Giustizia lumaca, "bomba" da 1 miliardo sui conti pubblici di Francesco Lo Dico Il Mattino, 6 gennaio 2016 Ritardi e rinvii, sono ancora cinque milioni i processi civili pendenti. Sosteneva Proudhon che nulla avviene fra gli uomini che non sia in nome del diritto. Ma se avesse rivolto lo sguardo ai nostri tribunali, il filosofo di Besancon avrebbe forse aggiunto che nulla, in nome del diritto, può accadenti senza i n vo care la mala-giustizia. Oberate da arretrati di proporzioni colossali, le aule giudiziarie italiane sono vicine all’implosione. Pensare di potere smaltire in tempi brevi i quasi nove milioni di procedimenti pendenti a oggi nel Paese, richiede un’autentica professione di fede che gli algidi numeri del ministero della Giustizia scoraggiano. Le conseguenze, più palpabili, sono sotto gli occhi di tutti. E hanno spinto i Radicali a evidenziarle in un dossier curato dall’avvocato Deborah Cianfanelli, sulla base di una ricognizione delle statistiche di via Arenula. L’esasperante lentezza della nostra Giustizia produce innanzitutto effetti devastanti dal punto di vista umano: anni di galera per ingiusta detenzione e processi - mediatici e reali - interminabili. Il dato, piuttosto eloquente, è che il 42 per cento dei carcerati italiani, è oggi in cella ad attendere una sentenza che magari può concludersi con un’assoluzione. Veri e propri furti di vita, affetti, occasioni e risorse che nessuno, compreso lo Stato, quasi mai risarcisce. Ci provò - almeno per quanto riguarda la lentezza dei processi sanzionata dalla Cedu - il governo Amato nel 2001, con la legge Pinto. Ma a 14 anni dall’entrata in vigore della legge 89, poi rivisitata, il bilancio è piuttosto negativo. E la mala-giustizia, secondo quanto emerge dall’analisi dei Radicali, rischia ora di trasformarsi in una mina da un miliardo di euro all’anno per i nostri conti pubblici. Già la Commissione tecnica per la finanza pubblica, nel dicembre del 2007, avvertì nel Rapporto intermedio sulla revisione della spesa, che i risarcimenti destinati all’equa riparazione erano diventati una delle voci di spesa più significative del ministero della Giustizia. E stimò in 500 milioni di euro all’anno il rischio economico derivante dalle "condanne ex Legge Pinto". Ma al conto, devono essere aggiunte anche le somme dovute a seguito delle 1.179 condanne della Corte di Strasburgo, alla quale si sono dovute appellare migliaia di richiedenti nel tentativo di ottenere un risarcimento congruo, altri duecento milioni di euro l’anno per ingiusta detenzione (in media, a causa di errori giudiziari, finiscano nelle patrie galere duemila persone l’anno), e le frequenti violazioni dei diritti umani che si consumano nei nostri penitenziari. Che la situazione sia vicina al collasso, evidenzia il dossier di Cianfanelli, lo dimostra lo stesso ministero della Giustizia, che nella relazione presentata all’inaugurazione dell’Anno giudiziario 2014, annotò che "i ritardi della giustizia ordinaria determinano ricadute anche sul debito pubblico". E precisò che "l’alto numero di condanne e i limitali stanziamenti sul relativo capitolo di bilancio, hanno comportato un forte accumulo di arretrato del debito Pinto ancora da pagare che, ad ottobre 2013, ammontava ad oltre 387 milioni di euro". Una diagnosi autorevole, quanto preoccupante, che per essere compresa nelle sue reali proporzioni dev’essere confortata da qualche numero. Secondo i dati di via Arenula, i procedimenti civili pendenti al 30 giugno del 2015 ammontano a 5.257.693. Di questi, tre milioni e 300mila sono in attesa di definizione nei tribunali ordinari. E ce ne sono poi 1,3 milioni in standby dal giudice di Pace e circa 100mila in Cassazione. Ma rispetto ai dati registrati da via Arenula e riportati sul dossier dei Radicali, occorre precisare che dal monitoraggio sulle cause civili promosso dal ministro Orlando, è emersa una riduzione del 20 per cento. "La febbre del sistema è scesa in modo consistente", ha commentato il Guardasigilli. Che ha attribuito lo snellimento al buon funzionamento della riforma. Al netto delle buone notizie di cui si è fatto latore il ministro Andrea Orlando, sarebbero insomma in sospeso qualcosa come 8.820.826 procedimenti: 5,2 milioni di processi civili e 3,5 milioni di processi penali. Quanti di questi, nel civile, sono a rischio risarcimento? L’Italia, ricordano i Radicali, ha fissato la ragionevole durata del processo in sei anni: tre anni per il primo grado, due per il secondo, e uno per la Cassazione. I tempi medi dei nostri procedimenti civili, non fanno però presagire niente di buono: in media, occorrono per arrivare a sentenza definitiva sette anni e tre mesi. C’è inoltre da rilevare che la posizione del nostro Paese, in materia, è piuttosto difforme da quella della Corte europea, che valuta come risarcibile la complessiva durata della procedura, e non soltanto la parte eccedente i sei anni come invece succede da noi. Ma ci sono significativi di scostamenti anche sull’entità degli indennizzi: innanzitutto perché quelli per i danni patrimoniali in Italia non vengono riconosciuti. E in secondo luogo perché il nostro Paese riconosce 750 euro per i primi tre anni di durata eccessiva del processo, e mille euro per gli anni successivi. Viceversa, gli standard europei fissano i risarcimenti in una cifra compresa tra i mille e i duemila euro per ogni anno di durata del procedimento. "Il numero di cause ex lege Pinto 89/01 - chiosa Deborah Cianfanelli nel dossier, "è passato dalle 3.580 del 2003 alle 49.730 del 2010, alle 53.320 del 2011, alle 52.481 del 2012 e alle 45.159 del 2013". "Semplicemente moltiplicando per 8mila euro, la media del rimborso liquidato - mal a maggior parte di questi sono molto più onerosi - si arriva a cifre annue stratosferiche", ammonisce Cianfanelli sul dossier. Che l’entità dei risarcimenti fosse cospicua, lo si era già avvertito da tempo. Ed è forse per questa ragione, argomentano i Radicali, che la via verso l’indennizzo si è fatta nel tempo sempre più stretta e tortuosa. "Accade così che i cittadini vittime della irragionevole durata dei procedimenti che li coinvolgono si trovino, grazie alle nostre leggi, a vivere una seconda paradossale esperienza che li costringe ad affrontare ulteriori irragionevoli spazi temporali per ottenere il giusto e riconosciuto risarcimento", commenta l’avvocato Cianfanelli. Va ricordato peraltro che quando lo Stato subisce una condanna, non adempie mai spontaneamente, motivo per cui è necessario intraprendere la procedura esecutiva che, di norma, prevede pignoramenti presso terzi. "Ebbene, anche sotto questo punto di vista lo Stato italiano si è ben tutelato per rendersi del tutto impignorabile", argomenta il dossier dei Radicali. C’era infatti un tempo in cui i crediti venivano escussi tramite pignoramenti presso la Banca d’Italia. Ma "con il decreto legge n. 143/08, convertito nella legge 181/2008, all’articolo due sono state rese impignorabili tutte le somme del ministero della Giustizia depositate presso le Poste Italiane e presso la Banca d’Italia. I crediti del ministero della Giustizia da poter riscuotere presso terzi, avevano in seguito trovato uno sbocco presso le Agenzie di riscossione tributi, e cioè in Equitalia. "Per un po’ di tempo - raccontano i Radicali - hanno rappresentato l’unica possibilità per i cittadini vittime della regola italiana della eccessiva durata dei procedimenti, sia penali sia civili, di ottenere una esecuzione coattiva delle condanne impartite allo Stato dalle Corti d’Appello". Ma poi è stato chiuso anche questo rubinetto, tramite il cosiddetto decreto mille-proroghe, convertito nella legge 14 del 2009. La chiave di tutto è nell’articolo 42 comma 7-novies, dove si stabilisce che "non sono soggette ad esecuzione forzata le somme incassate dagli Agenti della riscossione e destinate ad essere riversate agli enti creditori". La pietra tombale è arrivata infine con l’articolo 5-quinqes del decreto legge 35 del 2013 che vieta sequestri e pignoramenti presso la tesoreria centrale e le tesorerie provinciali dello Stato per riscuotere quanto dovuto in base alla legge Pinto. Risarcire è diventato insomma quasi impossibile. Eppure, quei conti con la giustizia, dovranno essere saldati. Tante proposte, poche leggi: in 8 anni su 14mila approvate 565 e 8 su 10 sono del governo di Simonetta Dezi Ansa, 6 gennaio 2016 Una valanga di leggi presentate in Parlamento ma poche, pochissime tagliano il traguardo. Lo raccontano i numeri elaborati dall’associazione Openpolis per Repubblica.it secondo i quali nelle ultime due legislature sono state presentate oltre 14mila proposte di legge ma solo 565 hanno avuto l’ok definitivo: di queste otto su dieci, però, sono iniziative di palazzo Chigi. Inoltre il 27% dei provvedimenti approvati è arrivato in porto con il voto di fiducia. La percentuale del successo delle proposte del governo è 36 volte più alta di quella del parlamento, con buona pace del potere legislativo che costituzionalmente spetta alle Camere. Guardando da vicino il lavoro parlamentare si scopre che dei circa 183 disegni di legge presentati ogni mese, solo sei raggiungono la fine del percorso, e di questi sei nell’80% dei casi si tratta decreti. Mentre le iniziative di deputati e senatori diventano legge lo 0,87% delle volte. Ben più alto il tasso di successo delle proposte di iniziativa governativa, che arriva al 32,02%. Sui tempi di approvazione, i numeri di Openpolis ci raccontano che abbiamo proposte di legge velocissime e leggi che stentano a vedere luce. Solo due settimane per ratificare il trattato sul risanamento bancario con il bail in, contro 871 giorni usati per il ddl sull’agricoltura sociale. Svuota-carceri, decreti lavoro, fallimenti, missione militare Eunavfor Med, competitività e riforma della pubblica amministrazione hanno tagliato il traguardo con un massimo di 44 giorni. Molto più lento il percorso di Italicum, divorzio breve, eco-reati, anti-corruzione e affido familiare che oscillano tra i 664 e i 796 giorni. I parlamentari che maggiormente sono riusciti a vedere approvate le loro proposte di legge sono quelli del Pd. Complessivamente, dalle politiche del 2013, sono 30 le proposte di deputati e senatori che hanno completato l’iter parlamentare (su più di 5mila ddl di iniziativa parlamentare): 73,33% del Pd, 10% di Forza Italia, e poi ci sono cinque gruppi a pari merito: Movimento 5 Stelle, Scelta Civica, Autonomie, Misto e Lega Nord. Secondo i dati Openpolis, l’opposizione è stata attuata prevalentemente da Fratelli d’Italia, Lega Nord e Movimento 5 Stelle. Sono questi tre gruppi che in più del cinquanta per cento dei casi hanno votato in modo diverso dalla maggioranza, mentre Sel ha votato il 52% delle volte in linea col Pd. Depenalizzazione al traguardo di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2016 Prima il decreto sulla depenalizzazione, a seguire la riforma dei fallimenti. Il governo ha così "scalettato" i primi due interventi sulla giustizia del 2016, iniziando dal prossimo Consiglio dei ministri di venerdì 8 gennaio, da cui uscirà il decreto sull’alleggerimento penale previsto dalla legge delega n.67 del 28 aprile di due anni fa. Solo in seconda battuta, e cioè presumibilmente dopo una settimana, andrà all’esame del Cdm il disegno di legge sulla riforma delle procedure concorsuali. Dopodomani sarà quindi il varo ufficiale del provvedimento che toglierà dall’elenco del Codice penale - ma non solo da lì - una serie di fattispecie, in gran parte datatissime, che oggi producono più che altro numeri - e arretrato - nelle procure della Repubblica. Dove, peraltro, queste notiziae criminis già oggi non avrebbero mai dato luogo a punizioni "classicamente" penali, visto che la regola generale della depenalizzazione riguarda solo le "violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda". Nel caso che di questi "ex" reati esista anche la versione aggravata che dà luogo alla pena detentiva (sola o congiunta), tali fattispecie diventano reati autonomi che restano muniti di sanzione carceraria. Si tratta quindi di una depenalizzazione soft, attenta alle brezze del dibattito politico (tutte le violazioni in materia di clandestini restano fuori) ma anche a questioni di armonizzazione di sistema, considerato che va a toccare un tema delicato come la (parziale) sterilizzazione delle omissioni di versamenti previdenziali e contributivi (viene introdotta una soglia non penale per violazioni fino a 10mila euro annui, oltre resta reato). Accanto a leggi datate e bizzarre - si va dall’obbligo di denuncia di detenzione di beni confiscati dalla Repubblica di Salò al rifiuto di prestare la propria opera in occasione di tumulti e rivolte popolari - dal novero penale spariscono anche il noleggio e la riproduzione di cd e assimilati (diritto d’autore), l’installazione di distributori di carburante automatizzati non autorizzati (una legge del 1970), gli atti osceni e gli spettacoli teatrali e cinematografici osceni e gli atti contrari alla pubblica decenza. A questo proposito, in caso di violazione reiterata di regole sul diritto d’autore e sull’esercizio "artistico" in pubblico (cinema e teatri) vengono introdotte sanzioni amministrative accessorie che consistono, in sostanza, nella sospensione della licenza/concessione/autorizzazione da 10 giorni a tre mesi. Quanto al passaggi di competenze delle autorità preposte al controllo, lo spostamento riguarderà di fatto le autorità amministrative già coinvolte nei procedimenti amministrativi e/o sanzionatori e, nel caso di ex reati codicistici, il prefetto. La trasmissione degli atti inerenti i fascicoli "ex penali" già radicati dovrà avvenire entro 90 giorni dall’entrata in vigore del decreto, salvo che il fatto sia già prescritto o estinto per altra causa. E se l’azione penale è già stata esercitata, il giudice pronuncerà in camera di consiglio un sentenza inappellabile di assoluzione o di non luogo a procedere, disponendo però la contestuale trasmissione degli atti all’autorità amministrativa competente. Il fatto depenalizzato potrà in teoria tornare sotto l’ombrello del Codice penale se sono previste aggravanti legate alla reiterazione. Per quanto riguarda i fatti già giudicati con sentenza divenuta irrevocabile, alla depenalizzazione provvederà il giudice dell’esecuzione. I militari: "Cucchi faceva impressione". Ma il carabiniere indagato: "trattato coi guanti" di Giuseppe Scarpa La Repubblica, 6 gennaio 2016 I verbali: i tentativi di insabbiare l’inchiesta, giallo sulla riunione con i vertici dell’Arma e sulle spese legali. Stava benissimo Stefano Cucchi. Anzi: è stato trattato con i guanti. Questa la versione fornita il 30 luglio scorso dal carabiniere Vincenzo Nicolardi, indagato per falsa testimonianza, al pm Giovanni Musarò. Seccamente smentita ("Cucchi faceva impressione ") da un suo collega, un carabiniere della stazione di Tor Sapienza che prese in consegna Cucchi dalle mani di Nicolardi. E sempre dalle sommarie informazioni dello stesso carabiniere, Gianluca Colicchio (non indagato), emerge un altro pezzo del puzzle. Nicolardi gli consegna gli effetti personali del detenuto: all’interno c’è un foglietto con il numero di cellulare del maresciallo Mandolini, comandante della stazione Appia, il primo luogo in cui, secondo la procura, Cucchi fu pestato. Un comportamento che Colicchio giudica "inusuale". Perché questa scelta? E di cosa voleva essere tenuto al corrente Mandolini? È ancora il militare a riferire ai magistrati di una riunione con i vertici dell’Arma pochi giorni dopo la morte di Cucchi. Cosa fu detto durante quell’incontro? Dall’interrogatorio non emerge, il sottufficiale però fa i nomi dei partecipanti. E infine il giallo delle spese legali: il maresciallo Mandolini comunica alla moglie di essere indagato per la vicenda Cucchi, ma le dice di non preoccuparsi: "Ho parlato con un colonnello, mi fa pure le spese legali". Millanta o qualcuno gli ha promesso un aiuto economico, nonostante le regole lo prevedano solo come rimborso e in caso di assoluzione? Nuove rivelazioni che arrivano nel giorno in cui Ilaria Cucchi torna