Quei baci non rubati, il sogno dei detenuti di Pietro Pruneddu pagina99we, 9 gennaio 2016 Un pranzo con i figli, una carezza o più con il partner. Ciò che accade nello chalet "La Silva" del carcere dì Lugano riguarda solo i detenuti. Per i carcerati in Italia finora è un sogno. Ma un disegno di legge può cambiare la loro vita. La Lega Nord contro la proposta dì un deputato Pd perché "le galere diventerebbero bordelli". Ma a differenza della Svizzera il sesso da noi non sarebbe ammesso. Ci sono baci lunghissimi che nessuna telecamera di sorveglianza vedrà mai. Ci sono carezze di madri e sorrisi di bambini, lontani dagli occhi degli agenti penitenziari. Risate tra. amici intorno a una tavola imbandita, nonostante il filo spinato che si intravede dalla finestra. Il carcere penale "La Stampa di Lugano" si trova a due chilometri in linea d’aria dal confine lombardo. In questo angolo di Ticino lo schema carcerario del panopticon benthamiano è stato stravolto. A poche decine di metri dalle celle, appena oltre il perimetro di alta sicurezza, c’è un elegante chalet, ribattezzato "La Silva". Dal 1988 la struttura accoglie gli incontri privati tra carcerati e familiari. Una volta ogni due mesi i reclusi possono incontrare mogli o fidanzate, figli, genitori e amici. In quelle sei ore senza telecamere, microfoni o agenti, i detenuti provano a riappropriarsi di un’intimità troppo spesso calpestata dietro le sbarre. Il grande balcone dello chalet affaccia sugli alberi. Un verde da cartolina difficile da immaginare tra le mura di un carcere. La sala è dominata da un camino in mattoni. L’appartamento è completato da cucina, camera con un letto matrimoniale e bagno con doccia. Un agente sorveglia la casetta a 15 metri di distanza ma non può avvicinarsi oltre. Quello che succede dentro è un affare personale tra il detenuto e ì suoi ospiti. "Chiunque può richiedere i "congedi interni" nella Silva, a condizione che sia incarcerato da almeno 18 mesi", spiega a pagina99 Vanni Da Dalt, vicedirettore delle strutture carcerarie cantonali, che comprendono quattro penitenziari ticinesi. "La buona condotta è essenziale. Solo chi non ha in carico sanzioni nei tre mesi precedenti può averne diritto mentre una qualsiasi infrazione comporta la sospensione del beneficio". La lista d’attesa per la casetta è lunga ma scorrevole e si va a rotazione tra i 140 detenuti. Gli ingressi sono regolati da un attento lavoro di studio preventivo delle richieste. Ogni nuovo detenuto compila una lista, di nomi che vengono controllati prima di dare l’ok. La prassi è concedere il benefit a tutti. Ma, per esempio, difficilmente un condannato per stupro potrà ottenere un incontro con una donna. Impossibile poi far accedere una prostituta. Il sesso nella casetta, però, è un aspetto normale accettato con serenità dalle autorità. Anzi, su richiesta vengono forniti i preservativi. Anche, i pasti sono preparati (a pagamento) dal carcere con la possibilità di scegliere menù per vegetariani, musulmani, diabetici e celiaci. L’articolo 75 del codice penale svizzero, infatti, stabilisce che le condizioni di vita all’interno del penitenziario debbano avvicinarsi il più possibile a quelle esterne. Lo scopo di questi incontri è mantenere saldi i rapporti coi familiari, spesso unico legame per la futura reintegrazione sociale. "Per loro è fondamentale sapere di poter pranzare coi figli o avere la possibilità di fare l’amore con la compagna. Si comportano bene per non rischiare di perdere il beneficio e dopo gli incontri sono molto rilassati", spiega Da Dalt, Questi congedi hanno migliorato la vita detentiva e la recidiva è bassissima, intorno al 5%. Oltre alla "Silva", il carcere di Lugano prevede i colloqui gastronomici, pranzi di due ore coi familiari in una stanza senza sentinelle, e i colloqui Pollicino, in cui il detenuto incontra moglie e figli insieme a un operatore sociale in uno spazio soft studiato appositamente per i bambini. Gli stranieri che hanno difficoltà con le visite possono usufruire della "videoconferenza", una chiamata di 20 minuti su Skype una volta al mese. Infine ogni piano del carcere è dotato di una cabina telefonica e non ci sono limiti di minutaggio delle chiamate in uscita. I detenuti comprano una scheda telefonica e amministrano in autonomia la lunghezza delle conversazioni. Basta riattraversare il confine e tornare in Italia per trovare una situazione completamente diversa. Attualmente ogni carcerato ha a disposizione sei ore eli colloquio al mese e una telefonata di dieci minuti a settimana. Gli spazi per gli incontri sono in genere cupi stanzoni affollati, non-luoghi perfetti per negare qualsiasi parvenza di riservatezza, ambienti dove anche un abbraccio fugace è vissuto con difficoltà e gli affetti sono inibiti. In qualche penitenziario ancora esistono le sale colloqui con banconi o vetrate a dividere detenuti e familiari. A novembre il deputato del Pd Alessandro Zan ha portato in Commissione giustizia alla Camera una proposta di legge per istituire anche in Italia gli spazi per l’affettività familiare in carcere. Il testo, elaborato in collaborazione con Ristretti Orizzonti, il giornale dalla Casa di Reclusione di Padova e dall’Istituto di pena femminile della Giudecca, punta a concedere una visita al mese, di durata variabile tra 6 e 24 ore, in locali realizzati appositamente, senza controlli visivi o acustici. "Spazi riservati senza. qualcuno che ti guardi come i pesci in un acquario", ha spiegato Zan. La proposta è stata sottoscritta da altri 20 parlamentari (Pd e M5S) ma ha trovato l’opposizione della Lega Nord: il capogruppo in commissione Molteni ha paragonato gli spazi dell’affettività a "stanze per il sesso che trasformeranno le galere in bordelli". Contro la proposta anche i sindacati di polizia penitenziaria. Ma Zan precisa: "Il sesso non c’entra nulla. Vogliamo garantire ai figli un ambiente più riservato per gli incontri, riproducendo una situazione di vita familiare. Sono luoghi dove ci potrà essere un bacio o un abbraccio, ma non incontri sessuali". Il cuore dell’iniziativa, insomma, è trovare un modo per evitare che anche i parenti dei detenuti scontino una pena. Secondo gli esperti, una legge del genere porterebbe anche a una diminuzione di suicidi, atti di autolesionismo e aggressioni contro le guardie. Il testo ha ottenuto l’appoggio della presidente della Commissione giustizia Donatella Ferranti e il via libera da parte del ministro Orlando. Un passo avanti visto che finora l’iter legislativo sul tema è un elenco di fallimenti. La prima proposta risale al ddl Folena del 1997. Nel 2002 non bastarono 64 adesioni parlamentari per portare in Aula un testo sulla liberalizzazione delle telefonate dal carcere. Altri due tentativi finiti nel dimenticatoio nel 2010, infine, appena 12 mesi fa, è caduta nel vuoto la proposta del senatore Pd Sergio Lo Giudice. L’Italia sconta un ritardo cronico nei confronti del resto d’Europa. Già, nel 1985 le direttive comunitarie invitavano a tutelare la vita intima dei carcerati. Molti Paesi hanno introdotto per legge gli incontri riservati coi familiari che funzionano con successo. Anche nel nostro Paese non mancano le sperimentazioni. A Bollate c’è uno spazio, simile a un appartamento (con telecamera), in cui padri e figli passano del tempo insieme in un ambiente neutro. Ma si tratta di situazioni sporadiche e isolate. "La Stampa", insomma, rimane una straordinaria anomalia agli occhi di un detenuto italiano. I nostri connazionali nel penitenziario svizzero sono una quindicina. E sono consapevoli di essere fortunati. Perché, come spiega Da Dalt, "molte carceri sono un imbuto, mentre il nostro somiglia più a una clessidra. Con la condanna la libertà si restringe. Ma dopo bisogna dare ai detenuti gli strumenti per riaprire le loro vite. Ed è quello che proviamo a fare qui". Corsi gratuiti per uno Stato da rieducare L’Opinione , 9 gennaio 2016 Pubblichiamo le lettere di detenuti del carcere di Sollicciano consegnate a Rita Bernardini dopo la visita del giorno di Natale fatta insieme a Marco Pannella e ad altri esponenti Radicali. Perché la conoscenza delle effettive condizioni inumane in cui i detenuti si trovano a scontare la propria pena non resti prerogativa dei (tuttora) pochi che hanno a cuore il ripristino della legalità e il rispetto dei diritti umani previsti dalla Costituzione e dalla giurisprudenza europea anche quando si affronta il volto più duro della giustizia che è l’esecuzione della pena. Lettera n. 1 Siamo i detenuti del carcere di Sollicciano, volevamo innanzitutto ringraziarvi del vostro interessamento che ogni anno date ai problemi che attanagliano le carceri italiane. Con questo nostro scritto volevamo informarvi della situazione attuale in cui viviamo o, meglio, "sopravviviamo". Quotidianamente. Siamo costretti a combattere una lotta che sempre più ci sembra ardua; la nostra è una speranza che si fa sempre più debole. Vorremmo esporvi alcuni dei problemi, a partire da questa struttura fatiscente dove dalle mura crepate casca acqua sia nelle sezioni che nelle celle e le infiltrazioni creano una forte umidità. Spesso manca l’acqua calda e il riscaldamento spesso non funziona. L’assistenza medica è inadeguata e scarseggia di medicinali. Per quanto riguarda il servizio educatori ci è difficile o è quasi impossibile effettuare un colloquio con loro. Parlando del vitto è scarso e di qualità scadente. Per concludere l’argomento i prezzi del sopravvitto sono altissimi pur essendoci una legge che dovrebbe compararli ai prezzi del supermercato più vicino al carcere. Queste sono solo alcune delle situazioni che viviamo al giorno d’oggi. La nostra fievole voce speriamo che tramite voi diventi un grido per i nostri diritti umani soppressi da questo Stato. Rinnoviamo il nostro ringraziamento da parte di tutti noi detenuti e approfittiamo per farvi gli auguri di buone feste. P.S.: aggiungiamo che la Sorveglianza non ottempera alle nostre esigenze. Lettera n. 2 Siamo i detenuti del carcere di Sollicciano. Con la presente ci rivolgiamo a voi per far sentire la nostra voce di ciò che si vorrebbe tenere all’oscuro in merito ai problemi che incontriamo quotidianamente: nelle celle ancora oggi, nel 2016, gli agenti spengono le luci centralmente alle ore 21; in alcune sezioni presenza di topi nelle stanze; spesso l’acqua delle docce è fredda, oltre che essere otturati gli scarichi delle stesse; quando piove entra l’acqua dai vetri e dai muri in tante celle; vitto immangiabile del tutto; assistenza sanitaria limitatissima; il lavoro è scarso e quel poco che c’è viene remunerato vergognosamente (2-3 euro l’ora lordi) oltre al fatto che, in caso di malattia il licenziamento è immediato; quanto ai colloqui con i familiari, in particolare in presenza