Fine 2015, inizio 2016: speranze e sogni che aiuteranno a sopravvivere per un altro anno di Lorenzo Sciacca Ristretti Orizzonti, 8 gennaio 2016 Diario di un detenuto, parte seconda. 29 dicembre, ore 19.32 - La giornata è terminata e l’appuntato di sezione sta chiudendo i cancelli delle celle. Stasera sento che sarà una serata malinconica, oggi mi ero creato una aspettativa, ma per l’ennesima volta assaporo il gusto della delusione. So cosa mi attenderà, il buio di questa notte gelida, mi farò del male psicologicamente ricordando dei bei momenti, anche momenti belli vissuti qua dentro con le persone che oggi sono le uniche che sento vicino. Caro Lorenzo, oggi questa è la tua condizione, devi fartene una ragione perché nessuno potrà cambiarla, tu puoi e devi cambiare, ma la tua posizione assolutamente no, questa hai e questa devi imparare a subire, ma prova a imparare a farlo senza soffrire. Mercoledì 30 - Questa giornata la voglio cominciare riportandovi alcune righe dell’ultima circolare del Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria). "Tra le misure che possono offrire una qualche forma di sostegno, si ricorda che sono visti con favore gli incontri dei detenuti con i propri animali domestici: difatti, fermo restando che sarà cura di un’apposita circolare disciplinare le modalità di tali visite, è pacifico che la continuità della relazione con i propri pets può avere effetti positivi sulla qualità di vita dei detenuti, contribuendo ad attenuare la costrizione della sfera affettiva indotta dalla privazione della libertà e a mitigare ansia e stress". Mi scuso in anticipo, ma sorrido di fronte a queste frasi. Prima di tutto premetto che non ho assolutamente nulla contro gli animali, anzi seguo con molto interesse le cause della parlamentare Brambilla e sono anche ampiamente d’accordo su questa sua iniziativa pe salvaguardare i conigli, ma perdonatemi se non riesco a comprendere tanto il senso di questa sollecitazione collegandola alla sfera affettiva. Voglio ricordare che in alcune carceri non permettono i colloqui con le "2terze persone", e adesso diamo priorità agli animali? Non voglio aprire una polemica anche perché il resto della circolare ha dei buoni contenuti a mio parere, ma vorrei che si provasse a riflettere sulle vere priorità dei detenuti. Credo che la priorità per un recluso sia proprio quella di mantenere vivi dei rapporti affettivi, magari anche con il proprio animale domestico, ma considerare il rapporto con l’animale domestico una priorità rischia di essere un grosso sfregio per quelle persone che sono ristrette in carceri dove i colloqui con le terze persone non vengono concessi o, se ci sono, sono molto limitati. E le terze persone sono spesso essenziali per chi non ha più famiglia: sono gli amici, i parenti meno stretti, le nuove relazioni che uno può costruirsi magari studiando, andando a scuola. Ore 20.30 - Oggi è stato l’ultimo giorno dell’anno che ho passato nella redazione. Le sue porte si riapriranno nel 2016, precisamente il 5. Mi ricordo molto bene il mio primo ingresso nella redazione, cavolo se me lo ricordo e vi posso garantire che è uno dei bei ricordi che mi porterò sempre nel cuore, il paradosso è che mi dovrò portare sempre nel cuore anche il carcere perché ovviamente qui ho conosciuto la redazione. È grazie a questo posto che oggi sono dietro a un pc per rendervi partecipi delle mie emozioni e delle mie riflessioni, ovviamente non mi aspetto che a tutti possano interessare, ma in questo voglio essere uno spietato egoista e pensare quello che oggi fa bene a me e su cui nessuno è in grado di imporsi. Il bello della scrittura è proprio questo, sentirsi liberi di esprimersi, e questa libertà nessuno te la può toccare, può essere soggetta a critiche, a volte anche a censure, ma la cosa che rende magica la scrittura è proprio la libertà di pensiero che una persona può esprimere dietro a un foglio. Questo è stato l’aspetto che mi ha fatto innamorare della scrittura e lo devo alla redazione di Ristretti Orizzonti e a tutte le persone che mi hanno invogliato e continuano a spingermi verso il grande potere che ha questo strumento. Ho iniziato con la redazione frequentando il corso di scrittura condotto dal Professore Angelo Ferrarini e la dottoressa Donatella Erlati, due persone magnifiche. Il primo racconto che scrissi, capii subito che qualcosa mi attraeva verso questo strumento e più tempo passava e più dentro di me sentivo nascere qualcosa che non riuscivo a identificare, la passione. Il mondo che ruota attorno alle parole è stupefacente, infinito, tutte quelle sfumature, significati, interpretazioni che può assumere una parola… è veramente un mondo fantastico che nonci si stanca mai di scoprire. Ma tutto questo suo maestoso potere si può tramutare anche in male… la parola può anche uccidere una persona. Oggi ho anche ricevuto un telegramma da Carmelo Musumeci dalla libertà, è in permesso, mi ha fatto gli auguri di buon anno… grazie Carmelo per il tuo pensiero, meglio di te non lo sa nessuno quanto può avere valore leggere poche parole ma con il cuore in questi giorni di feste, grazie oggi mi sono sentito meno solo. Tanti auguri anche a te e a tutte le persone che ti amano. Giovedì 31 - L’ultimo giorno dell’anno è cominciato… gli umori in sezione non sono tanto differenti dagli altri 364 giorni appena passati, oggi molte persone si fermano a chiacchierare su cosa dovranno aspettarsi dal 2016. Nella sezione aleggiano le speranze e i sogni che aiuteranno a sopravvivere per un altro anno. Ho provato a chiedere cosa si aspettassero per questo nuovo anno, la maggior parte dei miei compagni mi ha risposto rivolgendo il pensiero alla propria famiglia, poi c’è chi la famiglia non l’ha più e allora sogna qualche atto di clemenza da parte del governo per riabbracciare la libertà o vedersi accorciare quel numero sul proprio certificato di fine pena, io neanche in questo spero. Altri mi hanno detto che sperano di passare il prossimo Natale anche fuori per poche ore con un permesso, io neanche in questo posso sperare. Un signore, alla mia domanda di cosa sperasse per il prossimo anno, mi ha risposto sorridendo "spero che il cancro non mi uccida". Anche queste sono le realtà che regnano in questi posti, le malattie che colpiscono le persone nella società possono colpire anche noi, ma la differenza è di come veniamo curati. Qualche anno fa qui è morto un detenuto perché credevano che stesse simulando, ma dopo pochi giorni che è uscito è venuto a mancare, questo non vi crea uno sconcerto? La vita qui dentro può avere meno valore della vostra fuori? Purtroppo sì, qui la vita non ha lo stesso valore che si ha al di là di queste barricate, a volte è proprio il detenuto stesso che non dà valore alla propria vita e a quelle degli altri, basta guardare il numero di suicidi che abbiamo nei nostri istituti penitenziari. Ecco… questa giornata la dedico a tutti i miei compagni che hanno voluto riabbracciare la libertà appendendosi a una corda o ad abbracciare quella sensazione di un lento spegnimento che solo delle lamette possono donarti. Conosco quella sensazione di assoluta nullità, il non sentirsi più utili a niente e a nessuno, non trovare più un motivo più che valido per continuare a dare un senso alla propria vita. Uno ha sempre dei motivi per andare avanti, ma a volte non si ha più la capacità e la lucidità per vederli e dargli l’importanza che meritano, arrivi al punto che non ti ami più e allora l’unica soluzione rimane quel gesto estremo che ti porta a cercare quella serenità del sonno eterno. Ma non è così miei cari compagni. C’è sempre un pensiero dentro di noi che ci può aiutare a riprendere in mano la ragione, per ritrovare quella lucidità necessaria per buttare nel cesso le lamette o tagliare una corda. La forza bisogna trovarla proprio in quella consapevolezza che ci fa rendere conto che nella vita abbiamo commesso degli errori recando del male alle persone che amavamo e che amiamo, certo può sembrare un paradosso, ma la forza sta proprio lì, abbracciare la verità di quello che si è fatto e rialzarsi con uno spirito da guerriero, poi piano piano, lo scorrere della vita farà il resto, ti metterà davanti tante belle cose, cose a cui prima non davi importanza e non vedevi. Non posso sperare che nel 2016 non ci saranno suicidi nelle carceri, non lo posso sperare perché fino a quando nei carcere non ci sarà un supporto costante da parte di psicologi e psichiatri e le persone non saranno tutte impegnate in un percorso di cambiamento, leggeremo ancora di uomini ritrovati appesi alle sbarre privi di vita. In questo momento sto sentendo il Tg5 che sta ricordando tutte le persone famose scomparse, io come ultimo pensiero di questo 2015 voglio ricordare tutti i miei compagni che sono mancati, anche tu Filippo. Non ti conoscevo ma ho visto molte persone a cui voglio bene soffrire molto questa tua mancanza, addio Filippo. 1° gennaio 2016 ore 24.05 - Abbiamo appena finito di farci gli auguri gridando da una cella all’altra dietro questi cancelli arrugginiti. Auguri a tutti… questo è stato il Natale e capodanno di un detenuto comune, l’unica cosa in cui mi ritengo di essere fortunato è che ho avuto una possibilità di provare a fare altro, ho una buona possibilità per dare una vera svolta alla mia vita. Quest’anno farò 40 anni ed è inutile nascondere che in fondo in fondo, ma proprio in fondo, ho anch’io una speranza, quella che mi venga concessa la possibilità di ricostruirmi una famiglia, di fare in tempo a riprovare quelle emozioni con il Lorenzo di oggi, sarebbe tutto così… nuovo! Questa è la mia speranza, ma i miei trent’anni di condanna pesano e già sto subendo la condanna morale sia per il male fatto alla mia famiglia e sia per le mie vittime, questa condanna nessun essere umano può scontarla, può imparare a conviverci trovando un equilibrio, ma avrai sempre a vita il ricordo… alla fine, se non ricordassi questo, non sarei qui a dirvelo. In questo momento dalla mia finestra posso vedere i fuochi d’artificio, sono belli, colorati, ma c’è sempre il colore delle sbarre che ho davanti che stona. Vabbè alla fine è un giorno come tanti! Buon anno e buona vita a tutti. Dall’utero "in affitto" all’omicidio stradale, dilaga l’ossessione giustizialista di Mattia Feltri La Stampa, 8 gennaio 2016 Destra e sinistra chiedono nuovi reati e pene più severe per ogni emergenza. Il Parlamento ha recentemente approvato la legge sull’omicidio stradale, ma fioccano le proposte per istituire nuovi reati sulle materia più diverse. Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, in un’intervista all’Avvenire ha dato il suo contributo al dibattito sullo stepchild, cioè l’adozione del figliastro: "Rischia di portare il paese verso l’utero in affitto, verso il mercimonio più ripugnante che l’uomo abbia saputo inventare. Vogliamo che l’utero in affitto diventi un reato universale, e che venga punito con il carcere". L’ultimo reato inserito nei codici è l’omicidio stradale, i cui contorni sono stati approvati con raro spirito unanimistico (alla Camera 276 sì e 20 no), e grazie al voto favorevole dei cinque stelle nonostante fossero perplessi per la "mitezza delle pene": diciotto anni la massima. Ci arricchiamo di legislatura in legislatura di nuove fattispecie, come si dice nei manuali: femminicidio, stalking, corruzione per induzione, associazione contro l’ambiente; è la risposta irrefrenabile del Parlamento all’emergenza e alle sensibilità di turno. Se l’estro legislativo è appannato, allora si invoca l’inasprimento delle pene. Antonio Gentile, di Ncd come Alfano, ha chiesto l’inasprimento delle pene per i pusher che vendono cannabis ai ragazzi, e in associazione col collega di partito Nico D’Ascola lo ha chiesto sul caporalato, appena prima che la coppia proponesse "l’inasprimento delle pene" per "il furto realizzato mediante l’ingresso nell’appartamento". E qui si è aperta una sintonia con la detestata Lega che ha suggerito "galera a vita e via la chiave". La sete di giustizia è implacabile, oltre che curiosa: siccome non c’è gruppo parlamentare (tranne qui e là Forza Italia) che non condivida la necessità di "inasprire le pene sulla corruzione", necessità periodica e infinita, i più arrabbiati fra gli arrabbiati, cioè i cinque stelle, per bocca di Luigi Di Maio hanno fatto un passo ulteriore: "Non crediamo nella presunzione d’innocenza in politica". La presunzione d’innocenza in effetti è ormai una categoria del lusso, e andrebbe negata, secondo il sindaco di Verona, Flavio Tosi, "agli immigrati sospettati di terrorismo: convalidare l’arresto, non possiamo più concedere il beneficio del dubbio". In fondo siamo in un Paese che si scandalizza a ogni scarcerazione di detenuto in attesa di giudizio. E siccome ognuno ha i propri gusti, il presidente leghista della Lombardia, Bobo Maroni, si è augurato che i devastatori di Milano (il giorno d’apertura dell’Expo) "finiscano in galera e non ottengano alcun beneficio", nemmeno dei benefici di cui eventualmente avessero diritto. "Pena esemplare", ha detto poche settimane dopo Giorgia Meloni sorvolando sul concetto più tecnico di "pena giusta", e parlava di un presunto stupratore da "sbattere in galera e buttare la chiave". Dunque, "inasprire le pene". Probabilmente l’elettore apprezzerà la determinazione, lo slancio legalitario, "non guarderemo in faccia a nessuno". Inasprire le pene per le violenze sulle donne, ha detto Forza Italia. Inasprire le pene per i reati contro il patrimonio, ha detto il ministro della Cultura, Dario Franceschini. Inasprire le pene per le rapine a mano armata, ha