Una lezione di democrazia e amore per le istituzioni di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 5 gennaio 2016 Il senatore Ichino incontra i detenuti di Alta Sicurezza1 di Parma. Perché parlo oggi di una lezione di democrazia e amore per le istituzioni da parte del senatore Pietro Ichino? Tutto è cominciato con la lettura, da parte del senatore, di un articolo di un detenuto di Ristretti Orizzonti, trasferito di recente nella sezione AS1 di Parma, sul regime del 41 bis, e con una critica, profonda e argomentata, espressa sul suo sito: “Ho letto con grande interesse su Ristretti Orizzonti l’articolo Quando ero al 41bis la mia ragione di vita era la rabbia, nel quale Giovanni Donatiello racconta la propria esperienza nel regime di massima sicurezza del 41-bis, denunciandone la durezza. Le sue ragioni vanno considerate con grande attenzione; ma proprio perché possano essere comprese fino in fondo, occorrerebbe conoscere un'altra parte della vicenda, che invece né l'autore dell'articolo, né alcuna nota redazionale raccontano: qual era, nel periodo di applicazione del 41-bis, il modo in cui Giovanni Donatiello si rapportava con il proprio passato e in particolare con l'organizzazione criminale a cui - dobbiamo presumere - aveva appartenuto?”. Ne è nato un confronto a più voci con la redazione di Ristretti, pubblicato nel sito di Ichino e nel nostro, e la tappa successiva è stata che Giovanni Donatiello ha invitato il senatore a portare la discussione dentro al carcere di Parma, in una sezione fatta di detenuti che sono stati per anni rinchiusi al 41 bis. L’invito è stato subito accolto, e oggi, 4 gennaio 2016, è avvenuto l’incontro. È stato un incontro denso, interessante, in cui molti detenuti hanno parlato della loro vita negli anni in cui sono stati sottoposti al 41 bis. Tanti i temi trattati: le restrizioni che appaiono solo afflittive, come quella di poter vedere i propri cari solo un’ora al mese, separati da un vetro, tranne per gli ultimi dieci minuti in cui i figli, se hanno meno di 12 anni, possono sì vedere il genitore senza avere un vetro in mezzo, ma vengono presi alle madri e portati da soli a incontrare un padre, che poco conoscono e con il quale faticano ad avere un rapporto vero, al punto che sono tanti i figli che portano le ferite e i traumi di un rapporto così innaturale; e poi ancora il divieto di cucinarsi del cibo decente, e la misera ora d’aria; una solo telefonata al mese per chi non fa colloquio, che costringe la famiglia a recarsi in un carcere vicino a casa per poter sentire la voce del proprio famigliare, e altre piccole torture di un regime che, se subito per dieci, anche vent’anni e più, si configura come una vera tortura. La discussione poi ha toccato il tema dei circuiti di Alta Sicurezza, e le tante contraddizioni che presentano, a partire del fatto che persone, che escono dopo anni dal 41 bis perché non hanno più nessun collegamento con le organizzazioni criminali di appartenenza, si ritrovano poi per decenni a vivere in sezioni chiuse, autentici ghetti dove non c’è nessun confronto con il mondo esterno ed è davvero difficile prendere le distanze dal proprio passato. È stato anche affrontato un tema che merita in modo particolare di essere approfondito, il tema di una possibile “dissociazione” su modello di quella che ha scardinato il terrorismo. La trascrizione dell’incontro sarà comunque al più presto disponibile nel sito di Ristretti. Alla fine, secondo me senza nessuna forma di ricerca di un facile consenso ma per un profondo senso di come dovrebbero operare le istituzioni, il senatore Ichino si è impegnato a fare una interrogazione parlamentare sui temi affrontati, gli aspetti più controversi del 41 bis e dei circuiti di Alta Sicurezza, e ha chiesto che le persone detenute presenti possano avere in lettura il testo dell’interrogazione per potergli fornire le loro osservazioni. Cosa che il direttore, presente alla discussione, ha garantito. Per me, che lotto ogni giorno in carcere per il rispetto della dignità delle persone, è stata una bella boccata di ossigeno: la dimostrazione, fatta tra l’altro ai detenuti che più di tutti hanno difficoltà a rispettare le Istituzioni, provenendo da realtà dove lo Stato è spesso debolissimo, di quanto invece sia possibile rappresentare quelle stesse Istituzioni degnamente, esercitando la democrazia nel modo più giusto: ascoltando, facendo le proprie critiche anche dure, ma in modo civile, rispettando i diversi interlocutori, anche quando il confronto avviene con coloro che la legge l’hanno violata, ma che non per questo perdono il diritto di essere trattati come persone. E tutto questo è avvenuto in un carcere difficile come quello di Parma, che forse ha bisogno di respirare aria nuova. Più di un italiano su due non si fida dei magistrati di Silvia Barocci Il Messaggero, 5 gennaio 2016 Uno studio promosso tra cittadini e toghe dalla Scuola superiore della magistratura. Per il 56,6% degli interpellati, i giudici svolgono un ruolo di supplenza politica. Sembra passato un secolo da Mani Pulite, quando a quel pool capeggiato da Francesco Saverio Borrelli gli italiani avrebbero affidato il Paese. Anno 1994: la fiducia nella magistratura è al 67%, secondo Demos & Pi. Trascorsi ventidue anni, scenari e attori sono cambiati. Molte toghe note - Fernando Pomario, Raffaele Guariniello e Marcello Maddalena - hanno lasciato il 31 dicembre, per effetto della riforma Renzi che ha abbassato da 75 a 70 anni l’età pensionabile dei magistrati. Cosa resta della fiducia di un tempo? Il calo è significativo: i consensi non arrivano a superare la soglia del 50%. Ma ancor più significativo è il fatto che a voler registrare e interpretare la "cattiva immagine" dei magistrati sia stata un’iniziativa promossa dalla Scuola superiore della magistratura che ha affidato a due noti studiosi, Nadio Delai e Stefano Rolando, una corposa indagine. Obiettivo: ascoltare e interpretate cosa i magistrati pensano di se stessi (1.110 i questionari compilati) mettendolo a confronto con l’opinione dei cittadini (2.025 le interviste a campione). Una doppia forma di ascolto che porta gli autori della ricerca a sottolineare l’inevitabile necessità per i magistrati di "reinterpretare" il proprio ruolo, che non potrà più essere né di supplenza o di assunzione diretta di un ruolo politico attivo, né di un anacronistico ritorno all’antico per cui il giudice deve "parlare solo per sentenze". I dati, d’altronde, sono espliciti. Tra magistrati e cittadini ci sono sintonie di fondo, in particolare sulla corruzione politico-amministrativa ritenuta l’area di illegalità al primo posto nel Paese (89,9% per i primi, 74,8% per i secondi), ma anche forti divergenze. Il fatto che la valutazione dell’operato della magistratura faccia segnalare una parabola discendente, da Tangentopoli ad oggi, è senz’altro il dato che fa maggiormente riflettere. La reputazione. L’indagine va nello specifico e chiede agli intervistati un parere sulla reputazione delle toghe suddivisa in fiducia, credibilità e affidabilità. La valutazione dei cittadini è assai critica. Per quanto riguarda l’immagine percepita dei magistrati che operano sul territorio, solo il 52,3 esprime un giudizio positivo che scende al 47,8% quando si tratta di valutare la magistratura nel suo complesso. Per quanto riguarda l’affidabilità, il gradimento scende al 46,5% che cala ulteriormente al 35,6% se il giudizio è sulla magistratura nel suo complesso. La reputazione è al 47,4%, che scende al 36,7% se si considerano le toghe svincolate dal territorio. La magistratura svolge o no un ruolo di supplenza rispetto alla politica di fronte a gravi questioni quali corruzione, criminalità organizzata o terrorismo? A questa domanda, oltre la metà degli intervistati (il 56,6%) risponde di sì con certezza. Elemento, anche questo, che rappresenta in ogni caso un fattore di valutazione critico sulla reputazione. Sintonie e differenze. Gli ideali e i valori di fondo, per cui si è fatta la scelta di entrare in magistratura, delineano una "categoria "tonica" e certo non psicologicamente "assediata"", che nel 78,5% dei casi si dice soddisfatta del ruolo svolto. La sintonia con la popolazione sta nel mettere al primo posto la corruzione come fattore di illegalità da debellare, cui fanno seguito la criminalità organizzata (74,7% per i magistrati, 52% per i cittadini) e l’evasione fiscale (55,4% e 39,3%). Ma ci sono anche differenze significative. E su punti non certamente secondari. Il lavoro dei magistrati è soggetto a "pressioni"? La sovrastima dei cittadini va da 2,9 sino a 25,1 volte più di quanto dichiarino i magistrati stessi. Ad esempio, le eventuali pressioni dei media e della politica sono, rispettivamente, del 54,7% e del 74,1% secondo i cittadini, contro il 18,9% e il 12,6% dichiarati dai magistrati. Non accettabilità. Ci sono poi comportamenti che vengono ritenuti inaccettabili, ma in maniera differente. Esprimere valutazioni pubbliche sui provvedimenti di altri magistrati è vissuto come un tabù dall’85,4% delle toghe, contro il 48,8% dei cittadini. Assumere ruoli politici? 61,3% di contrari tra i magistrati e 55,9% tra la popolazione. Fornire ai media chiarimenti sui processi in corso? Assolutamente no per il 50,8% dei diretti interessati, mentre il 23,6% dei cittadini sarebbe favorevole ad avere maggiori spiegazioni. Non mancano punti di vista divergenti su temi di riforma della giustizia che hanno arroventato il clima politico degli ultimi venti anni. La separazione delle carriere tra giudici e pm vede nettamente favorevoli i cittadini (73,1%) e assolutamente contrarie le toghe (78,1%). Lo stesso vale per la necessità di regolare meglio la responsabilità civile dei magistrati - la riforma del governo Renzi è del 2015 e la ricerca è stata pubblicata alla fine dell’anno. I cittadini che si sono detti d’accordo sono stati il 75,2%; specularmente, i magistrati contrari hanno toccato il 72,5%. Toghe e politica. Il passaggio alla politica, tema negli ultimi venti anni foriero di critiche e polemiche, è ora trattato con un atteggiamento particolarmente prudente dalla magistratura. Dare l’impressione di utilizzare la propria posizione per finalità politiche personali costituisce un fatto che si verificherebbe "spesso" dal 6,5% dei magistrati (contro il 23,2% dei cittadini). Decidere di accettare ruoli politici viene visto con assoluto sfavore da quasi i 2/3 dei magistrati ma anche dal 55,9% della popolazione. Infine, un problema su cui il Csm è in parte già intervenuto ma per il quale si reclama un intervento legislativo: regolare meglio il passaggio dei magistrati che vogliono entrare in politica. Il 92,1% delle toghe si dice favorevole. Al di là dei numeri, se si non vuole arrendere alla "cattiva immagine" che emerge dall’indagine, la magistratura dovrà operare una vera e propria "riappropriazione di ruolo". "Anche i magistrati - scrivono Delai e Rolando - si trovano a passare attraverso la loro specifica "mutazione", in cui giocherà molto la loro capacità di essere non solo "attori del diritto", bensì anche "attori sociali" a pieno titolo e a piena responsabilità". Dossier dei Radicali: danni miliardari da malagiustizia di Dimitri Buffa Il Tempo, 5 gennaio 2016 Processi lenti ed errori causano la bancarotta. La mina della Legge Pinto sul bilancio statale. Il bubbone della legge Pinto, la 89 del 2001, voluta dal governo di Giuliano Amato per mettere una pezza interna alle migliaia di richieste di risarcimenti per la lentezza dei processi penali e civili che affluivano presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, sta per scoppiare. Ed è una mina per i conti pubblici che si stima prudentemente intorno al mezzo miliardo di euro annui. Qualcuno (come i Radicali italiani autori di un dossier in materia) si spinge a ipotizzare la cifra tonda di un miliardo di euro l’anno. Cui vanno aggiunti almeno altri cento o duecento milioni di euro per i danni da ingiusta detenzione, quelle 2mila cause l’anno già rilevate dal sito "errorigiudiziari.com". Ma di queste cifre nel bilancio dello Stato, nei capitoli che riguardano il ministero di Grazia e giustizia, non vi è alcuna contezza e tanto meno una comunicazione trasparente. Così l’avvocatessa Deborah Cianfanelli, membro dell’esecutivo di Radicali italiani e autrice di svariati ricorsi relativi propri alla morosità dello stato italiano rispetto ai cittadini che non hanno avuto giustizia in tempi accettabili secondo gli standard europei, ha deciso di rendere pubblico il dossier assemblato andando a ripescarsi cifre e statistiche nei siti di via Arenula e del ministero delle finanze. Ed è venuto fuori che il governo smentisce sé stesso parlando genericamente, per la legge Pinto, di "un debito accumulato" intorno ai 750 milioni di euro, come a far credere che si tratti della somma di tutto il contenzioso mentre i calcoli anche alla buona dimostrerebbero che si tratterebbe dei debiti dei soli esercizi 2010 e 2011. Anche perché i pagamenti sono "a cinque anni quando va bene". E questo rischia di rimettere in gioco la sponda europea. Recentemente il presidente della corte di appello di Perugia, che si occupa dei ricorsi ex lege Pinto che vengono da Roma, era andato in pellegrinaggio dal ministro Orlando per spiegargli al situazione del suo distretto di corte di appello ma poco ci mancava che non venisse ricevuto. L’altro trucchetto, che domenica Valter Vecellio nella intervista condotta a Marco Pannella su Radio radicale ha definito da "trequartari", ossia professionisti del gioco delle tre carte, sarebbe quello di non mettere mai nel bilancio i debiti arretrati, ma, semmai, solo quelli dell’anno in corso. Eppure già uno studio prudente del ministero delle Finanze che risale al 2007 stimava in 500 milioni di euro annui la cifra da pagare per i risarcimenti relativi alla lentezza del processo. E il calcolo alla buona lo poteva fare anche uno studente di quinta elementare. Infatti, si legge nel dossier Cianfanelli, sebbene "in Italia vengono negati gli indennizzi per i danni patrimoniali, e vengono riconosciuti indennizzi bassissimi per i danni non patrimoniali, 750,00 per i primi 3 anni di durata eccessiva e 1.000,00 per gli anni successivi, cifre irrisorie se si pensa che i parametri europei vanno da 1.000,00 a 2.000,00 per ogni anno di durata del procedimento", il numero di cause ex lege Pinto, cioè la 89/01, "è passato dalle 3.580 del 2003 alle 49.730 del 2010, alle 53.320 del 2011, alle 52.481 del 2012 e alle 45.159 del 2013". Ora semplicemente moltiplicando per 8 mila euro, la media del rimborso liquidato, ma la maggior parte sono molto più onerosi, si arriva a cifre stratosferiche annue. E non complessive di non meglio determinati periodi di tempo come vorrebbe far credere il governo. Scrive la Cianfanelli che "il bilancio che oggi può trarsi, a 14 anni dalla applicazione della legge Pinto, è sicuramente deludente in particolare rispetto a quelli che sono i parametri risarcitori forniti dalla giurisprudenza della Corte europea". Anche perché "l’Italia ha stimato la "ragionevole durata" in 3 anni per il primo grado, due per il secondo grado e uno per la cassazione, ritenendo, a differenza della Corte europea, risarcibile non la complessiva durata della procedura ma solo la parte eccedente la durata tollerata". Come se non bastasse, tre leggi, due varate nel periodo 2008-2009 (legge 181 del 2008 e articolo 14 del mille proroghe del 2009), governo Berlusconi-Tremonti, e una nel 2013 (decreto legge 35 dell’8 aprile 2013) dal governo Letta, hanno tagliato gli artigli a chi sperava di rivalersi pignorando i soldi assegnati a via Arenula presso la Banca d’Italia ovvero quelli genericamente attribuibili allo Stato che stanno presso l’Agenzia delle entrate e persino quelli presso le tesorerie centrali o provinciali della pubblica amministrazione. In pratica il cittadino non può pignorare un bel niente per i propri crediti riconosciuti da sentenze o ordinanze della legge Pinto mentre, "ca va sans dire", che lo Stato quando diventa creditore pignora eccome, magari anche la casa di proprietà. Il tutto in un quadro di processi pendenti a rischio di ricorso della legge Pinto nell’ordine dei 4 o 5 milioni di unità. Lo capisce anche un bambino che questa cosa, volutamente ignorata dai vari governi, e massimamente da quello in carica, può creare una mina nei conti pubblici stimabile forse intorno al miliardo di euro l’anno, nei calcoli a braccio fatti dai tecnici e dai legali di Radicali italiani, che hanno denunciato la cosa anche alla procura generale presso la Corte dei conti del Lazio che per ora sembra volere prendere tempo. I calcoli, va sottolineato, sono "a braccio" perché nessuno si sogna di indicare le cifre disaggregate nei capitoli di bilancio appositi all’interno di quelli di via Arenula e tanto meno nel bilancio dello Stato nelle varie finanziarie. Ma tutta questa "mondezza da contenzioso giudiziario" nascosta sotto il tappeto rischia di venire sollevata presto dal vento impetuoso dei milioni di cittadini che chiedono giustizia contro la giustizia italiana. E che potrebbero fornire all’Europa un ottimo assist per una futura procedura d’infrazione. L’ex Pg Marcello Maddalena: "Il ricambio delle toghe? Ne mancano mille" di Andrea Giambartolomei Il Fatto Quotidiano, 5 gennaio 2016 "Nella mia carriera mai visto questo vuoto ai vertici. Si doveva intervenire prima". Sono in pensione da un giorno, per sapere come mi trovo mi richiami tra un po’". L’ex procuratore generale di Torino Marcello Maddalena, 74 anni, dopo una vita in magistratura, è ora in pensione per il decreto legge del governo Renzi con cui è stato abbassata da 75 a 72 anni l’età pensionabile dei magistrati. Una norma che ha provocato una "scopertura" negli organici dei palazzi di giustizia. In tutti questi anni di carriera ha mai visto questo vuoto di potere ai vertici di procure, tribunali, corti d’appello e Cassazione? In effetti non ricordo ci sia mai stato un esodo massiccio come questa volta. In passato ci sono state delle "scoperture" per l’assenza di ricambi nei periodi in cui non si facevano dei concorsi. Ci saranno delle paralisi nella macchina giudiziaria? Penso che a risentirne saranno soprattutto le Corti d’appello, con le Procure generali, e la Cassazione, perché l’età di chi arriva in quei posti è vicina all’età di pensionamento. Mi scusi, ma se l’organico della Cassazione resta scoperto, processi giunti al terzo grado rallenteranno, la prescrizione continuerà a correre e molti processi verranno annullati? Bisognerà vedere come si farà fronte a questa situazione. Sicuramente ci sarà un rallentamento che può influire. Il governo avrebbe potuto prevedere le conseguenze del suo decreto legge sul pensionamento delle toghe? Guardi, secondo me è giusto che l’età pensionabile non sia fissata a 75 anni, ma a 72 o a 70. Tuttavia penso che quando mancano mille magistrati negli organici la pensione non debba essere la priorità. Non abbiamo ondate di giudici pronti a entrare, quindi non mi sembra una decisione di buon senso. Alcuni suoi colleghi, non lei, hanno fatto ricorso. Il Consiglio di Stato ha già concesso la sospensiva e in futuro forse potrebbe esprimersi sul tema anche la Corte costituzionale. Si rischia uno scontro tra poteri? No, questo non lo credo. Il Csm è guidato dal vicepresidente Giovanni Legnini, ex sottosegretario del governo Renzi. La corrente da lei fondata, Magistratura Indipendente, è legata a Cosimo Ferri, sottosegretario di Stato alla Giustizia, ragione per cui lei è passato ad Autonomia e indipendenza. C’è il rischio che il premier possa influenzare le nomine dei vertici dei palazzi di giustizia? Francamente non credo neanche a questo. Secondo me i componenti del Consiglio superiore della magistratura sono dotati di autonomia e indipendenza. Una volta li decidono in scienza e coscienza. Vedo più rischi nell’eccessivo correntismo che denuncio da anni. Allora si trova d’accordo con il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che il 31 dicembre dichiarava a Repubblica che "l’accesso di nuove generazioni è essenziale"? No, non sono d’accordo con lui. Ciò che dice non ha nessun senso perché se in una categoria manca un decimo del personale non si attua il ricambio pensionando altri lavoratori. Il ricambio ci sarebbe stato invece se prima fossero colmati dei vuoti. Servono molti più concorsi? Bisogna farne tanti. Quelli fatti di recente vanno un po’ a rilento e finché non sono completati resterà un’alta "scopertura". Pensa che possano essere utili delle proroghe? No, non penso. Ormai io e altri siamo in pensione da un giorno. Sull’omicidio stradale l’incognita alcol e droghe. Risolto il nodo della competenza di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2016 Ormai dovrebbe essere solo questione di settimane per l’approvazione definitiva della legge che introduce i reati di omicidio stradale e lesioni personali stradali: il testo è stato fissato quasi un mese fa dal Senato e ora attende solo l’ultimo via libera della Camera. Ma con il tempo si precisano meglio anche alcuni punti, sia deboli sia forti, che hanno accompagnato prima il dibattito tra gli esperti e poi anche quello parlamentare. Un punto debole riguarda l’accertamento dello stato di alterazione in chi guida sotto l’effetto di alcol o droghe. Un punto forte è invece l’eliminazione della sostanziale impunità che da nove anni era garantita a chi causa lesioni personali gravi o gravissime commettendo infrazioni stradali diverse dall’ebbrezza grave e dall’alterazione da droghe. I problemi di accertamento su alcol e droghe nascono dal fatto che l’inasprimento delle pene che la nuova legge porta con sé non solo rischia di essere incostituzionale per disparità rispetto ad altri tipi di omicidio colposo aggravato (come quello con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro), ma alza anche la posta in gioco. Per questo la difesa degli imputati (o perlomeno di quelli che potranno permettersene una agguerrita) farà emergere le incertezze scientifiche del sistema, che non a caso sono state ricordate e precisate in un recente studio della Scuola di specializzazione in medicina legale dell’Università di Trieste, compiuto proprio nell’ottica dell’introduzione dei nuovi reati stradali e delle relative, pesanti pene. Infatti, essi si configurano in presenza di guida in stato di ebbrezza grave o sotto alterazione da droghe. Ma nel caso dell’alcol ci sono dubbi soprattutto sull’affidabilità degli etilometri, che desumono quanto ce n’è nel sangue sull’incerta base di quanto ce n’è nell’aria espirata: la correlazione tra le due misure non è fissa, ma varia secondo le caratteristiche del singolo individuo e secondo le condizioni in cui la persona si trova al momento del test. Per dare un’idea del problema, lo studio cita la nota perizia effettuata nel 2011 dall’Università di Pavia in sede giudiziaria, con cui si dimostrava che i valori rilevati dall’etilometro possono essere dal 10% al 27% superiori rispetto a quelli trovati nel sangue (che sono quelli che fanno testo). Nel caso della droga, i problemi rilevanti sono legati innanzitutto