Smetto quando voglio Il Mattino di Padova, 4 gennaio 2016 "Smetto quando voglio" è la grande illusione di chi inizia a usare la droga, eppure tanti ragazzi "scherzano" con le sostanze, le considerano poco più di un gioco, mettono lo sballo e la trasgressione al centro delle loro vite. Le storie che seguono sono di due persone detenute che la vita se la sono giocata così, saltando da una sostanza all’altra fino ad arrivare a commettere reati sempre più gravi. Sono ragazzi stranieri, "trapiantati" in Italia, ma ci sono anche tantissimi ragazzi italiani che fanno esperienze identiche, ormai la droga annulla le differenze e inchioda spesso a uno stesso destino di sofferenza e di distruzione della giovinezza. È quello "smetto quando voglio" che mi ha rovinato un pezzo di vita Ciao sono Sakibe, così mi chiamano tutti e così preferisco essere chiamato. Ho 38 anni, di cui 13 passati a usare droghe e alcol. Ho cominciato come la maggior parte dei giovani, bevendo nei fine settimana, poi sono passato a cocaina, ecstasy, e per calare l’effetto di queste sostanze usavo l’eroina e così, a 22 anni, mi sono ritrovato a non poterne fare a meno. Inizialmente mi dicevo che per me non era un problema, smetto quando voglio, ma quando ho voluto smettere, era ormai troppo tardi. So che è una frase scontata, ma è quello "smetto quando voglio" che mi ha rovinato un pezzo di vita. Passavo da una droga all’altra, negli ultimi anni alla mattina mi svegliavo col pensiero che dovevo farmi, cocaina, eroina, finché ho finito per avere un sacco di problemi di salute, ero consumato, non mangiavo più, mi drogavo e basta. Allora ho deciso di smettere da solo, ma non ho fatto molta strada, perché saltavo da una dipendenza all’altra, quando credevo di aver smesso con una sostanza, era già un po’ che avevo cominciato con un’altra. E mi sono rovinato, purtroppo queste sono cose che finiscono male, per quanto sei convinto di uscirne, da solo è difficile, se non ti fai aiutare va soltanto peggio. Prima o poi arrivi a toccare il fondo nel vero senso della parola, non solo per il fatto che adesso sono in carcere, ma per tutto quello che ho fatto. Finché sei ragazzo non ti rendi conto di quelle che saranno le conseguenze. Più mi facevo, più stavo male perché l’avevo fatto, e così avevo perso anche la voglia di vivere. Purtroppo sono arrivato al punto di volermi togliere la vita, se avessi avuto un po’ di coraggio l’avrei fatto, ma non l’ho avuto, e adesso nemmeno lo voglio, faccio i conti con me stesso e con quello che sono. Mi dispiace vedere ragazzi che hanno 14, 15, 16 anni che si buttano via così e provano droghe che non dovrebbero nemmeno esistere, ma purtroppo ci sono. Io ci sono finito dentro per fragilità e per alterare la realtà, dipende anche da come cresci, se da bambino accade qualcosa che ti sconvolge e che capisci crescendo, ma questo non giustifica quello che ho fatto, io ho sempre fatto le scelte sbagliate. In certe situazioni mi sento a disagio, insicuro, timido, e così mi isolavo da tutto e da tutti, l’unico modo per stare con gli altri era ubriacarmi o drogarmi, per non stare solo, perché anche la solitudine fa male. La mia dipendenza è stata una alleanza con la droga al punto di farmi in casa dentro una stanza, senza pudore e rispetto per chi mi ha dato la vita e un tetto. Purtroppo oggigiorno la vita è sintetizzata, più veloce e superficiale, io credo che dei ragazzini non meritino di rovinarsi la vita prima ancora di averla cominciata. Io sono uno che sa anche ridere e scherzare, che ha anche lati positivi, il fatto è che non ho mai trovato una alternativa alle sostanze, forse non la troverò mai, spero di sì ma so solo che devo imparare a stare in pace con me stesso. Sakibe Ero convinto di poter gestire ogni sostanza