detto Edmondo Cirielli di F.lli d’Italia. Inasprire le pene per gli imbrattatori di muri, ha detto Matteo Renzi quand’era sindaco di Firenze. Inasprire le pene per chi gira in pubblico con armi da taglio, hanno detto quelli dell’Udc. Inasprire le pene per l’export di armi, hanno detto i cinque stelle. Inasprire le pene per "il fenomeno delle intimidazioni nei confronti degli amministratori locali", hanno detto i super arrabbiati dell’Ncd. E poi Sel voleva "inasprire le pene" sui reati ambientali, il Pd per le alterazioni nel settore agroalimentare, e nel tempo lo si è chiesto per l’omofobia, gli incidenti sul lavoro, i piromani, i manifestanti facinorosi a volto coperto, la violenza negli stadi, i reati generalmente inerenti alla Tav, gli incendi dolosi, gli odontoiatri lo hanno chiesto per chi esercita abusivamente la professione, gli architetti per gli abusi edilizi, l’associazione Libera per il voto di scambio, il sindaco di Foggia l’ha chiesto "per il furto di cavi elettrici" dopo una serie di furti di cavi elettrici in città. Si fanno i raffronti, si scopre che un reato odioso prevede meno galera di un altro reato non così odioso, finché il reato non così odioso diventerà molto odioso e servirà ancora più galera, e avanti in un riflesso condizionato che occupa lo spazio lasciato libero da idee non altrettanto frettolose. "Galera" è la risposta buona. "Più galera" è la risposta ottima. Se fossimo in America, ha detto una volta Beppe Grillo, "Silvio Berlusconi sarebbe in galera". Se fossimo in America, ha risposto Renato Brunetta, "in galera ci sarebbe Grillo per l’omicidio colposo plurimo di cui è stato riconosciuto colpevole". La Bastiglia dello spirito italiano è ancora in piedi e robusta, monumento di tutte le rabbie e di tutti i capricci, di tutte le soluzioni in tasca: "Aumentiamo del cinquanta per cento le pene per i reati commessi dai clandestini", suggerì una volta An. Era il 2000, il centrodestra era in pieno slancio garantista. Quando i media sfondano le porte dei tribunali di Luigi Ferrarella Sette - Corriere della Sera, 8 gennaio 2016 Difficile valutare gli effetti di stampa e tv nei grandi processi. Sui casi di Meredith Kercher e di Cogne la stessa Cassazione ha pareri opposti. E su Stasi?. La condanna di Alberto Stasi, l’assoluzione di Amanda Knox, la condanna di Annamaria Franzoni: ma in fin dei conti l’attenzione dei mezzi di informazione ai casi di cronaca nera e ai relativi processi giova alla sorte dei dibattimenti oppure ne snatura il corretto corso? È talmente difficile farsene una idea non superficiale che persino la Cassazione propone risposte diametralmente diverse. I giudici di legittimità che hanno assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito dall’omicidio di Meredith Kercher, ad esempio, nella motivazione di tre mesi fa hanno addebitato le "clamorose défaillance o amnesie investigative o colpevoli omissioni d’indagine" agli effetti di "un inusitato clamore mediatico dei riflessi internazionali della vicenda": clamore che, "nella spasmodica ricerca di uno o più colpevoli da consegnare all’opinione pubblica internazionale, non ha certamente giovato alla ricerca della verità sostanziale", contribuendo anzi a "compromettere in partenza l’asettica repertazione degli elementi utili poi alle indagini genetiche". Nella sentenza finale c’è dunque una bocciatura di questo "clamore mediatico", sebbene a ben vedere con riguardo più alla fase delle primissime indagini che dei processi, rispetto ai quali gli ermellini censurano più che altro alcuni aspetti (pittoreschi ma di scarso impatto concreto sui collegi giudicanti) quali "l’irruzione nel processo di estemporanee propalazioni di detenuti di collaudato spessore criminale, non insensibili a istanze di mitomania e di protagonismo giudiziario, capaci comunque di assicurare loro la ribalta televisiva". parere opposto. Tutto diverso il punto di vista che altri giudici della Cassazione avevano avuto modo di esprimere nella motivazione della condanna definitiva nel 2008 di Annamaria Franzoni per l’uccisione del figlio Samuele a Cogne. Alla difesa che protestava per gli asseriti pregiudizi arrecati alla madre da tv e giornali, i giudici di legittimità risposero che al contrario "l’interesse mediatico", peraltro (come spesso capita in questi delitti) "ricercato e propiziato e utilizzato dalla stessa parte interessata, ha dato inusitato impulso a iniziative processuali della difesa e degli stessi organi giudicanti, favorendo il massimo approfondimento di ogni aspetto del giudizio". Nella chiave di lettura di quest’altra Cassazione, dunque, "l’interesse mediatico" - "spontaneo" o "scientemente indotto" che fosse, "non si è mai risolto in un decremento della facoltà difensive dell’imputata, ma piuttosto nel suo contrario, ampliandone gli spazi di garanzia e favorendo in massimo grado, per l’esaustività delle indagini espletate, la formazione e maturazione del convincimento dei giudicanti". Adesso, fra poco meno di tre mesi, a dover affrontare l’argomento sarà un’altra Cassazione, quella che per il delitto di Chiara Poggi a Garlasco ha confermato la condanna del fidanzato Stasi: anche qui, infatti, la difesa dell’avvocato Angelo Giarda ha addebitato alla pressione mediatica il fatto che le indagini si fossero concentrate solo sull’imputato, mentre l’avvocato di parte civile Gianluigi Tizzoni ha obiettato che quella stessa attenzione mediatica era stata il contesto delle prime due assoluzioni. Tema al centro anche di una delle ragioni della recente astensione degli avvocati dell’Unione delle Camere Penali Italiane, "preoccupati" per "un nuovo modulo (immediata diffusione delle immagini degli arresti più clamorosi e dei materiali di indagine dotati di particolare efficacia) nel quale la "rappresentazione" del processo anticipa il processo stesso, per divenire - a loro avviso - un vero e proprio strumento strategico di condizionamento". Il governo cancella il reato di clandestinità di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2016 Sparisce il reato di clandestinità. Resta il provvedimento di espulsione deciso dal prefetto. Non si aggiunge una sanzione pecuniaria dalla dubbia efficacia. È questa la novità principale dell’intervento sulla depenalizzazione che è in agenda per il Consiglio dei ministri della prossima settimana. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando rompe gli indugi che avevano fatto stralciare la misura dalla versione del decreto legislativo approvata prima di Natale in via preliminare dal Consiglio dei ministri. Determinante in questo senso la richiesta avanzata, a titolo di condizione, dalla commissione Giustizia della Camera, mentre il Senato sul punto non si è espresso. Una presa di posizione che agevola quella che lo stesso Orlando in un’audizione parlamentare dell’estate aveva sottolineato come una necessità sollecitata oltretutto in sede europea. Orlando mise in evidenza, tra l’altro, come "l’introduzione del reato di immigrazione clandestina, al di là della valutazione nel merito di tale scelta, non ha avuto alcuna funzione deterrente, com’era in verità facilmente prevedibile, se si considera che i migranti non leggono quotidianamente la Gazzetta Ufficiale. Con questo non voglio dire che l’introduzione del reato di immigrazione clandestina ha portato a un aumento dei flussi, ma di sicuro, da quando il reato è stato introdotto, non si è avvertito alcun effetto deterrente". Certo, la soppressione del reato previsto dall’articolo 10 bis del Testo unico sull’immigrazione, inserito nel 2009 per volontà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni, non è destinata a passare in maniera indolore nella maggioranza: i mal di pancia di Ncd sono sicuri, ma al ministero della Giustizia si intende comunque tirare dritto, nella consapevolezza che comunque la rilevanza penale della condotta di ingresso senza permesso nel nostro Paese, oltre a non avere dato risultati apprezzabili in termini di deterrenza alla clandestinità, ha comportato un sensibile aggravio del lavoro degli uffici giudiziari. Nel dettaglio la norma (viene inserito un nuovo articolo, il 4, nel decreto sulla depenalizzazione), è costruita in maniera tale da conservare un peso amministrativo alla condotta, come del resto già oggi previsto. In altri termini, adesso, anche in presenza del reato, è comunque stabilito che l’ingresso clandestino ha un peso in termini amministrativi, con l’esplicita possibilità della sanzione dell’espulsione. Espulsione che nel futuro assetto sanzionatorio viene confermata; a essere invece accantonata è la misura pecuniaria che, negli altri casi del decreto di depenalizzazione previsti dal decreto è destinata a subentrare. La Giustizia su questo fa una professione di realismo e ricorda che condannare al pagamento di una misura pecuniaria migranti irregolari corrisponde a una "sostanziale ineffettività e tuttavia con un significativo aggravio, in termini di dispersione di risorse anche umane, per il sistema di accertamento nel suo complesso". Si puntualizza poi l’esclusione dalla depenalizzazione degli altri reati contenuti nel Testo unico: scelta che deriva dalla stessa legge delega che impone di conservare la natura penale delle condotte di violazione dei provvedimenti amministrativi, punite soprattutto con la sola pena pecuniaria. Il decreto in via di presentazione al consiglio dei ministri scioglie poi anche gli altri due nodi rimasti. E lo fa in senso opposto. Viene depenalizzata una delle condotte previste dal testo unico sulla disciplina degli stupefacenti, quella di chi infrange le prescrizioni date dall’autorizzazione alla coltivazione di sostanze stupefacenti. Mentre si è deciso di non esercitare la delega sul reato di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone. Una decisione che ha come conseguenza la conservazione della rilevanza penale dell’immissione di rumori. Il reato di tortura è rimasto uno spot: fermo in Senato Il Fatto Quotidiano, 8 gennaio 2016 "Quello che dobbiamo dire lo dobbiamo dire in Parlamento con il reato di tortura". Era l’8 aprile 2015 e il presidente del Consiglio Matteo Renzi rispondeva così su Twitter a chi gli chiedeva una reazione alla condanna della Corte di Strasburgo per i fatti avvenuti alla Diaz durante il G8 di Genova nel 2001. "Tortura" secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani. Reati di lesioni personali da tempo prescritti secondo la legge italiana, tanto che furono condannati solo i dirigenti e i funzionari accusati di falso per il contenuto dei verbali. Pochi giorni dopo la Camera approvò in seconda lettura il disegno di legge per l’introduzione nel nostro ordinamento del reato di tortura. Quella del Senato avrebbe dovuto essere la terza e ultima lettura parlamentare ma la commissione Giustizia di Palazzo Madama modificò ulteriormente il testo licenziandolo a luglio. Prevede fino a 10 anni di carcere e quindi anche termini di prescrizione più lunghi. La conferenza dei capigruppo calendarizzò l’approdo in aula a settembre ma il provvedimento non ci è mai arrivato. Nel frattempo i capi delle forze di polizia sono stati ascoltati e hanno manifestato tutta la loro ostilità al nuovo reato. Caso Cucchi; i capi dell’Arma si sono informati subito, ma il pestaggio emerge solo ora di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 8 gennaio 2016 Subito dopo la morte di Stefano Cucchi, tutti i carabinieri coinvolti nella vicenda furono convocati presso il Comando del Gruppo Roma o il Comando provinciale. Ad ascoltare le loro versioni dei fatti c’erano l’allora comandante provinciale, oggi comandante della Scuola ufficiali, generale Vittorio Tomasone, l’allora comandante del Gruppo, colonnello Alessandro Casarsa (oggi a capo del Reggimento corazzieri), i comandanti delle compagnie Casilina (da cui dipende la stazione Appia) e Montesacro (da cui dipende Tor Sapienza) e anche quelli delle stazioni interessate. Tutti i vertici locali dell’Arma vollero essere informati su quanto accaduto nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009. Sui giornali già si parlava di "caso Cucchi" e la famiglia aveva cominciato a chiedere la verità su quel corpo martoriato. A confermare l’esistenza di un’indagine interna, che - va ricordato - si concluse senza l’individuazione di alcuna responsabilità, sono oggi alcuni verbali di assunzione di informazioni in possesso della Procura di Roma, nell’ambito dell’inchiesta bis sulla morte del ragazzo. Ma non solo: si parla di quelle convocazioni nella querela presentata dal comandante di Tor Vergata, Enrico Mastronardi, nei confronti di Riccardo Casamassima e Maria Rosati, i due militari che il 14 maggio scorso si sono presentati nello studio dell’avvocato Anselmo (legale della famiglia Cucchi) per raccontare di aver assistito a un incontro tra Mastronardi e l’allora comandante dell’Appia, oggi indagato per falsa testimonianza, Roberto Mandolini. In quell’occasione, hanno riferito i due testimoni, quest’ultimo avrebbe detto al collega: "È successo un casino, i ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato". Ebbene, nella querela presentata da Mastronardi si fa riferimento, in termini diversi, a quell’episodio e a quanto ne seguì: "Lo scrivente - si legge nell’atto - confermava che il maresciallo Mandolini aveva avuto un breve colloquio privato. Infatti, allorquando conferiva con il comandante di stazione, questi, a mò di sfogo, spontaneamente affermava che a seguito dell’arresto di Cucchi e delle notizie stampa subito dopo apparse in cui venivano riportati verosimili maltrattamenti, veniva convocato dal comandante provinciale