia ed arte-terapia avviati nove anni fa nella Sezione Nido di Rebibbia per le detenute e i loro figli da 0 a 3 anni, e il laboratorio di musicoterapia avviato due anni fa con i detenuti del carcere di Regina Coeli. Lo scopo è di aiutare e sostenere detenute e detenuti e favorirne il reinserimento nella società, ma anche di sensibilizzare opinione pubblica e istituzioni sulla condizione dei detenuti e in particolare delle detenute con figli piccolissimi, per trovare soluzioni alternative alla detenzione di madri con figli minori, impegno che ha permesso di ottenere una specifica legge, la 40 del 2001. Bologna: il Coro Papageno in concerto al carcere della Dozza Il Resto del Carlino, 10 giugno 2016 Al carcere "Dozza" di Bologna si esibisce lo speciale Coro Papageno, composto da detenuti e detenute del penitenziario. Sabato 11 giugno alle ore 15.00, presso il carcere "Dozza" di Bologna si terrà un evento molto speciale. A esibirsi in concerto nella Casa Circondariale sarà infatti il Coro Papageno, composto da detenuti e detenute del penitenziario. Il concerto è un momento molto importante, nonché motivo di grande emozione e orgoglio per i suoi partecipanti, perché rappresenta l’unica occasione in cui possono finalmente presentare alla città gli esiti del lavoro di un lungo anno di prove e di attività. Guidato dal Maestro Michele Napolitano, il Coro Papageno presenterà l’intero repertorio musicale, composto da canzoni multietniche provenienti da ogni parte del mondo. Nato da un’idea di Claudio Abbado, il progetto ha coinvolto dal 2011 ad oggi circa 100 detenuti a stagione, equamente divisi fra uomini e donne. Attualmente il Coro è composto da 20 detenuti e 25 detenute. Durante i concerti, al Papageno si uniscono alcuni membri volontari provenienti dai cori cittadini Mikrokosmos, Ad Maiora e coro giovanile Bassi&Co. L’evento è inserito nell’ambito di Concives 116 - 2016. Nono Centenario del Comune di Bologna, Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica. L’intero ricavato del concerto (biglietti euro 20) sarà devoluto all’Associazione Mozart14 per il sostegno delle sue attività. A Rosarno la rabbia dei migranti. Ma c’è chi invoca le camere a gas di Simona Musco Il Dubbio, 10 giugno 2016 "Non siamo assassini, sette poliziotti con una persona sola? dov’è la formazione della polizia?". L’italiano è incerto, il messaggio chiaro: i migranti di San Ferdinando vogliono essere protetti. Almeno da loro, dagli uomini in divisa. È questo lo slogan che ha guidato la protesta di ieri a San Ferdinando, dove i migranti, dopo la morte di Sekine Traore, il 27enne del Mali ucciso da un carabiniere intervenuto per sedare una lite, hanno sfilato per le strade del paese, chiedendo giustizia per il loro fratello morto. Un corteo pacifico, fatto di cartelli e urla. Una scena che ha riportato alla mente le immagini del 2010, quando i migranti, vittime di continue aggressioni, hanno messo a ferro e fuoco Rosarno rivendicando il loro diritto ad essere umani. "Senza giustizia non c’è pace", recitano i loro cartelli, che mandano a quel paese i carabinieri, definiti "razzisti". Sui social, intanto, è partita la caccia allo straniero e c’è anche chi li invita a "raccogliere pomodori a casa loro", rimpiangendo "le camere a gas". Loro, però, chiedono solo giustizia. Le indagini sulla dinamica della morte di Traore sono in mano al procuratore di Palmi Ottavio Sferlazza, che sta seguendo tutto con meticolosità per non lasciare nulla al caso. Il carabiniere coinvolto, Antonio Catalano, rimasto ferito, è iscritto "come atto dovuto" sul registro degli indagati. Ma loro, i migranti, ora non si fidano più della giustizia, la stessa che sta cercando chi, nei mesi scorsi, ha aggredito alcuni di loro con le spranghe, mentre facevano rientro dai campi. "Police racism, stop terror", recita ancora un cartello, mentre alcuni dei manifestanti si stendono per terra con dei fiori in mano. Tra la folla c’è anche Amadou, fratello della vittima, che fa tradurre le sue parole da un amico. "Qualcuno ha detto che era una persona