al fatto che la normativa italiana considera non solo le sostanze classificate come stupefacenti, ma anche medicinali che hanno effetto sulle capacità di guida, come antidepressivi, antipsicotici, anticonvulsivanti, taluni antistaminici, anticinetosici, antinfiammatori non steroidei e antiipertensivi, che possono dare sedazione, sonnolenza, vertigini e disturbi della vista (possibili anche con alcuni colliri). Inoltre, l’insulina e gli ipoglicemizzanti orali possono dare crisi ipoglicemiche. Altro problema di accertamento legato alle droghe è la mancanza di protocolli seguiti universalmente. Ciò fa sì che, per esempio, i valori di "cut off" - in base ai quali si determina la positività o meno - non siano sempre quelli fissati dalle linee guida dei tossicologi forensi, ma talvolta siano quelli fissati dai costruttori degli apparecchi di misura. Da tutto questo emerge che possono essere riconosciuti ubriachi o drogati anche conducenti che non sono in condizione di guidare, ma non avevano la volontà e nemmeno la consapevolezza di esserlo davvero. Dunque, persone distanti da quegli assassini quasi volontari cui la normativa sull’omicidio stradale è diretta. Il punto forte della nuova legge è la correzione della svista contenuta nella legge 102/2006, che aveva inasprito le pene per chi causa lesioni personali gravi o gravissime in incidenti stradali, ma aveva lasciato inalterata su di esse la competenza del giudice di pace, che però non può applicare pene detentive. Una svista che fu subito segnalata dalla commissione giuridica dell’Automobile club di Napoli, le cui osservazioni furono confermate poco dopo dalla Prima sezione penale della Cassazione (sentenza n. 1294 del 29 novembre 2006, depositata il 18 gennaio 2007). Dall’epoca, nonostante le ripetute segnalazioni, la normativa era rimasta invariata. E si stava per perdere anche l’occasione della nuova legge sull’omicidio stradale: solo all’ultimo passaggio in Senato è stata apportata una correzione. In sostanza, da quando entrerà in vigore la nuova legge, la competenza passerà al Tribunale monocratico: le lesioni personali commesse violando norme stradali sono state "spostate" dall’articolo 590 all’articolo 590-bis del Codice penale, che non rientra nel raggio di azione del giudice di pace (fissato dall’articolo 4 del Dlgs 274/2000, anch’esso modificato dalla nuova legge per coordinarlo con essa). La novità ha l’ulteriore effetto di razionalizzare il quadro, perché per tutte le altre violazioni stradali più gravi (dall’ebbrezza oltre 1,5 grammi/litro alla droga, fino alla guida senza patente) la competenza era già del Tribunale. Inoltre, il giudizio di fronte al Tribunale appare più adeguato ad analizzare questioni importanti come l’accertamento delle responsabilità per le lesioni riportate in un incidente: non è facile verificare il rapporto di causa-effetto tra l’infrazione (presunta) e il danno alle persone e, soprattutto per le lesioni gravi o gravissime, è problematico determinarne l’effettiva entità. Non va però dimenticato che l’allargamento delle competenze del Tribunale ne aumenta il carico di lavoro e quindi può causare più difficoltà a smaltire gli arretrati, con conseguenti rischi di prescrizione e giudizi poco accurati. Braccialetto contro gli stalker, parte la sperimentazione di Francesca Schianchi La Stampa, 5 gennaio 2016 Emendamento Pd alle norme sul femminicidio, lo gestirà il Viminale. Anti-stalker. Il braccialetto è collegato a un sistema Gps delle dimensioni di un telefonino. La sperimentazione coinvolgerà 25 copie volontarie. La legge che disciplini la novità c’è: quella sul femminicidio, approvata dal Parlamento nel 2013. I soldi sono finalmente stati trovati. La tecnologia è stata messa a punto. Non resta che individuare le venticinque coppie che per prime saranno coinvolte, ed entro questo mese prenderà il via anche in Italia la sperimentazione del braccialetto elettronico per stalker e responsabili di violenza contro le donne. "Un metodo low cost ed efficace", lo definisce la deputata Pd Alessia Morani, autrice dell’emendamento alla norma sul femminicidio che ha dato il via libera a questa possibilità gestita dal ministero dell’Interno, per prevenire e si spera evitare persecuzioni violente o addirittura omicidi. Allo stalker che accetti la proposta (la misura non può essere imposta) viene applicata una cavigliera che registra i suoi movimenti, e dato in dotazione un piccolo gps delle dimensioni di un telefonino, uguale a quello che dovrà tenere con sé la persona perseguitata o vittima di violenza e maltrattamenti: se il molestatore si avvicina più di quanto stabilito dal giudice ai luoghi della vittima (come la casa, il posto di lavoro, la scuola dei figli), i dispositivi elettronici suonano avvertendo entrambi, oltre alla polizia. Stessa cosa avviene se i due si incrociano per caso, entro la distanza di due chilometri. Saranno i giudici a valutare le coppie a cui proporre la sperimentazione, tra alcuni dei casi più gravi. "In questo modo, le vittime potranno finalmente sentirsi libere e protette", prevede la Morani. Sistemi di monitoraggio elettronico per tutelare le vittime di violenza sono stati sperimentati in molti Paesi, dal Portogallo al Messico, dalla Francia all’Uruguay. Ma è soprattutto il caso spagnolo, dove il braccialetto è stato introdotto nel 2006 a Madrid e poi su tutto il territorio nazionale dal 2009, a suscitare grandi speranze nei promotori di questa novità: "In Spagna, su 756 coppie monitorate, non c’è fortunatamente più stato un omicidio", spiega la Morani, "cento per cento di successo". Certo, resta l’ostacolo della volontà dell’aggressore. Che può dire di no all’iniziativa: "Ma io credo che saranno in molti ad accettare - pronostica la deputata che sta seguendo il dossier - perché, con questa soluzione, evitano possibili misure cautelari più gravi, come gli arresti domiciliari o addirittura il carcere". Quella della cavigliera elettronica rientrerà infatti tra le misure cautelari, quelle cioè che vengono prescritte in attesa e durante il processo, in primis per evitare che l’accusato ripeta il reato. "Non solo: questo tipo di controllo può aiutare anche un molestatore a evitare gesti tragici e irreparabili. Il dispositivo può fermarlo prima che sia troppo tardi", valuta. Si rende impossibile il tristemente famoso "incontro chiarificatore", che troppo spesso si è trasformato nell’ultimo incontro. Nel 2014, secondo dati Eures, sono state 152 le donne uccise in Italia: di queste, 81, cioè il 60 per cento, per mano di fidanzati, mariti o ex. Una recente indagine Istat, poi, rivela che quasi sette milioni di donne ha subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale; tre milioni 466 mila hanno vissuto lo stalking, pari al 16,1 per cento delle signore italiane, e un milione e mezzo di loro si è vista perseguitata dall’ex partner. I costi di questa prima sperimentazione, garantisce la Morani, "sono bassi, nell’ordine di qualche decina di migliaia di euro". Un’esperienza che viene messa in campo per un anno, per poi valutare se funziona o meno. Ma la giovane deputata non ha dubbi: "Secondo me funzionerà. E se sarà così, poi estenderemo il progetto". Ilaria Cucchi pubblica su Fb la foto di uno dei tre carabinieri indagati di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 5 gennaio 2016 "Ecco chi ha pestato a morte mio fratello", dice. Querelata. In solidarietà con lei, Lucia Uva pubblica la foto di uno dei 5 poliziotti indagati per la morte di suo fratello Giuseppe. "Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo, le facce di coloro che lo hanno ucciso…". Ha scritto così, Ilaria Cucchi postando su Fb la foto di uno dei tre carabinieri indagati nell’inchiesta bis sulla morte di suo fratello Stefano. La foto ritrae Francesco Tedesco al mare, che esibisce un fisico palestrato e unto di crema solare in striminzite e aderenti braghette giallo-evidenziatore. Tedesco è stato recentemente indagato insieme a due colleghi trentenni, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, in servizio quella notte tra il 15 e 16 ottobre del 2009 nella stazione Appia quando Stefano Cucchi fu fermato e presumibilmente pestato pesantemente, fino a ridurlo in fin di vita, anche se la morte sopraggiunse una settimana più tardi. Ilaria Cucchi nel suo "stato" d’inizio d’anno ha voluto aggiungere che quella foto a petto in fuori era stata rimossa e si chiedeva perché: "Si vergogna? Fa bene". Ma ieri il legale di Tedesco, l’avvocato Elio Pini, ha annunciato di averla denunciata per conto del suo assistito. Lei per diffamazione e altri per minacce. Il fatto è che il post di Ilaria Cucchi ha iniziato a circolare sul web ricevendo centinaia di commenti e condivisioni, alcune delle quali dal sapore acre e rabbioso, c’è stato persino chi ha ipotizzato di organizzare ronde contro i tre carabinieri coinvolti. Tanto che Ilaria stessa ha dovuto tornare a scrivere sull’argomento nella stessa serata di domenica, precisando: "Non tollero la violenza sotto qualunque forma, ho pubblicato questa foto solo per far capire la fisicità e la mentalità di chi ha fatto male a mio fratello. Chi usa le stesse forme usate per lui non gli vuole bene, noi crediamo nella giustizia e non a rispondere alla violenza con la violenza". Non è finita lì perché Ilaria attorno a mezzanotte di domenica si è imbattuta in una serie di commenti in risposta ai suoi post sul profilo di Roberto Mandolini, altro carabiniere, ora maresciallo, in forze alla stazione Appia quella fatidica notte. Mandolini è uno dei testimoni-chiave, ora indagato per falsa testimonianza. È lui che avrebbe detto a un altro ufficiale della stazione di Torvergata: "È successo un casino, hanno massacrato di botte un ragazzo". Non solo ha taciuto per sei anni coprendo ciò che avevano fatto i suoi colleghi, Mandolini li protegge ancora, forse anticipando così la linea di difesa nell’udienza del 29 gennaio, sostenendo cioè che allora fecero "il loro dovere", cioè "arrestarono un grande spacciatore che spacciava fuori le scuole di un parco di Roma dopo l’esposto di alcune mamme e genitori preoccupati. Questo hanno fatto e basta, tutto il resto è speculazione politica per soldi e per arrivare in Parlamento". Ilaria scrive allora - e siamo a ieri - un lungo post in cui si dice offesa dalle parole di chi ha taciuto per così tanto tempo concludendo che "ognuno deve assumersi le sue responsabilità" e che se c’è imbarazzo "perché queste persone indossano ancora la prestigiosa divisa dell’Arma", lei lo condivide. Nel frattempo a prendere le sue difese arriva Lucia Uva, sorella di Giuseppe, fermato in stato di ebbrezza e morto dopo un interrogatorio in caserma a Varese un anno e quattro mesi prima di Cucchi. Anche Lucia Uva pubblica la foto di un poliziotto rinviato a giudizio per quel caso insieme ad altri cinque, più un militare: Luigi Empirio, sindacalista del Siap. Anche qui il poliziotto mostra i pettorali unti, contornato di attrezzi per il body building. "Se querelate Ilaria Cucchi, dovrete querelare anche me", scrive Lucia Uva, lasciandosi andare a commenti amari verso chi "indossa quella divisa sporca del sangue dei nostri fratelli". Anche lei deve poi avvertire i commentatori: "Niente offese, tutti uniti con l’unico obiettivo della giustizia". "Non ci fermeremo", promette. Il "violentissimo pestaggio" di Stefano e le lezioni di galateo alla sorella Ilaria di Luigi Manconi Il Manifesto, 5 gennaio 2016 Caso Cucchi. Hanno oltraggiato per anni le vittime e i loro familiari. E ora sono tutti lì con il dito alzato. La voglia di mandarli