Tomasone che lo aveva escusso in modo molto approfondito ed esaustivo per la esatta ricostruzione della vicenda". Lo stesso comandante Mandolini conferma che quelle riunioni ci furono, che venne controllato ogni atto, che per giorni vennero chieste delucidazioni e che quelle spiegazioni vennero confrontate tra loro per vedere se qualcuno stesse mentendo. Ma nulla, come detto, l’inchiesta interna - severissima e durata mesi, a detta di Mandolini -non portò a nulla. Sappiamo poi come è andato il primo processo. Il maresciallo, che davanti al sostituto Giovanni Musarò (titolare dell’indagine, insieme col procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone) si è avvalso della facoltà di non rispondere, a differenza dei suoi quattro colleghi indagati continua a scrivere e a rispondere su Facebook a chi lo sostiene e a chi gli chiede conto. Ieri ha voluto spiegare il perché di una cosa definita "inusuale" dagli stessi carabinieri. Quando Cucchi quella notte venne trasferito da Appia a Tor Sapienza, dopo il "violentissimo pestaggio " indicato dagli inquirenti, diede disposizione ai suoi uomini di lasciare al piantone il suo personale numero di cellulare. Di solito, in caso di problemi si chiama la centrale (il 112), riferiscono molti militari ascoltati; quella notte, al piantone venne lasciato un biglietto: "Se ci sono problemi chiama il maresciallo Mandolini". "Visto che la pratica è comune ed è giornaliera - ha scritto questi in un post - è di buon uso e costume, per rispetto del Comandante di Stazione che ospita un detenuto tratto in arresto da un altro comando, lasciare il numero di telefono del Comandante o del responsabile dell’arresto per ogni eventuale necessità che sopraggiunga, soprattutto nelle ore notturne, senza dover disturbare il Comandante di Stazione ospitante". Buon uso o premura che adesso spetta ai magistrati valutare. Caso Cucchi, l’ex moglie del carabiniere: "pronta a testimoniare" di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 gennaio 2016 Il coraggio di collaborare con la giustizia lo ha trovato quando ha capito che non poteva più nascondere la verità al figlio di nove anni e che doveva ammettere che quel Raffaele D’Alessandro di cui parla il telegiornale, quel carabiniere indagato dalla procura di Roma per il "violentissimo pestaggio" di un giovane detenuto poi morto nelle mani dello Stato è proprio suo padre. E, sì, "babbo anni fa ha fatto qualcosa di sbagliato e ora dovrà pagarne le conseguenze, che non si sa quali saranno", è stata costretta a spiegare al bambino. Ad aggiungere un altro tassello alla lunga strada verso la verità sulla morte di Stefano Cucchi è un’altra donna, Anna Carino, ex moglie di uno dei tre militari in abiti civili (oltre a D’Alessandro, Bazzicalupo e Di Bernardo) che insieme ai due in divisa (Tedesco e Aristodemo) intervennero, il 15 ottobre 2009 alle 23:30 in via Lemonia, per arrestare l’allora 31enne geometra romano sorpreso, secondo il verbale stilato nella caserma di via Appia, a spacciare stupefacenti. I dettagli dell’intera vicenda sono stati riassemblati dal sito Altraeconomia che, per poter offrire una visione d’insieme di quelle ultime ore di Cucchi, ha ricostruito "momento per momento, luogo per luogo, referto per referto" quei sette giorni trascorsi dal geometra romano nelle mani dello Stato, prima di morire in assoluta solitudine nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini, in una efficace mappa navigabile aggiornata al 5 gennaio 2016, "una sorta di linea del tempo interattiva che consente ai lettori di comprendere pienamente la dinamica dei fatti, la quale da poco ha assunto nuova luce". I riflettori infatti si sono recentemente accesi sulla telefonata tra Anna Carino e il suo ex marito, D’Alessandro, intercettata dagli inquirenti e già agli atti dell’inchiesta bis aperta dal procuratore Pignatone. La donna - 29 anni e tanto coraggio, indipendentemente dalla veridicità delle sue dichiarazioni - assicura ora al Tg3 che l’ha intervistata di essere disposta a testimoniare in aula in un futuro processo contro il padre di due dei suoi tre figli e spiega i motivi per i quali ha deciso di parlare a pochi giorni dall’incidente probatorio che si terrà il 29 gennaio prossimo per accertare le cause della morte di Stefano: "Perché è giusto che a quella famiglia venga data giustizia". "Ho voluto incontrare Ilaria per chiederle scusa, per farle capire che mi dispiace - afferma davanti alle telecamere. Avrei dovuto parlare prima, ma non l’ho fatto perché avevo paura, ho tre bambini, e quindi non è facile. Ilaria mi ha detto semplicemente “grazie”, immagino quanto possa essere stato difficile". Ricorda Anna Carino che D’Alessandro raccontava di come "quella sera gliene avevano “date tante”, questo - puntualizza la donna - è il termine che lui ha usato". Il carabiniere lo raccontava "divertito", "con spavalderia, quasi vantandosene", perché, ipotizza Carino, "forse si sentiva intoccabile". E in effetti D’Alessandro, come Di Bernardo, non compaiono nel verbale di arresto di Cucchi e rimangono fuori dai due gradi di giudizio del primo processo conclusosi senza colpevoli. Finiscono però sul registro degli indagati, insieme a Francesco Tedesco, per lesioni personali aggravate e abuso d’autorità, nella seconda inchiesta aperta da Pignatone che vede anche accusati di falsa testimonianza il maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti comandante interinale della stazione Appia, e Vincenzo Nicolardi, l’appuntato scelto che, secondo l’accusa, accompagna Stefano Cucchi - dopo il pestaggio e le procedure di arresto - nella stazione dei carabinieri di Tor Sapienza. "Qualsiasi cosa possa aver fatto questo ragazzo - conclude Anna Carino, massacrarlo così di botte non credo sia giustificabile". Parole che per il legale di D’Alessandro, l’avvocata Maria Lampitella, si prestano a "battaglie mediatiche" "al solo fine di originare sentenze populistiche ad esclusivo vantaggio personale. "Pur premettendo il dovuto rispetto per il dolore della famiglia Cucchi", Lampitella invita "tutte le parti processuali" ad evitare "attacchi gratuiti e personali ad un soggetto, servitore dello Stato, che si trova, si sottolinea, sottoposto ad indagine e non imputato, e che possono alterare la serenità di chi dovrà giudicare i fatti accaduti". Ingiustizie quotidiane alla ricerca di un giudice di Michele Ainis L’Espresso, 8 gennaio 2016 Pensioni, casa, salute. I lettori denunciano le tante piccole angherie che sono costretti a subire. Per leggi incomprensibili e una burocrazia assurda. Per una volta, questa rubrica è una cassetta delle lettere. Ne ricevo a raffica, una pioggia elettronica che inonda la mia casella email. Lettere di denunzia, per esempio circa la sorte dei dipendenti provinciali dopo l’eutanasia delle Province; nel frattempo, a quanto pare, in quella categoria di disgraziati s’impennano i suicidi, anche se non ne parla mai nessuno. Oppure circa i privilegi dei parlamentari. C’è modo di ridurgli la paghetta? Risposta: no, non si può. Serve una legge, e le leggi le scrive il Parlamento. Che ha sforbiciato gli stipendi dei dirigenti pubblici e degli alti magistrati, fissando un tetto a 240 mila euro; ma per se stesso ha costruito una casa senza tetto. Di conseguenza l’ultimo dei peones, qui e oggi, guadagna più di un giudice costituzionale o del presidente dell’Antitrust. Dopo di che c’è tutto un filone di richieste improbabili o bislacche. Ci sono abituato, ormai da anni i giornalisti mi usano come un Jukebox. Professore, che sa dirci sulla nuova legge elettorale del Burundi? Come valuta la legittimità dei terremoti? E il Trattato di Shengen vale anche per gli Ufo? Ma le domande più enciclopediche provengono, talvolta, dai lettori. Per esempio: quanto ci è costato, dal 2011 al 2014, l’aumento dello spread? Oppure: la Finanziaria 2008 consente il riutilizzo dei medicinali non ancora scaduti, per chi intenda donarli a organizzazioni umanitarie. E se quei medicinali andavano conservati in frigorifero, quale tipo di condotta giuridica si configura per il loro detentore? Senza dire dei trattamenti pensionistici, dove un’umanità dolente s’interroga su norme imperscrutabili. Fra queste, una circolare che permette all’Inps d’incamerare i contributi previdenziali eccedenti la "riserva matematica", sicché un signore di Vicenza si ritrova con la pensione dimezzata. E legittimo? Vattelappesca. Ma le denunzie più frequenti girano attorno al principio d’eguaglianza. Ancora in materia pensionistica, e però non solo. Per esempio: la riforma Fornero usa la "speranza di vita" per determinare l’età pensionabile. Tuttavia quella speranza è una media statistica, né più né meno; c’è chi mangia un pollo, c’è chi resta a digiuno, tutti in media hanno mangiato mezzo pollo. Scrive P.E.: sono affetto dalla sindrome di Muir Tolle, e questo significa che ho un’alta probabilità di contrarre tumori. Colpa d’una predisposizione genetica, che nella mia famiglia dimezza la durata della vita. Sennonché andrò in pensione alla stessa età degli altri lavoratori. E incostituzionale questa disparità di trattamento? In realtà stavolta è incostituzionale la parità di trattamento: come diceva Platone (Repubblica, VIII, 558c), l’eguaglianza s’applica agli uguali, non ai disuguali. E sono uguali quei due coniugi in pensione, l’uno con 60 mila euro di reddito imponibile, l’altra con 6 mila? Per la legge italiana no, dato che le norme fiscali non prevedono la dichiarazione congiunta; di conseguenza il marito non ha diritto a detrazioni, la moglie è incapiente anche per le detrazioni maturate. Sono uguali gli automobilisti ? Nel tratto da Rosignano a Civitavecchia no, perché il pedaggio autostradale lo pagano soltanto i non residenti. Sono uguali gli inquilini? Scrive G.S.: vivo in una casa popolare da decenni, ma una legge dell’Emilia Romagna ha abbassato in modo draconiano la soglia di reddito per mantenere il diritto a rimanervi. Sicché adesso dovrò preparare le valigie, insieme ad altri 2792 nuclei familiari. Noi, però, facevamo affidamento sulla stabilità della nostra condizione abitativa: c’è un giudice che possa riparare l’ingiustizia? Francamente non lo so, dove si sia nascosto questo giudice. Se uscisse dalla tana, avrebbe il suo bel daffare: gli italiani lamentano tante piccole ingiustizie, a soprattutto lamentano l’assenza di un’autorità che sappia interpretarle. Sicché scrivono a me, o ad altri come me. Scrivono ai giornali, nei forum, interpellano le associazioni civiche. Non però i politici, o almeno non più. Chissà mai perché. La delegittimazione dei ruoli sociali di Massimo Corsale e Vincenzo Morgera (Associazione Jonathan) La Repubblica, 8 gennaio 2016 Per molti anni abbiamo ritenuto di vivere nell’era della secolarizzazione, e molti di noi ci siamo compiaciuti del fatto che ciò sembrava consentire a ognuno di decidere liberamente se aderire a una confessione religiosa oppure no, e se sì, a quale. Il modello cui pensavamo era una società aperta, che permetteva a tutti di dialogare laicamente con chiunque a prescindere dalle rispettive appartenenze sociali, culturali, religiose, linguistiche. Naturalmente questo modello liberale era più un’aspirazione che una realtà: mentre infatti tanti di noi lo vagheggiavamo, quello che procedeva nei fatti era un sistematico svuotamento dall’interno di valori tradizionali, modelli culturali condivisi, idealità aggreganti. Abbiamo cominciato con l’aggredire il concetto di autorità: giustamente, se si fosse trattato solo di spazzar via l’autoritarismo per fare spazio all’autorevolezza, al dialogo ragionato. Invece abbiamo delegittimato il concetto stesso di autorità, e quindi i ruoli di coloro che avevano la responsabilità di educare le nuove generazioni: genitori, insegnanti, sacerdoti. Abbiamo quindi dimenticato che sapersi sottomettere consapevolmente a un’autorità legittima è condizione indispensabile perché poi si sia in grado di elaborare decisioni autonome e anche di contrapporvisi responsabilmente. Per la verità in quest’opera di demolizione ci ha aiutato anche chi ha proclamato che "l’obbedienza non è più una virtù", mentre fior di intellettuali più o meno "progressisti" ridicolizzavano il ruolo di professori e genitori, per non parlare degli altri educatori. Abbiamo guardato in maniera sprezzante i "cattolici", a meno che non fossero iconoclasti ancor più radicali di noi. Abbiamo precluso ogni possibile riferimento a una solidarietà nazionale, in quanto non siamo riusciti a costruire una forte identità nazionale. Abbiamo distrutto l’immagine paterna e ridicolizzato gli uomini come "maschietti", ma poi anche ridimensionato il vecchio "istinto di maternità": insomma abbiamo affossato i ruoli sessuali tradizionali, ma nessuno sembra si sia posto il problema di inventarne di nuovi. Limitarsi a smantellare significa lasciare tutto lo spazio al cinismo: non c’è nulla che valga, di spirituale, e quindi non resta che la materia, ossia il denaro e tutto ciò che procura un godimento immediato. Paradossalmente questo si traduce spesso in scelte suicide (droga, vita da killer), che appaiono contrarie al comune buon senso ma diventano consequenziali nella logica del godimento immediato e della svalutazione del futuro: meglio un giorno da leoni. Ma in fatto di cinismo che differenza c’è, dal punto di vista etico, tra il ragazzo marginale che sceglie di fare il pusher o addirittura il killer su una bella moto, e il borghese (piccolo o grande) che sceglie di corrompere o di farsi corrompere, di frodare l’Inps o la Asl o chiunque altro? È vero che i primi giocano con la vita