violenta, una persona malata, ma non è così. E non beveva nulla, nemmeno un goccio di vino", racconta. Prima che tutto finisse in tragedia, però, qualcuno dice di averlo visto ubriaco, incapace di reggersi in piedi. E questo fa ancora più rabbia ai migranti: come avrebbe potuto avere la meglio su ben sette militari in quelle condizioni? Loro ribadiscono sui loro cartelli di fortuna di volere sicurezza: "gli immigrati non sono a Rosarno per morire". Vogliono lavorare, anche se lavoro, per loro, in Calabria significa pochi euro per spaccarsi la schiena in un campo e poi dormire e mangiare in una tendopoli senza luce, acqua né servizi igienici. Il sindaco di Rosarno, Giuseppe Idà, teme una nuova rivolta e lancia un appello al ministro Alfano. Don Roberto Meduri, il parroco che da anni si occupa dei migranti, è invece più sereno. "La situazione è tranquilla, c’è un gruppetto di agitatori che fomenta ma non ci sono rischi - spiega. Certo, sono scioccati. Non avevano mai percepito le forze dell’ordine come cowboy. Capiscono che è stato un incidente ma si rendono anche conto che c’è una persona morta e una situazione insostenibile". Don Roberto conferma che Traore non era lucido: "Forse - dice riferendosi ai militari intervenuti ? avrebbero dovuto aspettare. Non era pericoloso per l’incolumità di nessuno, non aveva armi per ammazzare. È stata un’imprudenza". Il "boss eritreo" non è lui, c’è stato uno scambio di persona di Victor Castaldi Il Dubbio, 10 giugno 2016 E così il pericoloso boss degli scafisti, il sordido trafficante di esseri umani estradato dal Sudan all’Italia, sarebbe in realtà un’altra persona, "The wrong man". Secondo quanto rivela la britannica Bbc Mered Medhanie, il 35enne ritenuto uno dei più importanti capi delle organizzazioni criminali specializzate nel traffico di migranti non è la persona sbattuta in prima pagina in questi giorni. Citando le testimonianze di amici e conoscenti raccolte sul campo, l’uomo arrestato si chiamerebbe, Mered Tesfamarian, quasi omonimo del ricercato e sarebbe rimasto vittima di un incredibile scambio di persona. Uno degli amici, Hermon Berhe, ha detto alla polizia di essere cresciuto con il giovane arrestato: "Non credo possa essere coinvolto in niente del genere. È una persona buona", ha commentato. Un altro eritreo racconta di aver condiviso una casa in Sudan con l’arrestato. Anche una giornalista svedese di origine eritrea, che lo scorso anno intervistò Mered, sostiene che il giovane delle foto non è lui, ma un ragazzo con lo stesso nome. "È solo un rifugiato che si trovava a Khartoum", ha detto al quotidiano svedese Aftonbladet. Un portavoce della National Crime Agency (la Fbi britannica), coinvolta nell’operazione, si è limitato ad osservare: "Facciamo affidamento sui nostri partner, è troppo presto per fare congetture su questa ipotesi" che si tratti dell’uomo sbagliato. Anche il Guardian riporta con più particolari la notizia del presunto scambio di persona, sostenendo però che sia la polizia italiana che quella britannica stanno cercando di accertare se abbiano o meno avuto dai colleghi sudanesi la persona sbagliato. Il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi rimane cauto: "Stiamo svolgendo gli opportuni accertamenti. Al momento tutto quello che possiamo dire è che la segnalazione del ricercato, il suo arresto, la consegna e l’estradizione in Italia ci sono stati comunicati in via ufficiale dalla National Crime Agency inglese e dalle autorità sudanesi tramite l’Interpol". La rabbia dei migranti: "Dateci il corpo di Sekine" di Silvio Messinetti Il Manifesto, 10 giugno 2016 Gridano: "Italia razzista", "ci hanno ammazzato un fratello, non dicono la verità". Erano 200, tesi ma non violenti, sotto il Comune - sciolto per ‘ndrangheta - a protestare l’innocenza del giovane ucciso. Hanno paura che Rosarno diventi una piccola Ferguson. Che dietro l’omicidio di Sekine Traorè sotto i colpi di un carabiniere ci sia uno sfondo razziale. La notte a San Ferdinando ha portato rancore, mietuto rabbia. E così, alle prime luci del giorno, decidono