al diavolo è irresistibile. Non è accaduto a me che uno stretto familiare trovasse la morte in un carcere o in una caserma o in un reparto psichiatrico. Dunque, non ho mai conosciuto l’incancellabile dolore provato da Ilaria Cucchi: e da Patrizia Moretti Aldrovandi, Claudia Budroni, Lucia Uva, Caterina Mastrogiovanni, Domenica Ferrulli, Natascia Casu, Donata Bergamini, dalla moglie di Riccardo Magherini, e dalla madre e dalla sorella di Riccardo Rasman e da altre ancora… E da parte di queste donne, nel corso di tanti anni, non una parola di vendetta, né una domanda di condanna esemplare, non una richiesta di rivalsa, né un’espressione d’odio. Tra quei familiari, paradossalmente, si ritrova una inesausta fiducia nella giustizia come in nessun’altra circostanza a me nota, nonostante tutto e tutti, e malgrado umiliazioni e frustrazioni senza fine. Dunque, non posso e non devo - e non voglio - valutare queste ultime affermazioni della sorella di Stefano Cucchi. Non ho alcun titolo morale per giudicare, pur precisando che personalmente non avrei scritto quelle parole, ma per un motivo: quello di non aver vissuto in prima persona un tale strazio. Se invece così fosse stato, la mia incrollabile fedeltà al garantismo e alle sue dure leggi probabilmente non mi avrebbe trattenuto dallo scrivere le parole di Ilaria Cucchi, dopo che la Procura di Roma ha definito un "violentissimo pestaggio" quello subito da Stefano. E la si potrebbe finire qui. Ma altre due considerazioni vanno aggiunte. Viviamo in un paese dove alcuni sindacalisti felloni e pavidi, che dicono di rappresentare le forze di polizia perché ne difendono gli esponenti più criminali, da anni oltraggiano i familiari delle vittime. E in un paese dove politici senza vergogna e senza Dio così hanno definito Stefano Cucchi: "tossicodipendente anoressico epilettico larva zombie"; e un pubblico ministero, responsabile della prima e sgangherata inchiesta sulla morte del giovane geometra, invece di perseguire i responsabili così parlava della vittima: "tossicodipendente da quando aveva 12 anni". E ora tutti questi sono lì, col ditino alzato e l’aria severa, che impartiscono lezioni di galateo a Ilaria Cucchi. È davvero irresistibile la voglia di mandarli, come minimo, al diavolo. Infine, qualche settimana fa, sul Post?.it, mi sono rivolto alla senatrice Roberta Pinotti, responsabile politico - per il suo ruolo di ministro della Difesa - dell’attività dell’Arma dei Carabinieri. Le ho ricordato che in una manciata di giorni si erano verificati tre episodi che vedevano coinvolti appartenenti all’Arma. Avevo precisato prudentemente che le tre vicende non erano direttamente collegate né rispondevano a una regia unitaria. Rientravano, bensì, insieme ad altri fatti non troppo dissimili, in un clima in una cultura, in una mentalità. Questi i tre fatti: le rivelazioni a proposito della fine di Stefano Cucchi; le testimonianze contro i carabinieri per il fermo e la morte di Magherini, a Firenze; la prescrizione di quasi tutti i reati a carico dei militari che avevano trattenuto illegalmente Uva, in una caserma di Varese. Ripeto: tre storie diverse, ma in ognuna di esse si manifestano la disponibilità all’abuso e alla violenza e una catastrofica imperizia, una rete di complicità e di vera e propria omertà all’interno di larghi settori dell’Arma, e una certa tendenza alla sudditanza psicologica da parte di ambienti della magistratura. Su tutto ciò - sul proliferare di episodi simili e sulla drammatica carenza di formazione civile e tecnica che rivelano - un intervento del ministro della Difesa sarebbe stato davvero opportuno: a tutela dei diritti dei cittadini e dei diritti della gran parte dei carabinieri perbene. Ma, a distanza di tanti giorni, non ho avuto, come si dice, un cenno di risposta. Il che ferisce il mio amor proprio, e poco male, ma soprattutto rivela una sensibilità non particolarmente affinata per questioni non certamente marginali. E noi siamo qui, pensosi, a discettare dello stile di Ilaria Cucchi. Caso Cucchi: ma i social non sono un tribunale o una gogna di Carlo Bonini La Repubblica, 5 gennaio 2016 La famiglia Cucchi merita il rispetto del Paese. E alla famiglia Cucchi, da sei anni, è ancora dovuto l’unico risarcimento possibile da parte di uno Stato che si voglia e non si dica soltanto di diritto. L’accertamento delle responsabilità di chi uccise Stefano. Per questo motivo, la scelta di Ilaria Cucchi di postare sul proprio profilo Facebook la foto di uno dei carabinieri accusati nella nuova inchiesta della Procura di Roma della morte del fratello è stato un errore. Perché è il cedimento umano, ma esiziale, a quella forma di violenza intollerabile e contagiosa come la peste che consegna un individuo ad un processo sommario. La stessa di cui Stefano è stato vittima da vivo e continua ad esserlo da morto. Ilaria è donna intelligente, non mossa dall’odio, e nel raccontare a Repubblica le ragioni di quella scelta ha dimostrato di comprendere subito quale confine quel post rischiasse di oltrepassare. E, del resto, oggi, ne misura lei per prima gli effetti perversi. In un diabolico capovolgimento delle parti, dovrà difendere se stessa e la sua famiglia in un tribunale (lei che in tribunale va chiedendo giustizia da sei anni) dalla querela per diffamazione dell’uomo accusato dell’omicidio di suo fratello. È uno spettacolo avvilente. Che dimostra cosa accada quando uno Stato di diritto non è in grado di spiegare a una famiglia per quale motivo le ha ammanettato un figlio sano per riconsegnarlo cadavere. E che interpella il convitato di pietra di questa vicenda. L’Arma e il suo comandante generale Tullio Del Sette. Il 12 dicembre, il generale Del Sette ha usato parole di vicinanza per i Cucchi, di condanna per quanto accaduto, salvo dirsi preoccupato per la "possibile delegittimazione di migliaia di carabinieri". Sarebbe stato più utile - e forse avrebbe fermato la mano di Ilaria - chiedere pubblicamente scusa (lo fece ad horas il Capo della Polizia Antonio Manganelli per Federico Aldrovandi e Gabriele Sandri, dimostrando di aver compreso la lezione del G8 di Genova). E non certo per anticipare o condizionare l’accertamento delle responsabilità da parte di un tribunale. Ma per le oscenità, le falsità e la consapevolezza dell’impunità documentate dalle intercettazioni a carico dei carabinieri oggi accusati dell’omicidio di Stefano. Sarebbe stato più utile informare il Paese e la famiglia Cucchi se quei carabinieri siano stati o meno sospesi dal servizio e per quali motivi il maresciallo Roberto Mandolini, dopo aver coperto i propri uomini e mentito in corte di assise inquinando la ricerca della verità, possa ancora oggi discettare sul proprio profilo Facebook su chi fosse Stefano Cucchi e cosa accadde la notte in cui cominciò a morire in una caserma dell’Arma. Facebook non è e non deve diventare né un tribunale, né una gogna. Ma chi veste un’uniforme, una toga o un camice bianco non si nascondano dietro il post di una donna che chiede solo di sapere chi le ha portato via il fratello. Cucchi, il carabiniere e le vie dell’ingiustizia di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 5 gennaio 2016 È una strada già percorsa indicare "responsabili" di un "omicidio di Stato". Una strada che non conduce alla giustizia, ma a nuove ingiustizie. Una strada che non ripara a un lutto, ma ne prepara altri. La storia non si ripete mai allo stesso modo; e in particolare i richiami agli anni Settanta sono sin troppo frequenti. Ma i post con le foto dei "colpevoli" sembrano davvero la versione digitale di gogne che negli anni di piombo, in un contesto ovviamente diverso, venivano costruite con le montagne di carta degli appelli, delle vignette, dei volantini. Non si assomigliano le vicende, si assomigliano i fenomeni, che crescono in modo esponenziale: non a caso, il giorno dopo che Ilaria Cucchi ha additato all’odio del web un carabiniere indagato per la morte del fratello, la sorella di un’altra vittima, Lucia Uva, ha fatto lo stesso con un poliziotto. Ed è un fenomeno da fermare. Per le stesse ragioni che ci hanno indotti e ci inducono ad appoggiare la battaglia di giustizia che Ilaria Cucchi ha portato avanti in questi anni. Il rispetto del corpo dell’arrestato è il fondamento dello Stato di diritto. Qualsiasi violazione va perseguita con rigore. Il caso Cucchi era stato liquidato con leggerezza. Solo la tenacia di una sorella e di una famiglia l’ha tenuto vivo. Ma la strada passa dai processi, non dai social network. Ilaria stessa l’ha scritto su Facebook: "Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello...". È davvero così: in questo modo ci si fa del male. E si rischia di farne involontariamente ad altri. È una tentazione, quella di vendicare o rivendicare in rete, cui anche uomini dello Stato hanno ceduto. E hanno sbagliato. Alcuni sono stati sanzionati, altri dovrebbero esserlo. Ma gli errori altrui, talora i crimini, non consentono il ricorso a una giustizia rapida ma sommaria come quella digitale. Resistere è difficile, in un Paese dove troppo spesso il male resta impunito. Ma resistere è sempre necessario. Ilaria Cucchi: "Mi dispiace per quei messaggi violenti. Ma non sono pentita" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 5 gennaio 2016 "Mi spiace per i messaggi violenti" arrivati dopo il post. "Se ho sbagliato si vedrà, ma non ho paura. Quelle conversazioni telefoniche per me sono prove schiaccianti" Ilaria Cucchi, s’è accorta di aver fatto un autogol, mettendo a rischio la battaglia per la verità sulla morte di suo fratello? "Io? No, perché?". Perché ha diffuso la foto di uno dei carabinieri inquisiti per il pestaggio di Stefano, esponendolo al pubblico ludibrio, e adesso quel carabiniere sostiene di aver ricevuto addirittura minacce di morte. "Questo mi rattrista e me ne rammarico, ma io mi sono dissociata appena sono comparsi i primi commenti violenti; così come sei anni fa con i miei genitori scendemmo in strada per prendere le distanze da chi aggrediva le forze dell’ordine e bruciava i cassonetti in nome di mio fratello. Abbiamo sempre detto che vogliamo giustizia, non vendetta". E non le pare esagerato definire un indagato per lesioni "quello che ha ucciso mio fratello", prima di un eventuale processo? "Le intercettazioni per me sono prove schiaccianti. Tra loro, senza che avessero motivo di mentire, gli inquisiti discutono delle strategie per avere la pena sospesa, usano quattro o cinque telefonini come fanno i banditi, uno insulta la ex moglie che gli ricorda di quando si vantava di aver picchiato Stefano... E in questi sei anni hanno taciuto, lasciando processare persone che sono state dichiarate innocenti". Ecco, anche questo è un problema: nel primo processo sostenevate la colpevolezza degli imputati poi assolti; non sarebbe consigliabile un po’ più di prudenza? "Di certo non avevamo gli elementi di oggi. I nuovi indagati, di fatto, confessano il pestaggio. E chi ha testimoniato al processo ha detto bugie. Il maresciallo Mandolini (inquisito per falsa testimonianza, ndr ), il quale ora si vanta per l’arresto di uno spacciatore che vendeva droga fuori dalle scuole dopo un esposto delle mamme, e di aver taciuto per rispetto ciò che Stefano gli avrebbe confidato sulla nostra famiglia, al processo disse tutt’altro. Perché? Forse pensavano di averla fatta franca, mentre ora si sentono alle corde e si difendono gettando fango su di noi". Questo giustifica la gogna per gli indagati? "Guardi che la vera gogna l’ha subita mio fratello, dopo essere stato ucciso. Io non ho mai detto