sulle polemiche seguite alla pubblicazione, sul suo profilo Facebook, della foto di uno dei carabinieri accusati del pestaggio, che le è valsa una denuncia: "I processi non vanno fatti sul web, ma nelle aule di giustizia. Ma anche Stefano era incensurato: è facile processare un morto che non ha più diritti". L’interrogatorio. "So che si dice che Cucchi - spiega Nicolardi al pm Musarò - è stato malmenato, ma io posso dire che (...) presso la nostra stazione (Appia, ndr) era stato trattato benissimo. Anzi, ho notato che non veniva trattato neanche da detenuto: lo hanno fatto mangiare, hanno dato da mangiare al cane, non lo hanno neanche messo in cella". L’altra versione. A smentire Nicolardi è Colicchio, il militare che a Tor Sapienza riceve il detenuto dal collega: "Sinceramente lo stato del Cucchi destava impressione". Poco dopo, infatti racconta al pm di aver chiamato "il 118 non solo perché il Cucchi mi disse di avere dolori alla testa e all’addome, ma percepii in lui un evidente stato di sofferenza. Inoltre aveva un arrossamento anomalo sul viso, immediatamente sotto gli occhi e quasi fino alle guance". Il telefonino. Nicolardi consegna ai colleghi insieme agli effetti personali di Stefano il numero privato del comandante della stazione Appia, Mandolini. Il carabiniere che lo riceve, Colicchio), spiega al pm che è una cosa inusuale. "Il fatto che mi fosse stato dato (da Nicolardi, ndr) il numero di telefono personale del comandante era una cosa strana, perché il numero della stazione era indicato sul verbale di arresto e soprattutto perché, per qualsiasi problema, io avrei dovuto contattare esclusivamente il 112 e non rapportarmi autonomamente con un collega ". Al contrario, Nicolardi giustifica questa scelta sostenendo che il suo maresciallo Mandolini "è un tipo molto premuroso". "Paga l’Arma". "Ho parlato con il colonnello - spiega Mandolini alla moglie nel corso di una telefonata intercettata il 16 luglio del 2015 - mi fa pure le spese legali, hai capito? (...). Paga l’Arma. Pè stà tranquillo ". L’incontro. "Quindici giorni dopo la mia deposizione davanti al pm - spiega ancora Colicchio - (si tratta della prima indagine, ndr), tutti i carabinieri coinvolti furono convocati presso la sede del comando gruppo carabinieri Roma. Fummo ricevuti davanti al comandante provinciale, generale Tomasone, al comandante del gruppo colonnello Casarsa, ai comandanti della compagnia Casilina e Montesacro. Ricordo che c’era il maresciallo Mandolini. I nostri superiori ci chiesero conto di quanto accaduto. Ci limitammo a fare un rapporto orale, senza sottoscrivere nulla". La madre di Aldrovandi: "sto con Ilaria Cucchi, ma quella foto non l’avrei pubblicata" di franco giubilei La Stampa, 6 gennaio 2016 Patrizia Moretti: "Anch’io avevo le immagini degli agenti che picchiarono mio figlio, ma ho preferito non metterle nel blog". "Sono comunque dalla parte di Ilaria (la sorella di Stefano Cucchi, ndr), se pensa che la pubblicazione della foto del carabiniere faccia allo scopo. Forse però si poteva arrivare allo stesso scopo mettendo un’immagine in divisa, perché quella è un po’ troppo privata". Patrizia Moretti è la madre di Federico Aldrovandi, il ragazzo di Ferrara che nel 2005 morì per le percosse subite durante un controllo di polizia, un violento pestaggio per cui quattro agenti sono stati condannati con sentenza definitiva. Se quella vicenda venne alla luce lo si deve proprio all’impegno della donna, che davanti ai tentativi di insabbiamento aprì un blog di denuncia seguitissimo che spinse gli inquirenti ad andare fino in fondo. Cosa pensa della scelta di Ilaria Cucchi e di Lucia Uva? "È difficile giudicare… Le capisco benissimo, perché anch’io ero curiosa di vedere i volti dei quattro poliziotti che hanno ammazzato Federico. Difficile anche dire se avrei fatto la stessa cosa: da un lato questi profili Facebook sono pubblici, anche se penso che una certa privacy dovrebbe esserci, soprattutto quando si rendono pubbliche cose che appartengono solo al lutto; dall’altro constato che questa privacy non esiste per nessuno, e allora forse è giusto che non esista neanche per poliziotti o carabinieri". Dunque condivide la loro scelta? "Non c’era il bisogno di mettere la foto col carabiniere nudo, sono persone che hanno un ruolo pubblico. Quanto al militare, avrebbe potuto proteggere il suo profilo e renderlo accessibile solo agli amici, ma forse la sua è solo ignoranza informatica. Sto comunque con Ilaria, ma quella foto è un po’ troppo privata, anche se su Facebook ce l’ha messa lui. Un’immagine in divisa avrebbe messo comunque in risalto la differenza di stazza fra il carabiniere e Stefano, della sua fisicità non frega niente a nessuno". Nel suo caso, Patrizia, è stato grazie al suo blog se si sono accesi i riflettori sulla morte di Federico. "È stato il blog più cliccato d’Italia per una settimana e questa è diventata la notizia, più ancora dell’omicidio. Credo che, come allora per me, la tenacia di Ilaria nell’andare avanti nella ricerca della verità sia stata determinante per la riapertura delle indagini sui carabinieri che si stanno facendo solo adesso". Ci sono analogie fra le storie di Federico, Stefano Cucchi e Giuseppe Uva? "Gli schemi sono sempre gli stessi: insabbiamenti e depistaggi uniscono tutti questi casi. La giustizia, quando arriva, arriva dall’esterno, mentre invece dovrebbero essere carabinieri e polizia a fare luce e chiarezza". Ma lei le foto dei poliziotti che hanno picchiato suo figlio le avrebbe pubblicate? "Io mi sono trovata nelle stesse condizioni di Ilaria e Lucia, perché le foto ce le avevo, ma in quel momento, anche in accordo con l’avvocato, abbiamo deciso di agire in modo diverso. Se lo hanno fatto è segno che ritenevano giusto farlo, e io sono comunque dalla loro parte". Caso Aldrovandi, agli agenti 2 milioni di "sconto" dalla Corte dei conti di Luca Rocca Il Tempo, 6 gennaio 2016 La Corte dei conti in appello "ribalta" la sentenza contro i 4 agenti condannati. Risarciranno "solo" 150 mila euro al Viminale "colpevole" dell’addestramento. Una sentenza "contabile" che, nella sostanza, ribalta quella penale passata in giudicato; un verdetto che annulla quasi del tutto la richiesta di risarcimento che pesava sui quattro poliziotti; ma soprattutto una decisione che piomba come una scure anche sul ministero dell’Interno. Ieri, infatti, la seconda sezione d’appello della Corte dei conti ha deliberato sugli indennizzi che gli agenti condannati per il decesso di Federico Aldrovandi, morto nel settembre del 2005 dopo essere stato sottoposto ad ammanettamento e blocco a terra, dovranno versare al Viminale. E il pronunciamento ha del clamoroso. Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri, questi i nomi dei quattro poliziotti, dovranno, infatti, rimborsare il ministero dell’Interno, che aveva risarcito con quasi 2 milioni di euro la famiglia Aldrovandi affinché si ritirasse dalla parte civile dopo il primo grado, con soli 150mila euro. A fronte del milione e 800mila euro (467mila euro a testa) chiesto inizialmente dalla procura presso la Corte dei conti. Per capire la portata dirimente della sentenza dei giudici contabili, che pesa soprattutto sul Viminale, è necessario ricostruire i fatti. È il 2 febbraio del 2014 quando, dopo la condanna definitiva per omicidio colposo dei quattro agenti, nel frattempo arrestati e poi sospesi, la procura regionale della Corte dei conti dell’Emilia Romagna formalizza l’ipotesi di danno patrimoniale: 1 milione 870mila euro. Pochi mesi dopo per i poliziotti scatta anche il sequestro conservativo di un quinto dello stipendio e dei beni mobili e immobili. Ma il 27 marzo del 2015 giunge la prima decisione sorprendente dei giudici contabili, che stabiliscono un risarcimento totale di 560mila euro: 224mila Pontani e Pollastri, 56mila Forlani e Segatto. In sostanza il 30 per cento dei quasi 2 milioni chiesti dalla procura. Quello stesso giorno l’avvocato Fabio Anselmo, legale della fami glia Aldrovandi, parlerà della "indubbia responsabilità del ministero dell’Interno in tema di mancata preparazione, organizzazione e formazione degli agenti". E Marco Zincani, difensore di Pontani, Pollastri e Forlani, dopo aver premesso che per i giudici la responsabilità "è al 70 per cento in capo al Ministero", spiega che il problema è da rintracciare "nelle tecniche di addestramento e di ammanettamento a terra". Un punto sul quale poco tempo dopo, mostrando il video del manuale, si sofferma il sindacato autonomo di polizia, secondo il quale la leva col braccio e le ginocchia sulla schiena di un soggetto con il ventre a terra "sono descritte nel manuale di addestramento della polizia" e codificate dal Ministero. Tecniche "pericolose, violente e che provocano asfissia posturale". Per il Sap, dunque, i quattro agenti "seguirono diligentemente il protocollo". Anzi, il loro intervento fu persino "più morbido" rispetto a quanto previsto dal protocollo per l’ammanettamento. È di fronte a queste argomentazioni, asse portante in appello, che si è trovata ieri la Corte dei conti quando ha deciso di ridurre i risarcimenti ad appena 150mila euro: 16mila ciascuno Forlani e Segatto e 67mila a testa Pontani e Pollastri. Raggiunto al telefono da Il Tempo, l’avvocato Zincani spiega innanzitutto che nell’accoglimento dell’istanza di definizione agevolata decisa ieri dai giudici contabili, "dopo la riduzione del 70% dei risarcimenti avvenuta già in primo grado, c’è stato un ulteriore abbattimento del 70%. Ciò dimostra che tutte le nostre valutazioni iniziali, legate alla distribuzione delle responsabilità, fossero fondate". Secondo il legale, dunque, "se in primo grado era stata riconosciuta la responsabilità concorrente dello Stato in fase di predisposizione delle tecniche di ammanettamento, e sono stato il primo a evidenziare come queste tecniche siano criminogene in sé, in appello la Suprema Corte ha certamente valutato, oltre agli stessi elementi portati nel primo processo, anche il fatto che l’accordo transattivo tra lo Stato e la famiglia Aldrovandi era stato concluso in assenza degli imputati". L’avvocato dei tre agenti, infine, pone la sua attenzione su altri due elementi: "Innanzitutto sul fatto che lo Stato italiano ha pagato quasi 2 milioni di euro indebitamente, o se non altro con evidente sproporzione rispetto alle reali responsabilità, e poi che la diversificazione degli importi decisa per due volte dalla Corte dei conti scardina completamente il teorema dell’accusa penale, che riteneva paritarie tutte e quattro le posizioni". Caso Baldussu, se il "pentito" conduce le indagini e lo Stato fa l’impunito di Mauro Mellini Il Tempo, 6 gennaio 2016 Avevano ragione da vendere monsignori e cardinali che amministravano giustizia nello Stato Pontificio a chiamare i delinquenti che ottenevano esenzione o "minorazione" di pena contro la denunzia dei loro complici "impunitari" e, dopo la sentenza che li proscioglieva (e mandava quegli altri alla forca) "impuniti" e non "pentiti" come disinvoltamente ed ottimisticamente li chiamano ora (ma "ufficialmente" addirittura "collaboratori di giustizia"). Di qui, nel dialetto romanesco "impunito", parola che significa sfacciato, arrogante, prepotente, impudente. "Pentiti" (tanto per usare un termine divenuto d’uso comune) impudentemente bugiardi, calunniatori, servilmente insinuanti, pronti ad attaccar l’asino ovunque voglia il padrone (chi li gestisce) ve ne sono sempre stati. E sempre si sono avuti casi di cosiddetti pentiti tutt’altro che pentiti tornati a delinquere con rapine, omicidi, estorsioni, ancora "in regime di protezione" loro accordato per salvarli da vendette, che comporta anche alloggio, stipendio etc. Purtroppo alla repressione di tali ripugnanti episodi si è quasi sempre preferito evitare ad ogni costo la pubblicità di tali casi. "Pentito che torna a delinquere è buono per un’altra volta" sembra il criterio prevalente tra magistrati, funzionari di P.S. e persone cosiddette perbene. Ma a tutto c’è, o dovrebbe esserci un limite. Quello di Rocco Varacalli, ‘ndranghetista emigrato a Torino, inviato in regime di protezione in Sardegna a Dolianova sembra un caso limite, anzi oltre ogni limite. Il 24 febbraio 2009 nelle campagne tra Dolianova e Serdiana (Cagliari), un giovane del luogo, Francesco Baldussu, con il padre Raffaele, scoprivano il cadavere di un servo pastore ventenne, Alberto Corona. I carabinieri, conoscendo la qualifica di collaboratore di giustizia del Varacalli, pensarono bene di delegargli le indagini sull’omicidio, con il consenso del pm fornendogli allo scopo registratori ed altra attrezzatura. In tale veste di "sostituto carabiniere" ed addirittura di sostituto Sostituto Procuratore, Varacalli indusse varie persone ad "adattare" le loro dichiarazioni in modo da far figurare colpevole il giovane Baldussu. Ma il suo capolavoro fu quello di procurarsi tracce di sangue di questi, simulando un prelievo con un apparecchietto per la misurazione della glicemia, facendo poi trovare un fazzoletto con tracce di sangue del Baldussu assieme ad una pistola (peraltro di calibro diverso da quella risultante dalla ferita mortale). In breve: due anni di custodia cautelare (in verità più che incauta) per Francesco Baldussu. Al dibattimento, per il prodigarsi dell’ottima difesa del Baldussu, la macchinazione è stata pienamente provata. Baldussu è stato assolto e la sua assoluzione, confermata in appello, è passata in giudicato. Su questa storia se ne sono sentite tante, compresa quella - tutta da dimostrare - di un esponente della magistratura torinese arrivato a Cagliari per perorare la causa del Varacalli scongiurando i colleghi di non condannarlo per calunnia per non delegittimarlo come collaboratore di giustizia. Chiacchiere in libertà, indimostrabili, come tante in questa storia. Varacalli non aveva calunniato Baldussu per eccesso di zelo o per fare bella figura. È risultato che l’assassinio del povero Corona era stato da lui commesso. L’assassino era stato, dunque, "delegato" alle indagini! Per omicidio aggravato del Corona, Varacalli è stato condannato dalla Corte d’Assise di Cagliari (ma, stranamente, non per calunnia). Ma è rimasto a piede libero. Il programma di protezione lo ha dunque protetto anche da alcune delle conseguenze del suo ritorno al crimine. Continuerebbe, a quanto pare, ad abitare nelle casa pagata dal Ministero dell’Interno e, credo, a percepire la sua "paghetta". Ma il culmine dell’impudenza si deve riconoscere non esser stato raggiunto dal Varacalli, ma da qualcun altro. Dallo Stato Italiano. Avendo Francesco Baldussu richiesto allo Stato il risarcimento per i due anni di ingiusta detenzione, questi, finora, gli è stata negata. L’Amministrazione ha fatto propria la tesi del pentito calunniatore e assassino, con la quale questi aveva cominciato a perseguitare Baldussu, cioè che l’alibi di lui per il tempo dell’omicidio era falso, cosicché avrebbe concorso a provocare l’errore (cioè la calunnia delegata) del suo arresto! Falso alibi perché tale ritenuto dal "pentito" e perché in contrasto con la tesi della sua colpevolezza smentita però dalle due sentenze e dal giudicato. Così lo Stato fa l’"impunito". Guida in stato di ebbrezza, sanzione penale più difficile se l’accertamento è sintomatico di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2016 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 5 gennaio 2016 n. 23. In mancanza di un accertamento strumentale del tasso alcolemico, benché - secondo un orientamento ancora presente in Cassazione - il giudice possa comunque decidere "in base alle sole circostanze sintomatiche riferite dagli agenti accertatori", la sopravvenuta depenalizzazione della guida in stato di ebbrezza entro il tasso soglia 0,50 g/l, "impone l’applicazione della normativa più favorevole" in tutti quei casi "in cui manchi una motivazione che renda evidente il superamento di tale soglia". Lo ha stabilito la Suprema corte, sentenza 23/2016, annullando una sentenza di condanna emessa nel gennaio del 2007 dal tribunale di Torre annunziata per il reato previsto dall’articolo 186, comma 2, del