di muoversi in corteo verso il municipio. L’inquilino è stato sfrattato da qualche mese. Il comune è stato sciolto per ‘ndrangheta e l’ex sindaco, Mico Modafferi, è agli arresti. I migranti della tendopoli che manifestano sono in 200, tesi, decisi, ma non violenti. Vogliono giustizia, chiedono ascolto. "Rimpatriate al più presto la salma di Sekine", urlano. Una delegazione entra in Comune con la mediazione dei commissari prefettizi. C’è anche il cugino di Traorè, ma lui non vuol parlare. Dalla Sicilia e dalla Francia stanno arrivando i fratelli del bracciante ucciso. E saranno loro a rappresentare la famiglia. Per lui hanno parlato altri. Ai commissari chiedono che il Comune si costituisca parte civile nel processo che (forse) si celebrerà contro l’appuntato Antonino Catalano, il militare che ha sparato. Vogliono vedere la salma e si augurano che il procedimento non venga archiviato. Intanto, dalla piazza si odono le grida: "Italia razzista", "ci hanno ammazzato un fratello, non dicono la verità", "sette contro uno: vergogna!". La delegazione espone la propria versione dei fatti. La dinamica "ufficiale", avallata a stretto giro dalla procura di Palmi, raccontava che il militare sarebbe stato aggredito da Traorè con un coltello e, spaventato, avrebbe fatto fuoco per difendersi. Ma chi c’era mercoledì ricorda ben altro: "Sekine si era barricato in una tenda. A un tratto i sei-sette carabinieri, dopo averlo invitato a uscire, sono entrati con la forza. C’è stata una colluttazione. Poco dopo abbiamo udito il colpo che lo ha ucciso". Una cosa ribadiscono con fermezza: Sekine non era un rambo, "non sarebbe mai stato in grado di affrontare sette uomini armati e addestrati". Dicono che quello che hanno visto e sentito lo testimonieranno in ogni sede. La delegazione poi torna in piazza. Arriva Amadou, il fratello che vive in Sicilia. Si agita, e supplica di avere presto il via libera per far tornare il corpo di Sekine in Mali per la sepoltura. Amadou ribadisce che il fratello non era un disadattato, "forse subiva il disagio di vivere in quella tendopoli, ma non era pazzo". Questo è confermato anche dai medici del Medu. "Non avevamo mai visitato Sekine. In ogni caso il disagio psichico è comune nei migranti costretti a vivere, dopo il viaggio, una condizione di vita così angusta nella baraccopoli", puntualizza la dottoressa Giulia Anita Bari. Anche loro vogliono capire quale sia stata la reale dinamica dei fatti. In piazza ci sono gli antirazzisti. Hanno costituito il "Comitato Verità e Giustizia per Sekine Traorè". Sono determinati ad andare fino in fondo. Distribuiscono un comunicato. "Tanti interrogativi, troppi buchi neri", dicono. A cominciare dall’ora del decesso. "Non è chiaro il tempo trascorso tra l’arrivo degli agenti e la morte violenta per colpo d’arma da fuoco all’addome. La velina dell’Arma segnala l’orario della rissa ma non quello del decesso e tantomeno quello dell’arrivo delle volanti". Anche loro non credono alla storia di Sekine "impazzito". Si sentiva a disagio ma non era psicopatico. "E poi quanti di noi nati qui nelle stesse condizioni darebbero segni di squilibrio e dopo quanto tempo?", si chiedono. Ad ogni modo "non ci interessano i linciaggi. Le responsabilità dei singoli esigiamo che vengano chiarite prima di tutto perché, in mancanza di ciò, ci troveremmo di fronte a una grave minaccia alla libertà e all’incolumità di tutti per un fatto che nel nostro paese sarebbe l’ennesimo". Ora tutto è in mano agli inquirenti. L’appuntato Catalano è iscritto nel registro degli indagati ma non è stato sospeso dall’Arma. Utili potrebbero esser le registrazioni delle telecamere intorno al campo. Ma il consorzio "Piana Sicura" che gestiva il sistema di videosorveglianza è fallito. E pro tempore sarebbe ora amministrato proprio dai carabinieri. "Sekine è il quinto omicidio di Stato di africani dal 2008 a Rosarno - rileva il comitato - quelli deceduti di morte non naturale per superamento della soglia di sopportazione umana. Prima il ragazzo che si è impiccato dietro la famosa "fabbrica", poi i due morti di bicicletta investiti lungo le provinciali senza lampioni e la persona trovata morta di freddo nei pressi della tendopoli qualche anno fa. E ora Sekine per cosiddette ragioni di ordine pubblico". Anche l’Arci nazionale interviene ed esprime sconcerto: "per un intervento di ordine pubblico che, essendosi concluso con la morte di un uomo, non può che ritenersi fallimentare". Più ispezioni e denunce ma i "caporali" sono come boss di Antonio Sciotto Il Manifesto, 10 giugno 2016 Celeste Logiacco, Flai-Cgil della Piana di Gioia Tauro. Sotto il sole 12 ore per 25 euro, oppure il cottimo: da 1 euro a 50 centesimi a cassetta di agrumi. "Noi chiediamo continuamente alle autorità di occuparsi di San Ferdinando, vivere tra le baracche è un inferno, ma su questo pezzo di Calabria i riflettori si accendono solo quando c’è un morto", nota amara Celeste Logiacco, giovane sindacalista di frontiera. Segretaria Flai Cgil della Piana di Gioia Tauro, si impegna ogni giorno contro il caporalato e per la regolarizzazione di chi lavora nei campi. Quante persone vivono nella tendopoli di San Ferdinando? "Tra le 400 e le 500: in passato, quando si concludeva la stagione degli agrumi e delle olive, e cioè verso fine marzo, le strutture si svuotavano. Ma dall’anno scorso gli abitanti hanno scelto di fermarsi anche in estate: cercano di prendere comunque delle giornate, per ripulire i campi o per occuparsi delle potature. Alcuni poi hanno messo su dei piccoli commerci: vendono l’acqua per lavarsi, aggiustano le biciclette, tagliano e cucinano la carne. Chi vive qui viene da Mali, Ghana, Senegal, Burkina Faso, sono quasi tutti uomini. Le donne sono meno di trenta, e poi ci sono due bambini: Manuel e Gabriella, hanno circa due anni: sono nati qui ma sono di cittadinanza ghanese". Mancano l’acqua corrente, adeguati servizi igienici e le fognature. Non è migliorato nulla rispetto al passato? Eppure è da qualche anno che la stampa denuncia le insostenibili condizioni di San Ferdinando. "L’anno scorso c’era l’idea di sostituire le tende: sono 72 padiglioni in tutto, forniti anni fa dalla protezione civile, ma poi non se n’è fatto niente. Le autorità avevano buttato giù le baracche che via via si erano aggiunte ai margini del campo, ma subito dopo i braccianti le hanno rimesse su, tanto che oggi si contano quattro file di abitazioni improvvisate, costruite con materiali di scarto. Un mese fa la tendopoli si è allagata dopo una forte pioggia. Purtroppo dal punto di vista abitativo le condizioni peggiorano, qui come in altri insediamenti: ad esempio in una grossa fabbrica dismessa, noi la chiamiamo "lo scatolone", oggi vivono circa 30 persone, ma in alta stagione arrivano fino a 300. Lì le condizioni sono ancora più precarie: non c’è luce, acqua, servizi igienici, si vive come dentro una grotta". Le condizioni lavorative sono migliorate? Ci sono più ispezioni nei campi? L’attività legislativa, almeno a vederla da Roma, in qualche modo c’è stata. "Da questo punto di vista le cose sono migliorate: da un lato, sì, sono decisamente aumentate le ispezioni, ci sono aziende indagate, denunce e sequestri. Un buon numero di braccianti, quelli che siamo riusciti a intercettare con il sindacato di strada, adesso ha il contratto: ora dobbiamo monitorare che vengano retribuite effettivamente tutte le giornate lavorate, e che vengano pagati i contributi. Ma il caporalato resta forte, aggressivo, e le paghe per chi è impiegato in nero rimangono al limite della schiavitù: 25 euro al giorno, per 12 o più ore di fatica sotto il sole. O peggio, il cottimo: 1 euro per ogni cassetta di mandarini e 50 centesimi per una di arance". Vivere e morire per un campo di canapa di Roberto Saviano L’Espresso, 10 giugno 2016 La coltivazione di cannabis per uso terapeutico può aiutare anche la crescita economica. Il proibizionismo invece fa prosperare le mafie. Silvio Mirarchi, maresciallo dei Carabinieri di Marsala, è morto qualche giorno fa in seguito a una sparatoria. A colpirlo probabilmente sarebbero state persone a guardia di