La lentezza colpevole della giustizia di Deborah Cianfanelli (Partito Radicale) L’Unità, 7 gennaio 2016 A causa dell’enorme arretrato del carico processuale e dello scarso numero di giudici, la lentezza dei processi nel nostro paese si è fatta inaccettabile, tanto da rendere il nostro Stato pluricondannato per violazione della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, trasformandosi in una persistente denegata giustizia. I tribunali italiani non riescono più a far fronte all’enorme carico di lavoro arretrato ed al crescente numero di processi pendenti. Questo dossier nasce dall’analisi approfondita delle informazioni fornite dallo stesso Dipartimento Organizzazione Giudiziaria, Direzione Generale di Statistica, e dimostra lo stato della giustizia in Italia, sia civile che penale, che comporta continue condanne da parte delle giurisdizioni europea e internazionali. Per questo noi Radicali ci siamo convinti che sia dovere del Partito Radicale Trasnazionale portarlo a conoscenza del Presidente della Repubblica, nella sua qualità di garante della legalità costituzionale e primo magistrato, affinché possa essere consapevole della situazione e possa agire di conseguenza, come già fece il suo predecessore Giorgio Napolitano che inviò il formale messaggio alle Camere. Messaggio che purtroppo rimase inascoltato da parte del Governo, del Parlamento ed oggi anche dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, nel suo messaggio di fine anno, ha completamente ignorato i problemi della giustizia. In questo dossier ho voluto evidenziare come nonostante le rassicurazioni (provenienti dal Governo) circa una decrescita del numero dei procedimenti civili pendenti (passati dai complessivi 5.257.693 del 30.06.2013 ai 4.898.745 del 30.06.2014) le cause sono invecchiate: le cause ultra triennali nel 2013 erano il 28% del globale e nel 2014 sono salite al 32% con conseguente ulteriore aumento della violazione dell’art. 6 Cedu che sancisce la ragionevole durata dei processi; ne deriveranno ulteriori sicure condanne. L’inefficienza della giustizia, oltre ad essere un costo sociale, è fonte di costi rilevanti per l’intero sistema produttivo in termini di crescita e produttività, con procedure fallimentari sempre in aumento, fughe di imprese all’estero e assenza di investimenti da parte di imprese estere. Tutto questo ha un notevole costo in termini di denaro pubblico, a causa di uno Stato le cui istituzioni non sono in grado di rispettare le proprie leggi, e che continua a dover pagare risarcimenti alle vittime della irragionevole durata dei procedimenti senza porre rimedio con riforme strutturali tali da non subire nuove e certe condanne. La domanda è: quanti soldi pubblici ha speso lo Stato fino ad oggi per le condanne subite ai sensi della legge Pinto per risarcire le vittime dell’eccessiva durata dei processi? È diritto dei cittadini conoscere come vengono spesi i soldi pubblici, eppure non si riesce ad avere una cifra certa. Nel 2007 la Commissione Tecnica per la Finanza Pubblica valutò il rischio economico per lo Stato per le future e probabili condanne ai sensi della Legge Pinto in 500 milioni di Euro l’anno. Nel 2011 la Banca d’Italia indicava il costo dell’inefficienza della giustizia nella misura dell’1% del Pil. All’inaugurazione dell’anno giudiziario del 2014 l’allora Ministro Severino indicava un arretrato del debito Pinto ancora da pagare in oltre 387 milioni di Euro, somma che, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2015 saliva ad oltre 400 milioni di Euro. Nell’ultimo aggiornamento del censimento sulla giustizia civile voluto da Mario Barbuto si parla di un debito Pinto di oltre 750 milioni di Euro. Insomma c’è un balletto di cifre che sono certamente sottostimate in quanto bisogna tenere conto che lo Stato sta ad oggi pagando i decreti di condanna Pinto risalenti agli anni 2010-2011; pertanto bisogna considerare l’ulteriore costo in termini di interessi legali e di spese legali cui soccombe verso chi è costretto ad adire le vie legali anche per ottenere il pagamento di ciò che gli spetta. Secondo lo stesso Ministero della Giustizia la posizione debitoria dello Stato verso gli utenti a causa dell’eccessiva durata dei processi aumenta di circa 8 milioni di Euro al mese! Lo Stato non solo non pone rimedio alla reiterazione della violazione, ma attenta al diritto dei cittadini ad ottenere il ristoro che loro spetta, come è accaduto con la Legge di stabilità che ha apportato tali e tante modifiche alla Legge Pinto da renderla pressoché inaccessibile. Chi subisce lesione dei propri diritti da parte dello Stato italiano oltre al danno ha anche la beffa. Il dossier vuole essere una forma di collaborativo dialogo con le massime istituzioni perché si possa ottenere un rientro nella legalità del nostro Stato, che lo riporti al rispetto della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo. Questo si potrà attuare innanzitutto con un richiamo dei magistrati fuori ruolo, al fine di ridurre l’arretrato delle cause ultra triennali, perché il rispetto della Legge rappresenta anche il rispetto dei cittadini. Nell’età della diffidenza, quale fiducia nella magistratura? di Renato Balduzzi Avvenire, 7 gennaio 2016 Siamo in un’epoca di diffidenza generalizzata, dalla quale nessuna persona e nessuna istituzione sembra potersi sottrarre. Non più la diffidenza o il sospetto come atteggiamenti propri dei soli intellettuali, riferiti a quelli che, sulla scia di Paul Ricoeur, sono stati chiamati "maestri del sospetto"; e neanche la diffidenza intesa come patologia riguardante poche persone, inquadrabile come disturbo della personalità. No, ciò di cui parlo, e che constatiamo agevolmente anche nei nostri comportamenti quotidiani, sono la diffidenza nei rapporti interpersonali e il suo omologo nei rapporti sociali, cioè la sfiducia verso le "autorità" e verso le istituzioni rappresentative, a qualunque livello e in ogni settore, pubblico e privato. Quando la diffidenza viene a toccare in misura sensibile la magistratura, ci troviamo ai limiti estremi di tenuta della convivenza civile e quindi deve scattare subito un campanello d’allarme. Scrivo queste cose anche influenzato dalla lettura della sintesi di un’interessante ricerca (promossa dalla Scuola superiore della magistratura e curata da due esperti quali N. Delai e S. Rolando) sul tema "Magistrati e cittadini", dalla quale emerge la conferma di una progressiva erosione della fiducia verso la giustizia in generale e i magistrati in particolare, dovuta a diverse concause, che attengono ai tempi troppe volte infiniti dei processi, ai rapporti tra magistratura e politica (o leader politici), al modo con cui il sistema dell’informazione tratta il mondo giudiziario. Dalla ricerca emerge che la "cura" per l’ammalata giustizia potrebbe stare anzitutto nella capacità di ciascuno -magistrato, operatore giudiziario, politico, giornalista, professionista del foro, cittadino comunque coinvolto in procedure giudiziarie - di riappropriarsi in modo virtuoso del proprio ruolo, recuperando una corretta fiducia negli altri operatori e facendo la propria parte sino in fondo, tenendo sempre ben presenti la condizione e i problemi degli altri soggetti che si muovono nel pianeta giustizia. L’orientamento del Csm, in questi primi quindici mesi di nuova consiliatura, da un lato di intervenire senza esitazioni sulle storture e sulle magagne, anche relative a singoli magistrati e, dall’altro lato, di sostenere ed incoraggiare in ogni modo la parte buona, cioè la quasi totalità della magistratura, sembra il più idoneo a sostenere la battaglia per una rinnovata fiducia dentro e verso il pianeta giustizia. Il diritto di critica e le querele delle toghe di Armando Nanni Corriere della Sera, 7 gennaio 2016 È lecito definire "folle" o "surreale" un’inchiesta della magistratura, soprattutto se coinvolge un sindaco, indagato per non avere tagliato l’acqua nelle case occupate da famiglie di sbandati e di profughi, come invece prescrive la legge? La questione agita i rapporti tra magistratura e politica a Bologna, dove i pm titolari dell’inchiesta in cui è indagato il sindaco Virginio Merola hanno querelato i capigruppo in consiglio comunale di Pd e Sel per avere usato, appunto, quegli aggettivi riguardo al loro lavoro. Su un tema che aveva già acceso animi e dibattiti - il taglio dell’acqua in case dove, seppur abusivamente, vivono anche bambini - si innesta così anche questo risvolto. Luciano Violante, giurista ed ex presidente della Camera, dichiara sul Corriere di Bologna (che ha dato la notizia): "La moderazione nella critica è la cosa migliore, ma guai se non potessi criticare uno dei poteri pubblici. Forse il magistrato deve essere attento e sobrio quando si tratta di reagire". Ecco, l’arma della querela, quando è impugnata da un potere pubblico, fa sempre un certo effetto. Le parole della politica e quelle della magistratura abitano la stessa casa, ma stanze diverse. Una giustizia meno costosa ma più sommaria di Marino Longoni Milano Finanza, 7 gennaio 2016 Una giustizia più veloce al costo di averla più sommaria. Sembra essere questa la strada scelta dal legislatore con alcune disposizioni introdotte nella legge di stabilità (legge n. 208 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 30 dicembre) che potrebbero avere un effetto importante nella riduzione di uno dei mali cronici del sistema giudiziale italiano, l’eccessiva durata dei processi. La filosofia di fondo è che, non potendo incentivare più di tanto la produttività dei giudici (anche se in realtà si è previsto un timido aumento della pianta organica dei magistrati), rimangono solo due strade: mettere barriere all’ingresso in contenzioso o fare in modo che chi vi è già entrato trovi conveniente uscirne. Il primo approccio è già stato ampiamente utilizzato negli anni passati, con l’aumento del costo del servizio-giustizia fino al limite della tollerabilità e con la previsione di vie alternative, come la media-conciliazione, che non ha però dato i risultati sperati. Con la legge di Stabilità si è puntato invece su meccanismi di velocizzazione dei procedimenti o su incentivi all’uscita. Nel primo caso riducendo gli indennizzi previsti dalla legge Pinto per l’eccessiva durata del processo, ma soprattutto ponendo una serie di condizioni che le parti devono rispettare per poter poi chiedere il risarcimento: in sostanza gli avvocati devono fare di tutto per dimostrare di aver richiesto una giustizia più veloce, anche a costo di avere una trattazione più grossolana della causa. Nel processo civile per esempio devono optare per il rito sommario di cognizione o chiedere al giudice di chiudere il processo con una discussione orale cui segue lettura immediata della sentenza. Nel processo penale, in quello amministrativo o in Cassazione le parti hanno l’onere di sollecitare il giudice all’accelerazione del processo per non far scattare i termini previsti dalla legge Pinto, una sorta di pro-memoria obbligatorio a beneficio dei magistrati. I risarcimenti sono infine esclusi per le cause di modico valore (ancora tutto da specificare cosa questo significhi). Dietro procedure apparentemente poco ortodosse e certamente non garantiste è evidente il tentativo di scoraggiare manovre dilatorie, imponendo alle parti in causa un atto che perlomeno certifichi la volontà di non abusare delle lentezze del sistema per chiedere poi il risarcimento previsto dalla legge Pinto. Nella legge di Stabilità si è anche previsto di confermare, con la concessione di un credito fiscale fino ad un massimo di 250 euro, la negoziazione assistita che, in qualsiasi stato del processo, consente agli avvocati di prenderne in mano le redini e di chiuderlo con un accordo che ha lo stesso valore di una sentenza. L’istituto era stato introdotto in via sperimentale nel 2015 per mettere una pezza al fallimento della media-conciliazione che, vista molto male dagli avvocati, non ha raggiunto i suoi effetti, tanto che quasi sempre viene vissuta come un passaggio rituale più che uno strumento efficace per risolvere le controversie. Con la messa a regime del credito fiscale (anche se con un tetto massimo che è la metà di quanto previsto per la media-conciliazione) questo può diventare un valido strumento per la riduzione delle controversie e quindi per accorciare i tempi necessari per chiudere i contenziosi. La negoziazione assistita, che può essere obbligatoria o facoltativa, può essere utilizzata in alternativa al decreto ingiuntivo. Ma rispetto a questo è più veloce e ha generalmente un costo più basso. Ulteriore vantaggio è che non ci sono spese di giudizio. L’unico costo è quello relativo alla parcella dell’avvocato. In definitiva, l’approccio è sempre più economicistico, sempre più attento al rapporto costi/benefici e sempre meno all’universalismo dei diritti. La giustizia, da valore assoluto, diventa sempre più un valore condizionato dalla sua sostenibilità. La depenalizzazione raddoppia di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 7 gennaio 2016 È una depenalizzazione a doppio binario quella che approderà domani - salvo sorprese dell’ultim’ora - al primo Consiglio dei ministri del 2016, in attesa poi del varo della riforma delle procedure concorsuali/crisi d’impresa, in agenda per la prossima settimana. Accanto alla depenalizzazione "amministrativa" (si veda in proposito il Sole 24 Ore di ieri) c’è agli atti anche un decreto per la trasformazione in illeciti civili di una mezza dozzina di reati da Codice penale, dalle ingiurie al prossimo a una serie di falsi in atti tra privati, fino a reati di appropriazione qualificata (tra comproprietari oppure di tesori e cose smarrite o ricevute per errore). Dal novero della riduzione a sanzioni civili esce invece il