Codice della strada. Fra i motivi di doglianza dell’automobilista infatti vi era quello per cui non era stato esperito alcun accertamento tecnico del tasso alcolemico. La Cassazione ricorda che la valutazione dell’ebbrezza, "ancorata e modulata" sulla base di diverse soglie, è stata introdotta da un decreto legge del 2007. Prima di allora, prosegue la sentenza, "l’accertamento dello stato di ebbrezza era affidato anche solo al rilevamento di elementi sintomatici". In altri termini, "non era indispensabile l’utilizzazione degli strumenti tecnici di accertamento previsti dal codice della strada e dal regolamento (etilometro)", ben potendo il giudice di merito, in un sistema che non prevede l’utilizzazione di prove legali, ricavare l’esistenza di tale stato da elementi sintomatici quali "l’alito vinoso, l’eloquio sconnesso, l’andatura barcollante, le modalità di guida o altre circostanze". L’unica condizione era quella di trovarsi di fronte a elementi sintomatici "significativi, a di là di ogni ragionevole dubbio". Con la novella del 2007 però l’illiceità della condotta fu ancorata e graduata in relazione al superamento di specifici tassi soglia (0,50; 0,80; 1,50 g/l), il primo dei quali venne poi depenalizzato dalla legge 120/2010. A questo punto, il superamento della specifica soglia diviene l’"elemento costitutivo del fatto tipico". In questo senso, secondo un’interpretazione di legittimità, il suo accertamento non può più essere "affidato a valutazioni sintomatiche", bensì unicamente "ad accertamenti strumentali (etilometro o analisi ospedaliere)". Anche perché essendo diversa la risposta sanzionatoria "affidare l’accertamento del superamento dei limiti a valutazioni sintomatiche, finirebbe con il compromettere il principio di legalità anche con riferimento alla pena". Tuttavia, secondo un diverso orientamento "non vi è motivo di ritenere che il nuovo sistema sanzionatorio precluda oggi al giudice di poter dimostrare l’esistenza dello stato di ebbrezza sulla base delle circostanze sintomatiche riferite dai verbalizzanti". Dunque, prosegue la sentenza, nel sistema vigente al momento, in assenza di soglie minime di tasso alcolemico alle quali ancorare la rilevanza penale del fatto, "sarebbe stato comunque possibile ricavare l’esistenza dello stato di ebbrezza anche da elementi sintomatici". Tuttavia, conclude la Corte, "la sopravvenuta depenalizzazione dell’ipotesi in cui lo stato di ebbrezza non superi la soglia ora prevista dall’articolo 186, comma 2, lett. a) codice della strada impone l’applicazione della normativa più favorevole nei casi, come quello in esame, in cui manchi una motivazione che renda evidente il superamento di tale soglia". Equa riparazione, indennizzo se l’udienza è dopo nove anni di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2016 Corte di Cassazione - Sentenza 5 gennaio 2015 n. 47. Il diritto all’equa riparazione se la prima udienza è fissata dopo nove anni scatta anche se il verdetto atteso è inutile perché il ricorrente ha scelto il giudice sbagliato. La Cassazione, con la sentenza 47 depositata ieri, accoglie il ricorso di un medico il quale malgrado avesse tutte le carte in regola per concorrere al posto di primario e avendo fatto la domanda in tempo, non era stato chiamato a sostenere la prova scritta. Un’ingiustizia che aveva indotto il camice bianco a rivolgersi al Tar per affermare i suoi diritti. Il Tribunale amministrativo, dal canto suo, aveva fissato la prima udienza a nove anni di distanza, mentre la dichiarazione di inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione era arrivata un anno dopo la prima discussione. Quindi dopo 10 anni. Tempi inaccettabili per l’aspirante primario che propone domanda di equa riparazione in base alla legge Pinto (89/2001), incassando un sì in prima istanza e un no dalla Corte d’Appello. Per i giudici di secondo grado, infatti, il ricorrente era ben consapevole di aver affidato la sua causa al giudice sbagliato, per questo la lunghezza del procedimento non poteva avergli arrecato un danno apprezzabile sotto il profilo dell’ansia dovuta all’incertezza del verdetto che tardava ad arrivare. Non è d’accordo la Cassazione, che ricorda come il danno non patrimoniale sia una conseguenza normale, benché non automatica, della durata irragionevole del processo e vada riconosciuto senza bisogno di specifiche prove, a meno che non ricorrano determinate circostanze. Il diritto all’equa riparazione spetta a prescindere dall’esito favorevole o meno della causa e dalla sua consistenza economica. L’indennizzo può invece essere negato in caso di lite temeraria, quando si resiste "artatamente" per prolungare il giudizio o, infine, quando la persona che lo ha promosso é assolutamente certa dell’infondatezza delle sue pretese o della loro inammissibilità. Quest’ultimo caso, secondo i giudici d’appello, era quello in cui si trovava il ricorrente, il quale non poteva non sapere di aver scelto il giudice incompetente, un dato noto a chiunque grazie alla giurisprudenza consolidata sul punto. La Cassazione però non condivide tanta certezza: il ricorrente poteva non conoscere una giurisprudenza, che la stessa Corte d’Appello non cita. E nove anni per fissare la prima udienza sono oggettivamente troppi. Se il garantismo ha senso cominciamo da mio fratello Stefano di Ilaria Cucchi popoffquotidiano.it, 6 gennaio 2016 I processi non vanno fatti sul web. Sono d’accordo. Cominciamo allora dal sig. Stefano Cucchi. Incensurato, arrestato ma mai condannato. Perché poi sappiamo come è andata. Gli insulti e le minacce non ci appartengono, anzi ci nuocciono gravemente. Preferisco esserne bersaglio io piuttosto che altri. Quegli insulti e quelle minacce mi feriscono come mi ferirono quelle a suo tempo rivolte agli agenti di polizia penitenziaria. Di fronte ad esse i signori indagati di oggi nulla fecero. Rimasero silenti ed apparentemente privi di ogni parvenza di senso di colpa. Oggi sono loro a dolersene. I processi non vanno fatti sul web ma nelle aule di giustizia. Sono d’accordo senza se e senza ma. Le garanzie di un paese civile e democratico esigono che chi viene accusato di un qualsiasi delitto deve esserne considerato colpevole solo dopo una sentenza passata in giudicato. Giusto. Cominciamo allora dal sig. Stefano Cucchi. Egli è incensurato. Dico INCENSURATO. È stato arrestato ma mai condannato. La Giustizia si è fermata qui. Perché poi sappiamo come è andata. Ho querelato per questo il signor Mandolini perché egli, tenendo a ribadire di essere sottufficiale dei Carabinieri in pieno esercizio delle sue funzioni, si esprime pubblicamente su Facebook definendo il signor Stefano Cucchi come "grande spacciatore" arrivando a sostenere che addirittura spacciava davanti alle scuole. Egli minaccia di dire tutta "la verità" su quanto gli avesse riferito il signor Cucchi sul conto della sua famiglia. Il gioco è chiaro: offendere, diffamare ed infangare. Verranno fatte investigazioni difensive, me lo aspetto, e mi aspetto anche da chi. È facile processare un morto che non ha più diritti e che nemmeno ne ha avuti da vivo. Ci dovrà essere un processo per accertare nomi e cognomi di coloro i quali, dopo sei anni, affermeranno questo. Un Giudice dovrà valutare. E questo dovrà accadere anche nel loro processo. Fino a quando ciò non verrà fatto non permetterò a nessuno di giudicare od accusare Stefano di fatti o reati. Mio fratello era INCENSURATO. Il garantismo impone questo. Certo non nascondo che mio fratello sia stato arrestato per spaccio e che egli abbia sbagliato. Ricordo a tutti che fummo noi famigliari a consegnare la droga che egli deteneva nella casa di Morena quando, se avessimo solo voluto, quella droga la avremmo potuta distruggere. So bene che l’unica strategia dei signori indagati sarà quella di processare noi con Stefano. L’ho già vista. Subita. Oggi però i miei figli sono cresciuti e non ho intenzione di tollerare altro fango su di noi. Se sarà ritenuto rilevante il tema del comportamento e della personalità di Stefano, noi dobbiamo essere messi in condizioni di difenderci e difenderlo. Se è importante sapere fino a che punto egli fosse così cattivo e pessima persona allora questa volta dobbiamo poter difenderci e difenderlo. Se si insinuerà ancora nel processo che noi abbiamo abbandonato la sua cagnetta al canile, noi dobbiamo essere autorizzati a dimostrare che invece quella cagnetta la abbiamo ancora noi e la amiamo moltissimo perché è l’unica cosa viva che ci rimane di lui. Se ci verrà detto che tutto questo nulla c’entra con l’uccisione di Stefano allora tutto questo dovrà rimanere nelle menti e nei cuori di coloro che ritengo responsabili del suo violentissimo pestaggio che ne ha provocato poi il ricovero con successiva morte. Tutto questo dovrà essere impedito. Ancor di più sul web. Attendo serena di essere processata dal sig. Tedesco ma attendo pure che venga processato il maresciallo Mandolini. Il garantismo non può funzionare a corrente alternata. Altrimenti poi i processi si debbono fare sul web. Ma mai con insulti e minacce. Mai. Mi sono fatta del male come temevo. Ma che strumenti ho, da normale cittadina per tutelare me e la mia famiglia dopo sei anni terribili che avrebbero portato chiunque alla disperazione? Però vi scongiuro, se volete bene a mio fratello, quella foto per nessun motivo diventi un capro espiatorio. È stato fatto tanto male a Stefano ed a noi, non fatecene anche voi, mancando di rispetto a quello che volevo dire. Confido in tutti voi che mi sostenete e vi ringrazio. L’anno nuovo si apre con i cittadini che domandano giustizia, così come si era chiuso di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 6 gennaio 2016 Ilaria Cucchi, Maria Uva, da anni alla ricerca di giustizia per i loro fratelli, pubblicizzano come possono le immagini di alcuni dipendenti delle forze dell’ordine inquisiti per le loro morti. Non è facile né lecito intervenire nelle loro sofferenze a questo punto, dopo processi fatti, rifatti e annullati. Luigi Manconi si rivolge alla ministra Pinotti, responsabile come ministro dell’Arma dei Carabinieri denunciando tre casi diversi e simili di sua spettanza; Giulio Petrilli, già condannato e poi assolto per terrorismo, scrive alla ministra Boschi, proprio sotto Natale "mancata sfiduciata" per i collegamenti del padre con le banche dello scandalo obbligazioni. Cosa lega questi che non sono episodi? La mancanza di canali, garantiti per tutti e tutte, di informazione ed accesso agli atti per tutti i cittadini. L’eccezionalità ed emergenzialità tipiche dell’Italia e di tutto il mondo occidentale, ahimè, che proprio in questi giorni si prepara a rinnegare i trattati di Schengen per incapacità di praticarli. È utile dotarsi di leggi per l’accesso agli atti, non è giusto utilizzarle con pesi diversi, e poi meravigliarsi delle rimostranze. Quel sacerdote e i suoi detenuti di Adriano Sofri Il Foglio, 6 gennaio 2016 Roberto Filippini è nato a Vinci nel 1948, è un sacerdote, un biblista e teologo, ha diretto il seminario di Pisa e la Biblioteca Cathariniana, ha collaborato con i vescovi pisani, come il memorabile Alessandro Plotti, è stato parroco e non so che altro. Io ebbi, con pochi altri, il privilegio di partecipare di suoi speciali seminari, fra il catechismo elementare e la discussione scrittturale e conciliare, e un giorno gli chiesi come mai non fosse vescovo. Rispose qualcosa di gentile e umile, credo. Però la chiesa ha il respiro lungo, e don Roberto è stato eletto vescovo, della diocesi di Pescia. Si potrebbe stare in pensiero per il vescovo Filippini, ora che ha perso dopo tanti fervidi anni la carica di cappellano del carcere Don Bosco di Pisa: gli mancheranno i suoi detenuti e i suoi agenti custodi, nella nuova sede. In compenso, starà nella compagnia rassicurante di Pinocchio. Tanti auguri a lui. Cuneo: contagi di legionella, evacuato il carcere di Alba La Repubblica, 6 gennaio 2016 Dopo il ricovero di un detenuto all’ospedale, registrato un altro caso nell’istituto di pena piemontese: 122 reclusi trasferiti per consentire la bonifica dell’impianto idrico. In seguito ai casi di legionella accertati nel carcere di Alba, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) ha reso noto di aver "tempestivamente avviato tutte le procedure per la bonifica dell’impianto idrico della casa circondariale". Due i casi di contagio già accertati. Uno dei detenuti è ricoverato in coma farmacologico in ospedale. In una nota diffusa da Roma, l’amministrazione Penitenziaria precisa che "a tutela della salute del personale penitenziario e della popolazione detenuta, il provveditorato regionale e la direzione generale detenuti stanno in queste ore provvedendo al trasferimento dei detenuti (che sono 122, ndr) presso gli istituti penitenziari del Piemonte, nel pieno rispetto del principio della territorialità della pena". Il personale penitenziario sarà temporaneamente reimpiegato presso altre strutture. Gli interventi di bonifica dell’impianto idrico sono stati disposti dal Servizio di Igiene e Sanità pubblica. Protestano i sindacati degli agenti: "Dopo il detenuto ricoverato d’urgenza - spiega il Segretario Regionale Sappe del Piemonte Vicente Santilli - un altro detenuto è risultato infettato. Noi sollecitiamo ancora una volta l’amministrazione penitenziaria a mettere in sicurezza la casa di reclusione, garantendo al personale di polizia penitenziaria e agli altri detenuti del carcere una adeguata opera di prevenzione e bonifica. "Secondo una recente indagine - aggiunge il Segretario Generale Sappe Donato Capece - almeno una patologia infettiva è presente nel 60-80% dei detenuti nelle carceri italiane. Questo significa che almeno due persone su tre sono malate. Tra le malattie più frequenti, proprio quelle infettive, che interessano il 48% dei presenti. A seguire i disturbi psichiatrici (32%), le malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%). E gli ultimi dati sulle epatiti hanno rilevato la presenza di un malato di questa patologia ogni tre persone residenti in carcere". "Questo fa comprendere - ha concluso il segretario generale del Sappe - in quali "polveriere" lavorino le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria, spesso senza alcuna tutela sanitaria e neppure dei semplici guanti da usare in caso di interventi d’emergenza". Il Provveditore: provvedimento a tutela di detenuti e agenti, ma anche di prevenzione Il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, Luigino Pagano, spiega così la decisione di evacuare il carcere di Alba (Cuneo) dopo i casi di legionellosi. "Non è la prima volta che accade - spiega Pagano - In passato abbiamo preso delle misure per risolvere il problema, ma evidentemente non sono state sufficienti. "Con questa decisione - aggiunge - intendiamo debellare definitivamente il batterio". L’operazione trasferimento avverrà "in tempi brevi - assicura il Provveditore - I detenuti di nostra competenza, circa il 90%, troveranno collocazione in strutture del Piemonte, gli altri, i collaboratori di giustizia, saranno gestiti direttamente dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria". Per quanto riguarda gli agenti saranno convocati i rappresentanti sindacali "per andare incontro il più possibile - conclude Pagano - alle esigenze dei lavoratori". Firenze: topi e muffa nel carcere di Sollicciano, la sezione donne è inagibile firenzetoday.it, 6 gennaio 2016 La denuncia di Sel-Sì Toscana a Sinistra: "Situazione accertata dalla Asl, grave silenzio delle istituzioni". "Non sono soltanto le detenute della sezione femminile a denunciare le condizioni di detenzione inumane a Sollicciano. Tra ottobre e novembre un sopralluogo della Asl ha certificato l’inagibilità della struttura: perché di questo non si parla? Sappiamo che la relazione è stata letta da tutti gli organi preposti, ma non ci sono atti ufficiali. Perché?". A chiederlo sono le parlamentari di Sel-Sinistra Italiana Marisa Nicchi e Alessia Petraglia, i consiglieri regionali di Sì-Toscana a Sinistra Tommaso Fattori e Paolo Sarti, i consiglieri comunali di Firenze riparte a sinistra Tommaso