che Stefano non aveva colpe, ma doveva essere giudicato ed eventualmente condannato, non pestato e lasciato morire. Scrivendo il messaggio non ho pensato al rischio di fomentare la violenza; volevo solo che l’immagine muscolosa e sorridente di quel carabiniere fosse messa a confronto con quella di Stefano. Era una foto già pubblica, lui l’aveva messa su Facebook e l’ha tolta solo l’altro ieri, non quando s’è saputo che è inquisito per il pestaggio. Il mio è stato uno sfogo contro chi non s’è limitato a picchiare, ma se n’è pure vantato". Quel carabiniere l’ha denunciata. "Non c’è problema: io non porto divise e mi assumo le mie responsabilità. Ma basta con le ipocrisie, sono stanca: hanno massacrato un ragazzo, poi hanno nascosto le prove arrivando a sbianchettare un registro ufficiale, hanno taciuto e mentito. E adesso querelano? Si vede che non hanno altra strada. Piuttosto mi chiedo come sia possibile che questi carabinieri, tra cui quello che medita di rapinare gli orafi se lo cacciano, siano ancora in servizio; che girino armati con le pistole di ordinanza". Il comandante generale Del Sette ha già definito grave la vicenda e promesso provvedimenti, mettendo però in guardia dal delegittimare l’Arma. Non si fida? "Certo che mi fido, l’ho sempre fatto e voglio continuare a farlo. Ma per non generalizzare e delegittimare tutti devono garantire fermezza. Non posso pensare che i tanti carabinieri onesti che ho conosciuto abbiano come colleghi persone che evidentemente credevano di godere dell’impunità, si sentivano protetti. Ecco, io temo la protezione, ma spero che non ci sia". Non credevate nemmeno che la Procura potesse arrivare a nuove incriminazioni... "Quando il procuratore Pignatone mi disse che non poteva promettermi nulla se non il massimo impegno l’ho frainteso, pensavo stesse mettendo le mani avanti. Invece lui e il pm Musarò hanno fatto un lavoro straordinario". Ora però contestate i periti scelti dal giudice per i nuovi accertamenti tecnico-legali. Come se voleste sempre qualcosa in più, o di diverso se non coincide con la vostra tesi. "L’accertamento sulle connessioni tra le percosse e la morte di Stefano è decisivo. Che posso fare se il mio stesso consulente denuncia il conflitto di interessi per uno dei nominati, già candidato per il partito dell’ex ministro La Russa che da ministro della Difesa assolse subito i carabinieri, e con legami professionali con i periti precedenti? Possibile che non si trovi qualcuno senza rapporti sospetti? Se in Italia non c’è lo andassero a cercare in Svizzera". Nessun pentimento, insomma? "Sinceramente no. Poi se ho sbagliato si vedrà. Io non ho paura, a differenza di altri". Il diritto di difendersi alza la mira di Maurizio Tortorella Panorama, 5 gennaio 2016 Nel 2015 tre casi hanno riaperto il dibattito sui limiti della legittima difesa davanti a una rapina o a un’aggressione. Nel 2016 i processi arriveranno in aula. E forse una legge. alla Camera. Il 2015 è stato anno di grandi polemiche sulla legittima difesa. Tre casi, in particolare, hanno agitato le cronache: quello di Graziano Staccino, il benzinaio che il 3 febbraio uccide uno dei due banditi che stanno rapinando la gioielleria che, oltre la strada, fronteggia la sua pompa a Ponte di Nanto (Vicenza); quello del pensionato Francesco Sicignano, che il 20 ottobre a Vaprio d’Adda (Milano) ammazza un albanese di 28 anni che gli era entrato in casa; quello di Rodolfo Corazzo, commerciante di preziosi di Rodano (Milano), che il 24 novembre ferisce mortalmente uno dei tre rapinatori che lo hanno malmenato e stanno minacciando sua moglie e sua figlia. Tutti e tre, e di qui le polemiche, sono stati indagati per omicidio volontario. Eventuali proscioglimenti o rinvii a giudizio arriveranno nei primi mesi di quest’anno. Ma arriveranno anche nuove polemiche. Forza Italia ha candidato Sicignano per le comunali a Milano, nella primavera 2016. E Nicola Molteni, deputato leghista, in dicembre ha presentato una proposta per modificare in profondità l’articolo 52 del Codice penale e rendere non punibile chi compie "un atto (anche un omicidio, ndr) per respingere l’ingresso di chi, con violenza o minaccia di uso di armi" penetra "in un’abitazione privata o in ogni altro luogo nel quale venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale". Insomma, si vuole andare ben oltre la riforma varata nel 2006 dal governo Berlusconi, che autorizzava il ricorso a "un’arma legittimamente detenuta o ad altro mezzo idoneo" per la difesa dell’incolumità, della casa e dei beni. La Lega ipotizza un sistema più duro, all’americana per intenderci. E forse anche una decisione del Quirinale segnala che la sensibilità sul tema sta cambiando. Il 13 novembre il capo dello Stato ha graziato Antonio Monella, un imprenditore che a Bergamo aveva ucciso un albanese che gli stava rubando l’auto : era stato condannato a 6 anni e due mesi di reclusione. Proprio per omicidio volontario. Abruzzo: Rems; la Regione ancora in ritardo, rischia di essere commissariata abruzzolive.it, 5 gennaio 2016 La Regione Abruzzo non solo è inadempiente e in forte ritardo rispetto alla realizzazione della nuova Rems, (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) che per legge 81/14 va a sostituire il vecchio ospedale psichiatrico giudiziario (Opg), ma adesso rischia seriamente di essere commissariata". Questa la denuncia del Presidente della commissione Vigilanza e consigliere regionale di Forza Italia Mauro Febbo. "Nel mese di ottobre - spiega Febbo - avevo già evidenziato attraverso una mia interrogazione come la Regione era ancora totalmente inadempiente ed in confusione nell’individuazione della struttura più idonea, sia quella definitiva sia quella temporanea, per collocare i detenuti con problemi psichiatrici. Ancora più imbarazzante è la delibera n. 2106 del Direttore Generale Giancarlo Silveri del 11 dicembre dove si evince come la Regione Abruzzo al 31.12 ancora non ha una struttura idonea da destinare a Rems. Infatti nel decreto del Direttore sanitario di Avezzano, Sulmona, l’Aquila si individua un immobile presso il Comune di Barete (Aq) che però deve ancora essere messo a norma e adeguato attraverso un preciso progetto con lavori da eseguire. Questo significa che i tempi di attivazione della struttura sono ancora lunghi e da definire. Pertanto - sottolinea Febbo - chiedo che venga immediatamente calendarizzata la mia interrogazione già dal prossimo Consiglio regionale dove l’assessore alle Politiche sanitarie Silvio Paolucci illustri sia come intenda evitare l’arrivo del Commissario ad Acta e soprattutto spieghi come mai la Regione Abruzzo ha atteso molto tempo nell’individuare la sede temporanea della Rems visto che vi erano già strutture idonee e pronte nella Asl di Chieti come evidenziato nella mia interpellanza. Forse - incalza Febbo - la Regione auspica l’arrivo del Commissario al fine di chiudere anche la vicenda del Garante dei detenuti. La Regione Abruzzo, che ha diversi suo pazienti in altre strutture fuori Regione adesso dovrà affrontare un costo di circa 150.000 euro di locazione presso la struttura di Barete, in attesa di chiarire dove e come stabilire una Rems definitiva. Un costo che poteva essere evitato visto la precedente programmazione sull’individuazione temporanea presso le strutture ospedalieri di Guardiagrele o Ortona invece dove ospitare detenuti ritenuti socialmente pericolosi. Infine - conclude Mauro Febbo - la Regione deve chiarire su un tema delicato e urgente e soprattutto chiarire il ritardo inspiegabile nel programmare l’avvio della Rems". Campania: l’assessore ai Fondi Europei Angioli in visita al carcere di S.M. Capua Vetere Ansa, 5 gennaio 2016 Visita questa mattina alla Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) dell’assessore regionale ai Fondi europei Serena Angioli e della consigliera regionale Pd Antonella Ciaramella. Insieme con la Comunità di Sant’Egidio e una delegazione del partito Radicale. In rappresentanza delle istituzioni regionali e accogliendo l’invito della Comunità di Sant’Egidio, "l’intento è tenere acceso un faro sulla condizione delle carceri della nostra regione in vista di una programmazione inclusiva e di misure attente ad innescare dinamiche migliorative della condizione carceraria", spiega la consigliera regionale Antonella Ciaramella che il 25 dicembre scorso si è già recata con la delegazione dei Radicali in visita al reparto ammalati della Casa Circondariale di Napoli Poggioreale. "Qui a Santa Maria Capua Vetere, in particolare nella sezione femminile - continua - abbiamo accolto più volte segnalazioni di disfunzioni sia sul versante strutturale sia su quello funzionale rispetto ai nuovi standard a cui devono uniformarsi le case di detenzione e pena. Abbiamo dunque aderito con favore e spirito di collaborazione con l’assessore regionale ai Fondi Europei Serena Angioli all’invito della Comunità di Sant’Egidio che è presente, in particolare nei giorni delle feste di Natale proprio nelle situazioni di maggiore marginalità". "Sempre di più, il carcere è utilizzato come discarica sociale - conclude Ciaramella - dove finiscono vecchi problemi irrisolti ed emergenze sociali. In Europa, l’Italia è "maglia nera" per diversi aspetti, come denuncia il Rapporto "L’Europa ci guarda", nel 2014 dall’ associazione "Antigone": il più alto tasso di detenuti in attesa di giudizio, di sovraffollamento, di suicidi in carcere". Roma: "Vale la pena", il birrificio ideato a Regina Coeli che ora la Ue prende a modello Vita, 5 gennaio 2016 È iniziata come una scommessa: si riesce a fare una birra artigianale di qualità dando lavoro a persone detenute nel carcere di Regina Coeli a Roma? Era il 2011, il sovraffollamento al massimo e le condizioni detentive molto dure. "Ma la scommessa è stata vinta: oggi il birrificio Vale la pena abbatte la recidiva, perché dà lavoro fisso a un coordinatore e una collaborazione a nove detenuti", che di giorno escono per lavorare grazie all’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. "Con 12 tipi di birra all’attivo, i giudizi talmente lusinghieri porteranno Vale la pena a presentarle a gennaio 2016 al prestigioso concorso Birra dell’anno", il top della categoria, spiega Paolo Strano, fisioterapista che da quando, quattro anni fa, si è recato per l’Asl a realizzare visite mediche carcerarie ha deciso che lì avrebbe dedicato le proprie ore di volontariato. Strano è ovviamente soddisfatto di quanto ha ideato assieme all’associazione Semi di libertà, di cui è presidente. "Da subito abbiamo notato l’interesse di tutti gli attori in gioco verso il progetto: abbiamo iniziato grazie a 108mila euro di fondi del ministero della Giustizia legati alla formazione dei detenuti e alla Scuola agraria Sereni che ha comprato l’impianto, costato 120mila euro". Nelle ultime settimane l’ulteriore salto di qualità, in particolare grazie ai 50mila euro arrivati, come finanziamento a tasso agevolato, dalla vittoria nel contest per start up Coltiva l’idea giusta, promosso da Make a Change e Ubi Banca. Con un nuovo, grande obiettivo: "lavorare sull’intera filiera della birra", specifica Strano, "partendo dalla coltivazione di luppolo e orzo, passando poi al processo di maltazione, birrificazione e infine alla mescita". Il tutto in cinque anni di business plan che prevede una specifica unità per passaggio di lavorazione: "in particolare, per la coltivazione, cerchiamo terreni pubblici da utilizzare anche in comodato, nel frattempo le materie prime le procuriamo da cooperative sociali che includono detenuti e da quelle del