che sceglievo di assumere Il mio nome è Chaolin, Io dall’età di 3 anni sono cresciuto con mia sorella e mio nonno paterno, perché i miei genitori erano emigrati dalla Cina in Europa per motivi di lavoro. Avevo 11 anni quando i miei genitori ci hanno fatto l’invito per raggiungerli in Italia. Dopo tanti anni pensavo avremmo potuto finalmente vivere con la nostra mamma e il nostro papà, eravamo felici di ritrovare la nostra famiglia. Arrivati in Italia, trovammo una grande difficoltà nell’ambientarci in una cultura così diversa, non conoscendo nulla della lingua italiana. Anche i miei genitori facevano tanta fatica, ma comunque insistevano nel farmi frequentare le scuole italiane. Io però mi rifiutavo di adattarmi, e lo mostravo decidendo di frequentare solo dei miei connazionali conosciuti a scuola, con loro potevo parlare la mia lingua, mi sentivo così di gestire le mie amicizie nel modo migliore. Frequentando i miei connazionali, anche più grandi di me, ho cominciato ad avere l’opportunità di conoscere il divertimento, le discoteche, le ragazze, di vestirmi alla moda. Finché una sera uno dei miei connazionali mi fa provare della Ketamina, una sostanza stupefacente sintetica. Pensavo di farlo solo una volta, spinto dalla curiosità di provarne l’effetto. I miei "amici" mi dicevano che avrei potuto smettere quando volevo. L’indomani mi sentivo molto bene, così pensai che quello che mi avevano detto era vero. La settimana successiva volli provarla ancora, sempre convinto di poter smettere quando volevo. Contemporaneamente iniziai a bere anche qualche bicchiere di alcool. Mi sentivo forte, immortale. Percepivo che quel tipo di vita mi faceva apparire diverso, mi inventavo di tutto per scappar via di casa, costringendo i miei genitori a cercarmi. Una sera mi telefonò mia mamma dicendomi di rientrare. Era morto il nonno che mi aveva cresciuto. Il mondo mi cadde addosso. Assieme a lei tornammo in Cina ad assistere al suo funerale, mentre ero a casa, sconvolto dal lutto che aveva colpito la mia famiglia, mi venne a trovare un amico. Parlammo della vita che conducevo in Italia, lui mi invitò a uscire per bere un bicchiere. Quella sera mi propose anche di provare del Crack, e io accettai senza pensarci, anche perché volevo dimenticare la morte di mio nonno. Quando rientrai in Italia continuai a usare sostanze. Mia mamma era disperata nel vedere il mio cambiamento, ma non aveva compreso che facevo uso di droga. Tornavo a casa solo quando avevo bisogno di soldi, me li prendevo e con una scusa me ne andavo via di nuovo. La mia vita peggiorava tutti i giorni senza che fossi pienamente consapevole di questa specie di deriva. Una volta, durante una serata in discoteca, mi proposero di provare dell’Ecstasy, e io accettai, convinto di poter gestire ogni sostanza che sceglievo di assumere. Non capivo che stavo addentrandomi sempre di più nel tunnel della droga. Iniziavo a manifestare comportamenti aggressivi. Non perdevo occasione per litigare nelle discoteche, mi sentivo invincibile. Questo finché arrivarono i miei diciotto anni. Iniziai a frequentare discoteche in città più lontane, andavamo a fare casino dappertutto, senza conseguenze fino a quando arrivò la serata maledetta. Iniziò una rissa all’interno di una discoteca con tanti miei connazionali. Il luogo era molto affollato. Ad un tratto qualcuno tirò fuori un coltello, fu colpito un ragazzo. Nella confusione cercammo di dileguarci tutti. Dopo qualche giorno lessi sui giornali la notizia che quel ragazzo era deceduto, ma non credevo di poter essere incriminato per concorso in questo omicidio. Dopo un paio di mesi invece venni arrestato, mi hanno condannato a 16 anni di carcere. Oggi sconto la pena in un modo che posso definire più consapevole, sono uscito