danneggiamento che, dopo lunghi ripensamenti, ha convinto il legislatore delegato della sua perdurante utilità. In particolare, si legge nella relazione tecnica a questo nuovo e parziale colpetto di spugna penale, nonostante il modesto carico di indagini (cioè: ci sono pochissime inchieste aperte) si è deciso di mantenere reati la "deviazione di acque e modificazione di luoghi", la "invasione di terreni ed edifici" e, appunto, il danneggiamento. "Ciò - argomenta il ministero della Giustizia - in quanto si tratta di fenomeni criminali che, seppur ancora di scarsa incidenza sul carico giudiziario, meritano tuttavia rilievo penale in quanto attengono a fenomeni di occupazione di luoghi privati (a titolo esemplificativo, seconde case di villeggiatura) in via di drammatica espansione". Il danneggiamento resta fatto di rilievo penale per tutte le ipotesi aggravate (dall’uso di minaccia o violenza e sempre quando è collegato a manifestazioni di piazza o sportive, sempre procedibile d’ufficio dalla magistratura e senza necessità di querela del danneggiato), mentre la depenalizzazione "civilistica" del falso tra privati si ferma sulla soglia dei testamenti (olografi), delle cambiali o di altro titolo di credito, ambiti in cui rimane di competenza delle Procure della Repubblica. Tutti i casi previsti dal nuovo decreto - a differenza della gemella depenalizzazione "amministrativa" (si vedano anche le schede a destra) - andranno ad alimentare il lavoro della magistratura civile, integrando in sostanza un semplice travaso di materia e di lavoro da toga penale a toga civile (ma la cosa non preoccupa il relatore al provvedimento, convinto che tutto sarà smaltito con uomini e mezzi attualmente in organico). Travaso che ha comportato anche un delicato lavoro di cucitura e di trasposizione di istituti penali in un ambito - quello civilistico - che vive di vita, e soprattutto di codici, radicalmente diversi. La competenza, per cominciare, cadrà sotto l’ombrello del giudice presso cui l’ingiuriato (ad esempio) deve rivolgersi per ottenere il risarcimento per sè. La sanzione civile sostitutiva di quella penale non è invece destinata alle tasche del danneggiato ma confluirà nella (penalistica) Cassa delle ammende. Per giustificare la scelta, la relazione si aggancia all’unico precedente civilistico, che è quello del genitore inadempiente alla propria responsabilità genitoriale, tenuto a versare la multa appunto nella Cassa delle ammende. Quanto potrà fruttare questa monetarizzazione degli illeciti "ex" penali è davvero difficile da prevedere. A parte l’irrisorio tasso di recupero delle sanzioni inflitte dalle varie autorità giudiziarie (meno del 7% del totale), l’unico riferimento utile è l’incasso annuale di multe e ammende dell’ufficio del Giudice di pace: secondo Sogei nel triennio 2012/14 si tratta rispettivamente di 96mila euro, 87 mila e 75 mila, con una media di 86.500 euro/anno, che viene replicata nelle proiezioni di incasso della nuova normativa. La depenalizzazione "civilistica" andrà di pari passo con quella "amministrativa", che appare però più semplice (riguarda quei reati che erano già puniti con la sola multa o ammenda penale). E, soprattutto, sarà gestita totalmente al di fuori delle ingolfate aule giudiziarie e con enti impositori chiaramente individuabili e perciò anche più agevolati e motivati nel recupero. Tra i due decreti in vista di approvazione del Consiglio dei ministri c’è anche una differenza di "peso", considerato che la forbice delle sanzioni è molto più robusta sul versante della depenalizzazione amministrativa, con massimali che partono da 10mila euro e arrivano fino a 50 mila. Minori con sezioni ad hoc e rilancio della mediazione di Cosimo Maria Ferri Il Sole 24 Ore, 7 gennaio 2016 È in corso un importante dibattito sulla riforma della giustizia minorile e sulle forme di tutela dei minori nel nostro sistema giudiziario. Viviamo oggi, come accadde nella stagione delle riforme degli anni 70, un periodo di cambiamento mosso dall’attenzione per i diritti dei minori: avvertiamo l’attualità dei princìpi ispiratori della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, secondo i quali l’azione degli organi legislativi nazionali deve riservare "considerazione preminente" all’interesse superiore del fanciullo. Gli istituti del processo penale minorile - tra cui la messa alla prova, l’irrilevanza penale del fatto e il perdono giudiziale - attribuiscono rilevanza al progetto educativo finalizzato al reinserimento sociale del minore. Quest’approccio, definito dagli addetti ai lavori imputato-centrico, deve conciliarsi oggi con l’esigenza di assistenza e partecipazione della vittima del reato al procedimento penale, in base agli indirizzi del diritto sovranazionale. Questo punto merita particolare considerazione perché pone in primo piano le forme di tutela minima che devono essere garantite ai soggetti vulnerabili nell’ambito del processo penale. In questo nuovo contesto occorre rilanciare la mediazione penale, che offre all’autore del reato l’opportunità di confrontarsi con le conseguenze della sua azione con l’avvicinamento all’esperienza di sofferenza imposta alla vittima. È auspicabile che questo strumento di giustizia riparativa possa trovare applicazione anche nella fase dell’esecuzione della pena, in modo da ampliarne la funzione educativa e di ricomposizione del conflitto. È il pensiero espresso da tecnici, esperti e rappresentanti della società civile, nell’ambito degli Stati Generali dell’esecuzione penale, un ampio confronto avviato quest’anno dal ministero della Giustizia, che dedica due specifici tavoli al tema dei "Minorenni autori di reati" e a quello della "Giustizia riparativa, mediazione e tutela delle vittime del reato". Anche il legislatore sta operando su più fronti con iniziative destinate a sfociare in importanti riforme di settore delle quali il trattamento del minore costituisce il fulcro. Mi riferisco, ad esempio, al progetto di istituire sezioni per la famiglia e la persona presso i Tribunali ordinari - che intende consentire, in parallelo, di valorizzare le competenze specialistiche civili e penali dei Tribunali per i minorenni, e all’approvazione alla Camera del Ddl delega per l’adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze educative dei detenuti minori di età. Sotto tale ultimo profilo, una soluzione per offrire al minore una protezione adeguata, capace di coniugare le esigenze educative con quelle contenitive di controllo viene offerta, negli ultimi anni, dal collocamento in comunità non solo per il minore che incappi nel circuito penale ma per tutti i minori fuori famiglia. Il ricorso sempre più diffuso a questa preziosa risorsa è, per certi versi, sintomatico dell’insufficienza degli strumenti a disposizione dell’autorità giudiziaria minorile ed evidenzia, ancora una volta, l’ineludibilità di una nuova disciplina di ordinamento penitenziario che individui più articolate risposte rispetto alla complessità delle forme di disagio dei minori. Non dobbiamo infine dimenticare che il soggetto di minore età, al di là dei motivi che lo hanno indotto a "deviare", è una persona che va aiutata a maturare la capacità di reggere le frustrazioni e di gestire i conflitti che caratterizzano l’età adulta e spesso è un adolescente alla ricerca di punti di riferimento e di significati da dare alle regole che ne limitano le azioni. La necessità di rendere le sanzioni destinate ai minori più duttili e diversificate e di differenziare l’offerta dei servizi residenziali per la giustizia minorile sono conseguenza del fatto che la funzione educativa della pena non può prescindere dalla individualità specifica del minore e del giovane adulto, la quale costituisce il punto di partenza per definire qualunque forma di accompagnamento e di intervento. La capacità di portare a termine ogni riforma nel quadro di questi princìpi è un moderno terreno di sfida e deve essere il nostro obiettivo più ambizioso da cui dipende il concreto reinserimento delle giovani risorse nel tessuto della società civile. Con l’Associazione "Acad Onlus" mai più soli di fronte agli abusi in divisa di Giuliano Santoro Il Manifesto, 7 gennaio 2016 L’associazione mette a disposizione le competenze acquisite dai movimenti in anni di battaglie contro repressione e carcere. Il telefono si illumina e vibra. Suona per tre volte. Se dall’altra parte nessuno risponde, la chiamata viene deviata automaticamente ad un altro cellulare, per altri tre squilli. Se ancora non c’è risposta, lo squillo rimbalza su un altro numero e così via, a cascata su un elenco di utenti. Fino a quando qualcuno degli operatori non preme il tasto verde del suo apparecchio e accoglie la richiesta di soccorso. È questa l’ossatura essenziale del numero verde di Acad, associazione che ha trasformato la sigla che manifesta la diffidenza delle bande di strada verso le forze dell’ordine (Acab: "All cops are bastards") in una struttura di supporto "contro gli abusi in divisa". In questi giorni Acad compie due anni. Al pronto intervento contro i soprusi di potere arrivano in media circa dieci chiamate a settimana. Queste telefonate sono l’emblema di una catena che rompe la solitudine, squarci di verità in un paese che si sta accorgendo di avere un problema con le forze dell’ordine. Snocciolare gli anelli di questa catena significa ripercorrere una Spoon River di morti violente. Vuol dire raccontare storie che sarebbero affogate nell’isolamento se non si fosse messo in moto un processo di condivisione e mutuo soccorso che le ha messe in relazione. "Ogni squillo al telefono verde di Acad è un colpo al cuore, ad ogni chiamata spero che sia solo una richiesta generica di informazioni o anche uno scherzo stupido. Mi auguro con tutto me stesso di non trovarmi per l’ennesima volta davanti a una tragedia inaccettabile", racconta uno dei volontari di Acad al manifesto. Eppure questi due anni di esperienza dolorosa insegnano molto. "Le ore immediatamente successive all’abuso sono quelle più importanti - racconta Luca Blasi, che lavora al nodo romano dell’Associazione - Serve subito un avvocato, nel caso di decesso è fondamentale il perito di parte, così come è necessario verificare che l’autopsia venga svolta correttamente". In questi anni di lavoro, quelli di Acad si sono resi conto che, accanto alle questioni tecniche, sono importanti anche gli aspetti comunicativi. Può essere decisivo avere la forza e la lucidità di raccontare subito la vicenda per quella che è, divulgare il più possibile storie che smentiscano quelle ufficiali, in base alle quali - ad esempio - Federico Aldrovandi è stato descritto un drogato che si uccise da solo, per di più buttandosi addosso ad un manganello e spezzandolo. Di Davide Bifolco, ucciso da un colpo partito dalla pistola di un carabiniere alla periferia di Napoli, si disse invece che portava "un latitante" sul motorino. Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, e Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi, dovettero rompere il galateo del pudore e mettere in scena i corpi martoriati dei loro cari per bucare il muro di gomma dell’informazione. Dopo la riapertura delle indagini, scattata anche grazie alla grande fiaccolata convocata dai Cucchi e da Acad a piazza Indipendenza, di fronte al Csm, Ilaria ha scelto di nuovo di mettere in scena l’orrore. Ha divulgato le foto di alcuni dei carabinieri coinvolti nella morte di Stefano. Lo stesso ha fatto Lucia Uva, sorella di Giuseppe, morto sette anni fa a Varese dopo aver passato una notte in una caserma dei carabinieri. "Ilaria e Lucia hanno consentito che migliaia di cittadini si rendessero conto che ci sono delle persone in carne e ossa dietro il vanto di aver pestato a sangue "un drogato di merda". Nascosto dietro questo orrore, non c’è una figura astratta, c’è persino un sorriso", riflette ancora Blasi a proposito della diffusione virale di quelle immagini e della polemica che ne è scaturita. Acad nasce da un’intuizione semplice quanto opportuna: mettere a disposizione del maggior numero possibile di persone le competenze legali, comunicative e politiche acquisite dai movimenti in anni di battaglie contro repressione e carcere. Non più una doverosa manovra di nicchia ma un’operazione di tutela dei diritti civili nel paese dei misteri insabbiati e delle macellerie messicane. Nel gennaio del 2014 a Bergamo, il primo evento pubblico. "La nostra forza è l’unione, se restiamo soli non possiamo nulla", disse quel giorno Domenica Ferrulli, figlia di Michele, manovale di 51 anni, morto durante un fermo di polizia a Milano nel 2011. "A proposito di Ferrulli bisogna ricordare una cosa importante - raccontano da Acad - ammanettare una persona mettendogli le mani dietro la schiena e poi appoggiarsi col ginocchio sul suo corpo, pancia a terra, è molto pericoloso". È morto così Federico Aldrovandi. Morì così anche Ferrulli. "Quella posizione causa soffocamento o compressione del cuore. Quella manovra non andrebbe più insegnata nelle scuole di polizia. E invece per quel che ne sappiamo costituisce ancora la normale prassi". Ci sono famiglie che hanno la forza di agire, prendere parola, sfidare la pubblica autorità. In quei casi Acad svolge un lavoro di supporto. Ma spesso gli abusi si verificano in zone grigie, in situazioni difficili, in particolari contesti ambientali e condizioni sociali. Non è facile essere vittime e al tempo stesso essere scaraventati sui media. E allora quelli di Acad sanno che bisogna prendere in mano la faccenda, fornendo supporto legale e anche aiuto economico, ove necessario. E poi ci sono le campagne di sensibilizzazione: la richiesta della sospensione a tempo indeterminato dal servizio, il numero identificativo, il reato di tortura. Dal punto di osservazione