una piantagione di marijuana. Qualche tempo prima era toccato a due romeni che si erano trovati sotto una raffica di fuoco nelle campagne tra Mazara del Vallo e Marsala. Uno è riuscito a fuggire, seppur ferito, dell’altro si sono perse invece le tracce. Poi, però, a un chilometro di distanza, si sarebbe trovato un cadavere carbonizzato su cui i Carabinieri stanno svolgendo indagini. Mirarchi era impegnato in un’operazione antidroga e può darsi sia stato scambiato per un ladro di piante di marijuana, questa l’ipotesi più verosimile. Qualche quotidiano locale, per attirare l’attenzione nazionale, ha titolato: "La Gomorra di Marsala". Strano come, invece, a me venga in mente "Breaking bad". Tutto mi ricorda il Messico e quei luoghi di confine tra Stati Uniti e Messico in cui per difendere una piantagione di marijuana si spara, si ammazzano uomini come fossero animali, si carbonizzano cadaveri perché siano irriconoscibili e non identificabili. E dove, soprattutto, è guerra di tutti contro tutti. La mafia è in difficoltà per arresti e processi e ce lo dice chiaro un dato: il ritorno alle coltivazioni. Coltivazioni che sono difficili da gestire e da occultare, ma che rendono moltissimo e soprattutto, nel bel mezzo di niente, dove chi fa il proprio lavoro come minimo rischia la vita, sono protette da armi e paura. A fronte di una produzione che si stima tra le 1.500 e le 3.000 tonnellate annue, i sequestri sono poca cosa e si mantengono sulle percentuali irrisorie del 5 o 10 per cento. Quando leggo notizie come questa, non posso fare a meno di collegarle ad altre. Non posso fare a meno di pensare a come si sta provando a risanare la striscia di terra contaminata che circonda l’Ilva di Taranto, appunto con la canapa. Canapa che in Italia è tradizione e innovazione al tempo stesso. "Panis vita, canabis protectio, vinum laetitia": questa scritta si trova a Bologna, sotto le volte del portico di Via Indipendenza e indica non una protezione generica, ma la riconoscenza di Bologna verso un prodotto il cui commercio, tra gli altri, aveva reso la città ricca. Canapa è protezione perché con le sue fibre si potevano fabbricare tessuti che riparavano dal freddo e dal caldo. Oggi, come scrive "vice" in un ottimo reportage di Luigi Mastrodonato "Intorno all’Ilva di Taranto stanno coltivando la canna bis per bonificare i terreni" reperibile online, nasce un movimento che è innanzitutto culturale (e a me sono venute in mente le parole di Paolo Borsellino, che parlava di lotta alla mafia come "movimento culturale") che ha "Principalmente l’obiettivo di ripulire i terreni, ma anche creare una filiera ad hoc che si occupi della trasformazione della canapa offrendo peraltro nuovi posto di lavoro". Il passo è breve, come si può non collegare la morte del maresciallo di Marsala, il corpo carbonizzato, la bonifica che si sta tentando di fare dei terreni che circondano utilizzando piantagioni di canapa con i dati diffusi qualche tempo fa (e di cui ho già dato conto) da Coldiretti? Coldiretti individuava proprio nella coltivazione della canna bis a uso terapeutico una fonte di guadagno immediato per la nostra asfittica economia per un giro d’affari di almeno un miliardo e 400 milioni di euro e una filiera produttiva che, messa in moto, renderebbe almeno 10mila posti di lavoro. Utilizzando le serre che al momento giacciono abbandonate. Questi dati erano accompagnati da un sondaggio secondo cui 2 italiani su 3 sarebbero favorevoli alla coltivazione di marijuana per uso terapeutico. Io spingo l’asticella oltre sottolineando il fallimento delle politiche proibizioniste e spiegando ancora una volta come le mafie tendano ad appropriarsi e a difendere con tutte le armi che hanno a disposizione, quelle porzioni di mercato di cui l’opinione pubblica e la politica per vari motivi non vogliono occuparsi. Per le coltivazioni di marijuana si spara, si combatte e si muore: riusciamo a capire che danno stiamo facendo alla società in termini economici e di dolore non affrontando il problema nella maniera più giusta? Legalizzare, sperimentare