di figli minori, accade che, pur avendo il carcere la piena disponibilità di una grandissima sala colloqui detta "area verde" o "giardino degli incontri" destinata ad incontri prolungati soprattutto con i figli minori perché munita di giochini e tanto spazio, l’area ci viene negata e così siamo privati di un giusto colloquio con i nostri figli. Lettera n. 3 Con questo documento, i detenuti di Sollicciano portano a conoscenza alcune delle problematiche di questo carcere che, quanto a struttura, pur essendo stato costruito nel 1980, versa in condizioni fatiscenti. a) Piove dentro le celle, piove nei corridoi: gli spifferi causati dal decrepito stato degli infissi aggravano il freddo d’inverno, mentre d’estate contribuiscono a far raggiungere temperature anche di 42/43 gradi. Le celle sono sprovviste di acqua calda e doccia in contrasto con quanto previsto dal regolamento penitenziario. Le uniche docce, che sono in condizioni da schifo, sono 4 per 43 detenuti. Questa situazione incide sia sul piano sanitario che su quello umano: patologie come funghi, dolori, influenze aggravate sono all’ordine del giorno; b) mancanza di lavoro. Quel poco che c’è è mal retribuito e con nessuna prospettiva lungimirante per il futuro. Se la funzione del carcere è, secondo il pensiero comune, un momento di espiazione della pena, deve anche essere un accompagnamento verso la società, attraverso il lavoro e la cultura. Il lavoro così come è strutturato all’interno dell’istituto ha una funzione diseducativa, oltre al fatto che non è per tutti, poiché i lavori offerti sono: porta-vitto, scopino, scrivano i quali, fuori di qui, non trovano alcuna possibilità di collocamento e, quella minima parte di detenuti che lavorano presso la cucina o la Manutenzione ordinaria dei fabbricati (Mof) non ha alcun titolo di qualifica. Per ovviare a questo, noi vorremmo che il carcere di Sollicciano prendesse accordi con aziende esterne per portare all’interno del carcere corsi di formazione con conseguenti lavori qualificati; c) la scuola all’interno di Sollicciano, facendo un’analisi non è il massimo, ma considerato che è a Sollicciano è già troppo; forse grazie ai docenti che riequilibrano le carenze; d) nonostante che il Regolamento penitenziario preveda una cucina ogni duecento detenuti al massimo, qui a Sollicciano siamo 650 detenuti con una sola misera cucina. Insomma, lo Stato non rispetta le sue stesse norme, come per l’acqua calda/docce all’interno delle celle, gli spazi comuni, il lavoro. La domanda che ci facciamo è la seguente: "Lo Stato chiede a noi di essere onesti, ma lo Stato è onesto?". Evidentemente, no. La percezione che abbiamo qui dentro è che tutto, o quasi, sia illegale e, di conseguenza, questo non aiuta a capire il nostro "errore". Tutto il nostro percorso dall’inizio alla fine della carcerazione dovrebbe essere preso in carico dall’area trattamentale; diciamo "dovrebbe" perché qui a Sollicciano nella maggior parte dei casi sono assenti gli educatori. Di fronte ad una richiesta di colloquio con il proprio educatore si verificano attese di un minimo di 9 mesi, ma si arriva anche ai 3/4 anni. Queste assenze ingiustificate comportano ritardi per accedere ai benefici della Legge Gozzini; e) in Italia non c’è una legge che preveda rapporti affettivi e sessuali in carcere con il proprio partner. Lo Stato ritiene infatti che a noi dovrebbero bastare le sei ore mensili di colloqui concessi dal Regolamento penitenziario sotto il controllo a vista del personale del Corpo di polizia penitenziaria, escludendo così qualsiasi tipo di intimità; ai colloqui si aggiungono 40 minuti mensili di telefonate (dieci minuti a chiamata per 4 telefonate) che non possono e non sono sufficienti a garantire la stabilità familiare incidendo in modo oltremodo negativo sul percorso riabilitativo. Domanda: questo è lo Stato che dovrebbe rieducarci? No, perché continua esso stesso ad infrangere i principi fondamentali della Costituzione, a partire dall’articolo 27, facendoci così rimanere "detenuti a vita". Riepilogo di quanto scaturito da una riunione di 14 detenuti. Telefonate: La maggior parte dei detenuti hanno sollevato il problema legato al limite delle telefonate. Attualmente, 10 minuti a settimana su telefono fisso o 10 minuti ogni 15 giorni su telefono cellulare. Questa differenza è ingiusta perché esistono famiglie che non possono permettersi una linea fissa; inoltre, anche per i numeri fissi mantenere un minimo rapporto con i familiari sentendoli solo 10 minuti è inumano; bisognerebbe a nostro avviso liberalizzare le telefonate, sempre ai numeri autorizzati, senza alcun limite di tempo per singola telefonata né di periodicità. Basterebbe installare nuovi apparecchi, al limite prevedendo una piccola percentuale di guadagno sulle telefonate per l’amministrazione al fine di compensare l’investimento delle nuove cabine. Oggi è previsto che solo nel caso uno abbia un bimbo di età inferiore ai dieci anni, sono previste 6 telefonate al mese… come se un bambino di 11 anni non necessitasse di affetto come uno di 9! Assurdo! Colloqui: Il limite di 6 ore al mese è inumano. Non si capisce come mai nel giardino non si possano fare più ore, ma fino a poco tempo fa se un detenuto voleva fare due ore poteva farle solo nelle salette interne. Tutti i detenuti chiedono di togliere il limite delle sei ore per i colloqui mensili e di poter scegliere di fare i colloqui indipendentemente se in giardino e/o in saletta con la possibilità di organizzare pranzi con le proprie famiglie, con alimenti consentiti e portati dall’esterno e/o ordinabili da società di catering esterne. Regolamento penitenziario: dovrebbe assolutamente essere un diritto di ogni detenuto essere portato a conoscenza dei propri diritti e dei propri doveri. Messa: Sarebbe importante avere la possibilità di avere la messa la domenica (almeno 3 messe). Ogni sezione può fare l’elenco delle persone realmente interessate. Lavoro: discutendo con i detenuti, tutti hanno espresso la volontà di lavorare, ma con un progetto serio, con imprenditori che siano disponibili ad investire negli spazi interni al carcere. La maggior parte dei detenuti non riescono a mantenersi e le famiglie fuori fanno fatica ad arrivare a fine mese, mentre se si creassero delle opportunità di lavoro all’interno i detenuti avrebbero la possibilità di: a) non gravare sulle famiglie; b) vivere la carcerazione con più dignità perché il lavoro nobilita l’uomo; c) mantenersi in carcere. Esempio pratico sul lavoro: un lavoratore guadagna 700 euro; 200 euro deve metterli per il mantenimento in carcere. Con 500 euro, 200 li vincola e 300 li destina per spesa mensile. Questo sistema renderebbe più stabile il detenuto che non graverebbe più sulle famiglie già disagiate, tenendo presente che a volte alcuni membri della famiglia sono costretti a delinquere per mantenersi e per mantenere il proprio congiunto in carcere. Altra cosa importante: il detenuto, una volta finita la sua pena si ritroverebbe senza debiti da pagare per il suo mantenimento in carcere, i quali debiti - se non pagati - finirebbero a Equitalia che perseguiterebbe l’ex detenuto, in molti casi, per il resto della sua vita. Resta da capire il motivo per il quale non ci sia la volontà di portare avanti la politica del lavoro all’interno delle carceri! L’inutile vessillo della paura di Stefano Folli La Repubblica, 9 gennaio 2016 Intorno al reato di clandestinità la politica si sta avvitando nel solito gioco di specchi. Pochi credono che il dissenso reso noto dal ministro dell’Interno, Angelino Alfano, possa portare a una frattura della maggioranza e alla crisi del governo Renzi. Il gruppo di Area Popolare ha offerto fin qui numerose prove del suo desiderio di tenere i piedi ben saldi nell’esecutivo, con l’argomento che il centro moderato deve pur essere rappresentato. D’altra parte, non si può pretendere che Alfano sia contento di smentire se stesso, dal momento che egli era nel 2009 il ministro della Giustizia di Berlusconi che approvò con convinzione il provvedimento istitutivo del nuovo reato. Da allora quest’ultimo non è mai stato un deterrente rispetto alle varie ondate migratorie, né si hanno notizie certe sulla sua effettiva applicazione. Era più che altro una bandiera politica sventolata dal governo di centrodestra al fine di rassicurare il proprio elettorato e quello dell’alleato leghista. La decisione aveva quindi una logica, a patto di non approfondire troppo la sostanza. Se si fosse scavato, si sarebbe notato che la legge era alquanto inapplicabile, secondo una tipica usanza italiana. Del resto, clandestini sono quasi tutti quelli che entrano nel territorio nazionale solcando il mare, mossi dal desiderio di fuggire la desolazione. Quel che è peggio, la normativa - se presa alla lettera - avrebbe avuto il solo effetto di intasare le procure e di rallentare i procedimenti di espulsione. Fatto sta che il "reato" coincideva con le esigenze politiche di chi lo propugnava, ma certo in oltre sei anni non ha contribuito in misura significativa né a ridurre i flussi dal Nord Africa né a tranquillizzare l’opinione pubblica. Resta la questione di fondo, peraltro non secondaria: l’inopportunità del momento. È quello che dice Alfano, in modo abbastanza sommesso, ed è quello che urlano Salvini e Brunetta di Forza Italia. Inopportuno dopo i fatti di Colonia dare l’impressione all’opinione pubblica che il governo diventa più lassista sugli ingressi. Inopportuno accreditare l’idea di una crescente debolezza verso gli immigrati. Magari non è vero, magari questa è la via per rendere più celeri i rimpatri e meglio colpire gli scafisti (per i quali il reato ovviamente rimane): ma quel che conta ai fini elettorali è solo la "percezione". E un’opinione pubblica disorientata e impaurita potrebbe ricevere il segnale sbagliato da Palazzo Chigi. Vedremo nei prossimi giorni. Senza dubbio la posizione di Alfano non è quella di chi si prepara alla resa dei conti: perché dovrebbe? Le sue parole sono piuttosto rivolte a ottenere un rinvio, o per meglio dire un parziale insabbiamento. Per ora ha ottenuto qualche giorno, fino al 15 del mese. La sua speranza è di far scivolare più avanti il provvedimento, fino a dopo le elezioni amministrative. È soprattutto con questi argomenti che Alfano parla al suo residuo elettorato e in fondo Renzi avrebbe interesse ad assecondarlo: si tratta pur sempre di un alleato di governo, oltretutto molto leale. Un alleato che si sta giocando la sopravvivenza politica e che non a caso ha aperto in questi giorni un altro fronte sul tema delle unioni civili e delle adozioni da parte di coppie omosessuali. Il limite dei centristi è che non hanno alcun interesse ad aprire la crisi in quanto non ritroverebbero mai più le posizioni di