dei dieci "punti Acad" sparsi su tutto il territorio emerge anche l’eccessivo ricorso ai Tso, i Trattamenti sanitari obbligatori che vengono comminati con troppa facilità per risolvere questioni delicate o per sbrogliare situazioni complesse. Andrea Soldi, un’altra delle vittime di abusi di cui si occupa Acad, è morto nell’agosto scorso a Torino dopo un Tso a causa di uno "strangolamento atipico": sono indagati tre vigili urbani e uno psichiatra. Al numero verde di Acad sono stati denunciati pestaggi ai centri d’accoglienza per migranti e abusi di potere contro persone costrette ai domiciliari, eccessi di repressione in nome del decoro urbano ai margini dei famigerati quartieri della "movida" e misteriosi decessi in carcere. Acad segue il caso di Nicolò e Tommaso De Michiel. I due fratelli erano poco più che ventenni nel 2009, quando furono vittime a Venezia, la loro città, di un pestaggio poliziesco. Vennero portati in questura, Tommaso in mezzo a più uomini in divisa. Il suo caso è classificato tra i dossier "Sopravvissuti" di Acad, perché il giovane la cavò "solo" con una costola rotta, l’altra incrinata, ematoma ai testicoli, trauma facciale, emorragia ad un occhio, labbra tumefatte, lesioni ai polsi provocate da trascinamento. Fu suo padre a fermare il mucchio selvaggio. Entrò negli uffici di polizia mostrando il tesserino: era anche lui un agente. In seguito venne sospeso dal servizio per il semplice fatto di aver partecipato ad una iniziativa pubblica per dire che non tutti gli agenti sono come quelli che hanno picchiato i suoi figli. Compare anche lui, proprio un poliziotto, in "Figli come noi" il video del Muro del Canto nel quale alcuni parenti di vittime di abusi in divisa soffiano simbolicamente per spazzare via le ingiustizie. Numeri e sito. La pagina Facebook AcadOnlus ha raccolto in questi mesi oltre 40 mila "mi piace". Sul sito acaditalia.it si trovano i materiali sulle campagne e gli aggiornamenti dei casi che Acad sta seguendo, oltre alle informazioni per tesserarsi e sostenere le attività dell’associazione. Il numero verde 800588605 per denunciare abusi e avere supporto è attivo 24 ore su 24. "L’associazione Acad - si legge sul sito - nasce dalla volontà di dare sostegno alle famiglie delle vittime e a coloro che hanno subito abusi ma che non si sono dati per vinti e non hanno accettato una verità giudiziaria che già troppe volte si è dimostrata a favore di chi tenta in tutti i modi di nascondere la propria impunità dietro una divisa. Acad è antifascista e antirazzista, valori di libertà ed eguaglianza che vogliamo rivendicare" Stefano Cucchi è morto, che non si sappia di Samanta Di Persio huffingtonpost.it, 7 gennaio 2016 È scandalo la foto del carabiniere indagato per la morte di Stefano Cucchi pubblicata da Ilaria su Facebook. Più fastidiosa della foto di un corpo senza vita e martoriato, dopo essere passato per le mani dello Stato. Più fastidiosa dell’assenza, del vuoto, della solitudine che rimane nelle famiglie colpite da queste vicende. Più fastidioso del fatto che i colpevoli rimangono ai loro posti perché il dirigente chiude un occhio e poi la gente dimentica. Rimangono ai loro posti perché in caso di condanna la pena viene sospesa, come la vita di chi non c’è più. Di Stefano si disse che forse se l’era meritato, lo disse l’opinione pubblica, influenzata da chi emette sentenze prima di sapere; perché i tre gradi di giudizio valgono solo per alcuni, influenzata da chi cerca sempre un capro espiatorio da proporre alle folle. L’allora sottosegretario Giovanardi ne era sicuro: "Stefano Cucchi è morto perché anoressico, drogato e sieropositivo". Facilmente si potrebbe pensare che i genitori santifichino sempre i figli ma a volte non è così: "Sapere che negli attimi più difficili della sua vita lui possa aver creduto di non avere il nostro sostegno, perché eravamo arrabbiati con lui per aver sbagliato di nuovo, è la cosa che fa più male in assoluto. Se si era avvicinato al mondo della droga era un ragazzo con le sue fragilità. Non sospettavamo che fosse ricaduto nella tossicodipendenza. Forse abbiamo abbassato la guardia, dopo aver avuto molti momenti difficili, non abbiamo riconosciuto i segnali che probabilmente non erano ai livelli passati". È quanto mi confidò la madre di Stefano che incontrai ed intervistai, per la prima volta insieme ad Ilaria, a pochi mesi dalla morte di Stefano. Pranzammo insieme, vicino al parco degli Acquedotti, non lontani dal luogo in cui iniziò il dramma del loro ragazzo. Le indagini, in quei giorni, erano concentrate sul personale medico e sugli agenti della polizia penitenziaria. Rimasi sorpresa dalla fermezza delle due donne quando il mio collega pose una domanda: "I carabinieri chiamarono l’ambulanza, secondo voi Stefano avrebbe potuto avere un attacco epilettico ed i carabinieri potrebbero essere stati incapaci di gestirlo, a tal punto da scambiare il suo atteggiamento per un puntiglio?". Loro furono certe che i fatti non potevano essere andati così. Eppure incalzai, perché nella sua prima notte trascorsa nella caserma dei carabinieri quando si presentò il medico del 118 Stefano rifiutò di essere visitato. Perché? Il giorno che si svolse il processo per direttissima, all’indomani dell’arresto, il ragazzo aveva già gli zigomi e gli occhi segnati dalle botte, così come raccontato dal papà Giovanni che era presente in aula. Ma le due donne non mostrarono alcun dubbio nei confronti dei Carabinieri, no, perché in fondo avevano, e forse ce l’hanno ancora, fiducia in quell’arma preposta alla sicurezza dei cittadini. Il dato di fatto è che c’è un abuso di potere alimentato da una politica che mette sempre alla gogna chi delinque, chi è disperato, chi ha un disagio, mentre i colletti bianchi, che hanno impoverito con forme spesso illecite il Paese ed i loro abitanti, continuano a non scontare nulla, anzi, nei rari casi in cui passano per le mani delle forze di polizia, hanno un trattamento migliore. Dobbiamo ringraziare Ilaria e tutti coloro che hanno avuto coraggio e lo continueranno ad avere, perché la disperazione, lo smarrimento, la delusione, si sono trasformati in punti di forza che li hanno portati a denunciare, a non nascondere quello che non si doveva sapere. Per Ilaria Cucchi sono tutti colpevoli di Luca Rocca Il Tempo, 7 gennaio 2016 La sorella di Stefano pubblica la foto di uno dei militari coinvolti nell’inchiesta. Ma lui è solo indagato. Lo aveva già fatto con gli agenti penitenziari, poi assolti. Pochi giorni fa Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, il giovane morto nell’ottobre 2009 nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini di Roma, ha pubblicato sul suo profilo Facebook la foto di Francesco Tedesco, uno dei carabinieri indagati nella nuova inchiesta della procura capitolina. Una scelta imitata da Lucia Uva, la sorella di Giuseppe, deceduto nel 2008 in ospedale a Varese dopo il suo arresto, che ha postato l’immagine di un poliziotto coinvolto nell’indagine. E lo ha fatto per due volte, l’ultima ieri, nelle stesse ore in cui allo stadio di Verona i tifosi della Roma esponevano un eloquente striscione: "Con Ilaria per Stefano". Nel pubblicare quell’immagine, però, Ilaria Cucchi ha indicato il carabiniere come colui che, certamente, ha pestato e ucciso suo fratello. Il colpevole, insomma. Ne è sicura Ilaria, nonostante il militare sia, ad oggi, solo indagato e nemmeno imputato. Il punto è che in tutti questi anni di colpevoli certi, che tali, però, non erano, Ilaria ne ha indicati anche altri. Parliamo dei tre agenti di polizia penitenziaria Corrado Santantonio, Nicola Minichini e Antonio Dominici, processati e assolti in via definitiva. È contro di loro, infatti, oltre che verso i medici, che Ilaria ha puntato il dito nel corso delle indagini e dopo le assoluzioni. Nel marzo del 2010, ad esempio, alla luce della relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta, Ilaria afferma: "Spero sia riconosciuta la preterintenzionalità delle guardie carcerarie". Il giorno dopo aggiunge: "Emerge un quadro di omicidio volontario con dolo eventuale". Il 25 gennaio del 2011 Ilaria si dice certa che la morte di Stefano sia stata causata dal pestaggio nelle celle di sicurezza di piazzale Clodio. Passano i mesi e il 23 maggio 2012 la donna si sofferma così sulla frattura riscontrata sul corpo del fratello: "Gli è stata procurata dagli agenti di polizia penitenziaria che la procura vuole evidentemente difendere". Ancora un po’ di tempo e la sorella del giovane punta di nuovo il dito contro gli agenti: "Lo hanno pestato e risponderanno solo di una sospensione condizionale". Il 7 febbraio 2013 Ilaria precisa: "Non ho mai fatto attacchi generici a tutta la polizia penitenziaria, ma ho constatato un meccanismo di difesa, a prescindere, dei suoi iscritti da parte del sindacato. Chiedo che questo spirito di protezione e di omertà venga superato. Stiamo parlando di poche mele marce". Dopo la prima assoluzione degli agenti, Ilaria rilascia un’intervista. Alla domanda se sia ancora convinta del pestaggio da parte degli agenti della Penitenziaria, risponde: "Vogliamo davvero credere che una persona con una sola caduta riesce a procurarsi decine e decine di lesioni?". E quando le viene domandato se pensa che gli stessi agenti abbiano indotto Stefano a rifiutare le cure, chiosa: "No, non a rifiutare le cure. Lo hanno indotto a rifiutare il ricovero". Il 6 dicembre 2013 i tre imputati querelano Ilaria per diffamazione. Nonostante la loro assoluzione, infatti, la donna insiste sulla loro colpevolezza. Arriva la seconda assoluzione e il Sindacato autonomo della polizia penitenziaria denuncia Ilaria per "i giudizi e le illazioni" contro gli agenti. Siamo al 15 dicembre scorso, giorno in cui anche la Cassazione assolve i tre imputati. Ma la sorella di Cucchi non arretra di un passo: "Mi auguro - afferma - che adesso gli agenti dicano tutto quello che sanno". Eppure erano innocenti. Come lo è, ad oggi, il carabiniere che Ilaria ha messo alla gogna. Il credo religioso non evita lo spaccio di Andrea Moramarco Il Sole 24 Ore, 7 gennaio 2016 Corte d’Appello di Palermo - Sezione IV penale - Sentenza 4 giugno 2015 n. 2388. Corte d’appello di Palermo - Sentenza 2388/2015. Il reato di detenzione di stupefacenti per spaccio scatta anche se si giustifica il possesso dell’ hashish con l’appartenenza alla religione "rastafariana", per la quale l’utilizzo della marijuana a fini meditativi è un fatto assolutamente normale. La Corte d’appello ha confermato la condanna per due uomini che avevano dichiarato di aderire a tale fede, perché l’appartenenza non era stata dichiarata nell’interrogatorio di garanzia e inoltre è noto che i rastafariani utilizzano per scopi religiosi solo la marijuana e non i suoi estratti, quale l’hashish, nei confronti dei quali non sono per niente permissivi. Infortuni sul lavoro, il datore deve verificare l’adozione dei presidi di sicurezza di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 7 gennaio 2016 Corte d’Appello di Trento - Sezione penale - Sentenza 24 giugno 2015 n. 186. Il datore di lavoro è tenuto a predisporre le misure antinfortunistiche, informare i lavoratori sul loro corretto utilizzo e verificare l’effettiva adozione degli strumenti di protezione da parte dei dipendenti. Di conseguenza, se per prassi, tollerata dal datore, tali strumenti non sono utilizzati dai lavoratori e si verifica un incidente, è configurabile la responsabilità penale in capo al datore di lavoro. Questo è quanto emerge dalla sentenza 186/2015 della Corte d’appello di Trento. I fatti - Il procedimento penale a carico del datore di lavoro era sorto in seguito a un incidente verificatosi a uno dei suoi dipendenti, che si era ferito gravemente all’occhio mentre utilizzava una macchina chiodatrice pneumatica senza gli occhiali di protezione. Uno dei chiodi sparati dalla macchina era rimbalzato su una superficie rigida e si era conficcato nell’occhio del lavoratore, provocando una cataratta traumatica e la necessità di impianto di cristallino artificiale, con indebolimento permanente della vista. Il datore veniva così imputato per lesioni personali e per la violazione di alcune norme poste dal Tu sulla sicurezza sul lavoro (Dlgs 81/2008) per avere con il suo comportamento negligente determinato l’infortunio, omettendo di richiedere ai lavoratori l’utilizzo degli occhiali di sicurezza. Il mancato utilizzo dei Dpi deve essere sanzionato. Nel giudizio di primo grado era emerso che il mancato utilizzo degli occhiali di protezione era una prassi consolidata tra i lavoratori della ditta e tale modo di operare era da sempre tollerato dall’amministratore unico della società, che non aveva mai sanzionato le violazioni commesse dai suoi dipendenti. Il datore riteneva però che il suo compito fosse quello di fornire ai dipendenti tutti i dispositivi di protezione necessari, non potendo verificare concretamente l’utilizzo degli stessi da parte dei lavoratori, non essendo egli sempre presente in cantiere. Per il Tribunale, tuttavia, l’argomento difensivo non reggeva, in quanto in materia di infortunio sul lavoro, vige il principio per il quale il datore è esente da responsabilità solo se il comportamento del dipendente può essere qualificato come "eccezionale, imprevedibile, tale da non essere preventivamente immaginabile, e non già quando l’irrazionalità della condotta del dipendente sia controllabile, pensabile in anticipo". In sostanza, il fatto di sapere che i suoi dipendenti non utilizzavano gli occhiali antinfortunistici provava la colpevolezza del datore. L’effettivo utilizzo dei Dpi deve essere verificato - In appello il datore di lavoro prova nuovamente a far valere la sua tesi ribadendo che l’incidente si era verificato a causa dell’azione imprudente del