circuito di Libera". Le ultime intense settimane hanno portato anche alla nuova creazione birraria di Vale la pena (qui la pagina facebook del birrificio), lanciata sotto Natale: "Si chiama Sèntite Libbero, alla romana, la materia prima viene da una condotta di slow food con cicorie spontanee, una birra come si faceva quando il luppolo non veniva ancora utilizzata". Sotto le feste, infine, l’annuncio di una lieta novità: "siamo tra i 20 innovatori sociali chiamati alla Commissione europea a Bruxelles a raccontare la propria esperienza e proporre un modello scalabile, il 4 febbraio 2016 nell’evento Transition", sottolinea Strano. Firenze: Sel; nel carcere di Sollicciano una situazione vergognosa di Gerardo Adinolfi La Repubblica, 5 gennaio 2016 Parlamentari e consiglieri della sinistra toscana hanno incontrato le detenute del penitenziario fiorentino. "Un quadro vergognoso e inaccettabile a fronte del quale la Sinistra intende promuovere in Parlamento, in Consiglio regionale e in Consiglio comunale azioni atte a risolvere la vergogna di Sollicciano". La Senatrice di Sel Alessia Petraglia con la deputata Marisa Nicchi, i consiglieri regionali Tommaso Fattori e Paolo Sarti e il consigliere comunale Tommaso Grassi hanno incontrato, dopo la lettera-denuncia e il sopralluogo dello scorso 30 dicembre, le detenute della sezione femminile e alcuni operatori dell carcere fiorentino di Sollicciano. "Vogliamo far emergere - hanno annunciato i rappresentanti istituzionali della sinistra in Toscana - in maniera chiara le responsabilità politiche del perdurare di questa situazione". Un "incontro urgente col provveditore regionale del Dap Cantone e con la direttrice Giampiccolo per tentare di eliminare le carenze strutturali e di vivibilità a Sollicciano" è stato anche richiesto dal referente dell’Osservatorio carcere della Camera Penale di Firenze, l’avvocato Luca Maggiora, dopo la visita natalizia dei Radicali all’istituto di pena fiorentino e la lettera-denuncia al Garante dei detenuti - "viviamo peggio degli animali" - scritta a fine anno dalle donne carcerate. Parma: parlamentari in carcere per ispezionare nuovi spazi per detenuti parmaquotidiano.info, 5 gennaio 2016 Nelle festività natalizie i deputati Giuseppe Romanini, Patrizia Maestri e il senatore Giorgio Pagliari hanno effettuato la visita in carcere. Accompagnati dal direttore Carlo Berdini hanno preso visione di alcuni reparti fra cui la media sicurezza, gli ambiti sanitari e le nuove zone realizzate con un progetto dell’istituto di pena e sostenuto da Fondazione Cariparma. Si tratta alcune innovazioni tese a migliorare la vita interna alla struttura e ad offrire più possibilità di reinserimento a fine pena. Una riguarda la creazione di nuovi spazi all’aperto che consentono ai detenuti di rendere più agevoli i momenti di colloquio con i propri familiari, in particolare con i minori, al fine di attenuare l’impatto traumatico col contesto detentivo. Un’altra comporta la realizzazione di un laboratorio-cucina nel quale attivare corsi di formazione professionale in grado di dare ai detenuti un profilo spendibile una volta tornati in libertà, attraverso percorsi di tirocinio messi a disposizione dal Comune di Parma e dalla Regione Emilia-Romagna con misure di welfare per l’integrazione delle persone provenienti da circuiti penali. Infine il progetto da realizzarsi con privati al quale l’amministrazione carceraria ha dedicato un grande spazio-manifattura, un settore di produzione vero e proprio in grado di garantire ai detenuti un minimo di reddito da lavoro e di accompagnarli, ancora una volta, in percorsi professionalizzanti spendibili a fine pena. "Ogni volta che torniamo in carcere troviamo conferma della grande complessità della gestione dell’istituto di Parma in cui sono presenti tante diverse problematiche - spiegano i parlamentari Romanini, Maestri e Pagliari. Le innovazioni che si stanno facendo sotto il profilo della qualità della vita dei detenuti e del lavoro sono positive, perché costituiscono la base per una vera riabilitazione e integrazione dei detenuti trovando sinergie tra il carcere e la comunità esterna. Ha fatto anche piacere riscontrare che sta trovando soluzione un problema segnalatoci lo scorso anno circa il dimensionamento dei posti ricovero ospedalieri dedicati, tema risolto con la collaborazione delle aziende sanitarie. Resta il problema già alla nostra attenzione, relativo alla sezione Alta Sicurezza AS1 evidenziatosi dopo il trasferimento di detenuti dal carcere di Padova. È una questione che abbiamo posto in una lettera al Ministro segnalando i rischi per il carico sanitario, già molto rilevante nella struttura, e per la mancanza di prospettive per le attività trattamentali". Nel corso della visita, durata un paio d’ore, i Parlamentari hanno parlato con operatori carcerari, soprattutto del tema della persistente carenza di organico, e con alcuni detenuti, ascoltando le loro osservazioni e scambiandosi gli auguri. Catania: carceri ancora sovraffollate, oggi delegazione Radicale in visita a Bicocca radicali.it, 5 gennaio 2016 Nell’ambito della mobilitazione promossa dal Partito Radicale, domani 5 gennaio 2016, a partire dalle 10.30, una delegazione composta da Luigi Recupero, Patrizia Magnasco, Stefano Burrello, Daniela Basile e Gianmarco Ciccarelli effettuerà una visita nella casa circondariale di Catania Bicocca. La casa circondariale di Bicocca con i suoi 225 reclusi in 138 posti teorici si conferma uno degli istituti più affollati dell’isola con un tasso del 163% della capienza effettiva. La situazione si è ulteriormente deteriorata rispetto alla nostra indagine del ferragosto del 2014. La delegazione farà il punto sulle criticità già riscontrate in precedenti visite e denunciate in documenti e con un’interrogazione parlamentare. All’ingresso della delegazione, alle 10,30 circa, avrà luogo una conferenza stampa, successivamente verrà emanato un comunicato contenente le risultanze della visita. Siracusa: l’arcivescovo Pappalardo ieri si è recato in visita ai detenuti siracusanews.it, 5 gennaio 2016 Ieri mattina, intorno alle ore 9, l’arcivescovo di Siracusa Salvatore Pappalardo, si è recato in visita alla Casa Circondariale di Siracusa portando un messaggio di misericordia. Al suo arrivo, è stato accolto dal direttore A. Lantieri, dal comandante di reparto E. Buscemi, dal cappellano Frate Francesco, nonché da una rappresentanza del Corpo di Polizia Penitenziaria e dell’Area Trattamentale, i quali lo hanno accompagnato nel corso della visita. Monsignore Pappalardo ha incontrato gli "ospiti" della C.C. Siracusa - visitando le sezioni di Alta Sicurezza e Media Sicurezza - recandosi sia presso i relativi piani detentivi che nei cortili passeggio. Percorrendo in tal modo l’intera struttura, è giunto sin al Blocco 10, reparto il cui piano terra è destinato all’ubicazione di soggetti con particolare problematiche sanitarie e\o comportamentali-psicologiche e nel quale i due piani superiori sono "a regime aperto" e vi sono allocati i detenuti lavoranti. Proseguendo la sua visita, l’arcivescovo si è soffermato sull’importanza della rieducazione e del reinserimento esterno; ha portato il proprio saluto e la sua benedizione anche a coloro i quali si trovavano a svolgere attività lavorativa nei locali della cucina-detenuti, della tessitoria e del biscottificio "Dolci Evasioni" gestito dalla Coop. Sociale "L’Arcolaio" che da molti anni si occupa dell’inclusione sociale dei detenuti curando non solo l’aspetto professionale ma anche e soprattutto l’aspetto umano. Successivamente, Pappalardo, ha incontrato i detenuti "protetti", che partecipano ad un gruppo terapeutico condotto dall’esperta esterna psicologa e dal capo area trattamentale, nella Biblioteca della sezione di Media Sicurezza che ha il fine di prevenire la recidiva dei reati di pedofilia. Infine, prima di congedarsi ha visitato il Blocco 30, reparto a regime aperto, dove al piano terra si trova il polo scolastico-trattamentale del circuito di Media Sicurezza ed al I piano vi è un reparto detentivo a "sorveglianza dinamica". Qui i ristretti trascorrono buona parte della giornata al di fuori delle celle detentive in quanto impegnati in attività lavorative, scolastiche, professionali e laboratoriali. Pappalardo ha espresso il proprio compiacimento per l’attività religiosa svolta dal cappellano dell’Istituto Frate Francesco, paragonandolo a San Felice da Nicosia, in quanto offre a tutti un’opportunità di riscatto spirituale e morale, di realizzazione piena della nostra umanità. Cuneo: oggi il vescovo di Saluzzo celebra il "Giubileo dei carcerati" targatocn.it, 5 gennaio 2016 Nella locale casa circondariale "Rodolfo Morandi". Ad aprire la celebrazione il "Coro Hope" della Diocesi, diretto da Enrico Miolano. I detenuti accederanno al locale passando attraverso la "Porta della misericordia". Camminando nel solco tracciato da Papa Bergoglio che, sin dal giorno della sua elezione al trono di Pietro, ha invitato la Chiesa a guardare più ai poveri ed agli emarginati che non ai salotti-bene della società, il vescovo di Saluzzo monsignor Giuseppe Guerrini celebrerà oggi pomeriggio - martedì 5 gennaio - all’interno del carcere "Rodolfo Morandi" la giornata dedicata al "Giubileo dei carcerati", coadiuvato dai cappellani della casa circondariale don Stefano Aragno, don Giuseppe Arnaudo e don Massimo Rigoni. Alla giornata, il cui inizio è previsto per le ore 17, parteciperanno una nutrita rappresentanza della popolazione carceraria e della Polizia Penitenziaria in servizio nel non sempre facile carcere saluzzese. Per accedere al locale designato ad ospitate la celebrazione, i detenuto passeranno attraverso la cosiddetta "Porta della Misericordia": un attimo durante il quale riceveranno da Guerrini la benedizione ed un’icona a ricordo di questo Giubileo. La celebrazione sarà introdotta ed animata dal "Coro Hope" della Diocesi di Saluzzo, composto perlopiù da studenti che già fanno parte delle corali delle tante parrocchie sparse sul territorio e diretto dal maestro Enrico Miolano. Immigrazione. Svezia e Danimarca chiudono le frontiere di Carlo Lania Il Manifesto, 5 gennaio 2016 La decisione presa per arginare il flusso di migranti. Silenzio dell’Ue ma Berlino lancia l’allarme: "Schengen in pericolo". Il 2016 comincia con un’Europa che si chiude sempre più al suo interno. Nel tentativo di fermare il flusso di migranti in arrivo dalla vicina Danimarca, ieri la Svezia ha deciso di ripristinare i controlli alla frontiera e chiesto all’Ue l’esenzione temporanea dal trattato di Schengen. Poche ore dopo e, come in una specie di domino, è stata Copenhagen a decretare la chiusura fino al 14 gennaio del confine con la Germania. Una decisone dettata dalla paura di vedere i migranti entrare nel suo territorio e - data l’impossibilità di poter proseguire verso la Svezia - restarci per chissà quanto tempo. Ipotesi vista come il fumo negli occhi dal governo di centrodestra guidato dal premier Lars Lokke Rasmussen e sostenuto esternamente del Partito del Popolo, formazione che deve il suo successo elettorale (il 21% alle passate elezioni di giugno) proprio alle forti posizioni anti-immigrati. Le decisioni assunte dai governi svedese e danese preoccupano Berlino, dove non si manca di sottolineare come il trattato di Schengen sia ormai sempre più in pericolo. Dopo 55 anni (l’ultima volta accadde negli anni ‘60) da ieri la libera circolazione tra Svezia e Danimarca è dunque sospesa. Chiunque voglia entrare nel paese scandinavo dovrà mostrare i documenti sia che viaggi in