potere e di governo di cui godono oggi. D’altra parte, hanno assoluto bisogno di mandare segnali precisi al loro elettorato che è cattolico e moderato (secondo i critici sarebbe più che altro una grande clientela, specie nel Sud). Sui clandestini Alfano il suo messaggio l’ha fatto sentire ed è possibile che il decreto slitti come è nei suoi voti. Quanto alle unioni civili, se la questione riguarda la coscienza, allora il vincolo di maggioranza non è prioritario. Il voto trasversale si avvicina e lì si vedrà se in Grillo prevale l’istinto populista, specie dopo il caso Quarto, o se ha deciso di concedere un po’ di margine all’ala istituzionale e più matura dei Cinque Stelle. Sarebbe una novità non da poco. Immigrazione, la resa del premier di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 9 gennaio 2016 La depenalizzazione del reato di clandestinità slitta ancora. Motivi di "opportunità politica". Il parlamento insiste: meglio una sanzione amministrativa. Ma Palazzo Chigi cede per la secondo volta ad Alfano. L’esecutivo non esercita la delega. Ignorati i richiami della Corte europea e dei magistrati che indagano sulla tratta dei migranti. Che il reato di immigrazione clandestina, eredità dei governi Berlusconi che il Pd ha più volte promesso di abolire, sia contrario alla giustizia Europea lo ha stabilito la Corte di Strasburgo. La sua depenalizzazione sarebbe assai utile nel contrasto alla tratta di migranti, lo chiedono da anni i magistrati che indagano sugli scafisti e il procuratore nazionale antimafia. Non solo, che il reato penale immaginato ai tempi della legge Bossi-Fini debba essere trasformato in un illecito amministrativo lo ha detto due volte il parlamento: la prima in una legge delega del maggio 2014, che il governo non ha esercitato solo su questo punto, la seconda un mese fa quando le commissioni parlamentari hanno incalzato il governo perché proceda anche a questa depenalizzazione. Ma la depenalizzazione non si farà. Il decreto, preparato dal ministro Orlando, non è arrivato al Consiglio dei ministri di ieri. Se ne riparlerà probabilmente la prossima settimana. Sotto i peggiori auspici, visto che palazzo Chigi fa sapere che "la logica vorrebbe la scelta della depenalizzazione. Ma nella componente sicurezza l’elemento psicologico e di percezione è molto importante". È una dichiarazione di resa di Renzi di fronte ad Alfano che, ministro della giustizia nel governo Berlusconi quando il reato fu introdotto, ha sempre difeso la legge anche di fronte ai fallimenti. L’impossibile applicazione della sanzione (da 5 a 10mila euro) a carico dei migranti in fuga, la possibilità per gli indagati di non collaborare nelle indagini sui responsabili della tratta (a differenza dei testimoni non indagati), persino la complicazione nelle procedure di espulsione consigliano da anni il passo indietro, anche a prescindere da ogni valutazione di giustizia e umanità. Ma "la logica" traballa a palazzo Chigi davanti alle ragioni di "opportunità politica". La stessa "opportunità alla quale si aggrappa il ministro dell’interno Alfano, quando si avventura a spiegare che malgrado "voci molto autorevoli e rispettabili affermano ragioni tecnicamente valide a sostegno di una abrogazione" esistono "motivi di opportunità fin troppo evidenti" per "evitare di trasmettere all’opinione pubblica dei messaggi che sarebbero negativi per la percezione di sicurezza in un momento particolarissimo per l’Italia e l’Europa". È con ragionamenti del genere - ovvero: la gente ha paura dei terroristi, meglio mantenere il reato di immigrazione clandestina malgrado sia disumano, inapplicabile e controproducente - che Alfano riuscì a imporsi nel Consiglio dei ministri del 13 novembre scorso. Scadeva allora la delega prevista nel disegno di legge Orlando approvato nel maggio 2014 dalle camere; la riunione del governo si tenne nel pomeriggio del giorno che sarebbe poi passato alla storia come quello degli attacchi terroristici di Parigi, cominciati nella serata allo stadio e al Bataclan. Senza bisogno di quel carico emozionale, la linea dell’ex ministro di Berlusconi convinse Renzi e si decise di trasmettere lo schema di decreto legislativo al parlamento senza la depenalizzazione del reato di immigrazione clandestina. Il problema però è ritornato sulla scrivania di palazzo Chigi, di nuovo attraverso il guardasigilli Orlando, perché le commissioni parlamentari nell’esprimere il loro parere favorevole hanno raccomandato che "il reato di immigrazione clandestina sia trasformato in illecito amministrativo". Entro la prossima settimana Renzi dovrà decidere. A meno che gli uffici non riescano a trovare nelle pieghe della legge delega originaria i margini per rinviare ogni decisione di altri sessanta giorni. Che sarebbero utilissimi all’esecutivo. La questione immigrazione clandestina viene a coincidere infatti con l’altra che divide il Nuovo centrodestra dal Pd, quella delle Unioni civili, e annuncia una terza spaccatura, sulla riforma della cittadinanza. Alfano ha buone chance di vittoria, in nome della "opportunità politica". Nel frattempo una parte del Pd invita a non rimangiarsi anche questo impegno - "la politica non può farsi guidare dalla paura", dice Speranza - mentre un’altra (quella renziana) già a capito dove si andrà a parare: "Sull’abolizione del reato di clandestinità non potrei essere più d’accordo, su quando farlo agirei in questo momento con grande cautela", dice Fiano. L’occasione è perfetta per la Lega per profetizzare invasioni, e Salvini annuncia già un referendum per cancellare la cancellazione del reato. Che intanto può attendere. Immigrati clandestini, retromarcia del governo sull’abolizione del reato di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 9 gennaio 2016 Palazzo Chigi prende tempo: "Il fattore psicologico è importante". Lite con Alfano: "Scelta inopportuna". Il reato di immigrazione clandestina non si tocca, almeno per il momento. È Matteo Renzi a stabilire la linea, dopo alcune tensioni con Angelino Alfano, e a mandare temporaneamente in soffitta l’ipotesi di un decreto legislativo. Ed è proprio il ministro dell’Interno, contrario a mettere mano alla legge, a farsi portavoce della brusca frenata. "Evitiamo di trasmettere all’opinione pubblica dei messaggi negativi per la percezione di sicurezza - è l’invito del responsabile del Viminale - in un momento particolarissimo per l’Italia e l’Europa". Parole che non soddisfano comunque la Lega, pronta a promuovere eventualmente anche un referendum per difendere il reato voluto dal governo Berlusconi. Secondo il premier, il nodo è soprattutto di comunicazione. Perché se è vero che "la logica vorrebbe la scelta della depenalizzazione", e altrettanto vero che "nella componente sicurezza l’elemento psicologico è molto importante". Da qui la scelta di congelare ogni decisione e rimandare alla prossima settimana, "sulla base di una valutazione di opportunità politica e senza toni barricaderi". Proprio i toni scelti dal Carroccio, a dire il vero, esacerbati dalle notizie che arrivano da Colonia. E infatti gli slogan padani richiamano le aggressioni di fine anno: "Ma si accorgono di cosa sta succedendo nel mondo? - si sgola Matteo Salvini - Questi sono matti! La Lega farà le barricate, in Parlamento e poi nelle piazze con un referendum, contro questa vergogna". Il leghista evoca "espulsioni a valanga" e mette in dubbio quanto promesso dal ministro: "Scommetto un caffè che il prode Alfano calerà le braghe entro una settimana". Eppure, il titolare dell’Interno ripete che il rinvio appare l’unica soluzione possibile: "Questa vicenda non è materia di un singolo partito. Si sono levate voci molto autorevoli che affermano ragioni tecnicamente valide a sostegno di una abrogazione - ammette - ma motivi di opportunità fin troppo evidenti mi inducono a ribadire che è meglio non attuare la delega". Agli antipodi della Lega si schiera invece Sinistra Italiana. "Il reato di immigrazione clandestina - sostiene il capogruppo alla Camera Arturo Scotto - è sbagliato e inefficace. Va abolito". La paura di Renzi: "Si perdono voti". L’idea di una nuova legge ad hoc di Liana Milella La Repubblica, 9 gennaio 2016 La paura di Renzi: "Si perdono voti". L’idea di una nuova legge ad hoc. Il governo si vuole "spogliare" della questione rimettendola al Parlamento. Se la norma finisse in un normale disegno di legge si supererebbero le amministrative. Fu per catturare voti che, nel 2009, il governo Berlusconi gettò nella mischia il reato di clandestinità. Adesso, a palazzo Chigi, soppesando le 15 righe che potrebbero cancellarlo firmate dal Guardasigilli Andrea Orlando, si agita un sentimento simile, ovviamente capovolto. Con le elezioni amministrative alle porte, diventa protagonista la paura di perdere i voti di chi non capirebbe perché, con il terrorismo islamico ormai in casa, il governo si avventuri sull’impervia via della cancellazione del reato. Effetto dunque, più che sostanza, visto che il reato, già adesso, non manda in galera nessuno, né tanto meno comporta un’espulsione immediata. Ma ieri, quando Renzi ha letto Repubblica con la notizia che il reato stava per sparire proprio ad opera del suo governo, ha cominciato a interrogarsi se questa fosse proprio la mossa giusta da fare. Perché, è opinione del premier, la depenalizzazione in sé ci può stare, ma non si può prescindere dagli effetti che può produrre sulla "percezione della sicurezza". Come prima cosa, Renzi ha preso tempo. In consiglio dei ministri s’è trovato di fronte sia Orlando che Alfano. Hanno scambiato qualche idea. Quella di Renzi esplicita: nell’anniversario di Charlie Hebdo, dopo Parigi e Colonia, l’Italia non può prendere decisioni che possano essere interpretate come un segnale di lassismo contro il terrorismo. Alfano, ovviamente, concorda. Proprio lui che questo reato lo ha sottoscritto da ministro e in queste ore lo ha difeso strenuamente. Orlando resta freddo. Chi lo ha sentito, poco prima di Natale, in una conferenza stampa in via Arenula col procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti, lo ha visto fare sì con la testa quando il magistrato spiegava perché il reato è un ostacolo ad acchiappare i trafficanti, quindi anziché bloccare l’arrivo dei migranti, per assurdo lo agevola. Se fosse per Orlando il reato potrebbe tranquillamente essere abolito, per la semplice ragione che è inutile, non viene applicato, la Cassazione lo ha ridimensionato proprio le stesse ragioni per cui la Ue lo ha bocciato, in quanto non punisce un comportamento criminale, ma uno stato, l’essere un migrante clandestino. Ma adesso è Renzi a decidere. E certo le sue paure non calano dopo il tam tam di Ncd e della Lega. Dice ai suoi il premier: ma perché dobbiamo regalare a Salvini e alla