Grassi, Giacomo Trombi e Donella Verdi, che hanno annunciato oggi in conferenza stampa iniziative nelle rispettive istituzioni. "Dopo la visita dello scorso 30 dicembre - spiegano - ieri, lunedì 4 gennaio, siamo tornati a Sollicciano per incontrare le detenute firmatarie della lettera-denuncia. Abbiamo trovato una situazione che va ben oltre le già gravissime condizioni generali della struttura, con una infestazione di topi in corso, materassi ammuffiti, celle fatiscenti ed evidentemente incompatibili con la detenzione. Non ci stupisce apprendere, quindi, che un sopralluogo della Asl della scorso ottobre avrebbe dichiarato sostanzialmente inagibile tutta la sezione, prescrivendo una serie di interventi rimasti ad oggi lettera morta. Stupisce, invece, il silenzio totale su questa vicenda, rispetto alla quale accerteremo con una richiesta di accesso agli atti e con interrogazioni in Consiglio regionale e in Parlamento le responsabilità politiche e amministrative". "A Sollicciano - aggiungono - si violano quotidianamente la nostra Costituzione e i più elementari diritti umani. Oggi in Italia non c’è più la pena di morte, ma a Sollicciano si muore di pena, senza che si faccia nulla per la riabilitazione delle persone e per il loro recupero. Esemplare il caso di cui siamo venuti a conoscenza durante la visita di ieri di detenuti che potuto incontrare il loro educatore soltanto tre volte in sei mesi". "Clamorosa poi - dicono ancora - la mancata apertura delle Rems, nel silenzio consueto quando si parla di carcere e di disagio psichico. Ad oggi, i detenuti psichiatrici sono custoditi nei reparti comuni, in spazi non adeguati alla cura. È bene ricordare che dal primo di gennaio la Regione Toscana avrebbe dovuto essere commissariata per non aver rispettato la data del 31 dicembre, termine frutto di rinvii, annunci e ancora rinvii, per la chiusura degli Opg. Così come non è stato fatto niente per arrivare alla apertura degli Icam per le madri detenute: oggi, nel carcere di Sollicciano, vive un bambino di tre mesi insieme alla mamma, costretto in spazi insalubri e pericolosi per la sua salute organica e psicologica. Non basta realizzare un’area giochi: il carcere non è un ambiente nel quale possiamo accettare che un bambino cresca". I Garanti dei detenuti chiedono un incontro con la Regione (Ansa) "Chiederemo un incontro con l’assessore regionale Stefania Saccardi e con la direttrice del carcere di Sollicciano, per mettere a punto una serie di questioni". Lo annunciano Franco Corleone, garante regionale dei detenuti, ed Eros Cruccolini, garante dei detenuti per il Comune di Firenze, che oggi hanno visitato la sezione femminile del carcere fiorentino di Sollicciano. Nei giorni scorsi, con una lettera le detenute di Sollicciano hanno denunciato una "situazione critica dal punto di vista igienico, addirittura con la presenza di topi, e dal punto di vista clinico, soprattutto per chi soffre di problemi psichici". "Non c’è sovraffollamento - spiega Corleone - ma, nonostante questa condizione ottimale, ci sono condizioni strutturali gravi, con infiltrazioni di acqua nelle celle e nell’infermeria, con acqua fredda nei bagni, il riscaldamento è rotto, e ci sono grossi problemi di organizzazione e di ordine sanitario". Foggia: i Radicali "in carcere la solitudine è un’emergenza quotidiana" statoquotidiano.it, 6 gennaio 2016 Da anni i Radicali foggiani si recano nelle strutture carcerarie della provincia e della Puglia per valutare le condizioni di vita della popolazione detenuta. L’Associazione denuncia, altresì, la persistente assenza della politica locale, nei confronti della realtà carceraria. "In tutta Italia negli ultimi giorni i Radicali stanno visitando le carceri. Anche a Foggia l’Associazione radicale "Mariateresa Di Lascia" ha effettuato, lo scorso 3 Gennaio, una visita presso la Casa circondariale, con una sua delegazione composta dal Segretario, Norberto Guerriero, dalla Presidente, Anna Rinaldi, da Matteo Ariano, membro della giunta nazionale di Radicali Italiani e l’Avv. Ivana de Leo. Si tratta della terza visita nei soli ultimi 12 mesi all’interno di questo istituto. Da anni i Radicali foggiani si recano nelle strutture carcerarie della provincia e della Puglia per valutare le condizioni di vita della popolazione detenuta e quelle di chi opera e lavora all’interno delle carceri. Come gia sottolineato nell’ultima visita, effettuata l’estate scorsa, i dati forniti dall’amministrazione penitenziaria evidenziano una progressiva riduzione della popolazione carceraria dell’Istituto foggiano, oggi a quota 422 detenuti a fronte di una capienza reale di 349 posti letto. Sono lontani i numeri critici del 2013 quando si superavano le 750 unità ed oggi il sovraffollamento nel carcere di Foggia, anche grazie all’opera incessante di denuncia dei radicali, può dirsi superato. È indubbio che gli interventi legislativi posti in essere dall’Italia a seguito della sentenza di condanna per trattamenti inumani e degradanti da parte della Corte europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu Torreggiani ed altri) stiano producendo effetti positivi. Tuttavia rimangono forti le criticità all’interno del carcere foggiano nonostante gli sforzi e l’impegno della direzione e dell’amministrazione carceraria, cui va riconosciuto il merito di governare, purtroppo spesso in solitudine, una quotidiana emergenza ignota agli occhi della maggior parte dei cittadini I Radicali denunciano con forza le condizioni della struttura, risalente agli anni ‘80, ma ormai obsoleta, segnata dal tempo e dall’incuria, nella quale sono costretti a vivere i detenuti e a lavorare gli agenti della polizia penitenziaria, il personale medico-sanitario e amministrativo. Gli edifici dei plessi c.d. "vecchio" e "nuovo", destinati ai detenuti uomini, richiederebbero interventi strutturali di manutenzione con celle, in molti casi, ancora prive di docce interne ed un sistema idrico insufficiente a garantire acqua calda corrente durante i mesi invernali. Migliori le condizioni della sezione femminile anche se i Radicali denunciano che l’area destinata al "passeggio" risulta inagibile, nonostante da mesi sia stato previsto un intervento di ristrutturazione, e le detenute siano costrette in un cortile inadeguato a tale funzione. Può considerarsi una struttura in tali condizioni idonea ad assolvere la funzione di rieducazione e reinserimento sociale dei detenuti? I Radicali foggiani proseguono la loro analisi denunciando con forza le condizioni di lavoro cui sono costretti gli ufficiali ed agenti della polizia penitenziaria. La pianta organica prevista dal ministero è di 322 unità, ma quelle effettivamente disponibili sono solo 283, numero che si riduce in ragione di ferie, riposi, permessi, malattie. A ciò si aggiungono l’anzianità di servizio e l’età anagrafica molto elevate che rendendo ancor più gravose le mansioni logoranti della polizia penitenziaria. La situazione, in prospettiva, non è destinata a migliorare se si considera che l’attuale blocco delle assunzioni impedisce l’immissione di personale più giovane da affiancare a quello più esperto. Questo quadro critico si aggrava a causa delle carenze della Magistratura di Sorveglianza. Attualmente è presente un unico magistrato di Sorveglianza competente per l’intera Capitanata, e ciò non rende agevole l’assolvimento delle delicatissime funzioni, traducendosi in un’ulteriore denegata giustizia. I Radicali foggiani anche in quest’occasione, invitano tutti ad un’attenta e lucida analisi della situazione, che vada anche oltre sterili cifre e tabelle, per cogliere l’effettiva realtà carceraria, ancora e sempre più oggetto di pregiudizi e luoghi comuni. L’Associazione "Mariateresa Di Lascia" sottolinea, inoltre, di aver constatato i molti meriti della Direzione nella gestione dell’Istituto e la capacità, della Polizia penitenziaria, di gestire, nella gran parte dei casi e con sufficiente attenzione, le quotidiane criticità ed emergenze. L’Associazione denuncia, altresì, la persistente assenza della politica locale, nei confronti della realtà carceraria ed invita, ancora una volta, l’Amministrazione comunale a procedere all’introduzione della figura del "Garante comunale dei detenuti", figura che è risultata essere una ottima risorsa nelle realtà territoriali nelle quali è, da tempo, operante. Perché il carcere di Foggia è parte della stessa città e i detenuti sono cittadini dello stesso territorio. Se davvero vogliamo che il carcere sia luogo di rinascita ad una nuova vita e non semplice luogo di reclusione. Cagliari: Caligaris (Sdr); peggiorano le condizioni salute di Stefanina, detenuta di 82 anni Ansa, 6 gennaio 2016 "Sono peggiorate e destano preoccupazione le condizioni di salute di Stefanina Malu, la nonnina della Casa Circondariale di Uta che l’8 marzo compirà 83 anni. La donna, che nei giorni scorsi ha avuto un malore mentre faceva la doccia e cadendo ha battuto la testa, è costantemente monitorata dai sanitari. A preoccupare sono principalmente le ricorrenti crisi respiratorie e i problemi cardiologici". Lo denuncia Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, che con i volontari ha incontrato l’anziana, trovandola "malferma sulle gambe e assai confusa nel ricostruire fatti e situazioni con palesi vuoti di memoria". "Le sue condizioni generali fino a qualche mese orsono abbastanza buone sembrano essere precipitate nelle ultime settimane costringendo anche le agenti a un’attenzione costante e molto accurata. Stefanina Malu - osserva Caligaris - non ha presenziato neppure alla Messa di Natale officiata dall’Arcivescovo, un appuntamento al quale teneva particolarmente. Durante i colloqui inoltre appare dimessa e poco curata. Attualmente assume anticoagulanti per limitare i rischi di trombi". "Affetta da numerosi gravi disturbi tra cui cardiopatia ipertensiva e aneurisma dell’aorta addominale, aveva ottenuto per le condizioni di salute il differimento della pena nel 2009. Era stata nuovamente condotta in carcere nel giugno 2012 perché le sue condizioni di salute erano risultate discrete a una visita di controllo. Successivamente era tornata a casa anche per poter accudire il figlio Casimiro non autosufficiente, poi deceduto. Durante i domiciliari però non avrebbe tenuto un comportamento corretto e ciò ha comportato il suo ritorno dietro le sbarre. È tuttavia - conclude Caligaris - una donna anziana che vive, con altre due persone, in una cella della Casa Circondariale cagliaritana in condizioni di sofferenza e per la quale si chiede un atto umanitario. Il legale frattanto ha predisposto un’istanza per una perizia cardiologica mentre i medici del carcere si prodigano per la salute della nonnina". Lucca: detenuto aggredisce agente e lo manda in ospedale luccaindiretta.it, 6 gennaio 2016 Ancora violenza all’interno del carcere San Giorgio di Lucca. Un detenuto italiano ieri pomeriggio (5 gennaio) ha aggredito un assistente di polizia penitenziaria in servizio alla casa circondariale. Il detenuto ha colpito ripetutamente con schiaffi l’agente spedendolo al pronto soccorso dell’ospedale San Luca, per fortuna senza grafi conseguenze. "La segreteria generale Alsippe - si legge in una nota del sindacato - nel condannare l’episodio di violenza esprime la propria vicinanza e solidarietà al collega aggredito e gli augura una pronta guarigione". Non è purtroppo la prima volta che si verificano episodi del genere nel carcere di Lucca, dove purtroppo nel 2016 si sono registrati anche fatti di autolesionismo dei detenuti. In un caso, un giovane si è tolto la vita impiccandosi in cella. Secondo i sindacati della polizia penitenziaria, tutto dipenderebbe del sovraffollamento della struttura e dalla carenza del personale addetto alla sorveglianza. La vigilia di Natale erano andati in visita al San Giorgio i parlamentari lucchesi del Pd, Andrea Marcucci e Raffaella Mariani, che sulla questione del sovraffollamento avevano rassicurato definendo la situazione al San Giorgio migliorata rispetto al passato. Roma: morte di Antonino Drago, il caso non è chiuso di Chiara Cruciati Il Manifesto, 6 gennaio 2016 Tony Drago, 25 anni, muore in una caserma romana. "Suicidio" per l’esercito, non per la sua famiglia. Antonino Drago aveva 25 anni. Si era arruolato nell’esercito come volontario, primo passo per poter accedere ai concorsi per entrare in polizia, il sogno di un giovane alto un metro e novanta che aveva come modello i giudici anti-mafia Falcone e Borsellino. È morto un anno fa, a Roma, nella caserma dove prestava servizio come caporale. Suicidio, ha subito sentenziato l’esercito. Ma la famiglia non ci crede e da oltre un anno, dal 6 luglio del 2014, quando il corpo di Tony fu trovato senza vita nel cortile della caserma Sabatini dell’8° reggimento Lancieri di Montebello, combatte perché la Procura indaghi sulla morte misteriosa del figlio. Tony era entrato nell’esercito un anno prima, partito da Siracusa, dopo la laurea in Scienze dell’Investigazione a L’Aquila e dopo aver ottenuto il brevetto di paracadutista. "Era tornato a casa per due settimane, a giugno - racconta al manifesto la madre, Rosaria Intranuovo - Stava bene, era allegro, usciva con gli amici. Niente che potesse far pensare a pensieri suicidi. Era rientrato a Roma il 29 giugno: pochi giorni dopo è stato trovato senza vita. Noi non ci arrendiamo: tramite i nostri avvocati abbiamo chiesto l’apertura di un fascicolo alla Procura, siamo in attesa che venga nominato il Gip. Spetta a lui decidere se archiviare o meno il caso". La famiglia Drago vuole che si indaghi perché sono troppi i lati oscuri intorno alla morte di Tony: il suo corpo è stato trovato all’alba del 6 luglio, in pantaloncini e infradito, con il volto verso terra e le braccia a protezione del torace, tipica posizione assunta dai paracadutisti al momento del lancio. Secondo le prime ricostruzioni, Tony si sarebbe lanciato dalla finestra dei bagni in disuso del secondo piano. Per motivi personali: Antonino era in crisi con la fidanzata, Federica, dice l’esercito dopo aver preso visione del computer e il telefono del ragazzo. Una motivazione, per la famiglia, troppo debole per giustificare il suicidio. "Ci hanno detto che si era buttato dalla finestra. La dottoressa Siciliano che per prima ha visto il corpo ha parlato di "precipitazione e folle gesto" - continua la madre - Ma noi avevamo già dei dubbi per cui abbiamo chiesto che all’autopsia partecipasse anche un medico di parte civile. L’esame è stato compiuto al Gemelli dal dottor Senati, nominato dal pm Galanti, e il dottor Bartoloni, per la parte civile. Nelle 12 pagine finali hanno scritto che Tony è morto per la caduta e che sulla schiena aveva dei graffi vecchi di 3 o 4 giorni. Aveva anche una ferita alla testa". Ma l’autopsia non ha detto tutto, mancanze su cui la famiglia punta il dito: "Non è stato mai condotto un esame tossicologico, né prelievi di tessuti o epidermide. Non viene indicata nemmeno l’ora della morte e ai nostri legali è mai stato permesso di visitare la caserma solo un mese dopo, il 6 agosto. Quando ci sono riusciti, erano scortati da dieci militari". Tre mesi dopo la scomparsa del figlio, Rosaria è entrata in quella caserma. Ha visitato il bagno dalla cui finestra si sarebbe lanciato Tony. Le avevano detto che il giovane era salito su una sedia per potersi buttare: "Il corpo è stato trovato a 5 metri di distanza dall’edificio. Come ha fatto ad arrivare così lontano saltando da una sedia? Doveva prendere la rincorsa per spingersi così in avanti. E il suo corpo, mi hanno ripetuto due suoi commilitoni, era troppo "perfetto", composto, con le mani a protezione del viso e le infradito ancora ai piedi". E poi ci sono quei segni sulla schiena, graffi e lividi, e il tatuaggio che si era fatto a memoria del terremoto de L’Aquila sfregiato con un taglio. Ad intervenire in merito è stato il dottor Giuseppe Iuvara, esperto consultato dalla trasmissione "Chi l’ha visto", a cui ha preso parte lo scorso mercoledì Rosaria Intranuovo: "Gli interrogativi sono molti - ha spiegato il medico nell’intervista televisiva - La posizione del