traghetto che in pullman all’entrata del ponte di Oresund che collega Copenaghen con la città svedese di Malmo. Chi viaggia in treno dovrà invece cambiare all’aeroporto di Copenaghen. Chi verrà trovato senza documenti verrà rimandato indietro. A pagare per le conseguenze delle nuove misure restrittive non saranno però solo i migranti, ma anche le migliaia di pendolari che ogni giorno attraversano il confine e che già ieri hanno dovuto attendere fino a 50 minuti prima di poter raggiungere il proprio posto di lavoro. La decisione della Svezia di chiudere le proprie frontiere è tutt’altro che un fulmine a ciel sereno. Segnali di un imminente giro di vite non sono infatti mancati, termometro tangibile di un Paese che ha messo definitivamente alle spalle l’accoglienza che lo aveva caratterizzato in passato: leggi più severe nei confronti dei richiedenti asilo, controlli dei documenti e sospensione temporanee di Schengen si sono alternate in maniera sempre più frequente negli ultimi mesi. Lo stesso stop delle ultime ore era in qualche modo prevedibile. Proprio ieri, infatti, è entrata in vigore la nuova legge che impone alle società di trasporto svedesi di controllare che tutti i suoi passeggeri siano in possesso di un documento valido, prevedendo multe in caso di inadempienza. Un lavoro enorme, tanto da spingere le Sj, le ferrovie di stato svedesi, a interrompere i collegamenti da e per la Danimarca fino a quando non verrà trovata una soluzione. Due, principalmente, le cause che hanno spinto Stoccolma a chiudersi: la crisi dei migranti, che nel 2015 ha provocato un’inedita crescita degli arrivi e delle richieste di asilo, salite a 150 mila. E la paura del terrorismo, ulteriormente cresciuta dopo gli attacchi di Parigi ma alimentata anche dalla possibilità che tra i profughi possano nascondersi possibili terroristi e dalla consapevolezza che 300 cittadini svedesi - stando alla cifra fornita a novembre scorso dal premier Stefan Lofven, si sono recati in Siria per combattere con l’Is e di questi 120 hanno fatto rientro nel paese. Comunque sia, la decisione di ripristinare i controlli alla frontiere presa da Svezia e Danimarca rappresentano un ulteriore colpo al trattato di Schengen e, di conseguenza, all’Unione europea. Che accusa il colpo e fino a ieri sera evita qualunque commento. Ma la preoccupazione per la sorte di uno dei suoi principi fondativi a 30 anni dalla sua nascita (venne siglato nel 1985 nell’omonima città lussemburghese), resta altissima. Per evitare il peggio da settimane a Bruxelles si lavora a una revisione in senso restrittivo del trattato insieme a possibili iniziative per proteggerlo dagli attacchi dei parti nazionalisti. La Commissione europea ha esteso il controllo dei documenti anche ai cittadini comunitari in entrata e in uscita dalle frontiere esterne dell’Ue, ed è stata proposta anche l’istituzione di una guardia costiera e di frontiera europea capace di intervenire in aiuto delle polizie nazionali. Ma anche provando a esternalizzare i confini dell’Ue grazie a trattati come quello siglato con la Turchia o con alcuni paesi africani perché impediscano ai profughi di mettersi in viaggio verso l’Europa. L’idea è quella di creare una sorta di "rete di sicurezza", per dirla con le parole usate dal vicepresidente della commissione Ue Frans Timmermans, che metta in salvo Schengen e con esso l’esistenza stessa dell’Unione europea. Fino a quando, però, non si sa. Mondo postamericano, uno scenario nuovo in cui cresce l’instabilità di Paolo Valentino Corriere della Sera, 5 gennaio 2016 La diminuzione progressiva del ruolo globale degli Usa potrebbe anche non essere un fatto negativo. Ma per ora domina un caos devastante e carico di presagi sinistri. "Uno dei rischi del mondo postamericano - non si stanca mai di ripetere Fareed Zakaria - è che le potenze regionali diventano più importanti, ma non per questo si comportano in modo più strategico o più saggio". L’assunto trova plastica e drammatica conferma nello scontro tra Iran e Arabia Saudita, assurto nell’arco di pochi giorni a conflitto geopolitico con una forte componente di settarismo religioso in una delle aree più instabili del pianeta. Il Grande Medio Oriente, quello emerso dal crollo dell’Impero Ottomano e sopravvissuto con qualche scossone per quasi cento anni, è in piena liquefazione. Dopo decenni di stagnazione autoritaria, scandite da fasi di repressione e guerre fra gli Stati della regione, il vecchio ordine è entrato in una fase di cambiamenti tettonici e distruttivi, di cui al momento è impossibile immaginare l’esito. Siria, Libia, Iraq e Yemen sono ormai soltanto campi di battaglia, pozzi di morte e fonti di milioni di profughi. Il terrore jihadista controlla intere province e manovra da lontano le sue cellule assassine in Occidente. Nessun Paese mediorientale appare immune da una qualche forma virale di instabilità, siano la volatilità dei confini, la crisi dell’autorità statale o lo scontro etnico: non l’Egitto, non la Turchia, il Libano, la Giordania o i ricchi Emirati del Golfo. La doppia lacerazione religiosa, quella sciita-sunnita e quella interna al mondo sunnita tra islamisti e secolaristi, aggiunge due esplosive torsioni settarie, evocando i fantasmi di una guerra di religione, versione levantina della Guerra dei Trent’anni, che vide cattolici e protestanti dilaniarsi per la supremazia in Europa nel Diciassettesimo secolo. Ora, che all’origine di questo impazzimento ci sia o meno l’intervento americano in Iraq nel 2003, come alcuni sostengono, è in fondo di relativa importanza. È di una certa efficacia in proposito, il sillogismo di un ex sottosegretario di Stato dell’Amministrazione Obama, Philip Gordon, quando ricorda: "In Iraq siamo intervenuti e abbiamo occupato e il risultato fu un costoso disastro; in Libia siamo intervenuti ma non abbiamo occupato e il risultato è stato un costoso disastro; in Siria non siamo intervenuti e non abbiamo occupato e il risultato è un costoso disastro". Certo, non è detto che la crisi libica e quella siriana si sarebbero prodotte, in assenza del "peccato originale" iracheno. Ma il punto di Gordon è che gli Stati Uniti non possono essere ritenuti i principali, men che meno i soli responsabili dell’attuale caos mediorientale e soprattutto non posseggono più tutte le leve strategiche per risolvere da soli le emergenze della regione. È sicuramente improprio parlare di assenza americana dal Medio Oriente. Dall’accordo nucleare con l’Iran, ai tavoli negoziali avviati per Siria e Libia, dai raid aerei contro Isis-Daesh agli attacchi mirati con i droni antiterrorismo, gli Stati Uniti sono ancora protagonisti a tutto campo. Ciò che è cambiato è l’approccio: l’Amministrazione ha scelto di fare il cosiddetto "offshore balancing", l’equilibrio da lontano, escludendo operazioni di terra e ricostruzione di nazioni e cercando di coinvolgere maggiormente gli attori regionali. Ma come spiega Zakaria, potenze regionali più attive non significa necessariamente più responsabili, anzi. Inoltre ha comportato un prezzo l’aver escluso, fosse pure solo come deterrenza, la piena opzione militare. Tanto più se, in corso d’opera, la Casa Bianca ha commesso errori gravi di applicazione, come quando nell’estate 2013 il presidente Obama tracciò l’infausta linea rossa contro Assad, minacciando di intervenire se avesse usato le armi chimiche, salvo poi ignorarla e farsi salvare in corner dall’interessata mediazione russa. È in primo luogo una questione di percezione: avvertendo distante o distratta la Superpotenza amica, il turco Erdogan autorizza la stolta bravata di far abbattere un caccia russo. E oggi, vedendo un’America meno determinata o addirittura più vicina verso Teheran in virtù dell’intesa nucleare, l’Arabia Saudita si consente un gesto incendiario come la pubblica esecuzione di un imam sciita e addirittura la rottura delle relazioni diplomatiche di fronte alle proteste iraniane. A venir progressivamente meno è cioè il ruolo globale degli Stati Uniti. In teoria potrebbe anche non essere negativo, se ci fosse una vera e robusta governance multilaterale, specie in una regione così volatile come il Medio Oriente. Ma non siamo, o non siamo ancora, a questo. Nel mondo postamericano, per adesso, domina un caos devastante e carico di sinistri presagi. L’assalto a Charlie Hebdo e la minaccia permanente di Marco Imarisio Corriere della Sera, 5 gennaio 2016 Quella mattina nessuno sapeva bene dove fosse la redazione del giornale. Nel gennaio del 2015 Charlie Hebdo rischiava di chiudere nell’indifferenza generale. Il suo nome era ormai considerato sinonimo di una stagione e di polemiche ingombranti, che non avevano quasi più ragion d’essere. Le vignette cosiddette blasfeme su Maometto, le polemiche e le minacce erano state derubricate a vicenda unica e particolare, opera di eterni bambini, considerati da molto tempo provocatori di professione e come tali tollerati. Così, quando accadde, lo sbigottimento si mischiò ben presto all’illusione che la strage del 7 gennaio, e quella troppo spesso dimenticata di due giorni dopo in un negozio di alimentari gestito e frequentato da ebrei, fossero le conseguenza di un passato recente, episodi a loro modo circoscritti che facevano parte comunque della nostra epoca, di qualcosa che avevamo già visto e conoscevamo. Il tormentone solidale di Je suis Charlie, la bellissima marcia repubblicana della domenica seguente, il dibattito che si aprì sulla libertà d’espressione senza che però nessuno trovasse la forza di ripubblicare e rimostrare le vignette che erano costate la vita ai loro autori, furono reazioni che si inserivano in un percorso noto, su una strada che sembrava già battuta e preludeva al ritrovamento di una normalità mai, neppure per un istante, messa in discussione. Ci sono voluti undici mesi per capire che non è stata solo una illusione ma anche un errore. Gli attacchi del 13 novembre, la mattanza al Bataclan e nei ristoranti dell’undicesimo arrondissement, hanno reso evidente il fatto che la strage di Charlie Hebdo non era uno scampolo di passato ma di futuro, l’anticipo di un mondo nuovo nel quale per forza di cose siamo impreparati a vivere, dove non sappiamo come reagire agli eventi e soprattutto non abbiamo idea di come difenderci. I segni erano evidenti, anche quelli della nostra inadeguatezza, a cominciare dalla scoperta che i servizi di sicurezza, francesi e non solo, erano vasi non comunicanti, che tenevano per sé informazioni sensibili, senza condividerle con i colleghi stranieri e al loro interno, non sappia la mano destra cosa fa la sinistra, e viceversa. L’onda emotiva fu imponente ma tutto sommato di breve durata, si trasformò presto in risacca. La paventata adozione di una specie di Patrioct act alla francese destò reazioni sdegnate e unanimi sui media e venne subito rimandata a data da destinarsi nella soddisfazione generale. Il riflesso pavloviano di attribuire tendenze fasciste e islamofobe a chi contestava un rapido ritorno al politicamente corretto riprese ben presto piede. E la generale voglia di rimozione portò a non dare il giusto peso alla replica in minore di Charlie Hebdo avvenuta a Copenaghen il febbraio seguente, al rosario di attentati falliti o sventati che continuavano a moltiplicarsi in giro per l’Europa, persino ai rari e sparuti allarmi che giungevano dai servizi segreti del Belgio, non proprio un modello di efficienza. Gli indizi di un nuovo e più invasivo terrorismo erano ben disposti sul nostro tavolo, mancava però la voglia di vederli. C’era anche l’alibi, in fondo è stato più facile