suo dipendente, il quale, seppur reso edotto dei rischi di tale attività, non aveva utilizzato gli appositi strumenti di protezione. Tuttavia, anche la Corte conferma la sua responsabilità penale. Ebbene, i giudici sostengono che "compete al datore di lavoro non solo la valutazione dei rischi, la predisposizione delle misure di sicurezza, e la corretta informazione dei lavoratori, ma anche la verifica dell’effettiva adozione da parte dei lavoratori dei presidi di sicurezza predisposti". Il datore deve cioè controllare "fino alla pedanteria" che i lavoratori rispettino le norme antinfortunistiche. E la lamentata condotta negligente del lavoratore non vale a escludere la responsabilità penale del datore, "i cui obblighi sono mirati alla tutela dei lavoratori anche dai rischi che la loro stessa imprudenza concorra a causare". Appalti, al committente la vigilanza generale di Luigi Caiazza Il Sole 24 Ore, 7 gennaio 2016 Nell’appalto d’opera la vigilanza sull’operato delle ditte esecutrici non è passibile di delega: il coordinatore controlla gli adempimenti delle aziende e il committente esercita una "vigilanza" sul coordinatore. È i principio della Corte di cassazione, IV sezione penale, con la sentenza 16 depositata il 5 gennaio. Il giudizio trae origine da un infortunio mortale sul lavoro accaduto a un lavoratore apprendista il quale era caduto attraverso l’apertura esistente sul tetto di un fabbricato in costruzione, mentre era intento ai lavori di posa in opera di una guaina bituminosa. Sia in primo che in secondo grado sono stati condannati per omicidio colposo sia l’amministratore della società committente che il coordinatore per l’esecuzione. Quanto a quest’ultimo la Corte di cassazione, nel respingere i motivi di ricorso, ha ribadito che compito del coordinatore per l’esecuzione è quello di verificare che le misure previste dal piano di sicurezza e di coordinamento (Psc) siano adottate dalle ditte esecutrici. Nel caso di specie si trattava di porre in essere le misure che già nel piano erano state ritenute necessarie a proteggere dal rischio di cadute di lavoratori, stante la presenza di aperture nel tetto dell’edificio in costruzione. In merito alla posizione del committente la sentenza non manca di puntualizzare la previsione di cui all’articolo 93, comma 2 del Dlgs 81/2008 (Tu sulla salute e sicurezza sul lavoro), secondo la quale la designazione del coordinatore per la progettazione e per l’esecuzione non esonera il committente dalle responsabilità connesse alla verifica dell’adempimento degli obblighi in capo al coordinatore per l’esecuzione. Il committente è tenuto a svolgere attività di vigilanza sull’adempimento, da parte del coordinatore per la sicurezza, della verifica che l’impresa esecutrice abbia osservato le disposizioni ad essa pertinenti, contenute nel Psc. Pertanto, è palese l’infondatezza secondo cui la "delega di funzioni" rilasciata dal committente al coordinatore per l’esecuzione dei lavori esonera il committente stesso dall’obbligo di vigilare sugli adempimenti ai quali il coordinatore è tenuto. Certamente quelli del committente non sono obblighi delegabili al coordinatore sul quale è invece tenuto a vigilare, né, essenzialmente, appare imputabile il committente su compiti propri del coordinatore. Infatti, come si rileva dalla sentenza della Cassazione che ha assolto il committente, l’affermazione svolta dalla Corte di appello secondo cui il committente non aveva vigilato sul rispetto delle misure contenute nel Pos, non è in alcun modo connessa a specifiche circostanze di fatto, che ne evidenzino il fondamento. Né è apparsa rilevante la stessa sentenza della corte territoriale allorché afferma quando e come l’azione di controllo del committente sull’operato del coordinatore si sarebbe e potuto svolgere, in rapporto delle fasi di lavorazione. Reati sessuali, riparazione del danno e riconoscimento dell’attenuante di natura soggettiva Il Sole 24 Ore, 7 gennaio 2016 Reato - Riparazione del danno - Reati sessuali - Presupposti di applicabilità della circostanza attenuante di cui all’articolo 62 n. 6 cod. pen. - Offerta avente i requisiti della congruità e serietà (valutazione). In tema di atti sessuali con un minorenne, è concedibile l’attenuante di cui all’articolo 62 n. 6 cod. pen. in presenza di un’offerta di risarcimento del danno, anche non formale, che, tenuto conto degli effetti del reato, abbia i requisiti della congruità e della serietà, pure quando la persona offesa non abbia accettato l’offerta. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 22 luglio 2015 n. 31927 Reato - Riparazione del danno - Reati sessuali - Riferibilità anche al danno morale o psichico - Esclusione. In tema di circostanze attenuanti comuni, quella prevista dall’articolo 62, n. 6, cod. pen. non è concedibile ove il danno risarcibile sia di natura psichica o morale, in quanto le conseguenze di tale danno non sono suscettibili di spontanea ed efficace elisione od attenuazione. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 13 aprile 2015 n. 14959 Reato - Reati sessuali - Riparazione del danno - Attenuante di cui all’articolo 62 n. 6 cod. pen. - Criteri di valutazione della congruità dell’offerta. In tema di atti sessuali con minorenne, la valutazione della congruità dell’offerta risarcitoria ai fini del riconoscimento dell’attenuante di cui all’articolo 62 n. 6 cod. pen. non può essere condotta sulla scorta di un semplice "criterio equitativo" ma deve tener conto della dimensione concreta degli effetti del reato, da determinarsi anche con l’ausilio di perizie mediche o psicologiche. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 8 novembre 2013 n. 45179 Reato - Reati sessuali - Riparazione del danno - Riferibilità anche al danno morale o psichico - Portata generale dell’attenuante comune di cui all’articolo 62 n. 6 cod. pen. - Riconoscibilità. La circostanza attenuante prevista dall’articolo 62, n. 6, cod. pen. può essere riconosciuta anche quando il danno risarcibile sia di natura psichica o morale, ben potendo anche quest’ultimo essere suscettibile di quantificazione e di riparazione. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 4 luglio 2013 n. 28753 Genova: detenuto di 45 anni muore a Marassi, la procura indaga su una sospetta overdose La Repubblica, 7 gennaio 2016 Per il pm qualcuno potrebbe avergli ceduto dose letale di droga. Un detenuto di 45 anni è morto nel carcere di Marassi. L’uomo, Giovanni Cavaleri, è stato trovato agonizzante nel letto della sua cella dagli agenti della polizia penitenziaria. A nulla è valso l’intervento dei sanitari del 118. Il pubblico ministero Pier Carlo Di Gennaro ha aperto un’indagine per appurare le cause della morte. Il magistrato ipotizza che ad avere ucciso Cavaleri possa essere stata una dose letale di droga ceduta in cella da qualche altro detenuto. Per questo ha conferito l’incarico di effettuare l’autopsia al medico legale Francesca Fossati. Il magistrato ha aperto un fascicolo per morte conseguente da altro reato, al momento a carico di ignoti. Negli ultimi mesi per altro il carcere di Marassi è stato già oggetto di altri episodi criminosi. A novembre un uomo, pluriomicida, si è ammazzato impiccandosi con l’elastico della sua tuta. E solo il mese prima, a ottobre, c’era stata una maxi rissa che aveva coinvolto cento detenuti divisi in due gruppi, sudamericani e albanesi, che armati di coltelli rudimentali si erano affrontati poco dopo le 13 durante l’ora d’aria. Gli agenti erano solo 40, ma erano riusciti a dividerli: 20 i feriti, tutti curati nell’infermeria del carcere. La notizia era stata data dai sindacati di polizia penitenziaria Uil e Uilpa, che hanno denunciato per l’ennesima volta "i seri problemi di sovraffollamento, che creano tensioni tra i detenuti", tanto che secondo Angelo Urso, segretario generale della Uil-Pa Penitenziari, Marassi è ormai "un istituto che si conferma uno dei più caldi. È assolutamente necessario - sostiene il sindacalista - che il Governo assuma misure straordinarie rifuggendo dall’idea che l’emergenza penitenziaria sia superata semplicisticamente con la "favoletta" dei tre metri quadri garantiti a ciascun detenuto". Bolzano: chiusa la sala web del carcere, i detenuti avrebbero avuto contatti con l’Isis Alto Adige, 7 gennaio 2016 La situazione è stata segnalata alla Procura della Repubblica. Scattata un’indagine interna. All’interno del carcere di Bolzano alcuni detenuti utilizzavano la sala dotata di linea Adsl e computer per collegarsi in internet con siti inneggianti allo Stato islamico del Califfo e alle stragi compiute recentemente sempre in nome dell’Isis. Sono stati i controlli periodici disposti per motivi di sicurezza dall’amministrazione penitenziaria a livello nazionale a far emergere una situazione considerata potenzialmente pericolosa. Di qui la decisione di intervenire chiudendo la sala e segnalando quanto accaduto alla Procura della Repubblica. All’interno del carcere intanto è stata avviata un’indagine per individuare con certezza i detenuti autori delle connessioni. La chiusura della sala computer è stata confermata ieri anche alla delegazione bolzanina del partito radicale (Donatella Trevisan, Achille Chiomento, Elena Dondio e Umberto Adami) che ha effettuato una visita alle varie sezioni. La situazione generale è decisamente migliorata rispetto a qualche anno fa, anche se la struttura è fatiscente e le risorse dello Stato sono tutte riservate al nuovo istituto penitenziario (progettato in zona Agruzzo) che dovrebbe essere pronto (salvo intoppi burocratici) entro la fine del 2018. L’impressione ottenuta dalla delegazione radicale è comunque sostanzialmente positiva. Certo, un carcere è sempre un carcere ma la presenza di un numero sensibilmente inferiore di detenuti rispetto al passato ha eliminato le tensioni di un tempo. Attualmente nel carcere bolzanino sono rinchiusi 92 detenuti a fronte di una capienza della struttura di 105 posti. La differenza rispetto alle presenze di qualche anno fa (anche sino a 180 detenuti) è facilmente riscontrabile. Le norme "svuota-carceri" del governo Renzi se da un lato hanno prodotto un senso di maggiore impunibilità rispetto alla microcriminalità, dall’altra hanno risolto in poche settimane i problemi di sovraffollamento. In un comunicato diffuso ieri al termine della visita, la delegazione radicale ha fatto comunque presente che "le condizioni di vita all’interno del carcere bolzanino continuano ad essere negativamente influenzate dalla fatiscenza della struttura e dalla scarsità di fondi messi a disposizione". E, come sempre, c’è il problema del personale ancora decisamente sotto organico. Roma: il ministro della Giustizia Orlando visita "a sorpresa" il carcere di Regina Coeli Corriere della Sera, 7 gennaio 2016 È arrivato nel pomeriggio dell’Epifania senza aver avvisato la direttrice: ha fatto un giro in tutti i reparti, parlato con i detenuti e gli agenti penitenziari. Visita a sorpresa del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, al carcere romano di Regina Coeli. Il guardasigilli vi si è recato mercoledì pomeriggio, nel giorno dell’Epifania: un appuntamento non programmato, durato un paio d’ore, dalle 14 alle 16, nel corso del quale il ministro ha visitato tutti i reparti della struttura penitenziaria di via della Lungara, compreso il centro diagnostico e terapeutico ristrutturato di recente. La direttrice non avvisata. Orlando è stato raggiunto dalla direttrice dell’istituto, Silvana Sergi, che trattandosi di una visita non annunciata, non era stata avvisata. Orlando, nel corso della visita si è intrattenuto a parlare con alcuni detenuti. Non è la prima volta che Orlando si reca senza preavviso in una casa di pena. Già il 28 settembre scorso il ministro aveva effettuato un analogo sopralluogo senza preavviso a Napoli, nel carcere di Poggioreale. "Attenzione alla polizia penitenziaria". "Diamo atto al ministro della Giustizia di aver trasmesso un importante segnale di attenzione visitando il carcere romano di Regina Coeli" dice il segretario della Uilpa Penitenziari, Angelo Urso sottolineando in particolare l’attenzione mostrata dal Guardasigilli nei confronti delle condizioni di lavoro degli uomini e delle donne della polizia penitenziaria. "Ora - aggiunge - ci aspettiamo che il ministro Orlando sia consequenziale e faccia in modo che, anche attraverso il confronto con il sindacato, i decreti attuativi del nuovo regolamento del ministero della Giustizia tengano conto delle esigenze operative del Corpo di polizia penitenziaria e vi sia lo spazio per ampliarne i posti di funzione, soprattutto dirigenziali". Secondo il segretario della Uil-Pa, inoltre, è necessario "ridefinire le piante organiche degli istituti e delle sedi extra-penitenziarie, per recuperare i numerosi appartenenti al Corpo distolti dalle carceri ed impiegati nei vari palazzi del potere". Nuoro: portò la "primavera" nel carcere di Badu e Carros, va via la direttrice di Pier Luigi Piredda La Nuova Sardegna, 7 gennaio 2016 Carla Ciavarella lascia l’incarico in città e a Nuchis e torna al Dap a Roma. Idee innovative e iniziative orientate a superare le barriere del penitenziario. Tre anni vissuti intensamente. Tre anni nei quali ha dedicato tutta se stessa al lavoro, senza un attimo di tregua. Correndo dal carcere di Nuoro a quello di Nuchis, in Gallura, a tutte le ore del giorno e della notte. Un impegno totale, senza domenica né feste. Sempre presente, sempre disponibile. Forse anche troppo, visto che questa sua generosità non è stata apprezzata appieno, anzi è stata spesso osteggiata e contestata duramente con attacchi spesso pretestuosi. Ma lei ha sempre tirato dritto per la sua strada, convinta di agire nel modo migliore per garantire condizioni di vita meno difficili