corpo, con le braccia a protezione del torace come fanno i paracadutisti, e non aperte come un aspirante suicida; l’assenza dell’esame tossicologico, sempre compiuto in caso di suicidio; il mancato rilevamento della temperatura corporea, il parametro più attendibile per determinare l’ora della morte. Dalla descrizione sullo stato del corpo si può dedurre che sia morto dalle 8 alle 6 ore prima del ritrovamento, ovvero intorno alle 1 di notte". Eppure i militari in stanza con Tony hanno dichiarato di averlo visto nella camerata fino alle 6 del mattino. "Sulla testa sono state trovate due ferite - continua il dottor Iuvara, la cui analisi concorda con quella di altri cinque medici legali consultati dalla parte civile - Ma non sono fratture "a mappamondo", tipiche di una caduta. Sono due buchi prodotti da un oggetto dalla forma definita. Inoltre è stata riscontrata una frattura della sesta vertebra toracica che si verifica quando si cade all’indietro e non in avanti. Le abrasioni sulla schiena? Risalgono ad almeno tre giorni prima". "Le incongruenze sono troppe - ci spiega Rosaria - Le testimonianze dei commilitoni, le manchevolezze dell’esercito. Questo caso non può essere chiuso. In quella caserma è successo qualcosa: uno scherzo finito in tragedia, nonnismo. Non lo sappiamo, ma siamo sicuri che Tony non si sia ucciso. Qualche tempo prima si era lamentato dell’atmosfera che regnava in caserma, diceva di voler essere trasferito. Ora chiediamo alla Procura di indagare: i nostri legali Cugini, Uricchio e De Paolis hanno presentato un rapporto di 26 pagine. Vogliamo sapere cosa è successo il 6 luglio del 2014". "Tony era un ragazzo dal fisico imponente e dalla mente determinata ad arrivare ai suoi obiettivi - ci dice Alfredo Pappalardo, marito di Rosaria e secondo padre per Antonino - Seguiva tutti i processi di mafia, in mente aveva Falcone e Borsellino. Lo Stato non ha saputo proteggerlo dentro la caserma, un luogo dove esiste violenza, fisica e psicologica. Tony è morto in una caserma prestigiosa della capitale, era nello squadrone di rappresentanza. Noi italiani viviamo in uno stato di polizia. Si sente dire che siamo in uno Stato di diritto: allora per giustizia e civiltà lo Stato non può e non deve aver timore di ricostruire la verità. Tony è stato assassinato". Milano: ristorante "InGalera", a Bollate il recupero riparte dai fornelli di Mariano Maugeri Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2016 Il carcere di Bollate? Una fabbrica di spin off. Un modello talmente virtuoso che ormai pure i media stranieri, con quelli olandesi e giapponesi in testa, catapultano in questo carcere alla periferia Nord di Milano con vista sul padiglione Italia e l’albero della vita, le uniche due opere sopravvissute all’Expo, i loro inviati. In principio, fu la cooperativa Abc, la cui costituzione fu sollecitata dagli stessi dirigenti del carcere. Nobile e pratico allo stesso tempo l’obiettivo: spingere i carcerati a costituirsi in cooperativa per cucinare il cibo con il quale si sfamano tre volte al giorno 1.100 detenuti (di cui un centinaio nella sezione femminile), tutti con condanne definitive che oscillano dagli otto anni di reclusione al "fine pena mai". Di coop via via ne fioriscono molte altre: Estia è un laboratorio di falegnameria (produce scenografie per spettacoli teatrali); "Il salto oltre il muro" un maneggio; "Cascina Bollate" un vivaio con annesso roseto (le rose e le altre piante vengono vendute in primavera in uno spaccio adiacente il carcere); "Alice" un laboratorio tessile con spaccio in via Gaudenzio Ferrari a Milano per la vendita dei prodotti finiti; "Zerografia" una tipografia che ha scelto questo nome "perché quando in carcere si diventa parte di un progetto è come nascere una seconda volta"; "Sst" - nientedimeno - un call center. A tavola InGalera. Ma è la fabbrica del cibo la spin off più prolifica che partorisce prima un accordo con l’Istituto alberghiero Paolo Frisi di Quarto Oggiaro - all’interno della struttura carceraria c’è una vera e propria sezione distaccata frequentata da una cinquantina di detenuti (prima all’interno c’era solo un istituto per ragionieri) - poi, per volere di Silvia Polleri, vulcanica donna imprenditrice e presidente della cooperativa Abc, il ristorante dal nome meno aulico e più crudo che possa esistere: InGalera. Sottotitolo: "Il ristorante del carcere più stellato d’Italia". Un capovolgimento che dovrebbe fare riflettere: per una volta le ambite stelle si conferiscono a un’istituzione dello Stato e non al ristorante. 50 coperti sempre prenotati. L’ingresso è all’interno del perimetro carcerario ed è lo stesso che utilizzano i parenti dei detenuti nei giorni di visita. Un modo per immergersi nell’atmosfera di un carcere modello ("salvifico", lo definiscono molti dei suoi estimatori) che dura appena lo spazio di cento metri. Entrati InGalera, cioè in questa elegante e linda osteria, il panorama cambia radicalmente, anche se la Polleri, che ha il copyright del nome, ha seminato citazioni carcerarie anche nell’arredamento. Esempio: le gigantografie di alcuni cartelloni pubblicitari di film con tema dominante la vita tra le sbarre (da "Il Miglio verde" a "Fuga da Alcatraz") e persino le tovagliette che ritraggono gli ingressi di galere celeberrime come Poggioreale e Regina Coeli. Dal giorno di apertura, la metà di ottobre, la cinquantina di coperti a disposizione sono sempre prenotati. Al di là dell’effetto volutamente ironico ("Dove andiamo stasera a cena?" Risposta: "In galera!") c’è l’ottima qualità delle materie prime, i prezzi onesti e l’originalità dei piatti curati dallo chef Ivan Manzo con la collaborazione di aiuto cuochi e camerieri detenuti, 12 in tutto. Tra gli aiutanti c’è Agi, un bosniaco con nove anni in carcere alle spalle per il brutto vizio di spaccare le vetrine dei bancomat con le ruspe ("quando uscirò da qui, avrò finalmente un mestiere") e poi Mirko, 47 anni, che si vergogna di dire per quale reato è in carcere ("quando capisci cos’hai combinato, provi disgusto verso te stesso"). Decimo sui 6mila ristoranti milanesi di Tripadvisor. Silvia Polleri marca stretto "i suoi ragazzi". E li minaccia sorridendo: "Se non lavorate bene, vi azzanno alla giugulare". La Fondazione Cariplo ci ha messo 130mila euro e la Polleri ha investito la stessa cifra di tasca sua. Con altre donazioni da parte della PricewaterhouseCoopers e della Alessi di Omegna. Sorpresa nella sorpresa, il ristorante è una startup che nasce dopo lo scandalo di Mafia capitale. Il ministero della Giustizia, che fino a quell’epoca appaltava il servizio alle coop carcerarie che si occupavano di preparare "il rancio" per i detenuti, dopo l’ondata di arresti di Buzzi &Co decide di azzerare il sistema degli appalti per il cibo ovunque fosse presente. A Bollate c’erano ben tre cucine che sfornavano i pranzi per 1.100 detenuti e curavano un servizio catering per l’esterno. La Polleri prima si dispera ("è stato un peccato, ho dovuto licenziare nove bravissimi reclusi che lavoravano con me da anni"), poi s’inventa il ristorante del carcere più stellato d’Italia. In tre mesi InGalera ha scalato le classifiche di Tripadvisor: decimo posto su seimila ristoranti di Milano. Un successo di cui Pauline Valkenet, corrispondente dall’Italia del quotidiano olandese Trouw e della emittente radiofonica Bnr, rimarca un aspetto essenziale: "Il tasso di recidiva dei detenuti di Bollate (il 20%, ndr) è la metà di quello delle carceri olandesi e belghe". E allora, tutti a festeggiare InGalera. Roma: il Natale della Misericordia nelle carceri di Civitavecchia trcgiornale.it, 6 gennaio 2016 Si è svolto ieri a Civitavecchia un importante evento nei due penitenziari della città, la Casa di Reclusione e la Casa Circondariale:. La Comunità di Sant’Egidio ha organizzato tre pranzi con i detenuti per le festività natalizie al quale hanno partecipato 192 detenuti: 90 uomini presso la Casa di Reclusione, 76 uomini e 30 donne preso la Casa Circondariale. A tavola con i detenuti il sindaco Antonio Cozzolino, il direttore della Casa di Reclusione Patrizia Bravetti e quello della Casa Circondariale Rosella Santoro e i due Comandanti della Polizia Penitenziaria. "Erano presenti - spiegano gli organizzatori - anche i due cappellani, padre Sandro e don Lazare, segno della vicinanza della diocesi e del suo vescovo Luigi Marrucci al mondo del carcere, dopo il pranzo di Natale con i poveri in Cattedrale. Ottanta volontari, 20 romani, 50 civitavecchiesi e 10 di Santa Marinella hanno preparato le sale, servito a tavola, preparato i regali o mangiato insieme ai detenuti. Fare tre pranzi in tre diverse sale è stato un fatto straordinario, nato dal desiderio di raggiungere più detenuti possibile nell’anno del Giubileo della misericordia. Un vero Natale di Misericordia come si poteva leggere in uno dei manifesti affissi in sala e come ha ribadito Stefania Tallei, responsabile del servizio in carcere della Comunità di Sant’Egidio nel mondo nel suo saluto iniziale ai detenuti. I tre pranzi sono il frutto di un intenso lavoro di preparazione di tanti volontari di Sant’Egidio che è durato più di un mese. In un certo senso la città intera ha partecipato alla preparazione dell’evento: tra i tanti anche tre Ristoranti di Civitavecchia, la Taverna dell’Olmo, la Taverna del Moro e l’Hotel de la Ville. Tradizionale il menù: antipasti, lasagne al forno, polpettone, patate, funghi e dolci natalizi. Anche i detenuti hanno collaborato cucinando alcune pietanze nelle cucine del carcere. È stata una vera festa, iniziata in un clima sereno e amichevole nelle tre sale e terminata in una esplosione di gioia nel momento del brindisi e la consegna dei regali ad ognuno da parte di Babbo Natale. Anche Jin Feng, imprenditore di Civitavecchia, ha sostenuto l’iniziativa. Se il Pranzo di Sant’Egidio è ormai una tradizione presso la Casa di Reclusione, dove si è giunti alla quinta edizione, per il Carcere maschile di Via Aurelia Nord è stato il primo. Il pranzo presso la Casa di Reclusione ha cementato la grande collaborazione e sinergia tra il penitenziario e la Comunità di Sant’Egidio, che rappresenta una risorsa per i detenuti: quelli che escono e non hanno una casa trovano accoglienza o aiuto presso la Comunità. Il fatto che fossero presenti anche tanti civitavecchiesi fra i volontari contribuisce, come ha sottolineato la dottoressa Bravetti, a realizzare il sogno di un carcere "aperto" al territorio e alla comunità cittadina. Nel brindisi presso la Casa di Reclusione Massimo Magnano, Responsabile della Comunità di Sant’Egidio di Civitavecchia, ha desiderato ringraziare tutti coloro che hanno lavorato per realizzare un "Pranzo di Famiglia" senza separazioni e barriere e ha ricordato a tutti i presenti l’importanza che ognuno sia amico dell’altro. L’amicizia tra diversi infatti, tra cristiani e musulmani, tra giovani e anziani è il vero antidoto alla violenza e alla guerra e via per costruire la pace. Particolarmente significativa è stata la presenza del Sindaco. Nel suo saluto ai detenuti, che soffrono un grande isolamento, ha affermato che sono cittadini come gli altri e che la città è vicina al Carcere. Un detenuto ha voluto ringraziare per essersi sentito come tutti, senza il senso di pregiudizio che è la grande umiliazione per chi sta "dentro". Come notato da Rosella Santoro, direttore della struttura in Via Aurelia Nord, questo pranzo è anche il frutto di una collaborazione fattiva tra Polizia Penitenziaria, Area Educativa e una Comunità "esterna" e solidale come Sant’Egidio. Nella sezione femminile infine, nella quale sono presenti donne particolarmente giovani, il tutto si è svolto all’insegna della gioia e dell’entusiasmo che nasce da una amicizia che non finisce". Milano: i detenuti della Casa di Reclusione di Opera producono le ostie Il Tirreno, 6 gennaio 2016 Al progetto collabora anche Verbum Panis di San Frediano a Settimo. Coinvolge anche Cascina e il titolare del negozio Verbum panis, Alessandro Falciani, il progetto iniziato a Milano, nel carcere di Opera, dove sono reclusi detenuti pericolosi, assassini e mafiosi. Tre detenuti Giuseppe, Ciro e Cristiano, sono stati scelti dal direttore della casa di reclusione, Giacinto Siciliano, per fare parte del progetto Il Senso del Pane. Ideatore di questo progetto, nato da un’ispirazione della Casa delle Arti e dello Spirito, è il dottor Arnoldo Mosca Mondadori. Responsabile tecnico del progetto è Alessandro Falciani: nel suo negozio di San Frediano a Settimo si potranno trovare le ostie prodotte dai detenuti. Sì, il progetto consiste nell’avere messo su un vero e proprio laboratorio di ostie, prodotte a mano dai tre detenuti. "Il vero senso dell’iniziativa - spiega Falciani - è proprio che le ostie nascono da mani che hanno ucciso, le stesse mani che hanno tolto la vita, adesso la ridonano, rappresentando così il senso della passione e della resurrezione di Cristo". I detenuti hanno commesso omicidi. Giuseppe e Ciro sono ergastolani, Cristiano invece uscirà ma dovrà aspettare ancora molti anni. Qualche settimana fa, hanno scritto una lettera al Papa e presto lo incontreranno. "Santo Padre, in passato ci siamo macchiati della più atroce violazione dei dieci comandamenti impartitici da nostro Signore, l’omicidio. Oggi produciamo con le nostre mani ostie che vengono consacrate in varie chiese, così possiamo far arrivare il frutto della nostra volontà di redenzione ai cuori delle persone, soprattutto di quelle la cui sofferenza è dovuta ai crimini da noi commessi...", questo il testo della lettera inviata al Papa al quale hanno chiesto di poterlo incontrare per "consegnare nelle vostre mani benedette le nostre ostie, in occasione del Giubileo della Misericordia". Papa Francesco proprio per Natale ha risposto che riceverà in udienza privata i detenuti e i partecipanti al progetto. Il progetto sarà raccontato in un documentario prodotto dalla Poetic Film Arts, con la regia di Daniele Pignatelli. Le ostie saranno donate alle parrocchie di tutta Italia e del mondo che ne facciano richiesta in qualsiasi quantità (casaspiritoarti@gmail.com). In cambio viene chiesto umilmente che i sacerdoti comunichino il senso del progetto ai parrocchiani e che una volta all’anno le offerte della Messa siano devolute per il proseguimento dell’iniziativa. Infatti i detenuti riceveranno mensilmente una borsa lavoro. Anche la parrocchia di San Frediano a Settimo, guidata da don Dario Ghelardi, farà la sua parte in sostegno dell’iniziativa. Diseguaglianza, una scelta politica di Laura Pennacchi Il Manifesto, 6 gennaio 2016 L’analisi. Il grande economista Anthony Atkinson indica "che cosa si può fare". Le risposte arrivano dal passato. Come testimoniano le gravi turbolenze che dai mercati azionari asiatici si stanno estendendo a quelli occidentali, l’anno nuovo eredita uno scenario gravido di incognite che i sintomi positivi non bastano a fugare. La decelerazione della Cina (al decimo decremento consecutivo del Pil e in cui si sono accumulate immense bolle nei settori immobiliare, bancario, finanziario) e dei paesi emergenti (con mercati che valgono il 60% del Pil mondiale e che assorbono metà delle esportazioni europee) si sta traducendo in pesante rallentamento dell’incremento del commercio mondiale. In Europa continua ad aleggiare lo spettro della deflazione e rimane elevato il gap tra i livelli produttivi effettivi e quelli che si sarebbero raggiunti in assenza di crisi. La significativa ripresa che si registra negli Usa non è tuttavia tale da imprimere un netto impulso alle retribuzioni interne, la cui compressione è, invece, alla base di un paradossale incremento dei profitti e dei guadagni dei possessori di azioni, i quali - in mercati azionari mantenuti molto effervescenti dalle politiche monetarie "non convenzionali", volte a creare liquidità, adottate dalle Banche centrali di tutto il mondo - hanno conosciuto il livello più alto degli ultimi due decenni. Ma l’indicatore più eloquente della persistente drammaticità della situazione sociale è quello occupazionale: in tutto il mondo l’inoccupazione giovanile e femminile