destra su un piatto d’argento questa occasione? Che facciamo, gli mettiamo in mano uno strumento contro di noi? Piglia piede così l’idea di non buttare a mare del tutto l’abolizione del reato di clandestinità, ma di arrivarci per un’altra strada, che non impegni direttamente il governo. Il nuovo protagonista del colpo di spugna sulla norma voluta, e tuttora sponsorizzata, da Maroni e dalla Lega, potrebbe essere il Parlamento. Che potrebbe fare una legge ad hoc oppure piazzare la norma in una legge già esistente. Una mossa che otterrebbe ben tre risultati. Il governo, secondo Renzi e le sue teste d’uovo, non avrebbe un ritorno negativo sul piano dell’immagine. Il Parlamento confermerebbe la scelta già fatta nel 2014, quando fu approvata la legge sulla messa alla prova che conteneva già la previsione di abolire il reato di clandestinità. In secondo luogo si placherebbe subito il conflitto con Ncd, col quale ci sono già altri fronti aperti, come le adozioni e la prescrizione. In terzo luogo i magistrati otterrebbero comunque quello che vogliono, cancellare il reato, ma con tempi più lunghi, ben oltre il voto di fine primavera. È il responsabile Giustizia del Pd David Ermini, notoriamente un renziano doc, a far intravvedere quella possibilità: "Intanto da qui al 15 gennaio c’è tempo, e poi non si può escludere affatto che, se il governo non cancella il reato, a farlo non possa essere il Parlamento che peraltro ha chiesto al governo di abolirlo". Perché è stata proprio la commissione Giustizia della Camera, presieduta dalla Pd Donatella Ferranti a suggerire a palazzo Chigi di tirar via il reato di clandestinità. Si vede che Ermini, già relatore del provvedimento in commissione, ha studiato il caso. Tant’è che già ipotizza: "Si potrebbe inserire la norma sulla clandestinità nel disegno di legge sul processo penale". Il famoso testo, ora al Senato, in cui dentro ci sono anche le intercettazioni. Il presupposto c’è, come dice Ferranti "la sicurezza non dipende certo da questo reato, tant’è che mentre era in vigore è successo di tutto". E quindi Ermini propone di eliminarlo "perché non si può multare con 5mila euro chi attraversa il mare e rischia la vita, ma si possono distinguere le condotte, escludere le parti offese dagli scafisti, di certo non indagare la donna incinta". Tempi molto più lunghi dunque. E lunghi ragionamenti. Evitando di perdere voti adesso sul reato di clandestinità. Clandestinità, reato odioso e dannoso di Paolo Lambruschi Avvenire, 9 gennaio 2016 Se domani mattina venisse abolito per decreto il reato di clandestinità, non ci troveremmo un numero più alto di delinquenti per strada a insidiare le donne e a terrorizzare i giovani. Non verremmo invasi. Le cose cambierebbero invece in meglio per tre ragioni: avremmo un positivo abbassamento del tasso di ideologia e della strumentalizzazione xenofoba che inquina ogni discussione sulla questione migratoria; calerebbero le cause che contribuiscono a intasare i tribunali in un Paese dove i processi slittano di anni; risparmieremmo soldi pubblici. Il governo è in ritardo. L’abolizione è stata votata dal Parlamento nell’aprile del 2014 con una legge delega, che ha assegnato al governo il compito di provvedere ad eliminare quel reato. Un anno dopo l’esecutivo ha chiesto nuovamente a Camera e Senato di esprimersi, ottenendo la stessa risposta. E ancora tentenna. Certo, i tempi possono giustificare la paura, e non vogliamo neppure pensare a maneggi sottobanco e a contropartite in maggioranza per glissare su temi così importanti. Ma la paura o altri calcoli politici non devono far perdere lucidità e saggezza. Va detto chiaramente che l’espulsione per chi entra o soggiorna irregolarmente in Italia rimarrà, stabilita dalla legge Martelli del 1990 e ribadita 20 anni dopo dalla direttiva rimpatri della Ue del 2010. Cosa cambierà, allora? Si cancellerà un reato odioso e inutile che obbligava le procure a iscrivere sul registro degli indagati tutti gli immigrati presi senza permesso e a processarli magari per anni. Con quale esito? Una multa di svariate migliaia di euro nei fatti inesigibile, perché in questo caso i dichiarati "clandestini" non avevano certo patrimoni, proprietà immobiliari o conti in banca sui quali rivalersi. Lo Stato ha sempre sostituito l’ammenda con un’espulsione, ovvero - spesso - un foglio di via che lasciava libero il dichiarato "clandestino" di girare per l’Italia. In questo modo, tortuoso e costoso - all’italiana nella peggiore accezione - si è raggiunto solo l’obiettivo politico di criminalizzare gli immigrati irregolari senza impedirne l’arrivo. E si è allontanata l’opinione pubblica dalla comprensione dei drammi migratori, a vantaggio di chi dalla paura trae consenso. Che oggi non a caso sbraita, insulta e vuole salire sulle barricate proponendo referendum a difesa del reato istituito nel 1998 - un’era geopolitica fa - dalla Bossi-Fini e perfezionato dal Pacchetto sicurezza del 2008, prima della crisi siriana. Va rilevato che l’abolizione non è stata chiesta solo dalle organizzazioni umanitarie dagli attivisti, ma soprattutto da giuristi e magistrati. Basta leggere le argomentazioni con cui Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, è tornato nell’intervista rilasciata ieri al quotidiano "Repubblica" sugli ostacoli creati dal reato di clandestinità nella lotta ai trafficanti di esseri umani. Nodi che aveva già indicato in una intervista al nostro giornale. Un conto, in sintesi, è interrogare una persona - magari appena salvata da un barcone - indagata per tale reato sulla rete del traffico quando è assistito da un avvocato e può avvalersi della facoltà di non rispondere, un conto è parlare con una persona informata dei fatti. Le dichiarazioni dell’Anm, di tanti avvocati, del procuratore generale di Roma Giovanni Salvi, sono tutte dello stesso tenore. Quindi, prima di affrontare il tema dell’abolizione del reato di clandestinità domandiamoci che cosa è prioritario. Per noi è anzitutto strategico intensificare la lotta al traffico di esseri umani. Perché ha causato decine di migliaia di morti innocenti e sofferenze indicibili in mare e sulle rotte africane e balcaniche e nel Sinai. E perché potrebbe essere uno dei canali di finanziamento del terrorismo. Resta invece da capire perché dovremmo difendere il reato di clandestinità, un muro di carta che non ha avuto alcun effetto deterrente su uomini, donne e bambini che ogni giorno mettono a rischio la propria vita attraversando i deserti e il mare subendo torture, abusi e angherie per salvarsi e costruire un futuro. "Prevenzione al terrorismo nelle carceri", un Ordine del Giorno approvato dalla Camera altamuralife.it, 9 gennaio 2016 "Dotare il Ministero della giustizia e l’Amministrazione penitenziaria di figure idonee, ovvero assistenti sociali e educatori, capaci di garantire la conoscenza e la gestione di fenomeni attinenti al pericolo del terrorismo internazionale". Questo quanto prevede l’ordine del giorno proposto dalla deputata pugliese Liliana Ventricelli e approvato dalla Camera dei Deputati con la Legge di Stabilità. "La presentazione di questo ordine del giorno - spiega l’onorevole Ventricelli - scaturisce dall’importanza di un contrasto molto serio, una lotta senza quartiere ai fenomeni, anche embrionali, che possono alimentare questo mostro oscuro che è il terrorismo. In chiave preventiva ho ritenuto di dover accendere un faro anche sulla situazione carceraria dove dovrebbero essere presenti figure, come ad esempio i mediatori culturali, accanto alle altre che sono specializzate nel favorire un corretto trattamento finalizzato ad un reale reinserimento". Il documento approvato dall’Aula impegna il Governo "a sostenere interventi educativi nonché programmi di inserimento lavorativo e misure di sostegno all’attività svolta per consentire il pieno espletamento delle nuove funzioni e compiti assegnati al Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità in materia di esecuzione penale esterna e di messa alla prova, procedendo all’assunzione di unità di personale da inquadrare in area III nei profili di funzionario della professionalità giuridico pedagogico, di funzionario della professionalità di servizio sociale nonché di mediatore culturale". Un provvedimento salutato con favore dall’ordine nazionale degli assistenti sociali: "Si tratta - commenta Silvana Mordeglia, presidente del Consiglio nazionale degli assistenti sociali - di una iniziativa che va incontro alla necessità, non più rinviabile, di dotare l’Amministrazione della Giustizia in area penale sia interna sia esterna di figure professionali idonee ad occuparsi dei detenuti e dei soggetti sottoposti a misure alternative alla detenzione con conoscenze e competenze inerenti anche alla conoscenza di fenomeni attinenti al pericolo del terrorismo internazionale e alla gestione di soggetti attivi nel settore o che ne possono subirne le pericolose influenze". A questo punto si attende l’ultimo provvedimento da parte del Governo ovvero lo stanziamento delle risorse per dare il via libera alle nuove assunzioni. Un provvedimento che viste la ultime notizie di cronaca internazionale non dovrebbe tardare ad arrivare. Parma: "finirai sottoterra". Ma il pm archivia "solo una lezione di vita carceraria" di Caterina Pasolini La Repubblica, 9 gennaio 2016 Chiesta l’archiviazione delle accuse. Minacciato di morte dalle guardie. Il pm: è solo una lezione di carcere. "Come ti porto, ti posso far sotterrare. Qui comandiamo noi, ne avvocati ne giudici, comandiamo noi!". Sono frasi agghiaccianti quelle pronunciate dagli agenti del penitenziario di Parma e registrate su un nastro da Rachid Assarag, detenuto quarantenne marocchino che aveva denunciato più volte, inutilmente, episodi di violenza. Ma al sostituto procuratore di Parma Emanuela Podda queste parole, "seppur inquietanti, paiono lezioni di vita carceraria". Detenuto denunciò le botte e le minacce da parte di dieci agenti: "Qui non ci sono giudici o avvocati, comandiamo noi". Ma per la procura non ci furono ne abusi ne negazione di diritti "Finirai sottoterra" Ma il pm archivia "Solo una lezione di vita carceraria". "Come ti porto, ti posso far sotterrare. Qui comandiamo noi, ne avvocati ne giudici, comandiamo noi!". Sono frasi agghiaccianti quelle pronunciate dagli agenti del penitenziario di Parma e registrate su un nastro da Rachid Assarag, detenuto quarantenne marocchino che aveva denunciato più volte, inutilmente, episodi di violenza. Ma al sostituto procuratore di Parma Emanuela Podda queste parole, "seppur inquietanti, paiono lezioni di vita carceraria, più che minacce e affermazioni di supremazia assoluta o negazione dei diritti, visto che la guardia dice di non aver mai usato violenza e Assarag conferma". Il pm, che