a chi è costretto a stare all’interno di un carcere: detenuti e agenti penitenziari. La direttrice del carcere di Badu e Carros e di quello di Nuchis, Carla Ciavarella, lascia l’incarico di comando e la Sardegna per tornare a Roma, nell’Istituto superiore studi penitenziari da dove era arrivata: il 9 dicembre 2012 a Nuchis e dal 24 maggio 2013 anche a Nuoro. E per stare più vicino all’anziana madre e ai familiari. A Roma attenderà di essere chiamata a ricoprire un altro incarico, forte delle esperienze maturate nella sua brillante carriera in Afghanistan, dove aveva svolto le mansioni di responsabile del progetto di riforma della giustizia per l’agenzia delle Nazioni Unite per la droga e il crimine, in Kosovo, nei Balcani e in Sudafrica dove ha promosso esperienze culturali. A Badu e Carros ancora non è stato nominato un nuovo direttore. Probabilmente, per il momento l’interim dei due penitenziari andrà ai direttori di Sassari, Oristano o Alghero che già hanno da gestire più strutture. Una situazione sempre più difficile, se si pensa che anche il provveditore regionale, Enrico Sbriglia, è reggente a scavalco con il Triveneto. Precarietà che dovrebbero risolversi entro qualche mese, almeno per quanto riguarda il provveditore, con l’arrivo di Maurizio Veneziano, direttore di enorme esperienza che aveva gestito il carcere di San Sebastiano dopo il pestaggio dell’aprile 2000 e che dirige da un decennio il penitenziario palermitano dell’Ucciardone. Carla Ciavarella torna a casa portandosi dietro un bagaglio di ricordi incredibili, indimenticabili. Forse anche per questo ha preferito staccare il telefono: troppo forte l’emozione, oltre al veto del ministero per rilasciare interviste. "Sono stata bene, mi sono divertita" ha sempre detto la direttrice che con le sue idee innovatrici ha portato una ventata di freschezza all’interno delle tetre mura del penitenziario. Portando a Nuoro quella "primavera carceraria" che ha riavvicinato in maniera incredibile il penitenziario di Badu e Carros alla città. Con le sue iniziative, con le sue aperture, Carla Ciavarella era riuscita a superare tutte le barriere. Ci voleva grande coraggio a permettere di far uscire dal carcere in permesso come uomo libero un ergastolano come Marcello Dell’Anna sul cui fascicolo è scritto "Fine pena pena mai". Ma anche il torneo di calcio "Liberi nello sport" con le squadre dei detenuti che si confrontano con quelle formate da giocatori che arrivano dall’esterno. Il giornale "Angolo libero" al quale avevano dato il loro contributo, con un incredibile entusiasmo, tutti i detenuti, anche quelli considerati più duri. La visita della Dinamo basket Campione d’Italia e le decine di autografi firmati dai giocatori ai detenuti felici di poter abbracciare i loro beniamini visti fino a quel momento soltanto in tv. Carla Ciavarella aveva portato il suo entusiasmo e i suoi modi scanzonati all’interno di una struttura tetra e triste che durante questi anni ha conosciuto nuovamente i sorrisi e, soprattutto, la speranza. Carla Ciavarella ha salutato tutti, detenuti e agenti, a Nuchis prima e a Badu e Carros poi. Quando è tornata nel suo ufficio, è difficile che sia riuscita a trattenere le lacrime. Perché lei della Sardegna si è ormai innamorata e nei due penitenziari si è fatta apprezzare e voler bene. Messina: i Radicali in visita a Gazzi "il Sindaco nomini un Garante dei detenuti" di Giuseppe Lombardo strettoweb.com, 7 gennaio 2016 I rappresentanti del partito di Pannella denunciano le condizioni inumane di chi è recluso nel nostro paese: stamane una delegazione in visita al carcere cittadino. Questa mattina una delegazione del Partito Radicale si è recata in visita presso la Casa Circondariale di Gazzi: la missione serve a verificare le condizioni in cui versa il carcere cittadino, laddove si ritiene che vi siano gravi lacune sotto il profilo sanitario. Al primo cittadino, Renato Accorinti, verrà rinnovato l’invito a nominare un Garante dei detenuti, affinché questi possa vigilare - in forza di un mandato istituzionale - sulle condizioni di vita di chi è recluso. Roma: parla Hasnja, la zingara ladra che ha fatto arrestare tre carabinieri di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 7 gennaio 2016 "Se rubo, io pago. E loro?" dice la 37enne che sostiene le siano stati sottratti 9mila euro e una spilla Chanel. Il tribunale del riesame decide sulla scarcerazione dei militari. "Sì sono io la zingara che ha fatto arrestare i carabinieri. No, non ho paura di loro". Hasnja Zahirovic è in piedi sulla porta di "casa". Un camper attrezzato all’interno del campo nomadi di Castel Romano che ospita circa 200 famiglie. Entriamo. Il marito ciondola fra il letto e il WC e i bambini, nove in tutto, d’età fra i 16 anni e gli 8 mesi, ammutoliscono. Si voleva sapere che viso ha la donna che si è fatta largo dall’ultima classe per chiedere giustizia ai gagè, i non - zingari. Noi. 37 anni e nove figli, il decimo nascerà a luglio. Magra, capelli neri, spalle larghe, collo lungo, seno piccolo e denti simili a ossa, con qualcuna che manca all’appello. Da sola, Hasnja Zahirovic, 37 anni, alcuni precedenti per furto e una condanna a 8 anni di carcere sospesa grazie a un puerperio dietro l’altro (è nuovamente incinta) ha fatto arrestare un maresciallo e due appuntati dei carabinieri di Tor de Cenci. I 3 carabinieri le avrebbero rubato 9mila euro. Per loro - Simone Chicarella, Eugenio Maietta e Carmine Ferrante - stamani è fissata l’udienza del tribunale del Riesame che deciderà sulla loro scarcerazione. Sono accusati di falso e peculato perché, in seguito a una perquisizione illecita, hanno sottratto ad Hasnja 13mila euro, dei quali solo 4mila erano stati denunciati nel verbale mentre 9mila erano finiti in tasca loro. Nel camper c’erano anche un grazioso portafogli Prada di colore rosa e una bella spilla Chanel con ramage e perle. Così uno dei tre ne ha approfittato per fare un regalo alla fidanzata. E non volendo, forse, passare per spendaccione l’ha avvisata della provenienza. Così ora anche lei è indagata. Ricettazione. Per le indagini, chiesta una perizia della griffe Chanel. "Spilla e portafogli li ho rubati dalla borsa di una turista alla stazione Termini" racconta lei. Una professionista di lavoretti così. Quando la spilla è venuta fuori, durante le indagini, il pm Stefano Fava ha disposto un confronto. Ha spedito un paio di carabinieri della polizia giudiziaria alla boutique del Babuino, quindi ha allestito un confronto. Hasnja ha impiegato un secondo a riconoscere l’originale. Poi, il magistrato ha incaricato un consulente della leggendaria maison di valutarla. Siamo su cifre a tre zeri. "Il Comune mi ha preso le impronte". Hasnja è nota alle forze dell’ordine. Anni fa (giunta Alemanno) la caricarono su un pulmino diretto in questura: "Hanno preso le impronte mie e di mio marito, i bambini no". "Ero in sala parto e loro sono venuti qui a rubare". Perché ha denunciato i carabinieri, non pensa alle conseguenze? Ora, racconta, per dispetto vengono a multarla. "Era appena nato lui -dice lei indicando un pupo con due denti solitari - ero al Sant’Eugenio che mi tenevo la pancia, con il pannolone e la flebo. Squilla il cellulare. Mio marito stava venendo da me in ospedale e i ragazzi erano soli al campo: "Sono venuti i carabinieri e ci hanno preso tutti i soldi". Avevano denudato mio figlio grande e gli avevano trovato i 13 mila euro nascosti negli slip. Ho firmato per uscire dal reparto e sono corsa qui". "Avevo rabbia e paura". Si ferma per riprendere fiato e aggiustare la maglietta di F. la piccola di 9 anni che va a scuola ("Dice che le piace"), quindi prosegue: "Arrivo qui e quelli mi dicono "Vieni in caserma" ma per strada si fermano a minacciarmi: "Novemila li teniamo noi e se no facciamo arrestare tuo marito, gli mettiamo la droga in tasca". Poi mi danno una botta sul fianco destro e sulla coscia (con "un manganello estraibile secondo il gip, ndr). Avranno pensato che una nomade con una condanna per furto non volesse cacciarsi nei guai. Ma qui, dove di notte i topi rosicchiano i fili elettrici e i container bruciano come fiammiferi, i guai non sono nemici della dignità. "Io rubo. Se mi arresti pago. Ma loro mi hanno fatto rabbia e paura. Sono giovani, un vecchio, forse, non l’avrebbe fatto. La rabbia ti prende qua" dice Hasnja facendo con la mano il segno di un taglio alla fronte. E passata? "Ora sì" dice lei. Avellino: ragazzino tenta di portare la droga nel carcere di Ariano Irpino di Vincenzo Grasso Il Mattino, 7 gennaio 2016 Nuovo tentativo di familiari di detenuti di introdurre, con qualche espediente, sostanze stupefacenti nella casa circondariale di Ariano Irpino. Questa volta a mettere in atto il tentativo è stato addirittura un minore, che è stato scoperto grazie alla professionalità del personale di polizia penitenziaria. Durante i controlli di routine sui familiari dei detenuti che si recano a colloquio presso l’istituto penitenziario di località Cardito sono stati rinvenuti, infatti, addosso ad un ragazzino, familiare di un detenuto, circa 50 grammi di droga che, all’esito del drop test effettuato dagli stessi uomini della Polizia Penitenziaria, risaltava essere canapa indiana. Il ragazzo quindicenne e la mamma che lo accompagnava, entrambi provenienti dalla provincia di Salerno, sono stati, ovviamente, sottoposti successivamente anche a ulteriore perquisizione personale. Su li loro, tuttavia, non è stato ritrovato altro. "Si tratta - sostiene in una nota la segreteria Osapp di Avellino - di un’ottima operazione del personale di Polizia penitenziaria arianese operante presso il settore colloqui atta a contrastare l’introduzione di sostanze stupefacenti in carcere condotta questa volta, senza l’ausilio delle unità cinofile. Gli addetti ai controlli hanno ritrovato la sostanza stupefacente abilmente nascosta all’interno di un taschino del giubbotto, lato interno". Il ragazzo, in realtà, al momento dei controlli ha mostrato qualche segno di insofferenza e di nervosismo. È bastato questo per far eseguire controlli più meticolosi. Inevitabile, pertanto, il ritrovamento della sostanza stupefacente. Il ragazzo, che è stato denunciato al Tribunale per Minori di Napoli, non ha saputo fornire alcuna spiegazione circa la provenienza della droga, limitandosi a sostenere di essere in possesso di un giubbotto di altra persona. Versione, quindi, tutta da verificare nelle prossime ore da parte degli inquirenti. Questo episodio conferma, tuttavia, che da quando la casa circondariale arianese ha cominciato ad accogliere più detenuti (da un anno è stato aperto un nuovo padiglione che può ospitare altri 200 detenuti) sono aumentati anche i tentativi di introdurre in carcere droga, telefonini o altro. Così come sono aumentati tentativi di aggressione ad agenti di polizia penitenziaria. Il problema di fondo resta sempre lo stesso: occorre potenziare l’organico e assicurare nuovi strumenti operativi ad assistenti sociali, docenti e volontari, anche perché ad Ariano Irpino si attua il sistema di detenzione aperta. Nuoro: matrimonio in chiesa per l’ergastolano Marcello Dell’Anna di Luciano Piras La Nuova Sardegna, 7 gennaio 2016 Rito religioso per il detenuto Marcello Dell’Anna nella parrocchia Beata Maria Gabriella. La prima volta in libera uscita per salire sul palco dell’Eliseo nei panni dell’attore, ora in permesso premio per salire sull’altare e convolare a nozze davanti a Dio onnipotente. Marcello Dell’Anna è un caso unico in Italia, destinato certamente a lasciare il segno. Detenuto a Badu e Carros, Dell’Anna, infatti, non è un detenuto "qualsiasi": 47 anni, da 24 in carcere, è condannato all’ergastolo ostativo (per reati associativi) e dunque destinato a morire in galera. Fine pena mai, insomma. "Un ex boss della Sacra corona unita", lo chiamano con fare sbrigativo. Ma boss forse non lo è mai stato. E la Sacra corona unita "non è per nulla sacra, non ha alcuna corona e non è per niente unita, quando mai?" commenta lui. Sacro è invece il rito celebrato nella parrocchia Beata Maria Gabriella, il pomeriggio del 25 dicembre scorso, un Natale speciale: Marcello Dell’Anna ha sposato la donna della sua vita, Romina, 43 anni, pugliese come il marito, già sposata con rito civile quindici anni fa, quando l’ergastolano era detenuto a Livorno. Mentre a concelebrare erano don Pietro Borrotzu e don Piero Mula, testimoni di nozze erano Salvatore Rosa, insegnante, anima del progetto Liberi nello sport, e Monica Murru, l’avvocato nuorese che da tempo segue passo passo Dell’Anna e che il 12 giugno 2014 era riuscita a portarlo fuori dal carcere per fargli interpretare il ruolo di giornalista in uno spettacolo al teatro Eliseo di via Roma. "Impensabile, quando siamo partiti con il Centro di prima accoglienza" commenta don Borrotzu. "Il percorso di Marcello, anche dal punto di vista religioso, è davvero interessante". Un percorso di vita, prima ancora che di fede, che ha avuto la fortuna di passare per Nuoro, proprio nella "Primavera di Badu ‘e Carros" sbocciata grazie a una direttrice illuminata e lungimirante come è Carla Ciavarella. Le norme da applicare, infatti, sono sempre soggette a interpretazione giuridica: restrittiva quando si vuole creare solo terrore, estensiva quando invece si vuole promuovere la dignità umana. Così è stato fortunatamente nel caso Dell’Anna, così è stato in questi tre anni di Primavera nel carcere. Badu ‘e Carros: l’ex supercarcere duro, la vecchia Caienna delle Br. Milano: per l’Epifania, profughi musulmani a pranzo dal cardinale Scola Corriere della Sera, 7 gennaio 2016 In curia una famiglia palestinese reduce da una lunga odissea: nati e vissuti a lungo in Iraq dopo la fuga del nonno nel 1948, sono emigrati in Siria e poi in Turchia. La messa solenne alle 11, i