dall’incubo della droga e, grazie al progetto "Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere", ho avuto la possibilità di confrontarmi con studenti delle scuole superiori, poco più giovani di me. Tante volte penso che potevo sfruttare le stesse possibilità loro, di frequentare una scuola e godermi la mia gioventù, e invece ho bruciato ogni opportunità. Adesso mi sto impegnando a recuperare. Sono ancora giovane, solamente che oggi ho molta paura di uscire, e di tornare al mondo da cui provengo. Il mio percorso di faticosa integrazione nella società italiana verrà interrotto dopo il mio fine pena, dovrò cominciare tutto da capo, iniziare un difficile inserimento nel paese dove sono nato. Il motivo è che, una volta espiata la pena, è prevista la mia espulsione dall’Italia in Cina, dove però non ho nessun parente perché ormai sono tutti emigrati qui. Dopo tutti questi anni di assenza mi sentirò più straniero lì che in Italia. Quale sarà il mio futuro? Chaolin Alessia Morani (Pd): una cavigliera contro lo stalking, così difendiamo la vita delle donne di Alessandro Mazzanti Il Resto del Carlino, 4 gennaio 2016 Entro gennaio la sperimentazione su 25 coppie. Proposta di legge Pd. Nel 2013, 179 donne uccise (fonte Ansa) in casi di femminicidio, con un aumento del 14% sull’anno precedente. Dal 4 marzo 2014 al 3 marzo 2015, un totale di 10.029 atti persecutori, di cui il 77,2% a danno di soggetti di sesso femminile (fonte Ministero degli Interni). Davanti a questa strage, "anche i sistemi di protezione - aggiunge Alessia Morani - devono fare un salto di qualità. Mi viene in mente la cyber-security che si adotta nella lotta al terrorismo". Qualcosa che gli assomiglia, è questa cavigliera collegata a un sistema satellitare che impedisce allo stalker di avvicinarsi alla sua vittima: la sperimentazione inizia entro questo mese, e durerà un anno. "Se non cambiamo mentalità, continueremo a contare i morti", aggiunge Morani. Oltre alle aree ù cui il giudice vieta la presenza del persecutore, il dispositivo funziona anche fuori, quando i due componenti della coppia a rischio reati si trovano a una distanza inferiore ai 2 chilometri. Esempio: se, anche per caso, la coppia si trovi in un’altra città rispetto a quella in cui il giudice ha disposto i divieti, quando lo stalker si avvicina a meno di 2 km, l’allarme parte lo stesso. "Sia dal punto di vista tecnico che legislativo - conclude Morani siamo a posto. Ho parlato di recente anche con il ministro Angelino Alfano, competente nella fattispecie, e faremo una presentazione dell’iniziativa entro il mese". È una cavigliera. Con la quale si tenta di salvare la vita delle donne e, paradossalmente, favorire anche i loro persecutori. Se i tempi saranno rispettati, entro questo mese inizierà, su 25 coppie, la fase di sperimentazione di quello che viene chiamato "braccialetto anti-stalker", (ma in realtà è una cavigliera) grazie a una proposta di legge di due deputati della Commissione Giustizia, Luca D’Alessandro e Alessia Morani (Pd), pesarese. Onorevole Morani, spieghi in breve di cosa si tratta. "È un meccanismo, che in termini penali dà esecuzione a una misura cautelare, che tecnicamente si basa su una cavigliera e due trasmettitori Gps, una sorta di telefonini. Il potenziale persecutore indossa la cavigliera e ha con sé un trasmettitore (deve tenere i due oggetti distanti massimo 2 metri, se no il sistema non funziona), la potenziale vittima invece ha solo il trasmettitore. Questi strumenti, inseriti in un sistema di controllo satellitare, fanno sì che se lo stalker si avvicina più di quanto il giudice abbia stabilito alla persona perseguitata, parte un allarme che avverte sia la vittima che le forze di polizia che lo stesso stalker. In genere si delimitano