si è allargata paurosamente, la disoccupazione di lunga durata supera l’antecedente storico delle crisi petrolifere degli anni ‘70, la precarietà è cresciuta esponenzialmente, in Italia raggiungendo il picco storico del 15%. La questione del lavoro è davvero la linea di faglia su cui tornano a passare discriminanti fondamentali, perché attorno ad essa si configura una vera e propria rottura nelle traiettorie di sviluppo. In questo contesto opera un nesso strettissimo tra creazione di lavoro e rilancio degli investimenti pubblici diretti (assai più importanti della semplice riduzione delle imposte). Questa è la convinzione del grande economista Anthony Atkinson che, con singolare congiunzione di "spirito di ottimismo" e di determinazione, nel suo recente, bellissimo Diseguaglianza. Che cosa si può fare (Cortina Editore), deplora lo "stato del pensiero economico contemporaneo" tutto concentrato sul mercato del lavoro e assai disattento al mercato dei capitali, denuncia l’insufficienza quando non la fallacia delle misure standard (quali tagli delle tasse, intensificazione della concorrenza, maggiore flessibilità del lavoro, privatizzazioni), invoca "proposte più radicali" (more radical proposals) della semplice insistenza sull’elevamento dell’istruzione della forza lavoro, proposte "che ci richiedono di ripensare aspetti fondamentali delle nostre moderne società, di interrogarci sulla profondità e l’estensione delle nostre ambizioni, di respingere (to cast off) le idee politiche che hanno dominato i decenni più recenti". Atkinson - padre spirituale di una generazione di ricercatori sulle diseguaglianze, compreso Piketty che, infatti, gli tributa grandi riconoscimenti - prende di petto il problema della diseguaglianza, interrogandosi sull’intreccio tra questioni di eguaglianza e questioni strutturali, tra problemi di redistribuzione e problemi di allocazione. In questo è più avanzato dello stesso Piketty, il quale si concentra su una considerazione delle diseguaglianze come problema prevalentemente distributivo e redistributivo da trattare ex post, non anche problema allocativo da trattare ex ante perché attinente al funzionamento delle strutture, dell’accumulazione, della produzione. Atkinson non nega certo che la redistribuzione sia questione gravissima. Ma ha profonda consapevolezza della strutturalità degli aspetti problematici del capitalismo che essa mette in gioco: ad esempio, posto che la "genialità", se così vogliamo chiamarla, del neoliberismo è stata di inventare, per sopperire alla caduta del tenore di vita conseguente alla compressione dei salari, un nuovo elemento autonomo di domanda - il consumo finanziato con debito, oggi il problema cruciale è intervenire politicamente su quell’intreccio tra assetti produttivi, finanza e redistribuzione che ha creato un elemento autonomo di domanda sfociato in sovra-consumo e in alterazione della dinamica dell’investimento a vantaggio della finanza e a svantaggio dell’economia reale. E questo è un problema di allocazione e di struttura. Con il neoliberismo, dunque, Atkinson si misura fino in fondo. Se le diseguaglianze non sono un destino naturale, se esse sono incapsulate in economie e società "costruite socialmente", sono il frutto di scelte politiche. Per affrontarle con proposte valide per il presente e per il futuro dobbiamo "apprendere dal passato", ponendoci due domande: 1) perché la diseguaglianza è caduta nel secondo dopoguerra in Europa? 2) Perché il trend egualitario è stato rovesciato in uno disegualitario a partire dal 1980? Le risposte di Atkinson sono nette. I fattori maggiormente esplicativi del periodo di riduzione delle diseguaglianze sono tutti politici: "il welfare state e l’espansione dei trasferimenti pubblici, la crescita della quota dei salari sul valore aggiunto dovuta alla forza dei sindacati, la ridotta concentrazione della ricchezza personale, la contrazione della dispersione salariale come risultato di interventi legislativi dei governi e della contrattazione collettiva sindacale". E altrettanto politiche (anche se di segno opposto) sono "le ragioni che hanno condotto a un termine il processo di equalizzazione, rovesciando nel loro contrario i fattori equalizzanti": tagli del welfare state, declino della quota dei salari sul valore aggiunto (con una responsabilità specifica dell’incremento della disoccupazione, che dalla fine degli anni ‘70 fu vertiginoso), crescente ampliamento dei differenziali salariali, minore forza sindacale, minore capacità redistributiva del welfare e del sistema di tassazione. La radicalità dell’analisi conduce Atkinson a un’analoga radicalità delle proposte per combattere le diseguaglianze. Per esempio la proposta che "la direzione del cambiamento tecnologico" sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte dell’operatore pubblico, volto ad accrescere l’occupazione, e non a ridurla come avviene con l’automazione, e ad enfatizzare la dimensione umana della fornitura di servizi specie se pubblici, nella convinzione che le scelte delle imprese, degli individui e dei governi possano influenzare l’indirizzo della tecnologia (a sua volta influente sulla distribuzione del reddito). O quella - memore di quando nel 1961 nel Regno Unito vigeva per i giocatori di calcio una retribuzione massima di 20 sterline alla settimana, pari alla retribuzione media nazionale - che le imprese adottino, oltre che un "codice etico", un "codice retributivo" con cui fissare anche tetti massimi alle retribuzioni dei manager pure nel settore privato. O quella di tornare a prendere nuovamente molto sul serio l’obiettivo della piena occupazione - eluso dalla maggior parte dei paesi Ocse dagli anni 70 - facendo sì che i governi operino come employer of last resort offrendo "lavoro pubblico garantito". Si tratta di embrioni di un "nuovo modello di sviluppo" che fanno perno sul rilancio del lavoro e della "piena e buona occupazione", non in termini irenici però, o indifferenti alle grandi trasformazioni in corso, ma nella acuta consapevolezza che la loro intrusività - la loro "rivoluzionarietà" - rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla jobless society, lasciare libero spazio alla quale, però, equivarrebbe a non frapporre alcun argine alla catastrofe, anche e soprattutto in termini disegualitari. Migranti, perché in quel mare muoiono tanti bambini di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 6 gennaio 2016 L’ennesimo naufragio nel Mar Egeo, la rotta è sempre quella che dalla Turchia porta i migranti in Grecia. Tratte brevi, poco controllate e battute da centinaia di famiglie in fuga. Accettano di imbarcarsi su qualsiasi mezzo pur di raggiungere l’Europa. E per sfuggire ai controlli salpano di notte, stipati su gommoni vecchi e inaffidabili, certamente inadatti a percorrere il tratto di mare tra Turchia e Grecia. È la rotta scelta dalle famiglie in fuga dalla guerra: migliaia di persone, tantissime donne con bambini che attendono anche settimane pur di trovare il "passaggio" per la libertà. Siriani, ma anche afghani, bengalesi. Pagano tra i 1.000 e i 1.400 euro a testa, ma proprio come avviene in Libia quando le condizioni del mare diventano proibitive, gli scafisti sono disposti a dimezzare la cifra pur di riempire le imbarcazioni. E poi affidano la guida a uno degli uomini, mandandoli spesso alla deriva. La rotta dei gommoni. Nel settembre scorso la foto di Aylan, il bimbo siriano di tre anni riverso sulla spiaggia di Bodrum dopo il naufragio del gommone dove si trovava con i genitori e altre decine di persone, fece il giro del mondo suscitando sdegno. Le autorità turche e greche promisero maggiori controlli, lo stesso fece l’Unione Europea. Da allora poco o nulla è cambiato. Sono i numeri forniti dall’Alto commissariato per i rifugiati a fornire la dimensione della tragedia: tra il primo gennaio e la fine di ottobre dello scorso anno 202 persone sono morte o scomparse nelle acque greche, 159 in quelle turche. Secondo la Fondazione Migrantes nel 2015 le vittime nel Mediterraneo sono raddoppiate rispetto al 2014: da 1.600 a oltre 3.200. Tra loro ci sono stati 700 bambini morti. Agli inizi dell’anno anche l’Italia era diventata punto di approdo dei mercantili che le organizzazioni criminali turche utilizzavano per portare i profughi in Europa. Un accordo siglato con le autorità di Ankara ha di fatto consentito di fermare il flusso, ma certo non è stato sufficiente per scoraggiare le partenze. Anzi. La situazione di crisi forte in Medio Oriente, in particolare ciò che sta accadendo in Siria, ha convinto oltre un milione di stranieri a lasciare le proprie terre. La strada più breve passa appunto per la Turchia e da lì continua verso le isole greche. I mezzi di Frontex. La denuncia dell’Unhcr è forte e chiara: in quel tratto di mare i controlli sono insufficienti e anche a terra le verifiche effettuate non sono sufficienti. "Le persone - denuncia la portavoce Carlotta Sami - vengono tenute per giorni, addirittura settimane nascoste nella boscaglia al freddo prima di ottenere il via libera a imbarcarsi. E quando questo avviene il rischio è altissimo. Perché è vero che si devono percorrere poche decine di miglia, ma la traversata è molto insidiosa. Bruxelles aveva promesso di potenziare il monitoraggio, inviando mezzi e uomini. Dove sono? E soprattutto, qual è il loro mandato? Noi possiamo testimoniare che in quella zona è praticamente inesistente l’attività di ricerca e salvataggio nonostante sia ormai chiaro che si tratta della rotta maggiormente battuta dalle famiglie che fuggono dalla guerra". Sono tantissimi quelli che non hanno mai visto il mare, non sanno nuotare, e anche un banale incidente si trasforma in una tragedia. Chi riesce a raggiungere la Grecia percorre a piedi oppure a bordo di camion l’ultimo tratto del viaggio. Centinaia di chilometri attraverso i Balcani con la speranza di trovare asilo in uno Stato europeo. Un calvario che ha tempi lunghissimi, condizioni di vita spesso proibitive. Per questo Raffaela Milano, direttore dei Programmi Italia-Europa Save the children, chiede "il potenziamento immediato delle operazioni di soccorso per scongiurare la perdita di altre vite umane, la messa in sicurezza dei canali di arrivo rinforzando e sostenendo i programmi di ammissione umanitaria, compresi i visti umanitari, facilitando le riunificazioni, supportando ed espandendo i programmi di reinsediamento. L’unica risposta seria e concreta per garantire sicurezza alle famiglie in fuga". Schengen, l’Ue chiede spiegazioni di Carlo Lania Il Manifesto, 6 gennaio 2016 Europa. Bruxelles convoca i ministri di Svezia e Danimarca. L’Italia: "Non ripristineremo i controlli alle frontiere. A Bruxelles si preferisce evitare ogni drammatizzazione, ma la preoccupazione per la decisione presa da Svezia e Danimarca di ripristinare i controlli alle frontiere è a dir poco alta. Al punto che il commissario Ue all’immigrazione, il greco Dimitri Avramopoulos, ha convocato per stamattina i ministri dei due paesi e della Germania ai quali intende chiedere spiegazioni sulla scelta di sospendere Schengen, seppure temporaneamente. Decisione che se da una parte rientra tra le possibilità previste dal trattato, come sottolineano fonti diplomatiche, dall’altra rischia di provocare un effetto domino capace di mandare definitivamente in tilt l’intero sistema su cui da trent’anni si basa la libera circolazione all’interno dell’Unione europea. "Schengen è sotto pressione. Stiamo lavorando per riportare la situazione alla normalità attraverso una serie di misure. Ma nessuno ha la bacchetta magica", spiegava ieri la portavoce della Commissione Ue, Margaritis Schinas. Il timore è che lo strappo messo in atto da Stoccolma e Copenhagen - e deciso in seguito agli arrivi in massa di richiedenti asilo - possa diventare definitivo, con conseguenze facilmente immaginabili. Anche perché già ci sono i paesi del blocco di Visegrad a premere per frontiere interne più sicure e presidiate contro i migranti. L’atteggiamento che Bruxelles intende assumere oggi non sarà però uguale verso i due paesi del nord Europa. Alla Svezia viene infatti riconosciuto di essersi fatta carico finora di un numero consistente di migranti (163.000 per un paese con meno di 10 milioni di abitanti), al punto che già il 15 dicembre scorso la Commissione europea guidata da Jean Claude Juncker aveva deciso di esonerarla dall’obbligo di ricollocare i profughi provenienti da Italia e Grecia. Senza escludere la possibilità di redistribuire tra i 28 parte di quelli si trovano in territorio svedese. Tutt’altro discorso riguarda invece la Danimarca, che i profughi li ha visti soprattutto passare essendo paese di transito tra Germania e Svezia. Sia a Stoccolma che a Copenhagen verrà invece ricordato che non si possono annullare tre decenni di storia europea in un colpo solo e, soprattutto, in maniera unilaterale. Una preoccupazione sentita in maniera particolare dalla Germania, la prima a pagare per la decisione di chiudere le frontiere. Occorre "un maggior coordinamento" di fronte alla pressione migratoria, ricordava sempre ieri la portavoce della commissione Ue mentre il ministro degli Esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, è tornato a invocare una soluzione europea alla crisi dei migranti e frontiere esterne più sicure. Quanto accade ai confini settentrionali dell’Unione non lascia certo indifferente l’Italia che della stessa Unione rappresenta il confine meridionale, quello più esposto agli arrivi dei migranti. Nelle prossime settimane Matteo Renzi deve incontrare sia Juncker che la cancelliera tedesca Angela Merkel. A entrambi ribadirà di non voler seguire la stessa strada imboccata da Svezia e Danimarca ripristinando i controlli al confine con Austria e Slovenia (come confermato in serata anche dal ministro degli Interni Alfano), paesi dai quali non teme nessuna invasione. Trecento migranti a settimana - tanti sono infatti gli arrivi attuali - sono niente per un paese come l’Italia abituato ad accoglierne migliaia in un solo week end. Per il premier, semmai, le preoccupazioni sono altre e molto più serie. Le recenti esecuzioni compiute in Arabia saudita e le conseguenti tensioni tra sciiti e sunniti possono infatti mettere in pericolo sul nascere il già fragile processo di pace in Siria, il cui inizio è previsto per il 25 gennaio a Ginevra, con il rischio di provocare nuove e massicce ondate di profughi. Una eventualità che Roma vuole scongiurare a tutti i costi. Sul tavolo ci sarà quindi ancora una volta il problema dell’esternalizzazione delle frontiere dell’Ue, ma non solo. Il premier spingerà infatti soprattutto con Juncker perché faccia pressione sugli altri stati europei perché accolgano i profughi, dando così un senso al sistema dei ricollocamenti rimasto finora lettera morta. Anche a costo di ritorsioni economiche verso i paesi inadempienti. Non è possibile, ragionano infatti a palazzo Chigi, che quando si tratta di attingere ai finanziamenti comunitari tutti si sentano europei e quando invece bisogna dimostrarsi solidali non lo è più nessuno. Un concetto sul quale Renzi sa di trovare l’accordo non solo di Jucker, ma anche della Merkel. Immigrazione. L’appello: fermare l’arbitrio degli Hot Spot Il Manifesto, 6 gennaio 2016 Un appello sul funzionamento degli Hot Spot di Lampedusa: rendono clandestini i profughi. Nelle ultime settimane sono arrivate a Palermo, ma anche a Catania e in altre città della Sicilia, decine di persone provenienti da Mali, Gambia, Pakistan, Somalia, Eritrea, Nigeria, con in mano solo un decreto di respingimento differito che intima di lasciare il territorio italiano dalla frontiera di Roma Fiumicino entro 7 giorni. Provengono tutte da Lampedusa, dove sono arrivate dopo essere state intercettate in mare e portate sull’isola. A questi migranti non è stato consentito di fare richiesta di protezione internazionale, nonostante siano entrati in contatto con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Raccontano di essere stati informati della possibilità di chiedere asilo, ma di non aver avuto modo di farlo