scrive di accuse smentite dalle indagini, ha così chiesto l’archiviazione del procedimento contro dieci agenti penitenziari, finiti sotto accusa dopo la pubblicazione di quei nastri raccolti dall’associazione "A Buon diritto". Nastri che hanno spinto anche il ministero della Giustizia ad aprire un’indagine. La richiesta di archiviazione gela Fabio Anselmo, avvocato di Rachid Assarag, ieri in aula con il suo cliente per un nuovo processo a Firenze. "E inaccettabile, dov’è finito lo Stato di diritto? In quei nastri gli agenti minacciano, si parla di botte, di sangue, di medici che pur sapendo non denunciano per paura di ritorsioni, di detenuti che si feriscono pur di non farsi picchiare. Sembra proprio che non vogliano farlo più uscire vivo dal carcere. I magistrati avrebbero dovuto fare nuove indagini, intercettazioni ambientali. E invece nulla, ora lui ha paura per la sua incolumità". Parla come un fiume in piena l’avvocato mentre ha accanto Rachid, seduto sulla sedia a rotelle, stremato dopo lo sciopero della fame che gli ha fatto perdere 18 chili, stanco dopo il viaggio dal carcere di Torino, dove ora è rinchiuso. È l’undicesimo penitenziario dalla condanna per violenze sessuali nel 2009. Sei anni di trasferimenti segnati da denunce di minacce e violenze, di agenti che da nord a sud par lano come malavitosi "di botte che ti saranno utili perché tanto qui dentro la costituzione non vale". Di guardie che insistono nel minacciare perché "otteniamo risultati soltanto col bastone, per questo vi picchiamo". E se gli si chiede perché non hanno impedito un pestaggio rispondono ridendo: "Fermarlo? Semmai lo aiutavo. Vengo e tè ne do altre". Storia di un inferno dietro le sbarre cominciato per Rachid nel carcere di Parma nel 2010 dove, racconta, in quattro guardie lo seviziano con una stampella a cui si appoggia per camminare. Denuncia, non viene creduto e per lui comincia il tour dei trasferimenti accompagnati da denunce di violenza che non portano a nulla, mentre inizia a registrare tutto con l’aiuto della moglie italiana. E sono voci dal carcere: di agenti e medici, operatori e magistrati. Di detenuti. Voci rimaste inascoltate. Come le richieste di aiuto. In una intercettazione Assarag chiede ad un medico di Parma che testimoni le violenze nei suoi confronti. Ma la risposta non da speranza. "Non posso perché mi fanno il e... I sanitari hanno l’obbligo di denunciare ma se io faccio una cosa del genere mi complico solo la vita". Paura, timore di ritorsioni, anche da parte di chi dovrebbe curare, accudire. Sarà forse anche per questo che il sostituto procuratore non ha trovato conferme alle accuse di Rachid - mentre segnala ripetuti rapporti disciplinari a suo carico - e motiva la richiesta di archiviazione nei confronti degli agenti col fatto che "delle persone sentite nessuna ha riferito di aver visto segni di percosse o lesioni o di aver assistito ad episodi di violenza nei suoi riguardi". Gli agenti negano e non sono state trovate conferme alle accuse, nessuno ha visto, nessuno ha denunciato. Restano solo quelle registrazioni a raccontare un clima che ben poco ha a che fare con l’idea di penitenziario come luogo di rieducazione. Parma: il Sen. Manconi "la motivazione del sostituto procuratore legittima la violenza" La Repubblica, 9 gennaio 2016 "Non so se il sostituto procuratore lo ha fatto per ingenuità o irresponsabilità, ma parlare di lezioni di vita carceraria davanti a quelle registrazioni è peggio che confermare gli abusi: è la legittimazione ideologica e morale della violenza in carcere". Il senatore Luigi Manconi, presidente di "A Buon diritto", che per prima ha denunciato e fatto pubblicare i nastri registrati, e presidente della Commissione diritti umani di Palazzo Madama, è scandalizzato. Come giudica la richiesta di archiviazione? "È come se si considerasse la violenza nei penitenziari non come patologia e manifestazione estrema e pericolosa, ma come un tratto connaturato alla struttura carceraria. Quando il magistrato parla di lezioni di vita carceraria siamo di fronte a situazioni di palese illegalità, luoghi dove domina l’intimidazione come strumento educativo. Perché in carcere la minaccia, implicita o esplicita, è il dato qualificante il rapporto gerarchico". Procura sotto accusa? "Secondo me si sarebbero dovute fare indagini più approfondite, invece ci si è basati quasi esclusivamente su carte già acquisite e su relazioni di servizio. La procura che doveva perseguire i reati è come se li avesse giustificati, legittimati e infine depenalizzati. Parlare di lezioni di vita carceraria è come dire che esiste una pedagogia della violenza. E questo già rende illegale e anticostituzionale quell’istituto". Le registrazioni del detenuto sono mai state contestate? "No, la cosa strana è che nessuno ha mai messo in discussioni le frase registrate da Rachid". Ci sono medici impauriti nei penitenziari? "Sì, lo dicono le intercettazioni: ci sono medici che rifiutano di confermare le violenze perché hanno paura di ritorsioni. Questo significa che il personale che lavora all’interno del carcere, dagli educatori agli psicologi, può subire il clima interno di intimidazione. Così non è possibile fare il proprio mestiere, rispettare il codice deontologico, Non è possibile lavorare in libertà se si è sottoposti a ricatti". Terni: visita ispettiva al carcere del Sen. Compagna "vero problema sono le cure sanitarie" di Marta Rosati umbria24.it, 9 gennaio 2016 A Sabbione 430 detenuti, parlamentare del Gal con Mazzotta dei Radicali: "Lieve sovraffollamento e carenza di organico. Ho incontrato l’amico Cosentino e sta bene". Visita ispettiva al carcere di Terni, senatore Compagna: "Vero problema cure sanitarie" . Visita ispettiva al carcere di Terni, nell’istituto penitenziario di vocabolo Sabbione venerdì mattina c’erano il senatore di Grandi autonomie e libertà (Gal), l’onorevole Luigi Compagna e Luigi Mazzotta, presidente dell’associazione "Per la grande Napoli" (Radicali Italiani). A margine del "tour", i due hanno tracciato un quadro sostanzialmente positivo pur evidenziando delle criticità soprattutto dal punto di vista sanitario. Compagna "La direttrice ha dovuto aprire il carcere a un tipo di detenuti particolarmente difficile - ha premesso il senatore - ma per la mia esperienza di sindacato ispettivo, insieme agli amici Radicali posso dire che quello di Terni è un buon carcere, molto ben diretto. La problematica più aspra è quella a cavallo tra l’infermeria e i mancati ricoveri ospedalieri, se noi parlamentari abbiamo diritto a una considerazione dovremmo dire che non deriva da cattiva volontà del personale carcerario ma è per effetto della sciagurata riforma della sanità, in particolare il provvedimento del ministro Bindi ai tempi del governo Prodi che ha creato questi ingorghi per cui i malati sono sempre di più, non c’è possibilità di allungare la degenza e quindi c’è il fenomeno del ritorno in ospedale anche dopo piccole operazioni. Nel carcere nonostante la sorveglianza cardiologica esistente le visite specialistiche esterne sono difficili". Malati. "Da questa visita abbiamo potuto constatare che la giustizia è malata come lo sono numerosi detenuti, ci sono 6 malati di Hiv e oltre 60 di Epatite C - ha detto Luigi Mazzotta - e nonostante il lavoro e l’impegno della direzione carceraria e della polizia penitenziaria, noi riteniamo che le carceri andrebbero chiuse". Cosentino "Sono andato a trovare l’amico Nicola Cosentino - ha detto l’onorevole Compagna, l’ho trovato psicologicamente in ottima forma, non mi pare per nulla abbattuto o frustrato dalla volgarità di una decisione che lo priva di un colloquio con la moglie, mi ha molto rinfrancato vederlo così e dice che i suoi processi stanno andando bene ma resta l’marezza e l’indignazione per una custodia cautelare somministrata in dosi da cavallo". Sulle persone ristrette in carcere: "Il numero ottimale per la struttura ternana sarebbe 411 detenuti, ce ne sono attualmente 430 quindi il problema del sovraffollamento è lievissimo ma c’è effettivamente carenza di personale". Catania: i Radicali dopo la vista: "il carcere di Bicocca è sovraffollato e con pochi agenti" Giornale di Sicilia, 9 gennaio 2016 Migliorano condizioni ma manca serio piano riforma strutturale. Sovraffollamento, mediocri condizioni strutturali delle celle - con infiltrazioni di umidità sia nelle celle che nei corridoi - e carenza di agenti di polizia penitenziaria. Sono le criticità emerse dopo una visita compiuta il 5 gennaio scorso nella casa circondariale di Catania Bicocca da parte di una delegazione del Partito radicale nell’ambito della mobilitazione promossa dal Partito Radicale e da Rita Bernardini. Ne facevano parte Luigi Recupero, Patrizia Magnasco, Stefano Burrello, Daniela Basile e Gianmarco Ciccarelli. Il carcere, un penitenziario di alta sicurezza, che ospita quasi esclusivamente detenuti condannati o imputati per reati riconducibili all’associazione di tipo mafioso ospita 192 detenuti. Nel report si parla di una "alta percentuale (65%) dei detenuti impegnati in attività scolastiche, di "buone condizioni" dei locali adibiti ad aule scolastiche. Pochi, invece, i detenuti che lavorano: soltanto 35, tutti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Le sale per i colloqui sono state ristrutturate e oggi si presentano in "buone condizioni". La struttura è a tutt’oggi priva di un funzionante impianto di riscaldamento e i radicali sottolineano che "il problema del riscaldamento è certamente il principale lamentato dai detenuti". "Sebbene vi sia un modesto miglioramento nelle condizioni dovuto alla riduzione del sovraffollamento (che comunque permane) ed alla buona volontà di alcuni direttori, comandanti ed educatori - scrivono ancora i Radicali - nessun serio piano di riforma strutturale è al momento previsto per risolvere alla radice gli annosi problemi che da sempre caratterizzano il sistema penitenziario italiano". Monza: spacciava in carcere, arrestato un agente della Polizia penitenziaria barlettaviva.it, 9 gennaio 2016 Un agente della polizia penitenziaria in servizio al carcere di Monza è stato arrestato stamani in esecuzione di ordinanza di custodia cautelare in carcere per truffa aggravata, falso ideologico, corruzione in concorso e spaccio di droga in concorso con un detenuto, emessa dal Gip del Tribunale di Monza. Secondo le indagini del Nucleo Investigativo dei carabinieri di Milano, in collaborazione con la polizia penitenziaria di Monza, l’agente aveva messo in piedi un giro di spaccio di cocaina all’interno del carcere, che veniva gestito anche da un detenuto. L’uomo è anche accusato di truffa aggravata e falso ideologico, per avere usufruito nel tempo di numerosi permessi per malattia grazie alla compiacenza di