le zone di frequentazione della potenziale vittima: casa, lavoro, l’asilo dei figli". Perché uno, stalker o vittima che sia, dovrebbe sottoporsi a questo sistema? "Per lo stalker l’incentivo è che con questo sistema evita l’inasprimento delle misure a suo carico. Per la vittima, è un modo per stare in sicurezza e in libertà. Ricordiamo le tante richieste da parte di lui dell’ultimo "incontro chiarificatore...", davanti al quale c’è spesso accondiscendenza da parte della donna, che lo concede... Con questo sistema, quell’ultimo incontro non diventa possibile". Il sistema quanto costa? "Ha costi bassissimi". Che risultati ci sono, per ora? "In Spagna zero omicidi su 750 coppie monitorate". Sapete già quali coppie verranno prescelte? "No, le coppie devono sceglierle i giudici. Credo che all’inizio si comincerà nelle grandi città, Roma, Milano ecc... e si applicherà questo sistema ai casi più gravi". Ma il dispositivo il giudice lo impone o le coppie possono rifiutarsi? "Il giudice si limita a fare una proposta allo stalker, che in teoria può rifiutarsi. Come col braccialetto elettronico dei detenuti". E se, mettiamo, nella coppia uno è favorevole e l’altra no? "Il giudice valuta caso per caso. È vero, è un sistema invasivo. Il fine però è alto: salvare la vita alle donne, e, di riflesso, evitare anche che la posizione dello stalker si aggravi". Questa è una misura che è già stata adottata da tantissimi paesi nel mondo, compresi, oltre all’Europa, Portorico o Uruguay. Secondo lei perché in Italia arriviamo ancora una volta tardi? "Per tanti motivi, ricordiamoci che fino al 1996 la violenza sessuale era un reato contro la morale pubblica e che siamo la patria del delitto d’onore. Siamo arrivati tardi anche con la legge sullo stalking. L’Italia è un paese con un imprinting maschilista". Ilaria Cucchi su Facebook: "ecco la faccia di chi ha ucciso mio fratello" di Viola Giannoli La Repubblica, 4 gennaio 2016 La donna ha pubblicato la foto di uno dei 5 carabinieri indagati per la morte del giovane arrestato nell’ottobre del 2009 per droga e deceduto una settimana dopo al Pertini di Roma. Poi un secondo post: "Non rispondiamo alla violenza con la violenza". Il militare la denuncia. "Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo. Le facce di coloro che lo hanno ucciso". Su Facebook Ilaria Cucchi, la sorella del giovane di 31 anni arrestato nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 per droga e morto una settimana dopo all’ospedale Pertini di Roma, interviene di nuovo sulla morte del fratello. E pubblica stavolta la foto, tra gli scogli e in costume da bagno, di uno dei cinque carabinieri della stazione Appia indagati nell’inchiesta bis avviata dalla procura sulle lesioni subite dal ragazzo che avrebbero provocato il suo decesso. "Ora questa foto è stata tolta dalla pagina. Si vergogna? Fa bene" aggiunge Ilaria nello stesso post. Un’ora e mezzo dopo, in seguito alle reazioni, anche violente, di alcuni internauti scatenate dal suo commento, la Cucchi decide di pubblicare un secondo post: "Non tollero la violenza, sotto qualunque forma - precisa. Ho pubblicato questa foto solo per far capire la fisicità e la mentalità di chi gli ha fatto del male, ma se volete bene a Stefano vi prego di non usare gli stessi toni che sono stati usati per lui. Noi crediamo nella giustizia e non rispondiamo alla violenza con la violenza". E a chi le chiede che senso abbia postare quell’immagine che mostra il viso del militare coinvolto nell’indagine per lesioni, risponde: "Il senso è che Stefano era la metà di questa persona". Il carabiniere però attraverso il suo legale annuncia che denuncerà Ilaria "per le sue affermazioni e per le numerose gravissime minacce ed ingiurie che sono state rivolte a lui e