pensare che il fulmine aveva colpito laddove ci si aspettava che colpisse, tra quei "masochisti" un po’ blasfemi di Charlie Hebdo, la definizione tra virgolette è di Daniel Cohn-Bendit, ma si tratta solo di una tra le tante. I mesi seguenti alla strage del 7 gennaio hanno rappresentato la conferma della nostra incapacità di convivere con il pensiero fisso di una minaccia che non da oggi si è rivelata permanente. Certo, con il senno di poi si può sempre dire tutto. Forse non sarebbe cambiato nulla, forse ci saremmo dentro ugualmente, come poi è avvenuto. Ma Charlie Hebdo non è stata soltanto una strage. È stata anche una occasione perduta. Stati Uniti: più controlli e agenti, stretta di Obama sulle armi di Francesco Semprini La Stampa, 5 gennaio 2016 Il piano in 10 punti contro le pistole facili: i venditori dovranno avere un’apposita licenza (anche per l’attività online) e condurre controlli sugli acquirenti. Detto fatto. Barack Obama non perde tempo e da seguito a quanto promesso il primo giorno dell’anno avviando da subito il giro di consultazioni per porre limiti severi alla vendita di armi da fuoco negli Stati Uniti. L’ultima crociata del presidente contro la circolazione selvaggia di fucili e pistole ha avuto inizio in un incontro con il ministro della Giustizia, la vice Sally Yates, il direttore dell’Fbi, James Comey, e il numero due del Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives Deputy Director Thomas E. Brandon. La riunione degli stati generali è avvenuta ieri alla Casa Bianca, e secondo programma l’annuncio ufficiale arriverà alle 11.40 le (17 e 40 in Italia) dalla East room di Pennsylvania Avenue. Il presidente poi interverrà giovedì sera in diretta tv a un dibattito dedicato proprio al controllo delle armi, in coincidenza del secondo anniversario dell’attentato alla deputata Gabrielle Giffords. Un piano in dieci punti quello di Obama incentrato sul potenziamento dei "background check", i controlli preventivi estesi a tutti, affiancati da un impegno consistente per affrontare il problema anche in tema di salute mentale. Il focus è sui rivenditori di armi da fuoco: che operino online, al dettaglio o nelle molto frequentate fiere di settore, saranno tutti obbligati a detenere un’apposita licenza per la vendita e a condurre accurati controlli e verifiche su tutti gli acquirenti. Il presidente dispone inoltre che l’Fbi incrementi del 50% il suo personale dedicato a condurre tali verifiche, con l’assunzione di oltre 230 nuovi esaminatori. Obama chiede al Congresso di disporre un finanziamento pari a 500 milioni di dollari per affrontare il problema anche sul piano della salute mentale. Un piano che, nelle parole di Obama, potrebbe "salvare vite", anche se non elimina del tutto il problema dei crimini violenti in America. La sfida alle armi core anche sui social. La Casa Bianca lancia l’hashtag #stopgunviolence per supportare l’iniziativa di Obama. "La lobby delle armi può tenere in ostaggio il Congresso, ma non può tenere in ostaggio l’America. Non possiamo accettare questa carneficina nelle nostre comunità", scrive il presidente. Obama, al via la stretta sulle armi in Usa: oggi i primi provvedimenti La Repubblica, 5 gennaio 2016 Duecento nuovi agenti dell’ATF, l’agenzia preposta al controllo delle armi, 500 milioni di dollari per i controlli sulla salute mentale degli acquirenti, verifiche obbligatorie preventive su precedenti penali e sanità psico-fisica di chi acquisterà armi e dei venditori, estensione di tali verifiche anche agli acquisti on line e ai commercianti sul Web. Casa Bianca lancia hashtag: #stopgunviolence. Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama annuncerà oggi dalla East Room della Casa Bianca i dettagli di quella stretta sulle armi che è determinato a realizzare, scavalcando il Congresso, che accusa di inerzia, e usando i suoi poteri esecutivi. La conferma giunge dalla stessa Casa Bianca, insieme con i primi dettagli sul piano messo a punto dall’amministrazione. E dopo mesi in cui il presidente Usa non ha mai mancato di sottolineare, all’indomani di stragi come quelle di San Bernardino e nei campus universitari, l’esigenza di modificare le normative sulla detenzione delle armi in Usa, Obama passa all’attacco. "La lobby delle armi può forse tenere in ostaggio il Congresso, ma non può tenere in ostaggio l’America. Non possiamo accettare queste carneficine nelle nostre comunità", ha twittato il presidente. Il piano in 10 punti per il controllo delle armi da fuoco negli Stati Uniti potrebbe "salvare vite", dice il presidente. Dopo un lungo braccio di ferro con il Congresso rimasto immobile, il presidente ha deciso di scavalcarlo, facendo ricorso a quei poteri esecutivi che sono sua prerogativa, inaugurando così l’ultimo anno del suo mandato. La Casa Bianca conferma per oggi, martedì, l’annuncio dalla East Room della residenza presidenziale, e rivela i dettagli fondamentali del provvedimento, incentrato sul potenziamento dei controlli cosiddetti di ‘background’, affiancati da un impegno consistente per affrontare il problema anche in tema di salute mentale. Un piano che, nelle parole di Obama, potrebbe "salvare vite", anche se non eliminare del tutto il problema dei crimini violenti in America. Il focus è sui rivenditori di armi da fuoco: che operino online, al dettaglio o nelle molto frequentate fiere di settore, saranno tutti obbligati a detenere un’apposita licenza per la vendita e a condurre accurati controlli e verifiche sugli acquirenti ("background check"). Il presidente dispone inoltre che l’Fbi incrementi del 50% il suo personale dedicato a condurre tali verifiche, con l’assunzione di oltre 230 nuovi esaminatori. Obama chiede al Congresso di disporre un finanziamento pari a 500 milioni di dollari per affrontare il problema anche sul piano della salute mentale. Sembra una risposta a chi sottolinea come in gran parte delle numerose stragi americane le armi vengano usate da persone affette da disturbi mentali. Il presidente chiede anche ai dipartimenti di Difesa, Giustizia e Sicurezza Interna di condurre, sostenere e sponsorizzare la ricerca in ambito di tecnologia per la sicurezza delle armi. Sono passi "ragionevoli", ribadisce la Casa Bianca, dopo che lo stesso Obama ha sottolineato che le sue decisioni "sono pienamente nell’ambito dei miei poteri e coerenti e in linea con il secondo emendamento della Costituzione Usa, sulla libertà di portare armi". Tra i primi provvedimenti che il presidente degli Stati Uniti annuncerà, scavalcando anche l’opposizione trasversale di Repubblicani e Democratici, ci sono l’assunzione di 200 nuovi agenti dell’ATF, la branca specializzata nella lotta alla diffusione delle armi, il rafforzamento delle indagini preliminari (che diventeranno obbligatorie) prima di permettere ad un cittadino americano di acquistare armi, l’estensione di tali accertamenti anche per gli acquisti fatti sul Web e corsi di formazione per gli agenti di polizia che sono chiamati spesso ad intervenire per dispute familiari o violenze domestiche. Saranno anche estesi i controlli per la cessione di armi tra familiari: in pratica, l’acquisto di un’arma da parte di un genitore sarà subordinata alla non cessione di essa ai figli o ad altri parenti, se non previo accertamento dei requisiti mentali e legali della persona a cui sarà data. Circa 30.000 persone vengono uccise da armi da fuoco negli Stati Uniti ogni anno. La generalizzazione del controllo sulla storia giudiziaria e psichiatrica prima di acquistare un’arma è il cuore della gamma di misure che l’esecutivo ha svelato nelle sue linee principali lunedi sera. Secondo Obama, "questo non impedirà tutti i crimini violenti, sparatorie, ma potenzialmente permetterà di salvare vite umane in questo paese". Dopo sette anni in cui il presidente Usa non ha potuto che esprimere la sua frustrazione dopo le stragi avvenute, Obama ha deciso di agire da solo contro un Congresso dominato dai repubblicani. In tal modo, ha posto questo dibattito al centro della campagna presidenziale in corso. Ma si è esposto anche alle critiche al suo modo di esercitare il potere, come denunciano gli oppositori. L’Esecutivo intende in particolare tappare falle nel sistema attuale chiarendo la definizione di un trafficante d’armi. Nel viaggiare per fiere, ma anche su internet, è davvero facile oggi negli Stati Uniti acquisire una arma senza i controlli richiesti invece dagli armaioli approvati dalle autorità federali. "Ogni persona coinvolta nella vendita di armi che utilizza per questo Internet o altre tecnologie deve avere una licenza esattamente uguale a quella di un negozio tradizionale", sottolinea in particolare il presidente Usa. La Casa Bianca ha rilevato che, nonostante i difetti esistenti, l’attuale sistema di controllo dei precedenti ha contribuito, nel corso degli ultimi 15 anni, a bloccare la vendita di circa due milioni di armi da fuoco che potevani cadere in "cattive mani". E ritiene pertanto coerente rafforzare tali sistemi di controllo. La prima reazione alla decisione del presidente Usa di intervenire autonomamente sulla vicenda delle troppe armi circolanti negli Stati Uniti viene dalla candidata alle presidenziali del 2016, Hillary Clinton: "Orgogliosa del piano Obama". "Le decisioni del presidente sulle armi rappresentano una vittoria importante per la sicurezza pubblica", ha aggiunto su Twitter l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg, da lungo tempo impegnato in questa lotta. Stati Uniti: centinaia di figli di militari vittime di abusi sessuali Il Gazzettino, 5 gennaio 2016 Ogni anno, centinaia di bambine e bambini figli di membri delle forze armate Usa sono vittima di abusi sessuali, soprattutto da parte di militari, ma anche da parte di membri delle loro stesse famiglie. È quanto emerge dai dati raccolti dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e forniti in esclusiva alla Associated Press. In base a tali dati, i casi accertati di abusi sessuali commessi da militari tra gli anni fiscali 2010 e 2014 ammontano ad almeno 1.584. I casi che riguardano i bambini sono 840, dei quali 332 commessi da parenti delle stesse vittime. Gran parte degli aggressori erano uomini con il grado di sottufficiale, mentre in 49 casi sono stati coinvolti degli ufficiali. In almeno 160 casi, inoltre, le vittime potrebbero aver subito ripetutamente abusi, nell’arco del periodo compreso tra il 2010 e il 2014. Le età degli aggressori e delle vittime, così come il luogo delle aggressioni e le autorità a cui è stata presentata la denuncia sono omesse nei dati resi noti. Il Dipartimento della Difesa ha precisato che "informazioni che possano involontariamente identificare unicamente le vittime sono stati omessi per eliminare una seconda possibile vittimizzazione degli innocenti". Ma in ogni caso, si tratta di rari dati che consentono di fare ulteriore luce sulla piaga delle violenze sessuali commesse dai militari americani, un problema dalle dimensioni incerte, anche a causa della mancanza di trasparenza nei procedimenti legali dell’esercito, come nota la AP, sottolineando che con oltre un milione di militari, il numero dei casi abusi commessi sui bambini è statisticamente basso. Una inchiesta pubblicata sempre dalla Associated Press nel novembre scorso mostra peraltro che nelle prigioni militari americane il numero dei detenuti per abusi sessuali ai danni di bambini è il più alto rispetto a quello di ogni altro crimine. Tuttavia, il sistema giudiziario delle forze armate Usa impedisce di sapere la piena entità dei loro crimini e anche delle loro condanne.