degli altri, ma mettono in gioco anche la propria: sono solo più radicali, conseguenti e coraggiosi. Non possiamo contrapporre loro solo una legalità svuotata di valori condivisi, ridotta a semplice minaccia di una punizione, peraltro del tutto aleatoria e indeterminata. La legge penale non è affatto il "minimo etico" (come recitava un’antica dottrina): al contrario per funzionare deve essere la faccia esterna di un’etica sociale che pervade in profondità. In questa situazione, il lavoro da fare è di lunga, lunghissima lena: dovrebbe coinvolgere l’intera società e in primo luogo le sue istanze culturalmente più creative: scienziati, intellettuali, insegnanti, operatori sociali e culturali, giuristi, artisti, sacerdoti ed esponenti delle diverse confessioni religiose, politici, imprenditori e manager, sindacalisti. Nessuno però dovrebbe sgomitare per conquistare più audience per la propria categoria, ma al contrario tutti dovrebbero convergere nello sforzo di individuare modelli positivi ed esempi concreti da proporre alla collettività, impegnandosi ciascuno con i propri strumenti a mobilitare l’opinione pubblica su questi temi. Nel frattempo occorrerebbe valorizzare, riprodurre e mettere in rete le non poche esperienze positive di educazione e recupero che si vengono compiendo nelle scuole, nel privato-sociale, nelle parrocchie e in altri luoghi di culto, nelle carceri, nei musei e nelle università, spesso suggerite o addirittura finanziate da imprenditori e manager illuminati. Esistono ad esempio imprese come Whirpool - Indesit, Manfrotto che investono nella promozione umana sostenendo i progetti di recupero delle Comunità Jonathan e Oliver che ospitano minori e giovani dell’area penale: lo fanno per sviluppare orgoglio professionale e di appartenenza tra i propri dipendenti, ma principalmente lo fanno perché sono consapevoli che non esiste sviluppo economico se non è accompagnato da uno sviluppo sociale e culturale dei territori dove operano. E già questo è un passo significativo verso una crescita morale della società tutta. Ma direi che questo è soprattutto indice di un importante recupero dell’auto-percezione dell’azienda come attore sociale universalistico, quali sono stati i fondatori della società moderna ma anche, in Italia, alcuni dei motori del "miracolo economico" come Olivetti, Mattei, Marzotto, Merloni. Ma esistono anche esperienze innovative nel campo delle istituzioni pubbliche del controllo sociale. Possiamo pensare per esempio all’iniziativa del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria e del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria, Cafiero de Raho, di sospendere la potestà genitoriale dei condannati per mafia e di affidare i loro figli minorenni a comunità di recupero. In tal modo si spezza il circuito perverso della trasmissione di modelli culturali criminali, e si responsabilizzano i settori "creativi" della società a elaborare, magari insieme agli stessi ragazzi coinvolti, modelli nuovi e positivi. È da esperienze come queste che possono venire le suggestioni più penetranti per il lavoro collettivo in prospettiva. Lazio: aumenta il sovraffollamento nelle carceri, ci sono 468 detenuti oltre la capienza Il Tempo, 8 gennaio 2016 In questo avvio di 2016 il dato è salito a quota 468 unità. A dirlo preoccupato è il sindacato Fns-Cisl Lazio. "Risultano attualmente reclusi e presenti nei 14 istituti penitenziari del Lazio 5.747 detenuti (358 donne, 5.389 uomini) - spiega la sigla - mentre la capienza regolamentare dovrebbe essere di 5.279. Il dato nazionale a oggi è di 52.230 detenuti reclusi (2.115 donne e 50.115 uomini) +2.648 rispetto ai 49.582 previsti - prosegue il sindacato - gli istituti nel Lazio che soffrono maggiormente di sovraffollamento risultano essere attualmente. Nel dettaglio, carcere Frosinone (+256 rispetto ai previsti 310), Cassino (+28 rispetto ai previsti 202), Civitavecchia (+141 rispetto ai previsti 344), Latina (+78 rispetto ai previsti 344), Rebibbia (+34 rispetto ai previsti 263), Rebibbia (+157 rispetto ai previsti 1.235), Regina Coeli (+26 rispetto ai previsti 836), Velletri (+117 rispetto ai previsti 408)". Per la Fns Cisl Lazio, "occorrono maggiori risorse economiche per il benessere del personale del corpo di Polizia penitenziaria che con senso di abnegazione svolge egregiamente il proprio compito istituzionale". Inoltre, la Fns ritiene che "il personale in servizio di polizia penitenziaria nei 14 istituti penitenziari della Regione Lazio risulta essere sottodimensionato e non più rispondente alle esigenze funzionali degli Istituti dove si continua a registrare un esubero di detenuti rispetto alla capienza detentiva prevista". La Fns Cisl Lazio pertanto chiede "al Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) una maggiore consistenza effettiva di personale di polizia penitenziaria che consenta lo svolgimento del proprio servizio non solo nelle migliori condizioni lavorative ma anche in quel benessere organizzativo più volte decantato". Friuli V.G.: Ziberna (Fi) "l’assistenza sanitaria nelle carceri ulteriormente impoverita" triesteprima.it, 8 gennaio 2016 Lo rende noto il vicecapogruppo di Forza Italia in consiglio regionale Rodolfo Ziberna: "Lo scorso anno tale assistenza veniva erogata da due infermieri assunti in convenzione per 50 ore settimanali, ma la convenzione è venuta a scadere lo scorso 31 dicembre". "Dal primo gennaio 2016 l’Aas 2 bassa friulana-isontina ha incaricato il distretto alto isontino di occuparsi dell’assistenza infermieristica presso le carceri di via Barzellini di Gorizia, come da decreto del ministero del 2008 che dispone il passaggio di tale assistenza alle aziende sanitarie", rende noto il vicecapogruppo di Forza Italia in consiglio regionale Rodolfo Ziberna., il quale aggiunge "Lo scorso anno tale assistenza veniva erogata da due infermieri assunti in convenzione (come lo sono del resto i due medici attualmente che lavorano li) per 50 ore settimanali, ma la convenzione è venuta a scadere lo scorso 31 dicembre e pertanto l’obbligo di assistenza pesa ora completamente sulle spalle dell’Aas 2 bassa friulana - isontina". "Il personale infermieristico, che a rotazione dovrà ora farsi carico del servizio - denuncia il consigliere regionale azzurro - solo negli ultimi giorni di dicembre è stato messo a conoscenza dei nuovi obblighi, nonostante la rivoluzione che ciò ha determinato nei servizi e nei turni, che ad esempio saranno resi anche la domenica pomeriggio. L’assistenza presso le carceri viene assicurata da infermiere donne, mentre i convenzionati erano due uomini, con un’organizzazione tutta particolare come può essere quella carceraria". Ziberna "Nel distretto alto isontino - aggiunge Ziberna - attualmente lavorano 18 infermiere che coprono tutto il territorio, anche con ambulatori territoriali, che prevedono una chiusura di ben tre ambulatori infermieristici territoriali su cinque per la necessità di far fronte al nuovo carico di lavoro. Nel carcere attualmente sono autorizzate solo otto infermiere che ruoteranno tutto il mese, sabato e festivi compresi e, visto che non vi sono protocolli di lavoro, tutto è basato sulla buona volontà delle infermiere. Vige un pressapochismo ed una incapacità di organizzare il lavoro che impressiona: dal vertice aziendale è giunto solamente l’ordine di servizio ed il trasferimento di due infermieri al servizio nei prossimi giorni per potenziare il personale, che però dovranno essere addestrati perlomeno nei prossimi due mesi al nuovo tipo di lavoro, significativamente diverso da quello ospedaliero". "Questo ulteriore impoverimento di personale infermieristico - sbotta il consigliere regionale di Gorizia - avviene proprio nel momento in cui è massima l’esigenza di infermieri su tutto il territorio regionale, anche a causa di una miope e colpevole capacità programmatoria di questa giunta regionale, la quale per fare cassa non ha assunto personale medico ed infermieristico producendo grave nocumento alla cittadinanza. Lo stesso concorso bandito dalla Regione per 173 posti di infermieri, sbandierato come fosse un grande risultato di questa giunta, in realtà andrà a coprire solo alcuni degli 850 infermieri mancanti. Senza medici e senza infermieri non può esserci sanità! I pronti soccorsi sembrano stazioni ferroviarie, tante sono le persone in attesa, per le prestazioni specialistiche bisogna attendere mesi se non anni e questa giunta regionale cosa fa? Taglia su medici ed infermieri!" "Ho depositato - ha reso noto Ziberna -una interrogazione rivolta alla presidente Debora Serracchiani ed all’assessore alla salute Maria Sandra Telesca per sapere come intenda sopperire a questa ulteriore impoverimento del personale infermieristico nel corso di questo periodo e per quale ragione non si sia voluto usare, come ha fatto ad esempio Trieste, dei servizi di una cooperativa. Inoltre ho chiesto come intenda far fronte alla mancanza di ulteriori 700 infermieri, anche dopo che saranno assunti i 173 posti messi a bando". Napoli: quelle morti per camorra e per inedia di Sandro Ruotolo Corriere del Mezzogiorno, 8 gennaio 2016 Apriamo le scuole, investiamo nella cultura sapendo però che i risultati li avremo domani. E intanto? Cosa diciamo alla mamma e al papà di Maikol? #Iononcisto a piangermi addosso, a gettare la spugna. Provo ad andare oltre perché non meritiamo di morire per inedia. roviamo a reagire dicendoci le cose come stanno. Sfatiamo i luoghi comuni. Occorre disarmare Napoli. E non venite a dirci che "la repressione da sola non basta". Lo sappiamo ma intanto bisogna dare segnali forti e duraturi. Bisogna investire nella sicurezza. I maestri servono ma con i maestri oggi non risolviamo le sparatorie, i morti e i feriti che insanguinano la città. Apriamo le scuole, investiamo nella cultura sapendo però che i risultati li avremo domani. E intanto? Cosa diciamo alla mamma e al papà di Maikol? Alla sua comunità? All’esercente rapinato o alla signora malmenata in cambio della sua borsetta? Se ci pensate bene quello che sta accadendo oggi era già successo un mese fa, due mesi fa, tre anni fa, dieci anni fa. Un giorno la vittima innocente si chiama Gennaro Cesarano della Sanità, un altro giorno Maikol Giuseppe Russo di Forcella e nel mezzo un poliziotto, Nicola Barbato, che resta gravemente ferito a Fuorigrotta da un estortore, tal Lelluccio ‘o criminale, che qualche mese prima era stato arrestato dai carabinieri e già circolava libero per la città e poi ci sono le guerre per il controllo della droga che lasciano sul selciato i corpi senza vita di giovani e meno giovani criminali nel ventre di Napoli e nella sua immensa periferia. Vogliamo dirlo con chiarezza? Da un quarto di secolo è in pieno svolgimento una guerra civile dove sta vincendo un solo esercito. Questa è la peggiore guerra perché il nemico è il vicino della porta accanto. È ‘o guaglione del sistema che veste come i nostri figli, che va nelle sue stesse pizzerie e che poi spaccia nelle piazze e nelle strade e per il loro controllo uccide o viene ucciso. Ma in questa mattanza a morire siamo anche noi, i Dario Scherillo o gli Attilio Romanò che si sono trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Simonetta aveva 10 anni, Barbara 7, Giovanni 2, Carmela 5, Martina 4, Fortuna 6, Sofia appena 54 giorni di vita. Mi fermo qui ma sappiate che potrei occupare tutto lo spazio di questo articolo con i nomi delle vittime innocenti delle camorre. Non devo più essere io a trovarmi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Non è più accettabile. In quel posto e a quell’ora ci deve stare lo Stato. Io so, l’esperienza di cronista di strada me lo ha insegnato, che occorre innanzitutto costanza nell’impegno contro il crimine. Ci vogliono intelligence e investigazioni innanzitutto ma ci vuole anche presenza sul territorio. A Posillipo non mi sembra che ci sia un’emergenza. Neanche a Chiaia o al Vomero. Ma alla Sanità sì. A Forcella sì. Nell’area Nord sì. A Rione Traiano sì. Insomma, la soluzione non possono essere i 50 poliziotti inviati da Roma dopo l’ennesimo spargimento di sangue. Solo 50 uomini in più, 50 uomini divisi per cinque turni sono sì è no cinque pattuglie in più. Io ho visto l’esercito in azione a Palermo negli anni ‘90 e a Caserta contro i casalesi. Oggi l’esercito è presente a Roma, a presidiare le stazioni della metropolitana contro il rischio terrorismo. Sono forze deterrenti ma non possono sostituire o aggiungersi alle forze dell’ordine se non per alcuni compiti ben precisi. Napoli ha oggi bisogno di sicurezza, soprattutto in alcune aree occorre la presenza degli uomini in divisa. Abbiamo bisogno, per esempio, che le telecamere collocate nelle piazze e nelle strade funzionino. Ma c’è soprattutto bisogno di una strategia, di una cabina di regia. Vi ricordate il modello Caserta? Quando, per fermare la linea stragista dei casalesi, lo Stato impegnò le migliori forze della magistratura e il miglior pool di investigatori? C’è oggi una strategia per fronteggiare questa emergenza? Napoli è una città complicata e contraddittoria. Ma quando fenomeni criminali come le camorre durano da così tanto tempo vuol dire che non possono essere sottovalutati. E che se non vengono sconfitti è perché non si vuole che siano sconfitti. Firenze: l’Asl denuncia "carcere di Sollicciano invivibile, carenze igieniche e sanitarie" di Michele Bocci La Repubblica, 8 gennaio 2016 "Gravi carenze igienico sanitarie", "evidenti tracce di infiltrazioni di acqua in molte zone comuni e nelle sezioni", "struttura da rendere vivibile": usa espressioni pesanti l’ufficio