realmente. Raccontano di essere stati invece costretti a firmare un foglio di cui non hanno compreso il contenuto perché in una lingua a loro sconosciuta (quando invece in calce al decreto c’è sempre assurdamente scritto che ‘l’interessato si rifiuta di firmarè e questo perché si tratta di moduli prodotti in serie e prestampati). Raccontano ancora di essere stati fotosegnalati e imbarcati con altri migranti sulla nave per Porto Empedocle e, a bordo, di essere stati poi separati in gruppi sulla base di criteri ad oggi incomprensibili. Queste persone sono state quindi abbandonate alla stazione di Agrigento, o in altre piccole stazioni dell’agrigentino, con il solo decreto di respingimento in tasca. Un decreto avverso il quale gli avvocati delle reti di sostegno siciliane hanno già presentato ricorso perché del tutto illegittimo e incostituzionale. Nel frattempo, centinaia di migranti in maggioranza eritrei sono illegalmente detenuti a Lampedusa per settimane, perché si rifiutano di farsi prendere le impronte digitali: non perché abbiano qualcosa da nascondere, ma perché vogliono raggiungere i loro cari che si trovano in altri paesi dell’Unione europea senza restare imbrigliati nelle maglie del Regolamento cosiddetto Dublino 3, o dell’ambigua promessa di ricollocamenti mai avviati realmente se non in pochissimi casi usati dal governo a fini propagandistici. L’Europa sta usando la retorica dell’accoglienza dei rifugiati per perseguire drammaticamente la sua guerra alle migrazioni dai Sud del mondo. Queste le prime conseguenze della messa in opera del sistema degli Hot Spot, che vede Lampedusa, ancora una volta, come luogo di sperimentazione dell’inasprimento delle politiche migratorie e di inedite violazioni dei diritti fondamentali. Le notizie sono quelle di formulari a risposte multiple (il cosiddetto "foglio notizie") somministrati, laddove non compilati, da funzionari non meglio identificati, sia italiani che dell’Ue, sulla base dei quali si stabilisce definitivamente chi può chiedere asilo. È innanzitutto il diritto di asilo a essere quindi cancellato da questo sistema: un diritto soggettivo perfetto che può essere richiesto ovunque e da chiunque indipendentemente dalla sua origine e provenienza nazionale. Un diritto completamente negato nel momento in cui si pensa di stabilire in pochi giorni e solo sulla base della nazionalità chi possa accedere alle procedure di riconoscimento della protezione, e chi invece debba essere "clandestinizzato", insieme alle migliaia di richiedenti asilo diniegati, costantemente in aumento per chiare direttive governative, e sempre più spesso destinatari di provvedimenti di espulsione notificati contestualmente al rigetto della loro domanda di protezione arbitrariamente dichiarata "manifestamente infondata". Ed è questo il punto: dopo un tempo di caotico riassestamento delle politiche europee delle migrazioni, a fronte dei rivolgimenti epocali degli ultimi anni, la strumentale divisione tra ‘verì e ‘falsì rifugiati è adesso usata per clandestinizzare i profughi, tornando a rinfoltire quelle masse di invisibili da marginalizzare e sfruttare, per poi urlare all’emergenza sociale o sanitaria di fronte alle conseguenze di queste scelte illegittime e irresponsabili. L’unica emergenza, visto anche il calo degli arrivi attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, e la diminuzione constante, dal 2008 ad oggi, degli ingressi dai tradizionali paesi di emigrazione, è rappresentata, insieme alle morti alle frontiere d’Europa, dall’illegalità e dall’ingiustizia del sistema posto in essere. Fermo restando che le uniche politiche migratorie coerenti e razionali, oltre che giuste, sarebbero rappresentate dall’apertura di canali di ingresso legali che sottraggano le persone ai trafficanti e alla morte alle frontiere, permettendo loro di entrare in Europa in sicurezza, identificate e senza doversi nascondere. Chiediamo ora con urgenza: - Che ogni migrante in qualunque luogo d’Italia abbia immediato ed effettivo accesso alla richiesta di protezione internazionale; - Che vengano revocati tutti i decreti di respingimento differito fino ad oggi consegnati sulla base del sistema hot spot lanciato a Lampedusa; - Che il centro di Lampedusa venga immediatamente chiuso e si rinunci all’apertura di ulteriori hot spot che non hanno alcuna base giuridica se non decisioni della Commissione e del Consiglio europeo, e che sono strutturalmente progettati sull’annullamento del diritto d’asilo e sulla violazione dei diritti di tutti i migranti; - Che cessino immediatamente le prassi di rilascio dei decreti di espulsione notificati ai richiedenti asilo nel momento stesso in cui la loro domanda viene dichiarata "manifestamente infondata"; - Che nessuna violenza sia autorizzata nel prelievo delle impronte digitali, e il governo italiano rivendichi invece in Europa la cancellazione del Regolamento Dublino in tutte le sue versioni; - Che si receda immediatamente dagli accordi di riammissione coi paesi di origine e di transito, che il più delle volte vedono Italia e Unione europea negoziare con dittatori e carnefici, e che sono volti solamente a fornire copertura formale a pratiche di respingimento ed espulsione collettive. Primi firmatari: Borderline Sicilia Onlus, Centro salesiano Santa Chiara di Palermo, Circolo Arci Porco Rosso di Palermo, Ciss - Cooperazione Internazionale Sud Sud, Comitato Antirazzista Cobas (Palermo), Comitato NoMuos/NoSigonella, Forum Antirazzista di Palermo, La città Felice(Ct) - Le città vicine, L’Altro Diritto Sicilia, Laici Missionari Comboniani, Palermo Senza Frontiere, Rete Antirazzista Catanese Melting Pot Europa, Action Diritti in Movimento (Roma), Confederazione Cobas, Terre des Hommes, LasciateCIEntrare, Cidis Onlus, Collettivo Askavusa Lampedusa, Arci Sicilia, La Gatta di Pezza, MiscelArti, ADIF (Associazione Diritti e Frontiere), Emmaus Villafranca, Naga Onlus, Associazione Città Migrante (Reggio Emilia), Arci Nazionale, ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione), Rete Antirazzista Fiorentina, Accoglienza Degna (Bologna), Sportello Migranti TPO (Bologna), Umanisti di Cremona, SEL- Sinistra Ecologia e Libertà, ParalleloPalestina (Milano), Le Mafalde - Associazione interculturale di Prato Prime adesioni individuali: Vincenzo Viviani, Martina Tazzioli (Université Aix-Marseille), Alessandra Sciurba (L’Altro Diritto Sicilia), Luca Casarini (Presidenza Sel), Leonardo Cavaliere (Minori Stranieri Non Accompagnati), Manfred Bergmann, CADI (Comitato Antirazzista Durban Italia), Caterina Donattini, Elisa Marini, Paola La Rosa, Alessio Di Florio (Associazione Antimafie Rita Atria), Orazio Irrea (Université Paris 1 - Panthéon La Sorbonne), Diletta Moscatelli, Doriana Goracci, Costanza Dolce, Enzo Arighi, Alberto Soave, Paola Sarzo, Calogero Lo Piccolo, Vincenzo Cadoni, Letizia Palumbo (Università di Palermo), Barbara Stagno, Filippo Miraglia (Vicepresidente Arci), Walter Massa (coordinatore immigrazione Arci), Salvo Lipari (Presidente regionale ARCI Sicilia), Serena Romano (Università di Palermo), Carmelinda Cannilla (Avvocato Diritto Immigrazione), Nicola Fratojanni (Sinistra Italiana e Coordinatore Nazionale SEL) Stefano Galieni (Responsabile nazionale immigrazione Prc), Francesca Helm (Università di Padova), Vittoria Pagliuca, Luisa Gaetti, Mariangela Calderone, Emanuela Maria Bussolati, Francesco Andreini, Oana Parvan (Goldsmiths University of London), Roberto Traverso, Erasmo Palazzotto (Sinistra Italiana - SEL - Vicepresidente Commissione Esteri). Per adesioni: forumantirazzistadipalermo@gmail.com Abolire la contenzione: e tu slegalo subito di Stefano Cecconi Il Manifesto, 6 gennaio 2016 Legare un malato, mani e piedi, magari alle sponde di un letto: questa è la contenzione meccanica. Una pratica diffusa in gran parte dei servizi psichiatrici ospedalieri di diagnosi e cura (Spdc) del nostro Paese, come denuncia il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) nel documento "La contenzione: problemi bioetici" (aprile 2015). Il CNB scrive: "La contenzione … è da considerarsi un residuo della cultura manicomiale. Ciononostante, la pratica di legare i pazienti e le pazienti contro la loro volontà risulta essere tuttora applicata, in forma non eccezionale, senza che vi sia un’attenzione adeguata alla gravità del problema, né da parte dell’opinione pubblica né delle istituzioni". Ma perché accade? Nei luoghi dove è praticata la contenzione è spesso giustificata come una misura dolorosa ma necessaria: si lega "un matto" in crisi acuta per scongiurare pericoli per sé e per gli altri. Per evitare atti di autolesionismo o aggressioni. Eppure in diversi Spdc la contenzione non esiste, anche le porte del reparto sono aperte. A riprova che si può non legare. Nell’Opg di Montelupo Fiorentino è stata abolita nel 2011, grazie alla direttrice Antonella Tuoni, e alla professionalità degli operatori che hanno accettato il cambiamento. In molti luoghi di cura si lega dunque, ma non se ne parla. A meno che non capiti l’incidente. Come nel caso di Francesco Mastrogiovanni morto nell’Spdc di Vallo della Lucania dopo 4 giorni di contenzione. "87 ore" si intitola il film di Costanza Quatriglio, che testimonia - tramite l’occhio delle telecamere di sorveglianza - l’agonia di Mastrogiovanni. Simile la tragedia di Giuseppe Casu, legato al letto per una settimana nell’Spdc dell’ospedale "Santissima Trinità" di Cagliari. Queste le due morti che hanno fatto notizia: ma altri "incidenti" sono caduti nel silenzio. Di fronte a una pratica, che umilia e ferisce innanzitutto le persone che la subiscono, ma che mortifica anche la professionalità degli operatori, abbiamo deciso di reagire con la campagna "per l’abolizione della contenzione … e tu slegalo subito". Lo slogan riprende la risposta che Franco Basaglia dava agli operatori che gli chiedevano cosa fare di fronte ad un paziente legato. La campagna, promossa dal Forum Salute Mentale, vede tra i "primi firmatari" i rappresentanti di tante associazioni (sul sito si può scaricare e firmare l’appello). La campagna sarà presentata a Roma il 21 gennaio 2016. Nell’occasione saranno proposte le prime iniziative. Innanzitutto bisognerà organizzare le visite alle strutture dove si pratica la contenzione, ma anche a quelle dove non si pratica: per capire, informare, dare il segno di una vigilanza democratica. E poi raccogliere testimonianze, anche sostenendo la denuncia delle persone che hanno subito la contenzione. Infine, bisogna stare al fianco degli operatori che con scelte coraggiose riescono ad opporsi alla contenzione, persino a disubbidire. E sostenere e promuovere le vertenze per contrastare i tagli al welfare e rivendicare organici adeguati: non possiamo dimenticare che troppo spesso gli operatori dei servizi devono operare in condizioni difficilissime. Ma, come abbiamo detto per la chiusura dei manicomi e degli Opg, le difficoltà in cui gli operatori lavorano non possono e non devono giustificare pratiche che ledono i diritti delle persone più vulnerabili. Non a caso l’Appello si conclude con un richiamo alla Costituzione per vincolare "l’agire quotidiano e l’esercizio difficile e paziente della democrazia, per rendere impensabili fasce, reti e porte blindate". Insomma, per restituire diritti e affermare che la dignità di ciascuna persona è inviolabile. Stati Uniti: il presidente Obama "basta stragi, più controlli sulla vendita di armi" di Mario Platero Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2016 Resterà un discorso storico: Barack Obama ieri ha annunciato l’introduzione di alcune misure per migliorare i controlli sulle vendite di armi negli Stati Uniti. La notizia era attesa. Erano invece inattese la passione, la determinazione con cui il presidente americano ha pronunciato il suo discorso, implorando gli americani di far prevalere il buon senso "sugli interessi che controllano il Congresso". Erano inattesi gli occhi rossi, il groppo in gola che lo ha bloccato mentre ricordava i 20 bambini di Sandy Hook uccisi da un folle il 14 dicembre dell’anno scorso, e le lacrime, che gli sono sgorgate nel momento in cui ricordava questi 20 bambini di sei, sette anni, che si preparavano al Natale, allievi della prima elementare e i sei insegnanti, uccisi anche loro a Newtown una cittadina tranquilla, tranquilla, ideale del Connecticut, da un giovane squilibrato di vent’anni Adam Lanza che subito prima di recarsi a compiere la strage aveva ucciso la madre, che lo portava con se al poligono di tiro e che aveva riempito la casa di armi e munizioni. "Noi rispettiamo la Costituzione - ha detto Obama nel momento più drammatico del suo discorso - rispettiamo il secondo emendamento, ma la nostra Costituzione dice anche tutti gli americani hanno un diritto assoluto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità. Quei diritti sono stati strappati ai giovani universitari a Blacksbyrg a Santa Barbara ai giovani liceali a Columbine e ai bambini della prima elementare a Newtown. E ad ogni famiglia che non avrebbe mai immaginato che i loro amati sarebbero stati uccisi da un proiettile da una pistola. Ogni volta che penso a quei ragazzi divento furioso - ha continuato Obama, a questo punto in lacrime - e attenzione perché questo capita ogni giorno per le strade di Chicago". Quel che ha colpito in questo discorso è stata la qualità dell’improvvisazione. In genere il presidente segue diligentemente un discorso scritto, ma in questo caso, in una sala della Casa Bianca gremita di attivisti e di famiglie che hanno perso i loro figli o i loro cari per colpa di una leggerezza nella disseminazione di armi in America, Obama ha dato il meglio della sua retorica. Con il vicepresidente Joe Biden al suo fianco ha aggiunto considerazioni personali dopo pause di riflessione e ha dato un quadro complessivo con cui ha giustificato le ragioni per cui ha deciso di scavalcare il Congresso, di mettere a punto un "ordine esecutivo" una sorta di decreto e di introdurre numerose misure che dovrebbero rendere più serrati i controlli - attenzione, semplicemente i controlli - prima della vendita delle armi da fuoco: "Ogni anno muoiono quasi 30mila persone per incidenti da armi da fuoco, inclusi suicidi, omicidi, atti criminali. È poco meno dello stesso numero di morti in incidenti d’auto", ha detto ancora il presidente. Ha poi sottolineato che non ci si deve solo soffermare sulle stragi ma anche sui trenta bambini che solo l’anno scorso sono rimasti uccisi perché giocavano con una pistola o per un difetto dell’arma da fuoco: "Se tutti noi possiamo disporre di un meccanismo che riconosce l’impronta digitale per avere accesso a un telefonino, perché non possiamo avere lo stesso su una pistola? Perché non possiamo migliorare la sicurezza, come parte delle mie proposte ci saranno richieste per innovazioni tecnologiche". In effetti Obama ha proposto numerose iniziative che potrebbero sembrare "normali". Ha ricordato che un recente studio dimostra come circa una persona su trenta che cerca di comprare armi su internet ha precedenti penali. Ecco dunque le proposte: tutti i venditori di armi devono avere una licenza e devono condurre dei controlli di background su tutti coloro che vorranno acquistare un’arma da fuoco. Saranno aumentati anche i controlli su coloro, spesso criminali, che cercano di comprare armi nascondendosi dietro aziende o falsi nomi. Saranno assunti 200 nuovi agenti per rafforzare la qualità delle verifiche in base alle leggi già esistenti. Saranno stanziati circa 500 milioni di dollari per aiutare gli psicolabili ma allo stesso tempo si chiederà che le cartelle cliniche di chi ha avuto traumi psicologici siano rese note ai venditori delle armi, al di là della tutela della privacy. In altre parole, se vuoi comprare una pistola devi dimostrare di essere sano di mente. Sembrerebbero misure del tutto normali, ma il presidente della Camera Paul Ryan ha già reagito con forte aggressività attaccando il presidente, colpevole di abuso dei poteri. Le sue dichiarazioni tuttavia sembravano vuote davanti alla retorica di Obama che a un certo punto ha detto: "Se