un medico, a sua volta denunciato a piede libero per truffa. L’agente, 40 anni, è stato arrestato oggi all’alba a Barletta, in collaborazione con i carabinieri della locale compagnia. Secondo l’accusa, procurava la droga ai detenuti l’agente arrestato al termine di una indagine iniziata nei primi mesi del 2015 dai carabinieri coordinati dal sostituto procuratore della Repubblica di Monza Emanuela Massenz. L’uomo è stato raggiunto dal provvedimento di custodia cautelare mentre si trovava a casa sua in Puglia, dove all’alba di oggi hanno bussato i carabinieri di Barletta (che hanno eseguito la misura in collaborazione con Milano). Le indagini sono iniziate dopo il ritrovamento in carcere da parte di altri agenti della penitenziaria di alcune dosi di hashish e di una scheda telefonica. I carabinieri, chiamati a svolgere le indagini interne alla casa Circondariale con la collaborazione della penitenziaria, hanno ricostruito un articolato giro di spaccio gestito dall’agente e da un detenuto di 32 anni, in carcere per spaccio e furto. A portare la droga dietro le sbarre era l’agente, al quale andava circa il 30% dei ricavi. Lo stupefacente, secondo la ricostruzione dei carabinieri, veniva pagato dagli altri detenuti con la complicità di alcuni familiari che versavano il denaro sul conto corrente del 32enne: a quel punto l’agente riceveva il contante dai genitori del suo complice e acquistava la droga tenendo per sè la sua fetta di denaro. Dopo l’arresto il 40enne è stato accompagnato nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). Lecce: preso Fabio Perrone, ergastolano in fuga da novembre di Chiara Spagnolo La Repubblica, 9 gennaio 2016 Catturato a Trepuzzi, in casa di un incensurato a sua volta arrestato. Era evaso dall’ospedale di Lecce rubando l’arma d’ordinanza di una guardia carceraria e si era impossessato dell’auto di una donna. È stato catturato Fabio Perrone, il 42enne ergastolano in fuga dal 6 novembre 2015, quando evase dall’ospedale Vito Fazzi di Lecce dove era stato accompagnato per un accertamento clinico, sparando colpi di pistola, ferendo tre persone e impossessandosi dell’auto di una donna che si trovava nel parcheggio. È stato trovato dalla Squadra Mobile e dalla polizia penitenziaria nel suo paese, Trepuzzi (Lecce), dove si nascondeva in casa di alcuni conoscenti in via Due Giugno, assistito da un incensurato finito come lui in manette. Si tratta del 32enne Stefano Renna, proprietario dell’abitazione utilizzata come ultimo covo. L’uomo a novembre stava scontando l’ergastolo nel carcere leccese di Borgo San Nicola, per l’omicidio del montenegrino 45enne Fatmir Makovic e il ferimento del figlio sedicenne, avvenuto nel marzo 2014 in un bar di Trepuzzi. Perrone, ritenuto vicino alla Sacra corona unita (e già condannato a 18 anni per associazione mafiosa), mentre era in procinto di sottoporsi all’esame medico nel reparto di Chirurgia endoscopica, disarmò uno dei due agenti penitenziari della sua scorta e poi ferì l’altro ad una gamba con un colpo di pistola. Una volta raggiunto il parcheggio dell’ospedale, si impossessò di una Toyota Yaris di una donna e scappo’. La vettura fu trovata quattro giorni dopo a Trepuzzi. Da allora le forze dell’ordine hanno attivato una vasta caccia all’uomo, continuando a concentrarsi nel Nord Salento, nella certezza che non avesse mai lasciato le sue zone d’origine. L’ergastolano aveva ancora con sé la pistola strappata all’agente di polizia penitenziaria con quindici colpi in canna e un kalashnikov con relativo caricatore nascosto in un borsone. Quando gli investigatori hanno fatto irruzione nella casa ha cercato di fuggire, scappando sul tetto ma è stato bloccato e ammanettato. È stato il comandante degli agenti della polizia penitenziaria, Riccardo Secci, a rivolgersi all’ergastolano ormai braccato: "Triglietta dei fritto", appellandolo con il nome con il quale è conosciuto negli ambienti della criminalità salentina. "La sua cattura - ha detto Secci - è il coronamento di un’attività investigativa che ci ha levato il sonno, che è proseguita ininterrottamente in questi 63 giorni, senza tregua. Siamo veramente molto contenti". L’uomo è stato poi condotto in Questura per il primo interrogatorio. Soddisfazione è stata espressa anche dal dirigente della Squadra Mobile, Sabrina Manzone: "È la fine di un incubo, per noi ma anche per la cittadinanza perché si tratta di un soggetto pericoloso, armato, che ha cercato di fuggire anche stamattina e che per due mesi è stato aiutato da una rete molto fitta di insospettabili fiancheggiatori e anche da alcuni pregiudicati che hanno cercato di depistarci, dandocelo come fuggito in Albania o in Montenegro ma noi non ci abbiamo mai creduto". "Stava diventando un idolo, con apprezzamenti espressi anche su Facebook, e questo ha complicato l’indagine perché ha avuto una rete di protezione locale non solo di pregiudicati ma anche di insospettabili, come Stefano Renna, il gestore del bar Bar8 di Trepuzzi, che lo ospitava", ha aggiunto Manzone. L’uomo, contrariamente a quanto si era saputo in un primo momento, non era a casa di parenti quando è stato preso. "È stata una indagine complessa - ha aggiunto Manzone - coordinata in modo egregio dall’autorità giudiziaria che ci ha visto impegnati per due mesi 24 ore su 24. L’attività d’indagine, supportata da intercettazioni, ci faceva credere che Perrone non avesse mai lasciato Trepuzzi e le zone limitrofe. Si spostava continuamente tra Trepuzzi e Casalabate, cambiando ogni due giorni casa. Nel covo in cui é stato catturato era arrivato appena da un giorno". La Manzone ha quindi elogiato "il grande lavoro di squadra condotto dalla polizia e alla penitenziaria, senza mai risparmiarsi e sotto il coordinamento della magistratura". Le indagini proseguiranno per individuare altre persone che lo hanno aiutato nel lungo periodo di latitanza e per chiarire anche la dinamica dell’evasione, che - stando alle prime ricostruzioni - Perrone avrebbe realizzato da solo, dal momento che l’appuntamento per la visita medica del 6 novembre gli era stato comunicato solo la sera precedente e dunque non avrebbe avuto il tempo di mettere al corrente nessuno del suo piano. Sulmona (Aq): Legnini e Nduccio premiano i detenuti che devolvono ricavato loro quadri report-age.com, 9 gennaio 2016 Sarà il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Legnini, a consegnare gli attestati di merito ai detenuti artisti del carcere di alta sicurezza di Sulmona, con lui a conferire il riconoscimento non mancherà Nduccio, al secolo Germano D’Aurelio musicista, cantautore e cabarettista italiano. Il riconoscimento sarà assegnato domenica. Si premia soprattutto la scelta fatta da alcuni artisti, reclusi nell’istituto detentivo della valle Peligna, di devolvere in beneficenza quanto ricavato dalla vendita dei quadri che hanno realizzato nelle sale hobby, durante il lungo periodo di permanenza nel penitenziario sulmonese. Legnini non sarà solo, ad accompagnarlo saranno il noto cabarettista abruzzese Nduccio e Rita Bernardini, di Radicali italiani. Orfana della carica di deputato e da poco anche del ruolo di segretario di Radicali italiani, conosciuta come avvocato politico e del diritto dei detenuti italiani, la Bernardini ambisce ora a ricoprire l’importante ruolo di Garante dei diritti detenuti d’Abruzzo, dopo essere stata riammessa in qualità di candidata. Per essere eletta dovrà contare sul voto favorevole di almeno 2\3 dei consiglieri regionali. Prospettiva rosea se la premessa è di premiare i detenuti accanto a Legnini, emblema del Partito democratico Legnini. Fano (Pu): migranti e detenuti, il vescovo prega per loro di Tiziana Petrelli Il Resto del Carlino, 9 gennaio 2016 In duomo un momento di preghiera per la pace, con il vescovo Trasarti che in quest’occasione rivolgerà un pensiero speciale non solo ai migranti che quotidianamente scappano dalle guerre e giungono fino a noi in cerca di rifugio, ma anche ai detenuti ed ex del carcere di Fossombrone con i quali ha costruito negli anni un rapporto paterno. "Voi siete la mia cattedrale - aveva detto monsignor Trasarti ai detenuti, in una omelia delle tante messe celebrate in carcere - e non mi sento affatto a disagio qui con voi, parimenti come se mi trovassi nella cattedrale di Fano e la sua solennità". E così, questa volta li porta idealmente tutti lì con sé e con il resto della comunità. Si intitola "Vinci l’indifferenza e conquista la pace" la XXVI edizione della veglia diocesana di preghiera della pace organizzata per questa sera (sabato 9 gennaio) alle 21 nella Cattedrale di Fano dalla Caritas diocesana di Fano Fossombrone Cagli Pergola in collaborazione con il Centro Missionario Diocesano, l’Azione Cattolica Diocesana, le Acli provinciali, l’Ufficio della Pastorale Giovanile, Vocazionale, Sociale, del Lavoro e l’Ufficio Pastorale Migrantes. Appuntamento di preghiera e meditazione guidato dall’annuale messaggio del Papa, in cui ci invita a non essere indifferenti alla sofferenza altrui ma a diventare costruttori di pace. "La pace va conquistata: non è un bene che si ottiene senza sforzi, senza conversione, senza creatività e confronto - ha detto papa Francesco -.L’indifferenza del 21° secolo è spesso legata a diverse forme di individualismo che producono isolamento, ignoranza, egoismo e, dunque, disimpegno" e "l’aumento delle informazioni non significa di per sé aumento di attenzione ai problemi, se non è accompagnato da una apertura delle coscienze in senso solidale". Una sfida collettiva. La veglia sarà presieduta dal vescovo che ha invitato i volontari di Amnesty International, sezione Italia, gruppo di Pesaro a portare la loro testimonianza. Amnesty è infatti un’organizzazione non governativa fondata nel 1961 che lotta per il riconoscimento e rispetto dei diritti umani; in particolare nell’ultimo si è impegnata nella campagna "Prima le persone poi le frontiere" in difesa delle migliaia di persone che fuggono dalle guerre e giungono fino a qui. Le offerte raccolte durante la veglia andranno a favore del progetto diocesano volto al miglioramento di condizioni di vita dei detenuti e il reinserimento sociale di ex detenuti del carcere di Fossombrone. Agrigento: Giubileo, il cardinale apre la Porta Santa del carcere di Petrusa di Domenico Vecchio Giornale di Sicilia, 9 gennaio 2016 Il peso delle sbarre nelle mani del cardinale Montenegro. Il vescovo ha spinto il cancello avvolto da una ghirlanda di fiori che simboleggia la porta santa nel carcere di Petrusa. All’interno ad attenderlo i detenuti. Lentamente il cancello si è aperto mentre loro trattenevano il respiro. In sottofondo il cigolare delle sbarre. Gesto simbolico molto intenso. Necessario, soprattutto dal punto di vista religioso, perché offre ai detenuti la