di igiene della Asl nei suoi verbali di sopralluogo a Sollicciano. I documenti sono attraversati da un tono di fondo quasi amaro, con più di un rimando al fatto che quasi tutti i problemi sono già stati segnalati molte volte in passato. I nemici storici sono le infiltrazioni, la muffa, le porte esterne che non chiudono, i rifiuti, l’umidità, i piccioni. Di nuovo, in questo caso c’è la presenza dei topi nella sezione femminile, per la quale sono stati richiesti interventi urgenti che in parte sarebbero stati già messi in atto. L’ispezione a questa area del carcere, infatti, è stata svolta il 9 novembre del 2015, ed è stata preceduta da una richiesta di intervento motivata proprio dalla presenza dei topi. "Come premessa generale, si evidenzia che nel corso del sopralluogo si è verificato il permanere delle gravi carenze igienico- manutentive che affliggono la struttura dovute alle problematiche strutturali - scrive l’ufficio di igiene fiorentino - quasi ovunque è possibile inoltre verificare la presenza delle carenze conseguenti alle infiltrazioni di acqua, in particolare nei corridoi di accesso e di collegamento, anche con evidenti incrostazioni di muffa. Nelle sezioni, celle comprese, sono presenti importanti carenze igienico manutentive, evidenti in particolare nei locali docce". Una parte consistente del verbale è dedicata alla presenza dei topi, con la segnalazioni di escrementi in varie zone, come controsoffitti, cavedi, pianerottoli, corridoi, rampe di scale, la chiesa, la sartoria e pure una cella. I tecnici della Asl hanno chiesto di contattare subito la ditta che si occupa della disinfestazione e ha messo anche diverse trappole. La conclusione a cui arrivano gli ispettori è disarmante: "Emerge che le gravi carenze strutturali, che da anni vengono da noi denunciate, non solo perdurano ma si sono talmente aggravate concorrendo a facilitare l’instaurarsi di una grave infestazione. Tale situazione, dal punto di vista igienico sanitario, è sempre più difficilmente accettabile, e devono essere previsti interventi radicali e risolutivi che rendano vivibile e sicura la struttura, rimandando a chi di competenza valutazioni specialistiche in ambito di sicurezza strutturale". I verbali della Asl sono stati inviati da poco alla Regione e al Comune ed erano già arrivati in via informale al provveditorato delle carceri nelle scorse settimane. Il documento dedicato alla sezione uomini rende conto di un sopralluogo svolto il 2 dicembre. Anche qui si parla dei gravi problemi strutturali e di "infiltrazioni di acqua in molte zone a comune e all’interno delle sezioni, con distacco di intonaco e formazione di muffa". Vengono analizzate le varie sezioni. Ci sono problemi alla cucina nel "transito 1", dove 3 anni fa sono iniziati i lavori per una nuova struttura. La palestra è inagibile per le infiltrazioni dal soffitto. Nella struttura il giorno della visita era in corso l’intervento dei falconieri per ridurre la presenza di piccioni. Arrivano anche perché i detenuti buttano del cibo, scrive la Asl, che tra l’altro attira anche i topi. Anche qui proseguono carenze già segnalate "più volte", con "importanti deficienze igieniche". Anche l’istituto Mario Gozzini, è stato visitato. Il 13 novembre sono stati trovati gravi problemi. Così sintetizzati dagli ispettori: "La situazione igienico manutentiva dell’istituto è apparsa al limite della accettabilità, con carenze ancora presenti dovute alle problematiche strutturali, in particolare per le infiltrazioni". Anche qui c’è una grande unicità". Firenze: "chiudere il carcere di Sollicciano", la richiesta dei Radicali Redattore Sociale, 8 gennaio 2016 All’indomani della visita natalizia di Pannella, si chiede "un processo di decarcerizzazione" viste le condizioni dell’istituto penitenziario: "Docce marmate, vitto scadente, riscaldamento assente, infiltrazioni". "Chiudere il carcere di Sollicciano". È la forte richiesta Massimo Lensi e Maurizio Buzzegoli, presidente e segretario dell’Associazione radicale di Firenze "Andrea Tamburi", all’indomani della visita natalizia di Marco Pannella e Rita Bernardini nell’istituto penitenziario fiorentino. "È proprio vero - spiegano i due esponenti radicali in una nota - il pianeta carceri è un mondo a parte. Nascosto e impenetrabile. Solo dopo la visita natalizia al carcere fiorentino di Sollicciano della delegazione radicale guidata da Marco Pannella e Rita Bernardini sono venuti a galla tutti i problemi: strutturali e infrastrutturali. Docce marmate, vitto scadente, riscaldamento assente, infiltrazioni: in altre parole problemi inerenti alla dignità di chi vi deve operare e del condannato nello svolgimento dell’esecuzione di pena. Pena, che, ricordiamo, dovrebbe essere finalizzata al reinserimento sociale e non a forme più o meno indirette di vendetta sociale mediante trattamento inumano e degradante". "Noi chiediamo semplicemente che il carcere di Sollicciano venga chiuso e dismesso - prosegue la nota - Questo non vuol dire che i detenuti debbano essere trasferiti in altre strutture penitenziarie aggravando così il problema strutturale del sovraffollamento. Chiediamo piuttosto che si presti attenzione a un veloce processo di decarcerizzazione, coinvolgendo la magistratura di Sorveglianza e rafforzando il Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna). Un processo che può essere realizzato dando concreta attuazione al sistema dell’esecuzione penale esterna, previsto nel nostro ordinamento, come misura alternativa alla detenzione. Un sistema di "probation" già presente in numerosi Paesi europei (Regno Unito, penisola Scandinava, Belgio, Francia, Austria, Portogallo, Germania). "Chiediamo inoltre - concludono - che nell’immediato sul carcere di Sollicciano si formi un tavolo di coordinamento straordinario con tutti i soggetti coinvolti: dalla direzione dell’istituto fiorentino agli enti locali, dall’associazionismo carcerario alla regione Toscana". Pesaro: autolesionismi e tentati suicidi in carcere, il Sappe chiede l’intervento del Ministro viverepesaro.it, 8 gennaio 2016 Dopo gli ultimi eventi critici nel carcere di Pesaro, la Segreteria Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe ha chiesto l’intervento del Ministro della Giustizia Andrea Orlando e dei vertici dell’Amministrazione Penitenziaria. "La ciclica riproposizione di eventi critici tra i detenuti del carcere di Pesaro - atti autolesionistici e tentati suicidi - determina pessime condizioni di stress lavorativo per il personale di Polizia Penitenziaria del carcere, che pure assolve al prezioso e delicato incarico istituzionale con grande professionalità, competenza e umanità", sottolinea il Segretario Generale del Sappe Donato Capece. "Il nostro appello ai vertici dell’Amministrazione Penitenziaria e al Ministro Guardasigilli nasce proprio da questo: evidenziare le criticità del carcere di Pesaro. Le carceri sono più sicure assumendo gli Agenti di Polizia Penitenziaria che mancano, finanziando gli interventi per potenziare i livelli di sicurezza delle carceri. Altro che la vigilanza dinamica, che vorrebbe meno ore i detenuti in cella senza però fare alcunché. Al superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e alla maggiore apertura per i detenuti deve associarsi la necessità che questi svolgano attività lavorativa e che il personale di Polizia Penitenziaria sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico, che vuol dire porre in capo a un solo poliziotto quello che oggi fanno quattro o più agenti, a tutto discapito della sicurezza. Le idee e i progetti dell’Amministrazione Penitenziaria, in questa direzione, si confermano ogni giorno di più fallimentari e sbagliati così come ribadiamo che per il Sappe è fondamentale espellere i detenuti stranieri facendo scontare loro la pena in carceri dei Paesi di origine". Il leader del Sappe ricorda che a fine dicembre "il carcere di Pesaro è stato al centro delle cronache per episodi concreti di criticità detentiva, come diversi episodi di autolesionismo e di tentati suicidi sventati in tempo dalla Polizia Penitenziaria". E conclude sostenendo che "la Polizia Penitenziaria continua a "tenere botta", nonostante le quotidiane aggressioni. Ma è sotto gli occhi di tutti che servono urgenti provvedimenti per frenare la spirale di violenza che ogni giorno coinvolge, loro malgrado, appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria nelle carceri italiane, per adulti e minori. Come dimostra quel che è accaduto a fine dicembre a Pesaro". Alba (Cn): Sappe; principio d’incendio in carcere, tragedia sfiorata targatocn.it, 8 gennaio 2016 Un nuovo drammatico evento vede il carcere di Alba al centro delle cronache. A darne notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, che parla di "tragedia sfiorata". "Questa mattina, verso le 7.30, un Agente di Polizia Penitenziaria che doveva prendere servizio in carcere, mentre raggiungeva il secondo piano della Caserma per cambiarsi, ha trovato il corridoio pieno di fumo nero e ha sentito un forte boato provenire da una delle camere presenti nel corridoio", spiega il Segretario Regionale Sappe del Piemonte Vicente Santilli. "Subito il poliziotto ha dato l’allarme i colleghi che erano presenti ed ha allertato i Vigili del fuoco. Nel frattempo, sfondava a calci la porta della stanza da cui proveniva il fumo, venendo investito da una densa nube nera. Sono accorsi tutti i colleghi liberi ed è stata evitata una possibile tragedia. Per fortuna, la tempestività di intervento nel gestire l’evento, specie dell’Agente che si è accorto di tutto, ha permesso di evitare più gravi conseguenze". "Sono stati momenti di grande tensione e pericolo, gestiti però con grande coraggio e professionalità dai poliziotti penitenziari", aggiunge da Roma il segretario generale Sappe Donato Capece. "Poteva essere una tragedia, sventata dal tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari di servizio nel Reparto e dal successivo impiego degli altri poliziotti penitenziari in servizio nel carcere. Sono stati bravi i poliziotti penitenziari in servizio nel carcere di Alba a intervenire tempestivamente, con professionalità, capacità e competenza". In mattinata è giunta al Sappe e agli altri Sindacati la convocazione dell’Amministrazione Penitenziaria di Torino per discutere, martedì 12 gennaio prossimo, le gravo criticità della Casa di reclusione di Alba, al centro delle cronache per alcuni casi di legionella tra i detenuti del carcere. "Una situazione", conclude Capece, "sintomatica del fatto che le tensioni e le criticità nel sistema dell’esecuzione della pena in Italia sono costanti. E la situazione è diventata allarmante per la Polizia Penitenziaria, che paga pesantemente in termini di stress e operatività questi gravi e continui episodi critici". Sondrio: la direttrice "ci spiace per le critiche al carcere, fatti molti passi avanti" La Provincia di Sondrio, 8 gennaio 2016 La reazione. Mussio interviene sulla visita ispettiva nella struttura effettuata dai Radicali e da due senatori. "Avremmo voluto accoglierli e spiegare i tanti progetti". "Mi è spiaciuto constatare che, nel periodo in cui ero assente per congedo natalizio, alcuni parlamentari accompagnati da loro collaboratori stabili, appartenenti al Partito Radicale, hanno fatto ingresso in istituto. Mi è spiaciuto non poterli accogliere e non poter illustrare tutti i lavori e gli sforzi, soprattutto degli ultimi tempi. Mi è spiaciuto anche perché nessuno era in servizio: né l’educatore, né il comandante, né il contabile e neppure il nostro cappellano perché stava uscendo dall’istituto, tutti loro avrebbero potuto fornire informazioni dettagliate". I rilievi - Così Stefania Mussio, direttore alla casa circondariale, a proposito della visita ispettiva compiuta da una delegazione di Radicali Sondrio (composta da Claudia Osmetti e Giovanni Sansi) insieme al senatore Pd, Mauro Del Barba, e al sottosegretario agli Affari esteri, Benedetto Della Vedova. Osmetti pur parlando di "condizione migliorata" ha messo in luce il problema del sovraffollamento e della situazione, definita antiquata, in cui versa la struttura. Anche il cappellano don Citterio ha espresso "rammarico" per i giudizi espressi dopo la visita. "La situazione descritta e rilevata non corrisponde alla realtà, che è lì da vedere - afferma. Infatti, in questi ultimi mesi sono state apportate numerose migliorie che permettono una vita dignitosa alla popolazione carceraria". "Il penitenziario sondriese - aggiunge la direttrice - presenta caratteristiche strutturali meno adeguate di altri contesti: tuttavia la possibilità di trascorrere la maggior parte del tempo fuori dalla cella in spazi ordinati e funzionali alle attività, rende la quotidianità sostenibile". Gli interventi - "Nell’ultimo anno la struttura ha visto realizzato, attraverso un protocollo d’intesa con la Provincia di Sondrio, la copertura perimetrale del passeggio dei detenuti, e anche un’aula scolastica così come la creazione di un’aula polivalente - afferma il contabile De Felice -, E stato approvato e finanziato dalla Cassa Ammende un progetto - precisa - per il rifacimento dei bagni oltre a un altro vano all’interno della sezione detentiva. E in fase di valutazione, sempre alla Cassa, un progetto per l’ampliamento del locale adibito alle cure mediche". Non è in agenda, invece, l’intenzione di attrezzare l’aula computer, "perché è parso invece più funzionale avviare i lavori per un laboratorio artigianale, con ciò promuovendo attività legate al territorio valtellinese, che ha molto da essere valorizzato - continua Mussio. Alla palestra, poi, vi