il Congresso accetta di essere ostaggio delle lobby dei produttori di armi, non può tenere in ostaggio l’America intera. Chiedo che anche loro prima o poi approvino una legge adeguata". Germania: decine di donne aggredite a San Silvestro. La Merkel: "troveremo i colpevoli" La Repubblica, 6 gennaio 2016 Ubriachi, hanno compiuto diversi episodi di violenza contro una novantina nella zona della stazione: molestie, furti, almeno uno stupro. Alcune testimoni: "Erano arabi". Le aggressioni di Capodanno a Colonia a circa 90 donne da parte di un migliaio di uomini ubriachi scuotono la Germania. Secondo alcune testimonianze delle vittime, i molestatori, circa un migliaio, erano apparentemente "di origine araba". La cancelliera Angela Merkel ha chiesto una dura risposta dello Stato di diritto agli attacchi di carattere sessuale, secondo quanto riferito dal suo portavoce Steffen Seibert. "Si deve fare tutto il possibile per identificare quanto prima i colpevoli e punirli, da dovunque arrivino", ha aggiunto Merkel. Una notte di paura nelle ore in cui si festeggiava San Silvestro. Secondo il capo della polizia Wolfgang Albers, citato dalla Bbc, gli aggressori erano ubriachi. Le aggressioni si sono verificate nella zona tra la stazione centrale e il maestoso duomo gotico. Gran parte dei reati denunciati alla polizia erano rapine, ma anche molestie, palpeggiamenti, e almeno uno stupro. Le denunce registrate sono almeno 90, ma potrebbero aumentare. Anche una volontaria della polizia ha subito molestie sessuali. Le forze dell’ordine sono preoccupate perché le violenze sono state pianificate prima di essere compiute. Gruppi di uomini ubriachi sono andati a caccia di donne in un’area già normalmente a rischio furti e borseggi, tanto che Albers ha parlato di "una dimensione di reato completamente nuova". Il numero delle aggressioni è stato forse ancora superiore, perché si teme che molte donne non abbiano denunciato le violenze. Secondo la testimonianza delle vittime, ha riferito ieri il capo della polizia Wolfgang Albers, vi era un migliaio di giovani uomini che si era riunito vicino alla stazione. A gruppetti di circa cinque persone, gli uomini circondavano le donne di passaggio che venivano sottoposte a pesanti molestie sessuali e derubate degli oggetti di valore. Le testimonianze. Una delle vittime, intervistata dal giornale "Der Express" ha raccontato di essere stata bloccata e toccata almeno cento volte in un percorso di 200 metri. "Urlavamo e colpivamo gli aggressori, ma non ci lasciavano passare", ha detto Katja L. La polizia ha segnalato anche decine di denunce simili ad Amburgo. "Stavamo partendo e un gruppo di dieci stranieri ci hanno aggredito - ha raccontato una donna a N-TV. - Ci prendevano tra le gambe, toccavano le nostre scollature, sotto i cappotti. Puntavano solo alle donne". Critiche a efficienza della polizia. In Germania è anche il momento delle polemiche sull’efficienza della polizia di Colonia nella notte di Capodanno. Il presidente della polizia della città Albers ha dovuto riconoscere, in conferenza stampa, che il primo messaggio lanciato via Twitter dalla polizia nella mattinata del primo gennaio, non corrispondeva affatto alla realtà. Nel post si valutava positivamente il bilancio della nottata trascorsa. "Questa informazione era falsa", ha ammesso Albers, aggiungendo che i poliziotti erano venuti a conoscenza delle aggressioni già nella notte di San Silvestro, ma solo il giorno dopo è apparsa chiara la dimensione e si è saputo di aggressioni di carattere sessuale. Le reazioni. "È qualcosa di mostruoso", ha commentato il sindaco Henriette Reker, che fu accoltellata a ottobre durante la campagna elettorale prima della sua elezione. Reker ha voluto precisare che "non c’è la minima indicazione che tra i colpevoli vi siano profughi attualmente ospitati nei centri della città". "Sono attacchi intollerabili, tutti i responsabili devono essere portati davanti alla giustizia", ha scritto il ministro della Giustizia tedesco Heiko Maas in un tweet. Secondo il portale di informazione Koelner Stadt-Anzeiger, i responsabili delle aggressioni sono già conosciuti dalla polizia, proprio a causa dei frequenti furti che si verificano nella zona intorno alla stazione centrale. Uno dei poliziotti in servizio nella zona ha detto al portale Express di aver fermato 8 persone: "Erano richiedenti asilo", ha specificato. La vicenda è molto delicata per la sindaca Reker, l’aggressore la attaccò proprio per il suo atteggiamento favorevole all’accoglienza dei rifugiati siriani. Un suo portavoce ha assicurato che il sindaco non intende tollerare che nella sua città vi siano aree dove la legge non è rispettata. Allo stesso tempo vi è il timore che la vicenda venga strumentalizzata da gruppi razzisti o anti migranti. La Reker vuole anche predisporre un piano di sicurezza per il Carnevale, che ogni anno richiama oltre un milione di visitatori nella città renana, tra il 4 e il 10 febbraio. Isis, chi riempie le casse del Califfo milionario di Viviana Mazza Corriere della Sera, 6 gennaio 2016 Dagli sponsor del Golfo, uomini d’affari ricchissimi e predicatori religiosi di posizioni estremiste, fino ai mediatori, dalle banche agli scambi fiduciari: così l’Isis rimpingua i suoi conti esteri. Il capo era un libanese nato e residente in Kuwait, Osama Khayyat. Sin dalla nascita del Califfato - secondo le ricostruzioni dei giornali locali Al Bayan e Al Jareeda - la sua "cellula" aveva fornito appoggio logistico e finanziario all’Isis. Acquistava in Ucraina le armi, inclusi missili FN-6 - come ha confessato lo stesso Khayyat dopo l’arresto un mese fa - ed effettuava i pagamenti attraverso società kuwaitiane, spedendo poi il bottino in Siria via Turchia o Iraq. Ogni mese trasferiva milioni di dollari per il Califfato su conti all’estero tramite Emirati e Turchia. Secondo il verbale delle indagini, la sua cellula aveva fatto arrivare all’Isis anche tute e maschere anti-gas, reperite legalmente in Kuwait, acquistandole da operai e aziende chimiche nel corso di sei mesi. Servivano per un piano preciso? "Non lo sappiamo - hanno dichiarato gli arrestati negli interrogatori - Gli ordini dell’organizzazione si eseguono senza discutere". Insieme al capo, sono stati presi cinque membri della rete: tre siriani, un egiziano e un kuwaitiano. Altri quattro sono ricercati dall’Interpol: i fratelli australiani di origini libanesi Hisham e Rabie Dhahab e i fratelli siriani Waleed Nassef e Mohammed Tartari, l’uno con il conveniente impiego di bancario a Orfa in Turchia, l’altro responsabile finanziario della cellula. Il Kuwait è stato sin dall’inizio della guerra in Siria un crocevia dei finanziamenti per i gruppi jihadisti, per via del suo sistema bancario non "tracciabile". Ogni volta che emerge un nuovo nome di finanziatori del jihad (non necessariamente dell’Isis ma anche di gruppi come Jabhat al Nusra, legato ad Al Qaeda), gli americani chiedono soprattutto a Kuwait e Qatar - alleati nella "guerra al terrore" - di applicare una maggiore trasparenza ai trasferimenti di denaro, finora senza successo. È importante però notare che, a differenza di Al Qaeda e di altri gruppi, l’Isis ha saputo diversificare le fonti di introito, anche per restare "indipendente" rispetto ai donatori: i finanziamenti dal Golfo sono una piccola parte delle entrate (accanto a petrolio, tasse, confische, traffico di antichità, furti in banca e riscatti), l’8 per cento circa su 80 milioni di dollari che mensilmente finiscono nelle casse del Califfato, dice al Corriere Ludovico Carlino, analista di "IHS Janès" e autore di un rapporto sui finanziamenti del gruppo. Una piccola parte, ma assai pericolosa, visti missili e tute chimiche procurati dalla cellula in Kuwait. I finanziatori sono spesso uomini d’affari ricchissimi e predicatori religiosi di posizioni estremiste - nell’ordine sauditi, kuwaitiani, qatarini, in qualche caso emiratini, secondo il centro studi strategici di Bagdad e alcuni esperti internazionali. Anche il sito saudita Al Wata n afferma che i privati del Regno sono al primo posto nel fare affluire soldi nelle casse dell’Isis. Benché Paesi come il Qatar appoggino altri gruppi jihadisti, in particolare Al Nusra, ciò non significa che singole moschee o privati con idee diverse non possano finanziare il Califfato, sottolinea Carlino. Spesso i media di Paesi rivali nella regione si lanciano accuse reciproche. Il Centro studi strategici di Al Ahram in Egitto e il quotidiano Al Khaleej degli Emirati puntano il dito contro il Qatar, mentre siti libanesi vicini al regime di Damasco accusano l’intelligence saudita. Pochi giorni fa, l’Emiro Hassan di Giordania ha detto alla TV France24 : "Se non sono i Paesi del Golfo a finanziare Daesh, chi sarebbe a farlo?". I nomi dei finanziatori sono raramente resi pubblici, tranne che nelle liste delle sanzioni del dipartimento del Tesoro Usa. Sono piuttosto chiari però i meccanismi attraverso cui avvengono le "donazioni". "Si tratta di somme molto alte, dell’ordine di dieci milioni di dollari al mese - afferma il sito iracheno Annabà citando il centro studi di Bagdad - e vengono trasferite tramite società legali in Paesi europei e nei paradisi fiscali. Molti di questi conti hanno coperto l’acquisto di armamenti e attrezzature, comprati in modo legale, poi spediti a società di copertura in Turchia e infine trasferiti in Siria e Iraq". Spesso la raccolta di fondi avviene nelle moschee alla conclusione delle preghiere collettive, ed è gestita da opere di carità e organizzazioni non governative regolarmente registrate e attive in molti paesi poveri. Lo slogan: "Sostenere i fratelli musulmani che combattono contro lo straniero e contro i nemici della fede". La motivazione di molti finanziatori, infatti, è contrastare l’influenza dell’Iran nella regione, come ha detto al Corriere in un’intervista all’ultimo piano del suo grattacielo il miliardario kuwaitiano ed ex parlamentare salafita Khaled Salman. "Non vedete come gli sciiti uccidono i bambini sunniti in Siria?". Per far arrivare i soldi a destinazione, a volte si usa il sistema bancario: conti correnti creati usando un prestanome o società turche di comodo (sistema già usato per il riciclaggio di denaro sporco e per evadere le tasse, che si rivela ora funzionale per il Califfato e i suoi collaboratori turchi). Oppure tramite agenzie di cambio: "Basta una password per ritirare il denaro, il codice si può ricevere anche via WhatsApp", spiega Carlino. O meglio ancora, in contanti: i corrieri vanno direttamente in Siria col denaro, o lo "spostano senza spostarlo" col sistema dell’ hawala (scambi basati sulla fiducia che non lasciano traccia: qualcuno consegna una cifra in un luogo, e viene compensata parallelamente a qualcun altro altrove). Una risoluzione Onu ha appena chiesto ai singoli Paesi di fare di più per combattere ogni forma di finanziamento all’Isis. In Kuwait si annuncia una legge per controllare la raccolta di fondi e della zakat (la tassa islamica) sia nelle aziende private che nelle moschee; ma è un annuncio già fatto in passato che finora non ha portato a nulla. In Arabia Saudita lo scorso giugno sono state approvate norme più restrittive: vietato aprire conti per raccogliere fondi senza un’autorizzazione scritta governativa. Chiunque lo faccia "sarà perseguito penalmente, saranno confiscate le somme raccolte e messe sotto sequestro giudiziario tutte le sue proprietà". Nei primi otto mesi del 2015 sono stati congelati i depositi e sequestrati i patrimoni di individui e associazioni che avevano raccolto 34 milioni di dollari per l’Isis (nelle confische la città di Riad è al primo posto). Ma un problema oggettivo sta nel fatto che, nonostante i controlli più severi sui trasferimenti bancari, è sempre possibile usare l’hawala. "Siamo abituati a pensare al denaro come qualcosa che si muove virtualmente - spiega Carlino - ma se si muove in contanti non hai la possibilità di fermarlo". Stati Uniti: i fan di una serie tv chiedono la grazia per il killer Steven Avery, ecco perché di Ida Artiaco Il Gazzettino, 6 gennaio 2016 I fan della serie tv sono convinti della sua innocenza, e chiedono la grazia per il killer. Quando la realtà supera la fantasia e viceversa. Negli Stati Uniti sono state raccolte più di 120mila firme, ma il numero è destinato ancora a crescere, per la petizione che chiede al presidente Barack Obama di concedere la grazia a Steven Avery, condannato nel 2005 a trascorrere in carcere quasi tutta la sua vita perché accusato di omicidio. La notizia non sarebbe così eclatante se la storia del detenuto in questione non fosse al centro di uno dei documentari più seguiti di Netflix, dal titolo "Making a Murderer". I fan della serie tv, che presto arriverà anche in Italia grazie alla celebre piattaforma di streaming online, hanno deciso di appellarsi all’inquilino della Casa Bianca per far tornare in libertà Avery e suo nipote Brendan Dassey, anch’egli in cella per essere stato giudicato suo complice. Allo stato attuale, risultano centomila le firme raccolte su Change.org, ed altre 18mila sono state presentate direttamente a Washington. Se entro il 16 gennaio prossimo queste ultime raggiungeranno quota centomila, il presidente Obama dovrà rispondere pubblicamente della questione. "Making a Murderer" è uno show-documentario che parte dalle vicende di Steven Avery per analizzare temi più strutturali della società americana, come le falle del sistema giudiziario, l’abuso di potere e il ruolo dei media nelle indagini investigative. Da trent’anni protagonista di controversie legali che ne hanno minato l’esistenza, la storia di Avery è facilmente riassumibile: cittadino di una contea del Wisconsin, incriminato nel 1985 per violenza sessuale della quale si è sempre dichiarato innocente, è stato scagionato all’inizio degli anni Duemila grazie alla prova del Dna e rilasciato nel 2003 a seguito di un lungo botta e risposta processuale. Quando tutto sembrava finalmente finito, è stato nuovamente incriminato e condannato a 32 anni di prigione nel 2005 per la sparizione e l’uccisione della giovane fotografa Teresa Halbach dagli stessi funzionari che l’avevano incastrato anni prima. Il racconto che produttori e sceneggiatori hanno consegnato al pubblico mondiale parte dalla presunzione di innocenza di Avery: i fan sono convinti che il sistema della giustizia a stelle e strisce abbia rovinato la vita dei protagonisti della vicenda e chiede ora per loro un riscatto. Il giudice Ken Kratz, tuttavia, ha accusato la serie di aver lasciato fuori dalla narrazione, che si divide in dieci episodi, il primo dei quali è andato in onda negli Usa lo scorso 18 dicembre, informazioni fondamentali che dimostrano invece la colpevolezza dell’uomo. La palla passa ora alla Casa Bianca, a cui spetterà presto l’ultima parola sul caso. Repubblica Ceca: la diplomazia tratta per liberazione cittadino ceco arrestato in Sudan Nova, 6 gennaio 2016 I diplomatici della Repubblica Ceca da quasi un mese stanno negoziando sul caso di un cittadino ceco scomparso a Khartoum in Sudan: si tratta del cinquantaduenne Petr Jasek, che dal 9 dicembre figura tra i dispersi nel database dell’Interpol. La notizia è stata resa pubblica questa mattina per la prima volta dal quotidiano "Dnes" ed è stata ripetuta dai siti delle maggiori testate ceche. Secondo quanto riporta "Dnes", l’uomo è detenuto in carcere dalle autorità sudanesi, non sono però chiari i motivi dell’arresto, nè del viaggio del cittadino ceco a Khartoum. Secondo il quotidiano, tuttavia, Jasek potrebbe essersi recato in Africa a causa della sua attività religiosa, e proprio per questo potrebbe essere stato trattenuto dalle autorità locali, in un paese la cui legislazione comprende numerosi elementi della legge tradizionale islamica. "Non sappiamo esattamente cosa stia succedendo. Il caso è seguito da tempo, ce ne siamo occupati già durante le vacanze", ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Michaela Lagronova. "Abbiamo inviato in loco un rappresentante della nostra ambasciata in Egitto. Posso assicurare che Jasek è vivo", ha aggiunto la Lagronova.