e capire sono le uniche soluzioni. Eritrea: Rapporto Onu "torture e violenze sono quotidiane ed estesissime" di Giacomo Zandonini La Repubblica, 10 giugno 2016 Presentato ieri a Ginevra, il rapporto della Commissione d’Inchiesta creata dall’Onu che parla per la prima volta di crimini contro l’umanità nel piccolo paese africano, controllato da 25 anni dal partito unico di Isaias Afewerki. L’Ue, preoccupata di fermare l’immigrazione, potrebbe però far finta di nulla. "Ufficiali governativi hanno compiuto crimini contro l’umanità, all’interno di una campagna di violazioni diffuse e sistematiche contro la popolazione civile del paese". Le conclusioni della Commissione d’Inchiesta Onu sull’Eritrea, attese da gran parte della diaspora del paese africano, sono state rese pubbliche ieri a Ginevra e potrebbero gettare nuova luce sui complessi rapporti fra Unione Europea ed Eritrea. Mentre, in linea con i piani di contrasto all’immigrazione irregolare di Bruxelles, la piccola nazione del Corno d’Africa è considerata partner centrale del "processo di Khartoum" e di altre iniziative comunitarie, il nuovo report potrebbe rappresentare infatti qualcosa di più di un sassolino nella scarpa per la diplomazia del vecchio continente, contribuendo al contempo a raccontare la terribile verità della "Corea del Nord dell’Africa". Torture senza sosta. "Per sei mesi mi hanno torturato a giorni alterni, insieme a altre 40 persone. Dicevano che uno come me non doveva avere figli, e mi applicavano cavi elettrici sui genitali, sul palmo delle mani e sotto i piedi. Ora non posso produrre sperma, ho un danno permanente". "Un poliziotto mi violentava tutti i giorni, per diversi mesi, di fronte a altri che poi abusavano di me". Racconti come questi, estratti da due delle 830 interviste, e 160 deposizioni scritte, raccolte dalla Commissione d’Inchiesta in un anno di lavoro, introducono nei gironi infernali delle celle di tortura del regime, stipate di semplici cittadini, spesso giovanissimi accusati di voler lasciare il paese o di non uniformarsi ai diktat un servizio di leva disumano e senza scadenze. Sono 77 i centri di detenzione mappati dall’Onu a partire dalle informazioni raccolte dai testimoni, tutti residenti fuori dall’Eritrea. Abusi da parte del governo. Episodi di sparizione forzata, tortura, riduzione in schiavitù, stupro, omicidio e altri trattamenti disumani e degradanti compongono il quadro drammatico di una nazione in cui, secondo Mike Smith, presidente della Commissione, "membri dell’amministrazione, del partito di governo e delle forze di sicurezza continuano a compiere abusi, in patria come all’interno della diaspora, senza che ci sia alcuna volontà politica di perseguire questi crimini". Il regime di Isaias Afewerki, padre-padrone dell’Eritrea dal 1991, anno dell’indipendenza dall’Etiopia dopo una trentennale guerra civile, non ha autorizzato l’ingresso dell’organismo nel paese, sostenendo di essersi già sottoposto alla "universal periodic review", la procedura standard di valutazione del rispetto dei diritti umani per tutti i membri dell’Onu. "La comunità internazionale deve agire". Istituita nel giugno 2014, la Commissione d’inchiesta si è innestata sul lavoro della relatrice speciale sull’Eritrea, nominata nel 2012 dal Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu. L’ex colonia italiana è insomma sotto la lente degli osservatori internazionali da tempo. La novità del rapporto della Commissione sta, però, proprio in quel "crimini contro l’umanità", definizione legale ancora incerta, figlia dei processi di Norimberga contro i gerarchi nazisti e, più recentemente, dei tribunali speciali, da quello per l’ex-Jugoslavia a quello creato dopo il genocidio in Ruanda. "In Eritrea c’è un’impunità totale verso crimini compiuti negli ultimi trent’anni", ha spiegato Smith, "ma da oggi in poi tocca alla comunità internazionale prendere iniziativa per far sentire la voce delle vittime e dargli giustizia". Dall’Onu alla Corte Penale Internazionale? A fare il primo passo dovrà essere