è stato un lavoro attento e sinergico che ha visto coinvolgere il volontariato, le persone detenute, la città di Sondrio e le istituzioni". Le attrezzature - Le attrezzature sono state ridipinte, sistemate e sono stati acquistati altri piccoli attrezzi, con le risorse a disposizione. Ancora, la biblioteca è in pieno rifacimento. "Credito Valtellinese, gli studenti sondriesi, il volontariato e le persone detenute si stanno spendendo per poter restituire alla struttura un luogo dove leggere e imparare - prosegue la direttrice -. Questo avrei voluto illustrare ai parlamentari: mi sarebbe piaciuto raccontar loro come ogni progetto è frutto di collaborazione e ingegno di tutti gli operatori del carcere, che creano una squadra molto attiva e tenace. Avrei anche voluto raccontare che il lavoro di oggi è frutto del lavoro di chi ci ha preceduto e di chi ha mantenuto sempre alta l’attenzione verso le persone detenute, non ultimo dei quali il Garante dei detenuti di Sondrio. Non è stato però possibile, non sapendo della visita e soprattutto non potendoci essere". La sua conclusione è all’insegna della volontà di dialogo e di apertura alla città, un segno distintivo che caratterizza la gestione della casa circondariale: "Spero ci possa essere altra occasione e spero che possano tornare quando realizzeremo un altro evento, magari non troppo lontano quando inaugureremo la nuova e colorata biblioteca. Intanto sei detenuti sono nelle condizioni di poter lavorare all’esterno e speriamo di poter presto realizzare con la città e magari con il Comune una interessante iniziativa di giustizia riparativa". Palermo: Ilaria Venturini Fendi alla presentazione del progetto "Made in prison" Ansa, 8 gennaio 2016 Rilanciare il gruppo Bagagli, sotto sequestro per mafia dal maggio 2013, dando un messaggio di rottura rispetto al passato e mostrando le buone prassi nel mondo della moda. È questo il senso alla base di due incontri che si terranno a Palermo con la stilista Ilaria Venturini Fendi: il primo sarà venerdì alle 19, a villa Chiaramonte Bordonaro e il secondo sabato, a partire dalle 11, nel punto vendita Bagagli di via XX Settembre a Palermo. Figlia di Anna, una delle cinque sorelle Fendi, Ilaria Venturini Fendi è l’ideatrice del marchio di design sostenibile "Carmina Campus" che reinterpreta i materiali di scarto per produrre borse, mobili e accessori dal design contemporaneo attraverso manifatture di alto artigianato. Nell’ambito dei due incontri verrà presentato anche il progetto speciale "Made in Prison" realizzato in collaborazione con "Socially Made in Italy" che raggruppa una serie di cooperative sociali attive in ambito carcerario. Il progetto, che ha ricevuto il marchio Sigillo dal ministero della Giustizia, coinvolge le carceri di Piazza Lanza a Catania, Bollate e San Vittore a Milano e Santa Maria Maggiore a Venezia, e ha l’obiettivo di creare opportunità di lavoro per i detenuti utilizzando il "know how" degli artigiani di Carmina Campus. Sabato 12 dicembre, a partire dalle 11, la stilista Ilaria Venturini Fendi sarà presente con le sue borse Carmina Campus per incontrare il pubblico palermitano nella boutique Bagagli di via XX Settembre, dove la linea Made in Prison resterà in vendita per tutto il periodo natalizio. Il gruppo Bagagli, piccolo impero economico di circa sedici milioni di euro, i cui otto punti vendita su Palermo e Catania fatturavano, prima del sequestro, oltre 1,5 milioni di euro l’anno, è ora amministrato da Antonio Coppola, nominato dal nuovo presidente della Sezione misure di prevenzione dopo il caso Saguto. "Associare il gruppo Bagagli a un marchio di nicchia molto attivo in ambito sociale e mai presentato a Palermo - ha detto Coppola - è un chiaro segnale dell’inizio di un nuovo corso voluto dagli attuali giudici della sezione misure di Prevenzione di Palermo". Lecce: laboratori creativi dedicati ai bambini dei detenuti della Casa circondariale di Dino Bortone viniesapori.net, 8 gennaio 2016 "Io ci Provo" e "Fermenti Lattici" insieme per una tre giorni dedicata ai bambini e alle bambine dei detenuti della casa circondariale "Borgo San Nicola" di Lecce. Da venerdì 8 a domenica 10 gennaio si terrà "UnduetreStella Days", un’iniziativa organizzata in collaborazione con la casa circondariale, che porterà in carcere la mostra di illustrazioni per l’infanzia "Il mondo di Philiph" con visite guidate e laboratori creativi a cui i detenuti e i loro figli potranno partecipare per trascorrere insieme tempo di qualità, una befana speciale per condividere un’esperienza ricreativa con la propria famiglia. L’associazione di Promozione Sociale Io Ci Provo, è una realtà attiva da ormai 5 anni all’interno della Casa Circondariale di Lecce, la fondatrice Paola Leone e i suoi collaboratori non limitano le azioni del progetto all’interno del carcere e soltanto al lavoro con i detenuti, ma da sempre svolgono azioni mirate a creare un ponte percorribile tra la città libera e quella reclusa, cercando di dare nuove possibilità culturali a chi vive lo stato detentivo e alle loro famiglie. Ecco perché nasce questa collaborazione con Fermenti Lattici, associazione che si occupa di realizzare sul territorio progetti culturali per l’infanzia promuovendo forme didattiche alternative basate sulla libera creatività dei bambini. Da sempre l’associazione pone un’attenzione particolare verso le tematiche sociali attraverso laboratori che spaziano fra tantissimi temi, fra cui l’inclusione sociale, l’arte e la cultura. La mostra sarà un’esposizione delle opere dell’artista Philip Giordano, uno degli illustratori più amati di UnduetreStella, la rivista di Fermenti Lattici dedicata alla letteratura e all’illustrazione per l’infanzia pubblicata da Lupo Editore. Quelle di Philip sono illustrazioni che raccontano microcosmi popolati da strampalate creature, forme e profili che prendono vita dal volo della fantasia, piccoli universi autosufficienti. Un viaggio nell’immaginazione attraverso un percorso ideato per permettere ai piccoli visitatori di interagire con ogni singola illustrazione, di entrare dentro le immagini e di rielaborarne i contenuti. Un intero mondo fantastico tutto da esplorare, che si apre ai bambini e alle bambine coinvolgendoli in un’avventura istruttiva e divertente. Le visite guidate saranno a ciclo continuo per bambini e adulti, durante il percorso ci si sofferma di fronte alle tavole e si scoprono le storie di ogni illustrazione, i materiali usati per realizzarla e lo stile dell’artista. Al centro è allestito un grande piano di lavoro destinato al laboratorio che accompagna la mostra, dove i piccoli visitatori potranno rielaborare a modo loro le illustrazioni che li hanno colpiti maggiormente. Philip Giordano è un illustratore italiano nato in un piccolo paesino della Liguria da mamma filippina e padre svizzero. Ha frequentato l’Accademia delle Belle Arti di Brera e l’Istituto Europeo di Design, a Milano, e un master in Tecniche d’Animazione a Torino. Attualmente vive in Giappone. I suoi libri illustrati sono stati tradotti in tutto il mondo e ha collaborato con riviste, musei, fondazioni e case editrici di fama internazionale. I suoi lavori sono stati riconosciuti e premiati da American Illustration, Communication Arts, 3x3, Society of Illustrators di New York, American Society of Illustrators, White Ravens, International Award for Illustration e partecipazione a diverse edizioni della mostra della Bologna Children’s Book Fair, Illustrarte: International Biennal of Illustration of Lisbon, Prix des Adultes des Mediateur; Figure Future 2008 al Salon du livre de Paris. "Per la libertà. Il rugby oltre le sbarre", presentazione del libro a Colleferro (Rm) Askanews, 8 gennaio 2016 La Fondazione Il Museo del Rugby, Fango e Sudore presenta venerdì 15 gennaio a Colleferro l’ultima opera editoriale di Antonio Falda, "Per la libertà. Il rugby oltre le sbarre", un viaggio fra le gli istituti detentivi italiani alla scoperta di uno sport, il rugby, che tramite il "Progetto Carceri" si fa strumento sociale e occasione di recupero. Una ricerca appassionante su come la pratica sportiva incida nell’animo delle persone. Storie di detenuti che nel rugby cercano il riscatto personale, di operatori che impegnano il proprio tempo libero per andare a insegnare il rugby in carcere. Di uomini della Polizia che queste attività le hanno volute, permesse, promosse. Falda - già autore, tra gli altri, della biografia di Franco Ascantini "Franco come il rugby", Premio Ussi 2014, si è recato nel carcere minorile di Nisida, e negli istituti detentivi di Terni, Torino, Monza, Frosinone, Porto Azzurro, Bollate e Firenze. Lì ha incontrato gli operatori esterni, gli educatori ed allenatori, i direttori, i comandanti della polizia penitenziaria e naturalmente i detenuti, per vivere direttamente queste esperienze. Falda racconta ora un altro aspetto di questo sport che più di altre discipline insegna il rispetto per il proprio avversario e l’attenzione alle regole, "uno sport bestiale giocato da gentiluomini". Il libro verrà illustrato dallo stesso autore, Antonio Falda, alla presenza di uno dei suoi ispiratori, Alejandro Villalon, ex giocatore ed oggi allenatore di rugby che ha portato la pallovale all’interno della Casa Circondariale di Frosinone. Le molestie e la paura degli immigrati di Bia Sarasini Il Manifesto, 8 gennaio 2016 Colonia. Molte strumentalizzazioni, ma restano i fatti "disgustosi". Sono un nodo difficile da districare, le violenze dell’ultimo dell’anno avvenute nella piazza tra la cattedrale e la stazione di Colonia. Un nodo, perché sono molti gli elementi che si impigliano gli uni negli altri. Prima di tutto i fatti. Di certo ci sono le denunce delle donne colpite, la loro angoscia, le lacrime, i racconti. Poi ci sono le anomalie. Ci sono voluti giorni perché vicende così clamorose diventassero pubbliche; la polizia, in epoca di terrorismo, ha lasciato così sguarnita una zona nota per la sua pericolosità. E si moltiplicano le domande su chi siano in realtà gli assalitori, identificati per il loro aspetto straniero e la pelle scura; se si tratta di bande organizzate, e quali fossero le loro mire. Se i furti, le donne, oppure entrambi. Gli arresti per ora sono sei, la polizia non ha ancora proposto una ricostruzione esauriente. Ma si può partire anche dalle interpretazioni, dalla politica, dalle tesi che ai fatti si sovrappongono e ne rendono difficile la comprensione. Una minaccia per le donne europee, attraverso di loro una forma della guerra dichiarata a tutti, questa è l’interpretazione prevalente, con toni più o meno accesi. In Italia si distingue come sempre Il Giornale: "Vogliono colpire le nostre donne", mentre compare l’immancabile accusa: "Perché le femministe italiane non parlano?". Che la vicenda si intrecci con il milione di richiedenti asilo che quest’anno sono entrati in Germania è evidente. Come è evidente l’uso strumentale nella battaglia contro la cancelliera Merkel, sotto accusa da quando nel settembre scorso di fronte alla pressione sui confini dei profughi siriani disse: "Abbiamo la forza di fare quanto è necessario", e non pose limiti ai richiedenti asilo. Una scelta che rischia di penalizzarla nelle prossime elezioni. Ma non si può ricondurre tutto a una questione di geopolitica, minimizzare fatti "disgustosi", come li ha definiti la stessa Angela Merkel. Ecco, io partirei proprio da questa definizione. In effetti le molestie sono disgustose. Uomini soli, ubriachi e, come dire, eccitati, che nella folla palpeggiano, toccano, irridono, oltre che rubare, fanno paura. Ma sono un fatto mai visto, non è mai successo? Credo che il dovere della polizia sia di accertare se sia vera l’esistenza di un piano speciale, di un progetto organizzato di bande di giovani nordafricani, che in ogni caso poco hanno a che fare con i profughi appena arrivati. Accertarlo è necessario, sarebbe un fatto grave, sul quale per ora va sospeso il giudizio, di cui vanno analizzate bene le motivazioni, le finalità. E in attesa di dati certi non si può dire altro se non che è vero, le culture dei paesi di origine sono maschiliste, le donne che si muovono liberamente per strada, per di più di notte, sono perlomeno una stranezza fastidiosa se non una preda. Ma non c’è stata una sottovalutazione, proprio di questo problema? E forse, ma mancano informazioni, non si è prestato subito ascolto alle denunce delle donne che hanno subito gli assalti? Spazi illuminati, controllo discreto ma evidente delle zone dove ci sono gli assembramenti vistosi di giovani maschi, ascolto delle denunce di donne che si sentono insicure in alcune zone. La sicurezza delle donne, la libertà di muoversi senza paura è fatta di un insieme di misure, che sempre più le amministrazioni sono orientate a introdurre. Molto di più può fare il cambiamento di mentalità, la cultura, l’abitudine a vedere le donne muoversi liberamente, a non dare retta e a non avere paura degli uomini. Anni fa, ai tempi del femminismo di piazza e di massa, su un autobus romano un uomo anziano disse a uno più giovane, che vistosamente stava molestando una ragazza: "Ma lassa perde, nun hai capito che nun hanno bisogno de noi, ormai". Non è per sdrammatizzare che racconto questo piccolo episodio, che mi sembra tuttora indicativo di come i cambiamenti entrano nella mente della gente per le vie più svariate. È che penso che si tratti un passaggio necessario, per chi arriva in un paese dove le donne godono di una libertà inaudita rispetto alle proprie abitudini. Un problema che va considerato in tutti i progetti di accoglienza, da trattare