possibilità di chiedere l’indulgenza. Una volta si chiamavano "Porte sante", oggi sono le porte della "misericordia" ed a Petrusa di misericordia ne occorre tanta e non solo per i detenuti. Per loro la benedizione e il saluto di Papa Francesco. Poi la celebrazione eucaristica in occasione del Giubileo della Misericordia, alla presenza non solo dei detenuti, di autorità, dei capi dipartimento, gli agenti, gli insegnanti, gli educatori e i volontari. La celebrazione è stata animata dal coro Magnificat diretto da Lilia Cavaleri. Montenegro parla ai detenuti. Parla di Dio, di misericordia di perdono, ma senza mai fare polemica. Non alza mai i toni, non entra mai nel merito della questione carceraria. Tema ancora caldo, sollevato nei mesi scorsi anche da Papa Francesco. Nel contesto di un sistema che non recupera le persone, come più volte sottolineato soprattutto dal Pontefice, il Cardinale si limita a trattare i temi dell’anima. Offre ai detenuti nuovi spunti di riflessione. La miscela dello scontro di civiltà di Alberto Burgio Il Manifesto, 9 gennaio 2016 Colonia. Nei fatti accaduti a capodanno colpisce la dimensione del fenomeno. Ma l’obiettivo politico ora è l’accoglienza di Angela Merkel. La notte di Colonia comincia a schiarirsi, le denunce si moltiplicano e così gli arresti, mentre monta una polemica al calor bianco che scuote il governo federale (con le dimissioni del capo della polizia) e riecheggia in tutta Europa, dove alcuni paesi dell’Unione annunciano misure per fermare l’"invasione musulmana" e altri rivedono in senso restrittivo le clausole di Schengen. Eppure di quella notte non sappiamo abbastanza per un’interpretazione univoca dei fatti e tanto meno per sposare letture precipitose o pregiudiziali. Le ultime notizie parlano di 31 arresti, tra cui 18 profughi (oltre a due tedeschi e a un cittadino statunitense). Le ipotesi di reato riguardano furti e lesioni personali, ma anche tre casi di violenza sessuale. La presenza di rifugiati tra le persone fermate collega oggettivamente l’episodio alla politica di accoglienza della cancelliera Merkel la quale, dopo l’iniziale riserbo, si è sentita in dovere di affermare la necessità di "un segnale forte" e di chiarire che, per salvaguardare il diritto d’asilo, non dovrà esservi indulgenza ("niente sconti né attenuanti") per i colpevoli delle aggressioni. Il dato più macroscopico consiste nelle dimensioni dell’episodio. Violenze anche sessuali sono triste routine in occasione di appuntamenti festosi di massa. A Monaco, per l’Oktoberfest, e nella stessa Colonia, per il famoso carnevale. E del resto Colonia non è stata l’unico teatro di violenze nella notte di san Silvestro, né in Germania (episodi analoghi si sono registrati ad Amburgo, Stoccarda e Francoforte) né altrove (Zurigo, Helsinki e Salisburgo). La peculiarità del caso di Colonia sta nel fatto che il grande branco era composto da un migliaio di persone, un assembramento tale da avere addirittura sopraffatto le forze di polizia presenti. Con tutto ciò, il quadro rimane ancora alquanto oscuro, anche a causa della lentezza delle indagini e delle contraddittorie versioni fornite. Non si sa in quanti abbiano effettivamente preso parte alle violenze. Sembra che la polizia tenesse d’occhio alcune bande dedite alla microcriminalità, che sono state tuttavia lasciate libere di scorrazzare. Ed è difficile anche intendere la logica del branco, capire che cosa cercasse - se di sfogare pulsioni maciste in preda all’alcol o di rubare, o che cos’altro ancora - visto che alcuni erano armati di bottiglie molotov. Quello che non è affatto oscuro è invece il contesto politico generale in cui l’episodio si colloca: un contesto molto significativo che va tenuto presente per evitare conclusioni affrettate. Da mesi in Germania (e non solo) le politiche di accoglienza decise da Angela Merkel sono oggetto di polemiche furibonde. La cancelliera è di continuo attaccata non soltanto dall’estrema destra xenofoba ma anche da cristiano-sociali e democristiani (la sua parte politica) che danno voce alle preoccupazioni di chi teme che una politica di accoglienza troppo generosa possa compromettere l’identità del paese. La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state proprio quelle scene che hanno commosso il mondo quando, quest’estate, i profughi siriani in arrivo nelle stazioni ferroviarie tedesche sono stati salutati dagli applausi e dai canti dei cittadini accorsi ad accoglierli. Una cosa mai vista, si è detto. E inaspettata. Ma anche una sorpresa allarmante per chi ha sempre fatto affidamento sulla spontanea ostilità della gente verso i migranti. Che cosa stava succedendo? Stavano forse saltando anche i presidi naturali alle frontiere della nazione? E non si rischiava davvero un’invasione per colpa della sconsiderata svolta decisa dalla cancelliera? Ora, se c’è una cosa di cui possiamo star certi è che lo shock provocato dai fatti di Colonia è piombato su questa delicata discussione con la violenza di un macigno. La Merkel ha chiesto di non strumentalizzare l’accaduto ma è inevitabile che chi sostiene le ragioni dell’accoglienza e della solidarietà sia ora in grande difficoltà, mentre i critici - quanti invocano giri di vite, espulsioni e chiusura delle frontiere - hanno buon gioco. Di meglio essi non potevano chiedere. E certo non sono dispiaciuti per il mistero che ancora avvolge tutta la vicenda e che fa lievitare ansie e risentimenti. Di qui a dire che le aggressioni siano state organizzate dalla destra xenofoba tedesca ce ne corre, ma le prime reazioni, peraltro prevedibili, non confutano le congetture più sospettose. Anzi. Un articolo come quello scritto da Pierluigi Battista sul Corriere della sera di giovedì 7 non fa che rafforzarle con l’accostare la notte di Colonia alla strage parigina nella redazione di Charlie Hebdo. È lo schema Fallaci, o Huntington. Il sempreverde modello dello "scontro tra civiltà". Battista è andato subito a colpo sicuro, scrivendo di un attacco deliberato alle libertà occidentali, al nostro stile di vita, alla nostra cultura. Lui non ha dubbi: le bande di Colonia "volevano punire" la libertà delle donne; "hanno voluto manifestare" il loro odio verso lo spirito di libertà dell’Occidente cristiano. Di fronte a tanta sicurezza, una certezza possiamo dire di averla anche noi, in attesa che le indagini in corso facciano piena luce. Mentre i conflitti tendono a radicalizzarsi - in Europa sotto il peso di una gravissima crisi sociale; in Medio Oriente e in Asia centrale per effetto di dinamiche geopolitiche che hanno innescato guerre (scatenate proprio dall’Occidente cristiano), colpi di Stato, balcanizzazione dei territori e un’inedita escalation terroristica - c’è chi non rinuncia a soffiare sul fuoco augurandosi che l’incendio dilaghi e ripromettendosi di trarne profitto. Dopo Colonia le destre europee brindano, siano o meno estranee all’organizzazione degli attacchi. E con loro si compiacciono i teorici dello scontro di civiltà, che pure affettano collera e preoccupazione. Tutti evidentemente hanno dimenticato quanto sia pericoloso giocare con la paura dei più deboli. E come, una volta appiccato l’incendio, domare le fiamme sia molto difficile per chiunque. Il rischio da correre in Libia di Franco Venturini Corriere della Sera, 9 gennaio 2016 Ora l’Italia nel paese nordafricano è decisiva per i nuovi equilibri. L’orologio libico si è messo a correre e l’Italia deve stare attenta a non perdere il treno. Mentre in Tunisia si tenta di far nascere il nuovo governo di unità nazionale, in Libia l’Isis compie sanguinosi attentati, attacca i terminali petroliferi, allarga a 400 chilometri il tratto di costa che controlla, riceve cospicui rinforzi mobilitati dai siti che il Califfato manovra. Per ora nessuno sembra opporsi alle scorribande dei tagliagole, e c’è già chi ipotizza una prossima offensiva verso Sud per congiungersi con i jihadisti del Mali del Nord come è accaduto tra Siria e Iraq. Per ora possiamo soltanto prendere nota e augurarci di non aspettare troppo, o troppo passivamente, prima di difendere un nostro essenziale interesse strategico. La conferenza di Roma in dicembre e la firma in Marocco di un accordo per il governo unitario libico sono stati altrettanti successi della diplomazia italiana. Non solo. Ha ragione il ministro Gentiloni quando dice che la Libia non è una palestra per "esercizi muscolari", e ha ragione il premier Renzi quando ricorda i pessimi risultati dell’intervento del 2011 rimasto senza seguiti costruttivi. Anche noi abbiamo ripetutamente avvertito che una missione militare di peace enforcing nel caos libico comporterebbe un grande impegno e grandissimi rischi. Ma essere consapevoli non significa chiudere gli occhi, o ingaggiare duelli retorici tra supposti pacifisti e ipotetici guerrafondai. I fatti sono chiari. L’Isis si sta rafforzando sull’uscio di casa nostra e sta moltiplicando le sue azioni offensive. Parallelamente a Tunisi risulta probabile uno slittamento oltre il 16 gennaio della ratifica del nuovo governo unitario già scosso da feroci liti per le poltrone. Passi per il rinvio. Ma se al momento venuto non si riuscisse a insediare il neonato governo unitario in una Tripoli dominata dalle bande jihadiste, se il caos continuasse a tenere banco e nessuna alleanza di forze libiche (questo è lo schema immaginato) avesse i mezzi e la determinazione necessarie per affrontare e battere gli uomini del Califfo, cosa farebbe l’Italia? Avanzare ipotesi negative non è un eccesso di pessimismo, vengono suggerite dall’esperienza. E comunque l’offensiva dell’Isis modifica radicalmente i dati dell’equazione, ne accelera i tempi, inserisce a pieno titolo la Libia nella cornice globale dello scontro con le milizie di al Baghdadi, rende necessaria la creazione di un deterrente credibile che possa almeno provare a frenare l’Isis mentre la diplomazia continua a lavorare come può. L’Italia, non è un mistero, teme che le mosse del Califfato inducano "qualcuno" (leggasi Francia, Gran Bretagna, e forse Stati Uniti) a non aspettare i tempi infiniti dei patteggiamenti libici e a fermare subito l’Isis con bombardamenti mirati. Si badi bene, mirati contro gli stranieri dell’Isis, non contro questa o quella fazione libica. Certo, potrebbe verificarsi una reazione nazionalista e antioccidentale di massa. E mancherebbe la richiesta di intervento emessa da un nuovo governo unitario, sebbene talvolta l’urgenza prevalga sulle risoluzioni dell’Onu e la copertura generica del precedente documento del Consiglio di sicurezza possa comunque essere invocata. È una prospettiva, questa, che l’Italia deve sin d’ora respingere e condannare, invocando magari il ruolo svolto da rivalità economiche o energetiche con gli alleati? Non lo