vespri per l’Epifania alle 16, sempre in Duomo. In mezzo, il pranzo in Arcivescovado con una famiglia di profughi palestinesi musulmani. Il 6 gennaio è sempre una giornata intensa, per il cardinale Angelo Scola. Oltre alla doppia celebrazione, infatti, anche quest’anno l’arcivescovo ha scelto l’Epifania per ospitare a pranzo persone in difficoltà. L’anno scorso una rappresentanza dei detenuti del carcere di Opera, stavolta i nove componenti della famiglia Hamdawi, palestinesi di fede islamica, riproponendo con questa scelta temi ricorrenti nei suoi interventi pubblici: l’accoglienza agli immigrati e ai rifugiati, il dialogo tra le religioni. Come racconta il figlio maggiore Khaled, gli Hamdawi hanno alle spalle un’autentica odissea. Sono nati e hanno vissuto a lungo in Iraq, dopo la fuga dalla Palestina del nonno, nel 1948. A Bagdad il capofamiglia aveva un grande garage, ma a causa della loro origine, per gli Hamdawi vivere nell’Iraq disgregato del dopo-Saddam è diventato pericoloso. Decidono quindi di partire: prima vanno in Siria, poi in Turchia. Ma le condizioni di vita degli (allora) otto componenti della famiglia non migliorano, anzi si ritrovano a vivere in una tenda, per due anni, in un campo profughi con duemila persone. La tappa successiva è l’Italia, dove nel 2010 ottengono una casa. Ma dura poco, perché arriva l’espulsione. "Per due settimane abbiamo dormito in stazione a Roma, poi siamo partiti per la Svezia, dove abbiamo chiesto asilo politico - racconta ancora Khaled. Lì siamo rimasti un anno e poi, quando è nata la mia ultima sorella, siamo tornati in Italia, finché non abbiamo avuto tutti i documenti". La famiglia è allora partita per la Danimarca, dove è rimasta due anni e mezzo. E poi di nuovo in Italia: tre notti alla Malpensa e otto mesi a Casa Suraya: "Da un mese e mezzo siamo a Cinisello Balsamo, e possiamo rimanere per un anno e mezzo. I miei fratelli hanno cominciato ad andare a scuola, io e mio padre cerchiamo un lavoro. Vogliamo inserirci, voglio anche riprendere a studiare". C’è gratitudine "immensa" verso gli italiani: "A Casa Suraya è come se avessimo una famiglia. A Cinisello ci troviamo bene con la gente della parrocchia. Vado anche a fare volontariato alla Caritas e a dare una mano con i profughi alla Stazione". E il pranzo con Scola? "È un onore e un piacere andare dall’arcivescovo. Siamo felici di trascorrere del tempo con lui". "Diritto d’amore" di Stefano Rodotà, il divenire universale dell’autonomia individuale di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 7 gennaio 2016 Saggi. "Diritto d’amore" di Stefano Rodotà per Laterza. Dalle unioni civili alla laicità dell’istruzione. Un libro che segnala come la legge non può colonizzare la vita affettiva e la sessualità di uomini e donne. L’amore non rinuncia al diritto. Lo usa come un mezzo per realizzare una sua pienezza. Questo è possibile perché la sua storia è storia politica. È arduo per un giurista parlare del diritto di amare, dato che la disciplina che rappresenta ha usato l’amore come premessa di un progetto di controllo delle donne, ridotte a proprietà del coniuge, mentre la politica continua a decidere sulla vita di uomini e donne. E tuttavia, scrive Stefano Rodotà nel suo ultimo libro Diritto d’amore (Laterza, pp.151, euro 14), l’amore non rinuncia al diritto. Lo usa come un mezzo per realizzare una sua pienezza. Questo è possibile perché la sua storia è storia politica. Proprietà, credito e obbedienza: questa è la triade usata dal "terribile diritto", il diritto privato, per assoggettare l’amore - e la vita delle persone - alla razionalità dello Stato e al dominio della legge. Rodotà conduce da sempre una critica instancabile a questo modello. Per lui il diritto d’amore, come tutti i diritti, non nasce dall’arbitrio soggettivo, né da un fondamento naturalistico, ma dal legame tra il diritto e la realizzazione di un progetto di vita. Il diritto è legittimato dalle persone che decidono di riconoscerlo e lo usano per affermare l’autonomia e la libertà di tutti, non solo la propria. Ciò non toglie che il diritto e l’amore, il desiderio di unirsi a un’altra persona, indipendentemente dal suo sesso, mantengano una distanza irriducibile. Quasi mai, infatti, il diritto è un complice della vita. Anzi, esiste per disciplinare gli affetti e per creare il modello del cittadino laborioso, maschio, proprietario. L’amore, invece, non sopporta regole o norme. Preferisce crearle da sé, nell’esperienza delle relazioni, seguendo un divenire che difficilmente può essere contenuto in un’unica disciplina valida per tutti. Per questa ragione il diritto ha preferito confinare "l’amore senza legge in uno stato di eccezione", come ha scritto un grande giurista francese, Jean Carbonnier. L’autonomia irrinunciabile. In questo stato di eccezione prevale l’originaria ispirazione del diritto privato - cioè la riduzione della passione a cosa e della persona a proprietà di qualcuno. Orientamenti presenti ancora oggi in alcune sentenza della Corte Costituzionali o in fatali decisioni come quella sulla legge 40 sulla fecondazione assistita approvata dal governo Berlusconi. A tutela dell’autonomia e della libertà delle persone, Rodotà usa la Costituzione e dai suoi articoli fondamentali traccia un uso alternativo del diritto che distrugge i valori di cui la stessa carta fondamentale è espressione. A questo punto è quasi inevitabile per il giurista raccontare la storia dei movimenti che hanno fatto esplodere il perimetro formalizzato dei poteri e della legge nel secondo Dopoguerra. Prima il movimento femminista, oggi i movimenti Lgbtq a cui Rodotà dedica un intero capitolo. Il diritto di amare è diventato una questione politica di rilievo perché alimenta la ricerca dell’autonomia delle persone. Il conflitto è emerso, fortissimo, sulle unioni civili come, di recente, hanno dimostrato i movimenti Lgbtq che hanno organizzato una "marcia dei diritti" per criticare l’insufficienza, addirittura le potenziali discriminazioni presenti nel disegno di legge Cirinnà che il governo intende approvare. Storia di un incontro. In questa partita rientra anche il conflitto sull’educazione alle differenze nelle scuole: da una parte, c’è un movimento vasto che sostiene la laicità dell’istruzione pubblica e la critica dei ruoli sessuali per tutelare la libertà dei bambini e degli insegnanti. Dall’altra parte, c’è una reazione furibonda che attraverso il meme della "ideologia del gender" - una narrazione tossica strumentale e infondata - ha saldato un ampio movimento conservatore con le istanze più reazionarie del cattolicesimo e mira a colpire la laicità dell’istruzione e la libertà nelle scelte d’amore. Come accade nei suoi libri, Rodotà unisce la storia dei movimenti a quelle della Costituzione italiana e della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea alla quale ha contribuito. L’incontro con i movimenti serve al diritto per "conoscere se stesso, il proprio limite, l’illegittimità di ogni sua pretesa di impadronirsi della vita - scrive Rodotà -. Emerge così uno spazio di non diritto nel quale il diritto non può entrare e di cui deve farsi tutore, non con un ruolo paternalistico, ma con distanza e rispetto". Dal punto di vista dei movimenti, il diritto serve a riconoscere e a coltivare una tensione nel darsi regole che possono cambiare, seguendo una geometria delle passioni interna alle relazioni tra il soggetto e la sua vita. In questo quadro è fondamentale il ruolo delle minoranze: il movimento omosessuale, insieme a quello femminista, quello Lgbtq, interpretano lo stesso modo di fare politica: per vincere i movimenti si coalizzano con altri soggetti attivi nella società al fine di ottenere un riconoscimento sociale e istituzionale. Le conquiste sulle libertà personali sono valide per tutti, come hanno dimostrato l’aborto e il divorzio. Il diritto d’amore si inserisce in questa nobile vicenda e risponde a un’esigenza che ha dato il titolo a un altro, notevole, libro di Rodotà: il diritto ad avere diritti. Tensioni singolari. Auspicio, affermazione performativa, atto di cittadinanza: il diritto ad avere diritti è una formula che caratterizza l’azione coordinata delle minoranze e afferma i diritti universali di tutti: il welfare state, l’ambiente, i beni comuni, per esempio. L’universalismo singolare dei diritti si pratica sottraendosi dall’identità maggioritaria fissata per legge (Deleuze la definiva "divenire minoritario") e, allo stesso tempo, nella creazione di un diritto all’esistenza che sfugge ai principi della morale dominante e agli assetti del potere organizzato dal diritto. Questa duplice azione rivela l’esistenza di uno spazio rivoluzionario. Rodotà lavora alla sua riapertura, in un momento non certo felice di arretramento generale. "Diritto d’amore" è infine un libro che va letto insieme a quello dedicato da Rodotà alla solidarietà. Da tempo il giurista è impegnato in una ricostruzione genealogica delle passioni e delle pratiche volte alla costituzione di una soggettività caratterizzata da un rapporto di reciprocità, irriducibile al narcisismo o alla naturalizzazione dei ruoli. Parla di uguaglianza e ne rintraccia la storia nelle pratiche della solidarietà e nella dignità della persona. In questa fittissima tessitura, l’amore è un "rapporto sociale", mentre la sua tensione singolare "a bassa istituzionalizzazione" spinge a creare mondi nuovi. Questa può essere considerata una risposta all’invocazione di Auden: "La verità, vi prego, sull’amore". Quelle donne libere umiliate a Colonia dal fanatismo di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 7 gennaio 2016 Gli uomini che a Colonia si sono avventati come animali sulle donne in festa per il Capodanno volevano punire la libertà delle loro vittime. Hanno palpeggiato, molestato, umiliato, violentato, picchiato le donne che osavano andare da sole, che giravano libere di notte, che si abbigliavano senza rispetto per le ingiunzioni e i divieti consacrati dai padroni maschi. Consideravano prede da disprezzare e da percuotere le donne che facevano pubblicamente uso di una libertà che gli stupratori e gli energumeni di Colonia considerano inconcepibile, peccaminosa, simbolo di perversione, donne che studiano e lavorano. Che sposano chi desiderano e non il marito oppressore che la famiglia, la tradizione, il clan assegnano loro. Che non sono costrette a uscire solo in compagnia dell’uomo prevaricatore. Che bevono e mangiano in libertà, entrano nei locali, fanno l’amore quando scelgono di farlo, brindano a mezzanotte, indossano jeans e magliette, flirtano, fanno sport e si scoprono per praticarlo, hanno la sfrontatezza di festeggiare il Capodanno con i loro amici maschi. Per chi considera la libertà delle donne un peccato da estirpare, le donne libere sono delle poco di buono da umiliare, da riempire di lividi sul seno e sulle cosce aspettandole all’uscita della metropolitana e con la polizia impotente e immobilizzata. Come si fa con gli esseri considerati inferiori. Come è accaduto a Colonia in una tragica e sconvolgente prima volta nella storia dell’Europa contemporanea in tempo di pace. È stato un rito di umiliazione organizzato, coordinato, diretto a colpire quello che oramai comunemente viene definito uno "stile di vita". Nonostante i retaggi del passato, nonostante le tenebre oscurantiste che ancora avvolgono come fumo di un passato ostinato le città e persino le famiglie dell’Europa figlia dell’Illuminismo, malgrado i branchi di lupi che infestano i nostri Paesi e fanno morire di paura le donne che si avventurano sole, le ragazze indifese di fronte al bullismo e al teppismo, malgrado tutto questo, la libertà della donna resta pur sempre un principio e una pratica di vita inimmaginabile in altri contesti culturali, in altri sistemi di valori. Ed è l’incompatibilità valoriale con questo spirito di libertà che le bande di Capodanno hanno voluto manifestare contro le donne che andavano a ballare, a bere, a baciare anche. Non capire il senso di "prima volta" che gli agguati di Colonia portano con sé è un modo per restare ciechi, per non capire, per farsi imprigionare dalla paura e dall’afasia. Così come non abbiamo voluto vedere, abbiamo fatto finta di niente, siamo restati volontariamente ciechi quando al Cairo, nella leggendaria piazza Tahrir, la "primavera araba" diventò cupa e le donne a decine cominciarono in nome dell’Islam ad essere aggredite, molestate, violentate dai super-fanatici del fondamentalismo misogino. Ora dovremmo cercare di capire che nelle gesta di prevaricazione degli uomini che odiano le donne libere si riflette un gesto di aggressività valoriale di stampo irriducibilmente sessista e non lo sfogo barbarico di un primitivismo pulsionale. Un atto di sopraffazione culturale, non di ferocia animalesca e irriflessa. Con tutte le cautele e il senso di responsabilità che si deve in questo genere di problemi, Colonia ha lo stesso significato di aggressione simbolica dell’irruzione fanatica nella redazione di Charlie Hebdo : lì veniva scatenata un’offensiva mortale contro la libertà d’espressione, considerata un peccato scaturito nel cuore del mondo infedele; qui contro la libertà della donna, la sua emancipazione impossibile e temuta in contesti culturali che danno legittimazione ideale e persino religiosa al predominio e alla sopraffazione del maschio. Certo, è diverso lo sterminio dei vignettisti dalle botte umilianti di Colonia. Ma c’è un comune sostrato punitivo, l’identificazione di un simbolo culturalmente indigeribile che stabilisce una distanza abissale tra uno "stile di vita" libero e una mentalità che bolla la libertà delle persone, uomini e donne allo stesso modo, come una turpitudine, un’offesa, un peccato, un oltraggio. Rubricare invece le violenze di Colonia come