il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, a cui il report raccomanda di "riferire sulla situazione in Eritrea alla Corte Penale Internazionale". Una possibilità che potrebbe essere però bloccata dal veto di alcuni stati membri. "Anche altri paesi", ha sottolineato Smith durante la conferenza stampa, "potranno intervenire, perseguendo i responsabili di questi crimini, favorendone l’estradizione o, come avvenuto di recente per l’ex-presidente del Ciad Hissené Hibré, giudicato in Senegal, istituendo tribunali ad hoc". Un monito, anche se non esplicito, all’Unione Europea, che lo scorso gennaio ha firmato un piano di supporto quinquennale al governo eritreo, prevedendo un primo finanziamento di 200 milioni di euro di investimenti nell’energia, con lo scopo di "espandere il mercato del lavoro per i giovani" e "affrontare le cause della migrazione". Fondi Ue per il regime. Fondi che, sostengono diversi attivisti in esilio, non farebbero che rendere ancora più pervasivo il controllo del regime sulla popolazione e arricchire i trafficanti. Fino a 5mila persone, in gran parte donne e minori, continuano a lasciare l’Eritrea ogni mese secondo le Nazioni Unite. In 47mila hanno chiesto asilo nell’UE nel 2015, mentre la maggior parte vive in tendopoli, o nelle periferie delle città, in Etiopia e Sudan. Scappano da torture e da un servizio "nazionale" (militare e civile) assimilabile alla schiavitù e che, nonostante i proclami del governo, continua ad avere durata indeterminata. E per i vicini sudanesi. In centinaia sono però stati rimpatriati con la forza dal Sudan e dalla Libia nelle ultime tre settimane, secondo Human Rights Watch e Agenzia Habesha, e subito spediti nelle carceri del regime, senza alcuna accusa formale. Una trattamento in linea con quello che gli eritrei conoscono come "shoot to kill", ovvero l’ordine di sparare contro chi tenta di attraversare il confine a piedi. Una deportazione di massa che potrebbe anticipare un nuovo programma di controllo delle frontiere che, sostiene il settimanale britannico "New Statesman", dovrebbe far arrivare ingenti fondi europei al Sudan del presidente Al Bashir (già ricercato dalla Corte Penale Internazionale), incaricato di sigillare la frontiera con Eritrea e Libia. Diplomazia sulla pelle delle persone. La diplomazia di Bruxelles, denuncia la testata, starebbe lavorando per "ridurre l’impatto" del rapporto dell’Onu sulle politiche comunitarie, schierandosi di fatto con il regime di Afewerki, il cui ministro per l’informazione, in una serie di tweet, ha definito "non imparziale", "metodologicamente viziato" e "ridicolo", il rapporto appena presentato. Se la battaglia di consenso si combatterà, anche, a Ginevra, dove - rispettivamente il 21 e il 23 giugno - sfileranno gruppi eritrei filo-governativi e di opposizione, quella politica avrà luogo nelle stanze della Commissione UE e dei governi, europei e africani. Sarebbero almeno 700, nel frattempo, i cittadini eritrei morti nei naufragi degli ultimi dieci giorni, mentre almeno 10mila languiscono nelle carceri di un regime fra i più autoritari al mondo, erede di una guerra di liberazione che continua a essere tradita. Belgio: i secondini scioperano e i detenuti escono "in congedo" eunews.it, 10 giugno 2016 Da settimane la polizia penitenziaria francofona non garantisce i servizi essenziali nelle carceri. Un po’ come a scuola: i professori scioperano e gli allievi se ne restano a casa. In Belgio, per la precisione nella parte francofona, da tempo le guardie carcerarie sono in sciopero per rivendicazioni salariali e normative. Si è tentato di sopperire a queste mancanze di personale inviando i poliziotti, ma i sindacati hanno fatto la guerra e dunque l’unica soluzione è stata questa: se non ci sono guardie non possono esserci neanche carcerati, facciamoli uscire. Nei prossimi giorni circa 200 detenuti godranno dunque di una settimana di "congedo" supplementare. Tutti fuori, di nuovo, dopo che alla fine di maggio già si erano goduti quindici giorni a casa, invece del permesso premio abituale di 36 ore.