crediamo. Mentre continua ad aiutare più di chiunque altro la trattativa per la nascita di un governo unitario, mentre conferma la disponibilità ad una futura missione di sostegno anche militare che vada dall’addestramento alla logistica e ad altre azioni richieste, l’Italia ha ogni interesse a mantenere funzionante il coordinamento con Parigi, Londra e Washington. Ne va del "ruolo guida" che meritatamente le viene riconosciuto, ma che non potrà farla rimanere semplice spettatrice se l’Isis poggerà ancora il piede sull’acceleratore e punterà a nuove imprese. Ne va della possibilità di recuperare, dopo aver battuto l’Isis, un progetto libico che deve prendere in conto anche la limitazione e il controllo del flusso dei migranti verso le nostre coste. Ne va, in definitiva, del successo o dell’insuccesso della politica estera italiana. Rwanda: il Tpi chiude, dal 1994 ha emesso 61 condanne e 14 assoluzioni per il genocidio di Davide Maggiore agensir.it, 9 gennaio 2016 Ventuno anni per fare la storia, iniziando quasi dal nulla. Si potrebbe sintetizzare così la vicenda del Tribunale penale internazionale per il Rwanda (Tpir), che il 31 dicembre scorso ha terminato il suo mandato, dopo 61 condanne e 14 assoluzioni per il genocidio del 1994. Risultati arrivati grazie a 5.800 giorni di udienze tenute spesso in condizioni proibitive: basti pensare che per quasi tre anni, la corte con sede ad Arusha in Tanzania non ha avuto a disposizione un’aula per le udienze. Il primo capo d’imputazione fu addirittura approvato in una stanza d’albergo mentre in città erano frequenti i blackout e mancava spesso l’acqua corrente. Tentativi di riconciliazione. Sono stati oltre 3.000 i testimoni che hanno ripercorso i "cento giorni di sangue", durante i quali circa 800mila tra componenti della minoranza etnica tutsi e membri moderati della maggioranza hutu furono massacrati da miliziani hutu spalleggiati dalle autorità del tempo. Anche la Chiesa locale ha subito il peso delle divisioni e quando con la fine delle ostilità si è cercata una riconciliazione, i fedeli di quello che era considerato uno dei Paesi più cristiani del continente (65% di cattolici e 15% di protestanti) sono stati invitati a fare la loro parte. "Quello per la pacificazione è stato un lavoro enorme - ricorda l’abbé Vincent Gasana, segretario della commissione Giustizia e Pace della Chiesa ruandese - e la Chiesa vi ha contribuito: in varie lettere pastorali i vescovi hanno invitato la popolazione a partecipare attivamente all’esperienza dei gaçaça". Queste corti popolari, ispirate alla giustizia tradizionale, furono istituite dal governo per affiancare i tribunali ufficiali e cercare, quando possibile, di iniziare anche percorsi di riconciliazione. I casi di più alto profilo erano invece affrontati dalla giustizia ordinaria e dal Tpir, che nel 1998 emise la prima sentenza, contro Jean Paul Akayesu, già sindaco della località di Taba. Pochi mesi prima si era invece dichiarato colpevole di genocidio l’ex primo ministro Jean Kambanda, che sarebbe diventato il primo ex capo di governo condannato dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. "Il tribunale per il Rwanda, come quello per la ex Yugoslavia - nota a questo proposito Alice Riccardi, docente di diritto penale internazionale dell’università Lumsa - ha segnato la nascita del diritto penale internazionale moderno dopo i processi di Norimberga e Tokyo" di fine anni Quaranta. Eredità complessa. Effetti ugualmente importanti il Tpir li ha avuti a livello continentale: "Ha creato linee guida per le altre corti che si sono occupate di crimini commessi in Africa, in particolare in materia di cooperazione con gli Stati per gli arresti, di raccolta delle prove, di interpreti da mettere a disposizione", aggiunge Riccardi. "Soprattutto - prosegue la professoressa - ha insegnato che più vicina è la sede della corte al luogo in cui i crimini sono stati commessi, maggiori sono gli effetti positivi sulla riconciliazione nazionale che questi procedimenti dovrebbero aiutare, perché si possono raggiungere direttamente le vittime dei crimini". Sull’operato dell’istituzione, però, pesano anche le critiche di chi sottolinea come 21 anni, pur in presenza di un compito quasi senza precedenti, siano troppi per ottenere giustizia. Un’ambiguità che ricalca quella del Rwanda di oggi: il governo del tutsi Paul Kagame (di fatto al potere già da dopo il genocidio) rivendica infatti il merito della pacificazione, ma è stato accusato di aver applicato in maniera strumentale le leggi varate per contrastare "l’ideologia genocidaria". A sfuggire al giudizio, in particolare, sarebbero stati proprio gli uomini dell’attuale presidente, che nel 1994 guidava una ribellione armata antigovernativa. Non è però alle divisioni politiche che guarda l’abbé Gasana, quando parla della necessità di "promuovere ancora un’armonia sociale" nel Paese. "La nostra società - spiega infatti - è composta di sopravvissuti, delle famiglie dei condannati, di detenuti scarcerati dopo aver scontato la pena o dopo aver confessato, di testimoni delle stragi, di chi è stato toccato da vicino dalle conseguenze del genocidio. C’è ancora bisogno di far incontrare questi gruppi, di aiutarli con la preghiera ma anche di fare formazione sui diritti umani e la pace", conclude il sacerdote. Arabia Saudita: due minorenni e un malato di mente tra i giustiziati da Riyadh Il Manifesto, 9 gennaio 2016 Oltre al religioso al-Nimr, i boia sauditi hanno ucciso un giovane del Ciad, 13enne all’epoca dell’arresto, e un saudita che aveva 17 anni per essersi uniti ad al Qaeda. Tra i 47 giustiziati dai boia sauditi anche due minorenni all’epoca dell’arresto e un malato di mente. Lo rivela Middle East Eye, citando fonti interne. Mustafa Abkar aveva 13 anni quando fu arrestato nel 2003: era arrivato dal Ciad per unirsi ad al Qaeda. La sua storia comparve sulla tv Al Arabiya: funzionari sauditi ne prospettarono il rilascio, vista la giovanissima età. Poi più nulla e il primo gennaio l’esecuzione. Era minorenne, quando fu arrestato nel 2004, anche il saudita Mishaal al-Farraj: 17 anni, era entrato in al Qaeda dopo l’uccisione del padre. Per lui nessun processo. Abdulaziz al-Toailìe, ex leader qaedista catturato nel 2005, invece, dopo anni di torture fisiche e psicologiche ha riportato seri danni mentali. A suo favore una lettera inviata all’Onu chiedeva di fare pressioni su Riyadh per rilasciarlo a causa della grave malattia mentale. Nessuna risposta. Congo: evasione di massa dalla prigione di Kamituga, 50 detenuti in fuga Nova, 9 gennaio 2016 Almeno 50 detenuti, tra cui uomini condannati per omicidi e violenze sessuali, sarebbero riusciti nelle scorse ore a evadere dalla prigione di Kamituga, nell’est della Repubblica democratica del Congo. Lo riporta l’emittente britannica "Bbc" citando fonti locali. I fuggiaschi sarebbero riusciti ad approfittare di un incendio all’interno del carcere, situato nella provincia del Sud Kivu, per far perdere le proprie tracce: finora, nessuno di essi è stato ricatturato dalla forze di polizia. Non è la prima evasione di massa verificatasi negli ultimi anni nel paese, le cui prigioni sono spesso sovraffollate e fatiscenti. Messico: preso il super-boss dei narcos El Chapo Guzman Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2016 "Missione compiuta. Lo abbiamo preso". Così il presidente messicano Enrique Pena Nieto ha annunciato su Twitter l’arresto Joaquín Guzmán Loera, detto El Chapo, capo del cartello del narcotraffico di Sinaloa. Il boss è stato catturato da uomini della Marina militare messicana a Los Mochis, una cittadina sotto il controllo della sua organizzazione criminale. Il potente narco-boss era ricercato dallo scorso luglio, quando era riuscito a evadere usando condotti e scale di un carcere di massima sicurezza messicano, e infine un tunnel scavato da complici che lo ha portato lontano dal penitenziario. Una fuga in pieno "stile Alcatraz". L’evasione - la sua seconda dopo quella del 2001 - era avvenuta tra l’incredulità di milioni di messicani e mettendo in imbarazzo la sicurezza del paese. "Un affronto allo Stato messicano", l’aveva definita il presidente, che oggi si è preso la sua rivincita. Il Chapo (tarchiato), 58 anni, è stato considerato dalla rivista Forbes tra gli uomini più ricchi del mondo, ed è noto per la sua spietata violenza. Per anni è stato alla guida del temibile cartello narco di Sinaloa. Nel febbraio del 2014, l’arresto del Chapo nella città costiera di Mazatlan era stato accolto come un grande successo della polizia non solo nel paese, ma anche negli Stati Uniti. Quel giorno Guzman era caduto in trappola, ponendo così fine ad una caccia all’uomo lunga tredici anni, da quando nel 2001 il boss era riuscito a scappare da un carcere di massima sicurezza di Jalisco nascosto in un carrello di panni sporchi della lavanderia. Lo scorso ottobre era stato ferito ad una gamba e al volto durante un’operazione di polizia per catturarlo in una zona montuosa nel nord-ovest del Messico. Il signore della droga era fuggito da un altro carcere di massima sicurezza nel 2001, nascondendosi per anni nelle aspre montagne dello Stato di Sinaloa. Malawi: una band di detenuti del selezionata per i Grammy Awards Askanews, 9 gennaio 2016 Si chiamano "Zomba Prison Project": una band fuori dal comune composta da detenuti della prigione di Zomba, nel sud del Malawi, è stata selezionata per i prestigiosi Grammy Awards. Il loro disco "I Have No Everything Here" è in lizza per la categoria "best world music album" negli Oscar della musica statunitense.Parla Chikondi Salnje, membro del gruppo Zomba Prison Project: "È qui che ho scoperto il mio potenziale. Ancora oggi mi dico che se fossi fuori, continuerei a fare quello che facevo, mi sarei fatto uccidere o sarei in una situazione terribile. Sono orgoglioso di fare parte di qualcosa che rende il Malawi visibile all’estero e dimostrare al mondo che i carcerati possono essere uno strumento per cambiare le vite degli altri". L’album è stato registrato in condizioni difficili: la prigione è strutturata per accogliere 300 detenuti, ma in realtà ne ospita 4.000.Il talento musicale del gruppo è stato scoperto da un produttore americano nel 2013, quando hanno passato due settimane a ripetere le loro composizioni. Il risultato sono sei ore di registrazioni eseguite in uno studio di fortuna. La loro nomina ai Grammy due anni dopo ha sorpreso tutti. L’ideatore del gruppo e direttore della prigione, Little Dinizulu Mtengano racconta: "Quando ho ricevuto la buona notizia, ho chiesto "cos’è un Grammy?". Poi dopo pranzo l’ho annunciato al gruppo e loro sono rimasti esterrefatti "Noi, ai Grammy? Qualcuno sapeva cos’erano. Sono molto felice e questa cosa ha incoraggiato altri detenuti".