una delle tante, tristissime manifestazioni di aggressione contro le donne che infestano la vita delle città europee significa smarrirne la specificità, la novità, il senso stesso della sua dinamica. Significa non capire cosa ha mosso gli aggressori, il fatto che fossero centinaia e centinaia in un abuso di massa del corpo e della libertà delle donne come non si era mai visto. Loro, gli aggressori, possono dire che le donne colpite e umiliate "se la sono cercata" semplicemente perché hanno scelto un modo di vivere inammissibile e peccaminoso. A noi il compito di difenderlo, questo modo di vivere, e di considerare inviolabili le donne, e la loro libertà. Ue, vacilla il sistema Schengen e la Germania passa all’attacco di Francesca Basso Corriere della Sera, 7 gennaio 2016 L’incontro di ieri a Bruxelles convocato dopo le iniziative di Svezia e Danimarca. La Commissione di Bruxelles chiede di salvaguardare il Trattato. "Siamo d’accordo sul fatto che Schengen e il libero movimento debbano essere salvaguardati, sia per i cittadini, sia per l’economia. Misure eccezionali sono state prese e abbiamo concordato di mantenerle al minimo necessario, per tornare alla normalità il prima possibile". Il resoconto del commissario all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos, al termine dell’incontro d’urgenza con i rappresentanti di Svezia, Danimarca e Germania dopo la decisione di Stoccolma di reintrodurre i controlli al confine con Copenaghen, che a cascata li ha ripristinati con la Germania, mostra lo stallo della politica europea per fronteggiare l’emergenza immigrazione. Tutti concordano sull’importanza di Schengen, ma è il segretario di Stato tedesco all’Immigrazione, Ole Schröder ad andare dritto al problema: la Ue non ha un efficace sistema di controllo delle frontiere esterne, in particolare tra Grecia e Turchia, e il sistema del ricollocamento dei richiedenti asilo "non sta funzionando". I numeri gli danno ragione: secondo gli ultimi dati, solo 272 rifugiati sono stati ricollocati da Italia (190) e Grecia (82) su un totale di 160 mila previsto dal piano di Bruxelles. "Sino a quando non avremo una soluzione europea - ha concluso Schröder - saranno necessarie misure da parte dei singoli Stati membri". La Svezia ha dovuto affrontare solo in autunno un’ondata senza precedenti: negli ultimi quattro mesi ha aperto le porte a 115 mila richiedenti asilo. Il ministro della Giustizia e dell’Immigrazione svedese Morgan Johansson ha spiegato che i controlli ai confini imposti a novembre e la verifica dei documenti dalla mezzanotte di domenica sono "necessari per controllare la situazione, cominciamo ad avere problemi nella gestione dei flussi, per questo è necessaria una politica europea di condivisione delle responsabilità". Ma così si crea un effetto domino e la Danimarca "non vuole essere la destinazione finale per migliaia e migliaia di richiedenti asilo" ha detto in modo inequivocabile la ministra all’Immigrazione e integrazione danese Inger Stojberg: servono "soluzioni europee". Le chiedono i Paesi del nord Europa dove i rifugiati vogliono fare domanda di asilo, le chiedono i Paesi del sud, con Italia e Grecia in testa, dove i migranti approdano al termine di viaggi tragici. Ma la situazione non si sblocca. "I flussi devono essere rallentati. L’unica via sono le soluzioni europee con tutti i 28 Stati membri", ha ribadito Avramopoulos in conferenza stampa e al termine ha ripetuto le linee da seguire: "Difendere meglio i confini dell’Europa, far funzionare il ricollocamento dei rifugiati, rispettare le regole". Ovvero identificare i migranti che arrivano. Ma anche su questo i dati non sono confortanti. Dei sei hotspot previsti in Italia quelli attivi sono due, Lampedusa e Trapani, mentre dei cinque previsti in Grecia uno solo è operativo, ha elencato Tove Ernst, una dei portavoce della Commissione Ue per l’Immigrazione. La riunione d’urgenza si è conclusa in un reciproco impegno di collaborazione, ma resta il fatto che uno dei pilastri fondamentali dell’Unione Europea, la libera circolazione delle persone, stia subendo duri attacchi. Tutti ribadiscono l’eccezionalità delle misure e la temporaneità. Ma intanto in sei Paesi sono sospese le regole di Schengen: la Norvegia, che non fa parte della Ue, la Svezia, la Danimarca, l’Austria, la Germania, che vi ha fatto ricorso a settembre, e la Francia, dopo gli attentati terroristici del 13 novembre. L’Italia non ha intenzione di ripristinare i controlli ai confini. Lo ha assicurato nei giorni scorsi il ministro dell’Interno Angelino Alfano: "A Nord-Est non chiuderemo le frontiere, ma abbiamo già inviato, e continueremo a farlo, numerosi uomini e mezzi antiterrorismo". Fallito il vertice per salvare il Trattato di Schengen, Danimarca e Svezia fanno da sole di Carlo Lania Il Manifesto, 7 gennaio 2016 Un fallimento. Convocato d’urgenza per chiedere a Svezia e Danimarca spiegazioni sulla decisione di ripristinare i controlli alle frontiere, il vertice straordinario voluto dal commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos si è concluso con un niente di fatto. O meglio, con la certezza che i due paesi del nord Europa - che hanno deciso la sospensione di Schengen per arginare gli arrivi dei profughi - continueranno a fare quello che vogliono. "Le misure messe in atto saranno mantenute per lo stretto necessario", vale a dire "fino a quando ci sarà una riduzione dei flussi", ha spiegato al termine dell’incontro Avramopoulos. Il che, vista l’inutilità di tutti i tentativi messi in atto finora dall’Europa per trovare una soluzione alla crisi dei migranti, equivale a dire che almeno per quanto riguarda Svezia e Danimarca Schengen si potrebbe anche considerare finito. Se le cose stanno così, c’è il rischio che a pagare le conseguenze di questa nuova dimostrazione di impotenza dell’Ue saranno le migliaia di uomini, donne e bambini che, chiusi in trappola tra un nord sempre più ostile e i paesi balcanici restii a organizzare la loro accoglienza, rischiano di restare intrappolati nella neve. Come purtroppo già avviene. Difficile dire quali argomenti abbiano utilizzato i ministri dell’immigrazione svedese e danese, Morgan Jahansson e Inger Stojberg, per rassicurare un’Europa fino a due giorni fa terrorizzata dall’idea di vedere andare in frantumi uno dei trattati su cui è basata a sua stessa sopravvivenza. Fatto sta che dopo due ore di colloqui, ai quali ha partecipato anche il segretario di Stato tedesco Ole Schroeder, gli unici soddisfatti erano proprio loro: "È stato un incontro costruttivo", hanno spiegato in una conferenza stampa nella quale non è stato possibile rivolgere domande. Nessuna traccia, invece, delle misure che pure Bruxelles aveva annunciato di voler discutere per mettere in sicurezza la libera circolazione in Europa. Anzi. Al momento sono sei i paesi che hanno sospeso Schengen (oltre a Svezia, Danimarca e Germania, anche Francia, Norvegia e Austria) e c’è da sperare che non aumentino nelle prossime settimane. Il vertice di ieri infatti è come se avesse ufficializzato una sorta di via libera per chiunque deciderà di seguire l’esempio svedese. L’indicazione è arrivata dallo stesso Schroeder, per il quale finché non verranno rispettate le regole europee sull’asilo, gli Stati daranno risposte singole. Insomma: facciamo da soli, e Bruxelles è avvertita. Più esplicita la rappresentante del governo danese: "Non vogliamo essere la destinazione finale di migliaia e migliaia di richiedenti asilo", ha spiegato, aggiungendo di non escludere la possibilità ce come già accade in Svezia, anche Copenhagen decida di imporre alle compagnie di trasporto di controllare i documenti dei viaggiatori. Il problema rischia adesso di rovesciarsi sull’anello più debole della catena, perché primo nel fronteggiare l’impatto dei migranti, vale a dire il fronte sud dell’Europa. Svezia, Danimarca e Germania hanno infatti puntato il dito sulla mancanza di controllo delle frontiere: "Non funzionano, in particolare tra Grecia e Turchia", ha accusato Schroeder. "Le registrazioni non vengono fatte. Eurodac non viene applicato, i ricollocamenti non vanno avanti". Da parte sua lo svedese Morgan Jahanson ha chiesto invece l’applicazione "del principio di Dublino" (lo stesso che l’Italia chiede invece da tempo di poter modificare) e "misure per rallentare il flusso" sulla rotta dei Balcani, che il ministro definisce "un’autostrada" per i migranti. Senza risparmiare l’Italia, come ha fatto la portavoce della Commissione europea Tove Ernest ricordando come dei sei hotspot previsti ne siano attivi solo due. "E in Grecia su cinque è operativo uno". Parole che non devono aver fatto piacere a palazzo Chigi, dove Renzi si prepara a incontrare nel giro di qualche settimana sia il presidente della Commisione Ue Juncker che la cancelliera Merkel. Nella consapevolezza che, a meno di un repentino cambio di rotta, a decidere cosa fare nella sempre più drammatica crisi dei migranti presto potrebbe non essere più l’Unione europea ma i singoli Stati. Un anno dopo Charlie Hebdo, il mondo è meno libero e più insanguinato di Gianni Rossi huffingtonpost.it, 7 gennaio 2016 Un anno dopo le stragi di Parigi al settimanale satirico Charlie Hebdo e all’Hyper Casher con 16 morti, la Francia è meno sicura di prima. La furia fondamentalista, appena 10 mesi dopo, ha alzato il tono della sua strategia sanguinaria, massacrando altre 130 persone e ferendone 352, in gran parte mutilate per sempre. La Francia è anche meno libera per uno stato d’emergenza perenne, con controlli invasivi sulle comunicazioni via Internet e progetti di leggi voluti dal Presidente socialista Hollande che contengono, tra l’altro: la revoca della doppia cittadinanza; la facoltà dei prefetti di far effettuare perquisizioni notturne, senza l’autorizzazione dei magistrati; la polizia potrà fermare e perquisire bagagli, auto, controllare l’identità di chiunque possa essere "sospettato" e fermarlo per quattro ore, interrogandolo senza avvocato; le forze dell’ordine potranno sparare, anche oltre la "legittima difesa", basta solo il sospetto che qualcuno stia per compiere un atto criminale. Durante la sua campagna per le presidenziali, Hollande si era battuto contro queste misure, definite "liberticide", che invece la destra estrema della Le Pen propugnava a gran voce e l’ex-presidente Sarkozy, se rieletto, si proponeva di promulgare. Cosa è cambiato da un anno a questa parte? Non solo gli orientamenti dell’opinione pubblica, martellata dalle stragi, dagli annunci sanguinari del Daesh e dai grandi mezzi di comunicazione, che intensificano la loro campagna di "terrorismo mediatico", instillando nelle coscienze la paura e il senso di isolamento, mettendo in secondo piano i fallimenti della politica governativa per tentare di risanare la crisi economica. Si è modificato lo scenario internazionale e sociale: il fenomeno di radicalizzazione islamica ha attecchito nelle fasce emarginate della popolazione musulmana in Europa e in Oriente, ampliandone le complicità e incrementando i seguaci, che a migliaia si sono "arruolati" nell’esercito dell’Isis. Si è stravolta l’essenza stessa, i principi laici e liberali, che sono alle fondamenta della costituzione dell’Unione Europea, mettendo anche a rischio il concetto di libera circolazione, riducendo drasticamente il Trattato di Schengen. Dopo la strage a Charlie Hebdo, si riversarono spontaneamente per le strade di Parigi, di tutta la Francia, in gran parte d’Europa e nel mondo milioni e milioni di persone per testimoniare la solidarietà con le vittime e a difesa di tutte le libertà, a partire da quelle d’opinione e stampa. Dopo le stragi e la mattanza al teatro Bataclan del 13 Novembre scorso, a Parigi, sono state invece vietate le manifestazioni. Solo colonne di persone in mesto pellegrinaggio sui luoghi della tragedia per commemorare i morti con fiori, lettere, foto, disegni, peluche, lumini. Una teoria di gente comune che ha testimoniato in silenzio e come fosse un lutto personale un evento che invece era pubblico, di portata mondiale, che avrebbe avuto bisogno di altre manifestazioni di orgoglio democratico collettivo. Non bastano le attestazioni di cordoglio ufficiali dei governanti e di quanti si sono identificati di volta in volta con gli slogan "Je suis Charlie" e "Nous sommes tous parisiens", per rafforzare lo spirito fiaccato delle popolazioni. Le svolte politiche reazionarie e xenofobe che si stanno affermando in molti paesi dell’Unione sono la meccanica conseguenza degli attacchi terroristici. I partiti della "sinistra storica" non riescono a proporre modelli e leggi se non liberticide, la censura compie i suoi passi da gigante un po’ dovunque, i servizi pubblici radiotelevisivi vengono riportati sotto il controllo asfissiante degli esecutivi. Solo dove è più sentita l’emergenza economica e dove la presenza islamica è minore, come in Portogallo, Grecia e Spagna, si sono affermati movimenti e partiti di una "nuova sinistra", che parla e agisce con strategie nuove. Nel resto d’Europa si respira un’aria di restaurazione, di limitazione dei diritti fondamentali in nome di una lotta al terrorismo fondamentalista, che però dalle prime stragi di Parigi, non ha prodotto nessun risultato efficace; anzi, sono aumentate le falle nei sistemi di controllo e informazione; le polizie e i servizi segreti dell’Unione continuano a sospettarsi vicendevolmente. Nelle maglie larghe dell’antiterrorismo sono fuggite decine e decine di sospettati. I morti sono aumentati. La paura e la xenofobia si sono estese anche alle fasce sociali più sensibili e illuminate. La lotta al terrorismo del Daesh si sta trasformando in un braccio di ferro tra nazioni frontaliere: la Turchia contro la Russia, la Siria contro l’Arabia Saudita, questa contro