con la dovuta attenzione. Ma l’arrivo dei profughi, dei migranti in Europa è proprio una minaccia epocale per le donne? Diversa dalla vita difficile che ciascuna si trova a condurre di solito, nelle strade e soprattutto nelle case, se si considerano le statistiche sulle donne maltrattate? Non comprendo come sia possibile pensare di separare le famiglie, far entrare le donne e i bambini, lasciare fuori gli uomini. Una cosa è ben nota, in qualunque contesto. Che sono gli uomini soli, separati dalle loro donne, dalle loro famiglie, a creare i maggiori problemi di ordine pubblico. Certo, se entrano nei nostri paesi gruppi che perseguono lo stupro etnico, come è successo ai tempi della guerra in Bosnia, sarebbe un fatto di una gravità assoluta. Eppure, almeno alle notizie attuali, il paragone mi sembra del tutto spropositato. Un effetto dell’incontrollabile e pervasiva macchina della paura. Il velo per un giorno è vera solidarietà? di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 8 gennaio 2016 Tutte a Colonia, il 4 febbraio. È la chiamata di queste ore: corre lungo i fili digitali e unisce donne anche distanti ma ugualmente accese dalla volontà di non cedere neppure un palmo di terreno libero conquistato. A Colonia, a Colonia. Quello renano sarà un Carnevale speciale, festeggeremo il diritto di uscire la sera, di uscire senza pensare (a come sei vestita, a chi ti accompagnerà a casa), di uscire fuori: fuori dai codici scritti per noi prima di noi, fuori dalle previsioni su dove andrai mai nella vita, fuori da qualunque destino non sia quello che - impastando fatica e desideri - hai scelto di costruire con i tuoi mattoni di bambina, di adolescente, di adulta. La notte nera di Colonia, una città tedesca come molte altre in Europa, sta disegnando una frontiera immateriale: la politica delle porte aperte ai migranti non può prevedere una via d’uscita che si chiuda sui diritti delle donne. Gli autori dell’accerchiamento di massa a Capodanno - per violentare e rubare e umiliare - non possono essere i profughi siriani dell’ultima ora, ma sono con tutta probabilità i rappresentanti di comunità che crescono chiuse, illiberali, furiose ai margini dei nostri centri. È il momento di trovare una voce che - se pure tra le incertezze - ci permetta di parlare di donne e Islam, come di donne e religioni, di donne e cultura maschilista. Perché è vero che l’emancipazione femminile, profonda e ampia, resta la prova più straordinaria che ancora dobbiamo affrontare insieme. Ed ecco un’altra chiamata. Anche questa arriva dalle donne, la convocazione è di nuovo per febbraio: l’1 sarà la Giornata del velo, la terza dal 2013. La sigla in inglese è WHD, World Hijab Day. L’idea di chi l’ha organizzata - Namza Kahn, emigrata ragazzina dal Bangladesh al Bronx e costretta nel tempo ad affrontare vari sospetti d’Occidente - è quella di unire le forze di musulmane velate, musulmane non velate e non musulmane: per 24 ore di condivisione e solidarietà. Donne di tutte le religioni - e se possibile donne non religiose affatto - unite contro l’islamofobia che avanza come un potente opaco anticiclone rispetto alla mappa dei flussi migratori globali. Il motto dell’evento reclama "una consapevolezza più profonda, per una migliore comprensione, in un mondo di pace". Un gesto che appare semplice: coprirsi il capo e non temere per un giorno di vestire un simbolo, un segno identitario di altre donne e di altre vite. Di più. Indossare il velo e abiti larghi è una garanzia di privacy, un atto femminista "di indipendenza dagli sguardi sciovinisti e predatori degli uomini", come spiega sul New York Times chi sostiene la Giornata del velo. Siamo così tornati nella piazza di San Silvestro. Dobbiamo davvero difenderci dallo sguardo di possesso e predazione degli uomini? È consigliabile poi tenere per sicurezza "un braccio di distanza" se quegli uomini sono stranieri - come ha proposto maldestramente la sindaca di Colonia nel clamore della conferenza stampa? A chi appartengono i miei capelli? Al vento, al sole, al marito che verrà? La prima volta che sono inciampata in questa che non mi era mai sembrata una gran questione mi trovavo a Vienna, durante un corso estivo all’università. Sotto di me, nell’aula magna, c’era una studentessa egiziana, nascosta dalla testa ai piedi da un manto nero che pareva pesante. Non hai caldo? Le aveva chiesto un compagno di banco senza farsi troppe storie. "No - aveva risposto subito lei, forse temendo da sempre di dover dare spiegazioni. Mi vesto così perché preservo il mio corpo per l’intimità esclusiva che mi unirà al mio sposo e padre dei nostri figli". E perché lui, nel frattempo, non dovrebbe preservare i suoi capelli e il suo corpo a te che sarai la sua sposa? Lo avevo domandato senza intendere alcuna provocazione, avevo rovesciato su di lei un principio che a me pareva di equità e venne invece interpretato come un atto definitivo di ostilità culturale tra noi. Abbiamo impiegato decenni, forse secoli, in Occidente a toglierci i veli della nostra di cultura. E ancora, a volte, ci sorprendiamo a cercare riparo nel contegno per superare il disagio improvviso che ci prende quando ci sentiamo esposte. Quell’eterna esortazione alla modestia, alla purezza se non alla verginità, infine alla sottomissione a un ordine di regole e di misure che ci precede. Rimetterci ora il velo dell’Islam per manifestare pluralismo sarebbe sì un gesto di rottura di ogni schema e confronto, ma anche un gioco mimetico inquietante. La tentazione di andare contro la stupidità feroce degli xenofobi, che sulle femmine hanno pensieri simili agli aggressori di Capodanno, non basta. E non giustifica un relativismo che finirà per rubarci le parole. Almeno finché a tutte le donne che vivono in regimi, pubblici e privati, all’interno dei quali è dovere coprirsi non sarà permesso dire "no". No anche a un fazzoletto se indesiderato, no al silenzio sulle nostre ambizioni, no alle ossessioni degli altri, alle raccomandazioni, no alle prediche sul rispetto sociale riservato a chi non provoca turbamento. Sulla testa delle donne si combatte. Nelle piazze, nelle case, lungo i fronti di guerra. A Colonia, a Raqqa, a Roma. Nella confusione di questi giorni, alla ricerca di soluzioni o anche solo di voci da ascoltare, la prima risposta a qualunque violenza è farsi conoscere/riconoscere per quello che siamo e vogliamo diventare. A chi appartengono i miei capelli? Al vento, al sole, solo a me. Quale limite ai migranti per salvare l’identità di Carlo Nordio Il Messaggero, 8 gennaio 2016 Per affrontare in termini razionali, e non emotivi, il problema dell’immigrazione massiccia e incontrollata che minaccia di dissolvere l’Unione Europea, ci affideremo ai sofisti, primi maestri di razionalismo. Volendo educare i cervelli a ragionare, Protagora e compagni inventarono un’infinità di stratagemmi discorsivi, esercitazioni virtuose che imbarazzavano l’ascoltatore. Ad esempio si domandavano: "Quale granello forma il mucchio?". Oppure: "Quale capello che cade è la calvizie?" La risposta sembrava impossibile, benché ognuno distinguesse una testa irsuta da una pelata. In realtà è un trucco eristico, che gioca sulla nostra istintiva incapacità di distinguere due categorie logiche incompatibili: la quantità (il numero dei capelli) e la qualità (la calvizie). Socrate confutò questa scaltrezza in termini pragmatici, dopo duemila anni Hegel ne chiarì l’equivoco in termini speculativi. Il quesito oggi si ripropone così: qual è l’immigrato (il centomillesimo, il milionesimo?) che compromette l’equilibrio e forse l’esistenza di una Nazione? Istintivamente si risponde: la domanda è impropria, oltre che razzista e cattiva. Ma in realtà il problema esiste, perché un’Italia con cinquanta milioni di afroasiatici di usi e costumi diversi non sarebbe più l’Italia che conosciamo. Eppure non possiamo dire quale sarà il punto di non ritorno, come non sappiamo dire quale sia il capello che, cadendo, ci rende calvi. Andiamo avanti. La chiusura delle frontiere di paesi tradizionalmente tolleranti e "civili", come Danimarca e Svezia non è altro che il frutto dell’inavvedutezza critica dei governi, e della stessa Unione, nel riflettere analiticamente sul sofisma di Protagora, adattato ai giorni nostri. Se infatti il governo svedese dice di non aver più posto per gli immigrati, perché non può più assicurare loro un ambiente riscaldato nel rigido inverno polare, ciò dipende dal fatto che, al momento di discutere sull’accoglienza e la cosiddetta distribuzione delle quote, nessuno si domandò: "Che facciamo se oltre agli immigrati che abbiamo ne arrivano dieci o cento volte tanti?" Mistero. Perché questa è la situazione. Dall’Africa e dall’Asia premono decine - forse centinaia - di milioni di individui che intendono arrivare in Europa. È ozioso domandarsi se scappino dalle guerre o cerchino solo una vita migliore, perché, per il paese ospitante, è indifferente la ragione dell’esodo, quando la misura è colma. Come ha detto il governo svedese, e con lui tutti i paesi ex comunisti, nonché buona parte dei cristianosociali bavaresi. Che fare allora? Credo si debba riflettere sulla provocazione dei sofisti del capello e della calvizie, distinguendo la categoria quantitativa (il numero degli immigrati) da quella qualitativa (l’identità nazionale). E quindi domandarsi in tutta sincerità: c’è il rischio di diventare calvi? Ovverossia: c’è il rischio che l’Europa diventi diversa da quella che è? Possiamo benissimo rispondere di no, sostenendo che l’Italia con cinquanta milioni di immigrati sarebbe la stessa di adesso. È un’opinione come un’altra, e in effetti già oggi qualcuno la sostiene in nome dell’accoglienza solidale. Però andrebbe sottoposta al vaglio della volontà popolare, spiegando bene ai cittadini gli effetti culturali, economici, religiosi ecc. di una simile trasformazione. E se i cittadini rispondessero che no, non sono disposti a diventare un’appendice afroasiatica, l’antilogia di Protagora si riproporrebbe: perché il governo dovrebbe indicare il limite quantitativo oltre il quale l’identità nazionale sarebbe snaturata. In altre parole: quanti ne possiamo prendere? Centomila, un milione? O di più? Questa è la domanda drammatica alla quale, prima o poi, si dovrà rispondere. Ma per ora non ci si pensa, con il rischio, un giorno, di scoprirci calvi. Se poi la calvizie sia più o meno attraente, ognuno giudicherà da sé. Se nessuno vuole seppellire i kamikaze di Francesca Paci La Stampa, 8 gennaio 2016 I terroristi delle Torri Gemelle così come quelli di Parigi continuano a minare le coscienze occidentali anche dopo morti: dare loro una tomba oppure no? Una sociologa francese sulle tracce delle tombe celate degli jihadisti. Dove vanno a finire i corpi dei kamikaze, fantasmi che a partire dagli attentati delle Torri Gemelle di New York non sono più usciti dalla top ten delle paure della coscienza occidentale? Mohamed Abba, Hasib Hussain, i fratelli Kouachi, Abdelhamid Abaoud e gli altri jihadisti del Bataclan? "Nessuno li vuole, né i paesi in cui colpiscono né quelli di origine, così gli jihadisti continuano a tormentare le loro vittime anche dopo aver seminato il terrore" afferma la sociologa Riva Kastoryano. Da quindici anni è sulle tracce delle tombe senza nome che sono protagoniste del suo ultimo libro "Que faire des corps des djihadistes?": gli attentatori dell’11 settembre 2001, quelli di Madrid 2004 e di Londra 2005, una catena di assassini invasati fino agli esecutori della strage di Charlie Hebdo nella Parigi in cui insegna a Science Po. Nessuno vuole i cadaveri maledetti, ci dice Kastoryano che ne ha scritto a lungo sui giornali francesi, a cominciare da Libération: "Le famiglie non li rivendicano e gli Stati si rimpallano la responsabilità: dove erano nati? Che passaporto avevano? A chi tocca occuparsene dopo la loro morte? In tutti questi anni ho scoperto che solo la Gran Bretagna, in virtù del suo modello multiculturale, prevede, magari in tempi differiti, la sepoltura in casa propria di questi cittadini irriducibili a qualsiasi idea di cittadinanza che non sia l’appartenenza all’idea della "umma", la grande comunità musulmana, uno stato che non esiste. I kamikaze del 7 luglio 2005 erano quasi tutti di origine kashmira o pakistana ma avevano anche la nazionalità britannica. Sono riuscita a trovare solo la tomba di uno di loro, Hasin Hussain, è stato sepolto a Beeston Hill, un sobborgo della Leeds in cui viveva. Sulla lapide non c’era il nome e quando in seguito il padre ha provato ad aggiungerlo la tomba è stata profanata. Negli Stati Uniti è una specie di materia top secret". Il problema dei resti di chi vive per uccidere è duplice, da una parte una sepoltura regolare farebbe di loro una calamita per potenziali emuli in cerca di un sacrario del terrore (come quando a febbraio scorso qualcuno depose fiori davanti alla porta di casa dell’attentatore Omar Abdel Hamid el-Hussein ) e dall’altra potrebbe catalizzare l’odio sociale. Last but not least, la questione mette in crisi i valori su cui si fondano le democrazie liberali, tra cui il rispetto dovuto ai morti. Prova ne sia l’estrema decisione americana di affidare al mare l’ingombrante Osam bin Laden. Meglio dunque calare un velo impermeabile. Nel caso di Madrid i terroristi erano immigrati dal Marocco e dalla Tunisia e la sorte di quei corpi rimbalza ancora da una sponda all’altra del Mediterraneo: "Le autorità spagnole, rifacendosi al precedente dell’Eta quando restituivano alle famiglie basche i corpi dei loro figli, li rimandano in patria. Ma quando poi sono andata in