lo Yemen, i paesi petroliferi del Golfo contro il nuovo gigante regionale, quell’Iran sciita che prima alimentava il terrorismo jihadista antiisraeliano ed oggi si trova a fare i conti con la "Santa alleanza" sunnita, capitanata proprio dai sauditi e spalleggiata dalla Turchia, a sua volta in guerra anche contro i Curdi e l’Iraq. Il vaso di Pandora si è ormai rotto e gran parte di questa colpa ricade sulle potenze occidentali, in primis nella politica scellerata, dei "due forni", sia dell’amministrazione democratica di Obama, sia di quella precedente repubblicana del "guerrafondaio" Bush junior. Entrambi non hanno mai "rotto" con l’ambigua regia finanziaria e politico-regionale della corte sunnita di Riad. Anche perché gran parte dei Treasury bonds degli Stati Uniti sono proprio in mano a re, principi e califfi del Golfo. Il potere di ricatto energetico e finanziario detenuto dai sunniti del Golfo è enorme e devastante. E così gli Stati Uniti sembrano per la prima volta annaspare anche nell’arte nella quale primeggiano dalla Seconda guerra mondiale in poi: lo spionaggio e il controspionaggio. Oggi sembrano invece dei gatti sordi e ciechi, nonostante il più grande apparato di controllo delle comunicazioni, il Sigint, nato dall’accordo tra i "Cinque occhi", stretto tra i cinque stati anglofoni, riuniti grazie alla tecnologia del superveloce sistema di intercettazioni Echelon, che dipende dall’Ukusa Agreement: Australia (Defence Signals Directorate), Canada (Communications Security Establishment), Nuova Zelanda (Government Communications Security Bureau), Gran Bretagna (Government Communications Headquarters, Gchq), Stati Uniti (National Security Agency Nsa). La potenza di fuoco impressionante di questa Super Intelligence mondiale è sembrata annaspare contro il sistema quasi amatoriale di comunicazioni telematiche usate dai terroristi del Daesh, che hanno seminato morti e terrore in Europa e nel Medio Oriente. Un anno dopo la strage a Charlie, il settimanale satirico colpisce ancora nell’immaginario collettivo e agita le coscienze dei benpensanti e delle élite conservatrici e tradizionaliste, rappresentando in copertina stavolta un Dio che fugge con un kalashnikov a tracolla. Nessuno sa dove si cela né dove colpirà di nuovo. Ma si capisce che il richiamo ad un generico Dio "vendicativo" e sanguinario è solo una copertura ideologica di quel mondo arabo islamico che deve ancora fare i conti col proprio passato, con le divisioni dottrinali tra sunniti e sciiti, con gli interessi finanziari ed energetici che hanno sempre mosso le loro azioni nel sottobosco del Big Game, del potere "assoluto". Charlie e suoi giornalisti/vignettisti ci hanno testimoniato con il loro sacrificio e con l’impegno artistico, che li contraddistingue tuttora, che un pericolo del genere si può sconfiggere con la difesa dei diritti e delle libertà, della separazione dei poteri, della laicità dello stato e del rispetto della privacy, di qualsiasi fede religiosa, credo politico e comportamento sociale, dell’affermazione della laicità dello stato e del rispetto della privacy. E che grazie alla satira irriverente, una "risata vi seppellirà": specie tutti quelli che usano il potere con la violenza e il terrorismo. Corea Nord: il "brillante leader" Kim. I segreti dello sciamano tra lager e faide cruente di Marco Del Corona Corriere della Sera, 7 gennaio 2016 L’uomo forte di Pyongyang Kim Jong-un resta un mistero impenetrabile. Nel nome del padre. Nel nome del nonno. Ma anche nel nome di se stesso. L’exploit nucleare di Kim Jong-un è un’affermazione di forza a titolo personale e l’assicurazione, davanti al suo popolo, che nulla è cambiato rispetto al passato: nulla, tranne la forza, appunto. Il giovane leader, succeduto al padre Kim Jong-il nel 2011, ha dalla sua parte il conforto di una tradizione confuciana mai esplicitata ma radicata nel profondo della società nordcoreana, dove il rispetto per gli antenati e la gerarchia è tanto, quasi tutto. Gli garantisce credito presso le masse, ben nutrite solo di propaganda, e gli impone di mostrarsi all’altezza dei predecessori. "Suono emozionante" quello della Bomba, quindi. Quattro anni al potere hanno consentito a Kim Jong-un di modellare una cerchia di gerarchi dei quali fidarsi. Sbarazzandosi, all’occorrenza, di chi magari aveva auspicato una successione non dinastica a Kim Jong-il. Ha fatto giustiziare lo zio e mentore Jang Song-thaek, eliminato il responsabile della difesa Hyon Yong-chol, allontanato la zia Kim Kyong-hui, mentre il "maresciallo" dell’Esercito popolare Ri Ul-sol è morto per cause naturali e il capo negoziatore con i sudcoreani Hyon Yong-chol è scomparso in un "incidente d’auto" (così le fonti ufficiali) solo una settimana fa. Campo libero, dunque, e libero sfogo alla volontà di potenza. La macchina del consenso in patria non è molto cambiata rispetto ai tempi del padre. Il marxismo-leninismo superato dal credo militarista, autarchico, ultranazionalista del Juche. Culto della personalità all’ennesima potenza con concessioni glamour: una first lady elegante e con borsette griffate mostrata con parsimonia, band nostrane e straniere celebrate a Pyongyang, inaugurazioni di impianti sciistici. Il segreto che permea le attività reali del "Brillante Leader" e i meccanismi del potere, tuttavia, resta totale. E il mistero è una specialità della casa che obbliga così gli osservatori esterni a decifrare i simbolismi occulti di ispezioni a fabbriche o a unità militari. Che poi la Corea del Nord abbia decine o centinaia di migliaia di detenuti in un sistema di campi di detenzione e di lavoro, che stia in fondo alle classifiche mondiali del rispetto dei diritti umani, è questione che attiene al secondo palcoscenico sul quale si muove Kim, quello globale. Tutto falso, giurano gli ambasciatori di Pyongyang. E per il regime la guerra del 1950-53 è stata vinta ma non è mai finita (questo è un dato reale, alla fine delle ostilità non è mai seguito un trattato di pace); Kim, come il nonno e il padre, racconta al suo popolo di un mondo ostile di imperialisti che assediano il paradiso del socialismo. Le crisi alimentari ricorrenti, come quella degli anni Novanta (la "strenua marcia"), sono presentate in patria come provocate dall’aggressione capitalista. Il contrasto fra i test nucleari e missilistici e il disastro strutturale di un Paese che ha qualche amico solo fra "Stati canaglia" è parte del rebus. In una recente conversazione con il "Corriere", lo scrittore Lee Eung-jun spiegava che "la Corea del Nord è già collassata. Economicamente non funziona più, si limita a vegetare". Autore di un romanzo su un’ipotetica riunificazione, "La vita privata della nazione", Lee illustrava così una psicologia che s’è fatta ideologia: "È un totalitarismo religioso, non è soltanto comunismo. C’è una specie di trinità: Kim Il-sung padre, Kim Jong-il figlio e la dottrina del Juche spirito santo. Un totalitarismo sciamanico in cui Kim Jong-un non è più nulla. Funziona come le chiese cristiane sudcoreane. In questo Sud e Nord Corea si assomigliano: sono dominate dallo sciamanesimo. Ma io penso che questa cornice di fascismo religioso a Pyongyang sia collassata. Resta una certa energia, resta l’abitudine: ma è inerzia". Kim "terzo" confida nella tolleranza infastidita della Cina e nell’impraticabilità, per la comunità internazionale, di misure coercitive. Sa che dopo il primo test nucleare (2006) il Consiglio di sicurezza dell’Onu impiegò un giorno a redigere una risoluzione e 5 ad adottarla, 10 giorni e 2 dopo il secondo test (2009), 21 giorni e uno dopo il terzo (2013). Al Sud si sono abituati alle sparate del Nord: "C’è qui un livello doppio: coscienza e incoscienza. Sappiamo che ci sono le minacce ma ci comportiamo come se nulla fosse. Un’incoscienza collettiva", ci spiegava a Seul lo scrittore Lee. Forse lo sa anche Kim Jong-un. La Bomba H coreana fa tremare l’Asia. I dubbi dell’America sull’annuncio di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 7 gennaio 2016 La Casa Bianca: "Non ci sono prove che sia un ordigno termonucleare". L’Onu rafforza le sanzioni. Ci vorranno settimane per verificare se si sia trattato davvero di una Bomba H. Una presentatrice tv in abito tradizionale di colore rosa ha annunciato ai nordcoreani e al mondo che "il primo test con la Bomba H è stato effettuato con successo alle ore 10 del giorno 6 gennaio". Sono seguiti elogi alla leadership di Kim Jong-un, che domani compie gli anni (forse 33) e la definizione politica dell’ordigno: "Bomba H di giustizia che eleva la potenza nucleare del Paese allo stadio successivo". La prima domanda, come sempre di fronte alla operazioni compiute in Corea del Nord, il Paese più isolato del mondo, è se si sia davvero trattato di una bomba all’idrogeno, nota anche come termonucleare. Per tre volte, nel 2006, 2009 e 2013, erano stati annunciati test nucleari sotterranei, che avevano creato onde sismiche anomale rilevate dalle stazioni internazionali. Ieri gli osservatori americani hanno registrato una scossa pari a 5,1 gradi Richter, la stessa potenza dell’esplosione nucleare "convenzionale" del 2013. L’intelligence di Washington dice che ci vorranno settimane per verificare se si sia trattato davvero di una Bomba H e per la Casa Bianca le prime analisi lo escludono. Anche gli analisti militari sono scettici: Bruce Bennett della Rand Corporation ha detto che "il bang prodotto sarebbe dovuto essere dieci volte più forte, quindi o Kim Jong-un mente o il test con l’idrogeno non ha funzionato bene". Il cinese Du Wenlong ha detto alla Cctv di Pechino che i dati non tornano. Scetticismo condiviso da Seul. La differenza è grande sotto l’aspetto del sistema tecnico usato per causare l’esplosione nucleare (fissione o fusione) e della potenza. Ma da un punto di vista politico e di sicurezza tutto sommato conta poco: il regime di Kim Jong-un, dittatore ereditario e imprevedibile della Corea del Nord, ha un arsenale di armi di distruzione di massa: secondo i cinesi almeno 20 ordigni nucleari. Accoppiato con missili dalla gittata ancora incerta. Pyongyang si vanta di avere missili capaci di raggiungere le città americane, anche se l’intelligence occidentale dubita. La propaganda nordcoreana ha prodotto filmati che mostrano New York sotto un diluvio di missili. Il test nucleare all’idrogeno (o a quel che sia stato) è dunque una sfida minacciosa agli Stati Uniti, alla Corea del Sud, al Giappone, ma anche e soprattutto una prova dei limiti della capacità cinese di tenere sotto controllo l’instabile alleato. Le condanne sono arrivate unanimi: la Cina, grande protettore del regime, ha detto di non essere stata informata del piano di Kim e "si oppone con forza"; il Giappone parla di "grande minaccia"; gli Usa ribadiscono di essere pronti a "rispondere appropriatamente a ogni provocazione"; anche la Russia parla di "grave violazione della legge internazionale", però invoca colloqui. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu si riunisce per varare un inasprimento delle sanzioni che da anni stringono inutilmente l’assedio intorno al cosiddetto "regno eremita", ultimo bastione dello stalinismo puro e duro. Molti diplomatici internazionali guardano a Pechino per trovare una leva che disinneschi la minaccia nucleare nordcoreana. Per decenni i cinesi hanno ripetuto che il rapporto con i fratelli della Repubblica democratica popolare di Corea era come quello tra le labbra: "se quelle superiori si allontanassero da quelle inferiori la bocca soffrirebbe il freddo". Ma da quando c’è Kim Jong-un al potere il freddo è arrivato. Il giovane dittatore è in sella dal dicembre 2011 (dopo quattro anni non si può più definire inesperto); a Pechino Xi Jinping è in carica dal novembre 2012. I due non si sono mai incontrati. Xi è il leader cinese che ha viaggiato di più nel mondo, ma non ha messo piede a Pyongyang. E Kim si è tenuto lontano da Pechino, anche quando a settembre dell’anno scorso era stato invitato alla grande parata sulla Tienanmen. La Cina ha a più riprese segnalato fastidio per la condotta destabilizzante dell’alleato: anzitutto i test di armi nucleari sono condotti a ridosso del confine cinese, con possibili ricadute. E poi, la minaccia di Kim rende sempre più necessaria la presenza militare degli Stati Uniti nella regione Asia-Pacifico che invece i cinesi ambiscono a controllare. Nuove sanzioni votate dall’Onu, con il sì della Cina, sembrano inevitabili. Ma ormai sembra troppo tardi per negoziare con i nordcoreani. Isis: distruggeremo le carceri dell’Arabia Saudita, dopo esecuzione di massa La Presse, 7 gennaio 2016 Lo Stato islamico ha minacciato di distruggere le carceri dell’Arabia Saudita e liberare i suoi combattenti in cella, in risposta all’esecuzione di decine di estremisti sabato scorso a Riad. In un editoriale sul settimanale al-Naba, pubblicato su internet dal gruppo estremista, si legge: "I tiranni sauditi hanno dimostrato con questa azione la loro nuova politica, che è concentrare i monoteisti (riferimento ai seguaci dello Stato islamico, ndr) nelle prigioni e trasformarli in ostaggi" per poi "rispondere alle minacce dei mujaheddin con l’esecuzione degli ostaggi". Per liberare i detenuti, si legge, la via è "distruggere i regimi che li tengono in cella e distruggere le loro carceri". Quindi, il gruppo minaccia di attaccare le prigioni di Al-Hayer, vicino a Riad, e Al-Tarfiya, a Buraida. Nelle due strutture si trova la maggior parte dei condannati per terrorismo. Il primo carcere nello scorso luglio è stato oggetto di un attacco da parte dello Stato islamico. L’esecuzione di massa di sabato scorso a Riad ha portato alla morte 47 persone, in gran parte estremisti sunniti condannati per coinvolgimento negli attacchi condotti nel regno tra il 2004 e il 2005.