Marocco mi sono scontrata con un silenzio da censura: nessuno pare sapere niente, né le autorità che appongono il segreto di sicurezza né i parenti che si servono dell’ignoranza per dissociarsi, in assenza di un cadavere qualche madre ripete ancora che non si tratta del suo ragazzo, che non è affatto detto, che non ci sono prove". Per la prima volta, dopo gli attentati del 13 novembre a Parigi, la madre di uno degli jihadisti, Bilal Hadfi, si è affidata a YouTube per chiedere la salma su cui piangere. La storia degli ultimi terroristi di Francia conferma la regola: nel caso di Mohammed Merah, autore delle stragi di Tolosa, nonostante la richiesta del padre l’Algeria non ne ha voluto sapere di rimpatriare il corpo e in virtù della doppia cittadinanza la patata bollente è rimasta a Parigi. Stessa cosa per Amedy Coulibaly, il killer dell’Hypercasher, spedito in Mali ma rimandato prontamente indietro nella notte fino a essere sepolto nel settore musulmano del cimitero di Thiais, a Val de Marne. "In presenza del doppio passaporto è difficile respingere i corpi - continua Kastoryano. Il corpo del kamikaze è un’arma in sé, si consuma nel momento in cui uccide ma la detonazione dura a lungo, lo Stato colpito non può più fare giustizia, resta la possibilità di negare la sepoltura, l’estremo gesto di umanità a chi in vita è stato disumano, ma vale solo per un certo periodo poi bisogna sotterrare i corpi. In Israele per esempio, dopo che nel 2000 le famiglie dei palestinesi si appellarono ai tribunali, si è deciso di rendere i cadaveri ma a tre condizioni, che vengano sepolti senza nome, di notte e in presenza di massimo 3 o 4 famigliari". La trincea di Hollande. Lo stato di emergenza diventerà permanente di Stefano Montefiori Corriere della Sera , 8 gennaio 2016 La metamorfosi di Hollande è completa: da leader evanescente a determinato presidente di guerra e di sicurezza, amico dei generali e delle forze di polizia. Un presidente socialista di guerra e di sicurezza, il migliore alleato dei generali e delle forze di polizia: la metamorfosi di François Hollande è ormai completa. L’uomo che ha passato i primi due anni all’Eliseo a studiare timide riforme fiscali e poco incisive scelte economiche, l’evanescente leader che alcuni accusavano di avere il carisma e il coraggio di un sotto-prefetto di provincia, affronta oggi l’emergenza terrorismo con una determinazione - in Medio Oriente e adesso anche in patria - che inquieta alcuni del suo stesso campo. All’esterno, Hollande ha intensificato i bombardamenti contro lo Stato islamico in Siria, facendo del ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian il suo uomo di fiducia; all’interno, il presidente sostenuto dal premier Manuel Valls e dal ministro Bernard Cazeneuve presenta in questi giorni un progetto di legge che dà grandi poteri alla polizia e ai procuratori, slegati dal controllo giudiziario. Misure che, se proposte da un governo di destra, avrebbero probabilmente fatto gridare al colpo di Stato strisciante. Prolungare o no lo stato di emergenza che scade a febbraio? Nel dubbio, le norme più importanti verranno inserite nel codice penale e rese permanenti. Nell’anniversario di Charlie Hebdo, mentre il ventenne di origine marocchina Sallah Ali brandiva un’accetta e gridava "Allah Akhbar" davanti a un commissariato, Hollande presentava ieri gli auguri di buon anno alle forze dell’ordine riunite alla prefettura di Parigi. Poliziotti, gendarmi, membri delle unità speciali del Raid e del Gign, soldati dell’operazione Sentinelle incaricati di proteggere i luoghi sensibili in tutta la Francia, raccolti in un omaggio ai tre agenti caduti negli attentati di gennaio 2015: l’uomo della scorta Franck Brinsolaro, Ahmed Merabet ucciso per strada dai fratelli Kouachi, e l’agente municipale Clarissa Jean-Philippe vittima di Amedy Coulibaly, "morti perché noi potessimo vivere liberi", ha ricordato Hollande. Ma è proprio questo che viene contestato al presidente: quegli eroi sono morti perché noi potessimo vivere liberi, o sicuri? La priorità è la libertà, o la sicurezza? "Le nostre libertà devono essere garantite - ha proclamato il presidente davanti alla corona di fiori -. La Francia sa bene che perderebbe sé stessa se trascurasse i valori che la fondano". Ma la realtà sembra diversa. Ancora una volta dopo gli orrori del 2015 e in particolare i 130 morti di novembre, la sinistra al governo dà l’impressione di volere seguire gli umori di un Paese che si sposta sempre più a destra, e di essere pronta anche a rinunciare alla sua anima, a ciò che la distingueva dalla cultura politica dell’ex "primo poliziotto di Francia" Nicolas Sarkozy. Il testo sotto esame al Consiglio di Stato offre al pubblico ministero potenti mezzi di inchiesta, come le perquisizioni a domicilio che in epoca pre-terrorismo dovevano essere autorizzate dal giudice istruttore, e adesso non lo sono più. Anche cimici, telecamere e software potranno essere usate su semplice ordine della procura. Lo spostamento di peso dal giudice al procuratore è importante, perché il secondo è nominato dal governo e non è indipendente dal potere esecutivo, come ha ricordato anche la Corte europea dei diritti dell’uomo in una recente condanna della Francia (2013). Il deputato socialista Pouria Amirshahi dice che "Manuel Valls non è più il primo ministro ma il portavoce dei poliziotti", che avranno regole di ingaggio meno rigide e potranno usare le armi con più facilità, mentre l’ex ministro Benoît Hamon critica in particolare le quattro ore di custodia cautelare senza avvocato, denunciando "una migrazione dello stato di emergenza nel diritto comune". Sullo sfondo, la polemica più dolorosa, quella sulla revoca della nazionalità francese ai cittadini con doppio passaporto condannati per terrorismo. In gioco c’è la fine dell’uguaglianza davanti alla legge: a parità di crimine, i francesi "normali" conserveranno la loro cittadinanza, quelli "bi-nazionali" (i musulmani, insomma), no. La Guardasigilli Christiane Taubira non nasconde la sua opposizione, perché la revoca "tocca un pilastro importante della democrazia francese", e oltretutto serve a ben poco: per essere privati della nazionalità francese bisognerà essere "terroristi bi-nazionali, catturati e vivi". Quattro requisiti che raramente vanno insieme. Libia in fiamme, l’Isis colpisce il petrolio di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 8 gennaio 2016 Strage di reclute della polizia sulla strada tra Tripoli e Misurata. Incendiati 7 depositi di greggio. La Libia è in fiamme. Ieri mattina un’autobotte carica di esplosivo guidata da un kamikaze ha causato una strage senza precedenti, di quelle che ricordano gli attentati in Siria e Iraq. Obbiettivo: il campo di addestramento per le reclute della polizia di al-Jahfal a Zliten, cittadina costiera a 160 chilometri a est di Tripoli e 50 a ovest di Misurata. Un massacro avvenuto proprio mentre 400 giovani in divisa erano radunati per l’appello. Almeno una cinquantina i morti (alcune fonti ne segnalano 65), oltre 120 i feriti. Gli ospedali locali chiedono sangue e medicine. La gravità dell’attacco non sta solo nel numero delle vittime, bensì nel luogo: sulla strada di collegamento principale tra la capitale e Misurata, dove è basata la milizia più importante tra quelle che nel 2011 guidarono la lotta armata (con il sostegno Nato) contro il regime del Colonnello Gheddafi. Ieri sera ancora non erano giunte rivendicazioni credibili: ma convinzione diffusa è che i responsabili vadano cercati tra i jihadisti di Isis, che sempre più numerosi ormai stanno concentrandosi nel Paese (sconosciuto il loro numero, fonti libiche stimano sino a 10.000 stranieri). Tanti sono locali, ma i più pericolosi restano i volontari arrivati dall’estero. I media di Tripoli riportano che tre notti fa un barcone "carico di stranieri" era arrivato sulla spiaggia di Zliten, senza che le autorità abbiano potuto fare nulla di concreto per fermarli. "Abbiamo provato a registrare gli stranieri, ma il nostro sforzo non ha impedito la catastrofe", sostiene Sarraj al Rashdi, responsabile del commissariato di Zliten, al giornale online in lingua inglese Libya Herald. Isis sposta i suoi uomini via mare, controlla ormai oltre 400 chilometri di costa libica, molti arrivano anche in barca dalla Tunisia. Un’informazione che conferma gli appelli all’"andata in Libia" fioriti numerosi negli ultimi tempi tra i ranghi di Isis in Siria e Iraq. A ciò si aggiungono gli attacchi sempre più aggressivi che le colonne di Isis partite da Sirte (l’ex roccaforte di Gheddafi, che da oltre un anno è diventata la base principale del Califfato in Libia) lanciano contro i terminali petroliferi di Ras Lanuf, Ben Jawad e il porto di El Sider. Sono nomi noti, marcarono le battaglie dell’estate 2011, quando i miliziani di Gheddafi cercavano di raggiungere Bengasi. Allora però sia i ribelli che le brigate lealiste stettero ben attenti a non mirare a tutto ciò che aveva a che fare con il petrolio e le ricchezze nazionali. Ora non più. Isis spara alzo zero, vuole colpire ciò che era stato salvato. I pompieri hanno estinto a fatica due incendi nei depositi petroliferi di Ras Lanuf (ognuno della capacità di 460.000 barili di greggio). Altri cinque, più piccoli, sono ancora in fiamme a El Sider. "Siamo spacciati. Isis sta prendendosi la Libia", commentano tra i circoli della stampa nella capitale. Non c’è più spazio per titubanze o dubbi, quella che prima era una minaccia si è trasformata in realtà violenta e aggressiva: Isis si stabilisce sempre più saldamente in Libia. E avanza verso Tripoli, si allarga da Sirte verso Bengasi, colpisce chiunque si opponga, sbaraglia le milizie locali, attacca la polizia, prende di mira la ricchezza principale del Paese: i pozzi petroliferi, le infrastrutture energetiche. I politici locali si dimostrano del tutto impotenti. Il nuovo governo di unità nazionale sponsorizzato dall’Onu e caldeggiato dall’Europa, con l’Italia in testa, appare come paralizzato, incapace di mettere ordine alle diatribe interne. Maysaa Al Amoudi: "gli attivisti tacciono ma a Riad si va in carcere pure per una parola" di Raffaella De Santis La Repubblica, 8 gennaio 2016 La giornalista di 34 anni, finita in galera un anno fa per aver guidato una macchina al confine tra gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita, ha letto delle 47 esecuzioni mentre era in Italia. "Non conoscevo le persone uccise, la loro storia, ma so che ciò che è accaduto non dovrebbe mai accadere". Eppure in Arabia Saudita tutto tace. Domina il silenzio. Maysaa Al Amoudi è una giornalista di 34 anni, finita in carcere un anno fa per aver guidato una macchina al confine tra gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita. Ha letto delle 47 esecuzioni, mentre era in Italia. Maysaa è un volto popolare della tv araba, questa è la prima intervista che rilascia da quando è stata liberata. È una donna coraggiosa, luminosa. Si è tolta il velo quando tutte lo portavano, è diventata giornalista anche se alle donne non era consentito, ma stavolta pesa ogni parola. È chiaro che teme conseguenze per i suoi familiari, che sono ancora lì. Come mai non si registrano reazioni importanti da parte degli attivisti sauditi contro il governo? "Anche una parola in più potrebbe essere di troppo. In carcere c’è ancora il nipote dell’imam sciita ucciso Nimr Al Nimr e per la minoranza sciita la situazione è difficile da gestire. Quello che posso dire è che detesto ogni forma di violenza e che non vorrei mai vedere scorrere tanto sangue ". Nessuno parla per paura di finire in prigione? "Le carceri sono piene di lavoratori stranieri e giornalisti. Dentro ci sono sia sunniti che sciiti, sono trattati tutti allo stesso modo, ma le differenze si vedono nelle aule dei tribunali. Persino i social media sono pieni di insulti razziali contro gli sciiti. Io non sono sciita, ma ho subito due processi dopo essere stata arrestata per aver guidato una macchina, il che è vietato alle donne dalla legge saudita. Il secondo processo al tribunale di Riad prevedeva anche l’imputazione per terrorismo, ma l’avvocato è riuscito ad evitare l’accusa. In realtà avevo solo tentato di andare in soccorso dell’attivista blogger Loujain Alhathoul. Stava guidando dagli Emirati Arabi Uniti verso l’Arabia Saudita ed era bloccata al confine. Mi sono messa al volante e le ho portato cibo e altre cose utili". Avete entrambe scontato 73 giorni di carcere. Come l’ha cambiata quell’esperienza? "Durante la prigionia ho imparato a meditare. Cercavo di cancellare i ricordi del mondo esterno. Quando sono uscita non ricordavo niente, la mia taglia, il mio profumo, le facce dei miei amici. Un giorno una guardia mi ha permesso di vedere la luna e il cielo, è stato bellissimo. Oggi so che voglio lottare per i diritti umani in generale, non solo per le donne". Ma la situazione per le donne in Arabia Saudita va migliorando? "Alle recenti elezioni amministrative dove le donne sono state ammesse per la prima volta, molte candidate sono state cancellate dalle liste, tra cui la stessa Loujain Alhathoul e l’attivista Nassima Al Sada, senza dare motivazioni. Non tutte le donne però hanno capito l’importanza del voto. Sono abituate a vivere sotto il controllo di guardiani uomini, si fidano di loro". A Dubai conduceva un programma tv sui diritti delle donne. Cosa si aspetta dal futuro? "Non voglio tornare in Arabia Saudita. Vorrei vivere in un Paese libero e sicuro, essere una giornalista normale e non una giornalista impaurita. In carcere ci sono tuttora molti giornalisti sconosciuti che non fanno notizia".