ai suoi familiari a seguito e a causa della signora Cucchi". Tra i commenti arrivati sul social network ci sono infatti insulti pesanti e c’è chi propone ronde anti-carabiniere. In molti si schierano con la Cucchi, divisi tra chi critica però la decisione di svelare l’identità del carabiniere e chi le manifesta totale sostegno anche in questa scelta. E lei decide, in serata, di rompere ancora una volta il silenzio: "Sto ricevendo numerose telefonate anche di giornalisti su questa fotografia – scrive. La prima domanda che mi pongo è: se fosse stato un comune mortale, cioè non una persona in divisa, non ci si sarebbe posto alcun problema. Ho pubblicato questa foto perché la ritengo e la vedo perfettamente coerente col contenuto dei dialoghi intercettati e con gli atteggiamenti tenuti fino ad oggi dai protagonisti. Il maresciallo Mandolini (il primo indagato tra i militari, ndr) incurante di quanto riferito sotto giuramento ai giudici sei anni fa e non curandosi nemmeno della incoerente scelta di non rispondere ai magistrati ha avviato un nuovo processo a Stefano e a noi, che abilmente sarà di una violenza direttamente proporzionale alla quantità di prove raccolte contro di loro dai magistrati. E quindi io credo che non mi debba sentire in imbarazzo se diventeranno pubblici anche i volti e le personalità di coloro che non solo hanno pestato Stefano ma pare se ne siamo addirittura vantati ed abbiamo addirittura detto di essersi divertiti". Piuttosto "difronte al possibile imbarazzo che qualcuno possa provare pensando che persone come queste possano ancora indossare la prestigiosa divisa dell’arma dei carabinieri io rispondo che sono assolutamente d’accordo e condivido assolutamente questo imbarazzo" scrive ancora la Cucchi. Che poi conclude: "Quella di avere pestato Stefano è stata una scelta degli autori del pestaggio. Quella di nascondere questo pestaggio e di lasciare che venissero processato altri al loro posto è stata una scelta di altri. Così come quella di farsi fotografare in quelle condizioni e di pubblicarla sulla propria pagina Facebook è stata una scelta del soggetto ritratto. Io credo che sia ora che ciascuno sia chiamato ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Accollandosene anche le conseguenze. E il fatto che questo qualcuno indossi una divisa lo considero un aggravante non certo un attenuante o tantomeno una giustificazione". È l’ennesima polemica del caso Cucchi. Pochi giorni fa era emerso l’audio di un’intercettazione telefonica contenuta negli atti dell’inchiesta bis in cui l’ex moglie di Raffaele D’Alessandro, un altro dei militari indagati, lo accusava: "Poco alla volta arriveranno a te... Hai raccontato a tanta gente quello che hai fatto. Hai raccontato che vi siete divertiti a picchiare quel drogato di m... ". Subito dopo la pubblicazione dell’audio, sempre Ilaria, in una intervista a "Repubblica", si era chiesta: "Perché chi ha pestato mio fratello è ancora nell’Arma?". E ancora, in base ai nuovi accertamenti, la procura ha disposto un incidente probatorio e il 29 gennaio è stata fissata l’udienza nel corso della quale il gip Elvira Tamburelli nominerà i periti che dovranno accertare la natura, l’entità e l’effettiva portata delle lesioni patite da Stefano Cucchi. La sua famiglia ha però deciso di non essere in aula: i familiari del ragazzo ritengono infatti che uno dei periti - Francesco Introna del policlinico di Bari - "sia troppo legato all’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, che ha sempre difeso i carabinieri a prescindere da tutto, e alla professoressa Cristina Cattaneo, uno dei consulenti che ha redatto la perizia disposta dalla III Corte d’Assise". Il primo filone dell’inchiesta è invece già arrivato al terzo grado di giudizio ma il 15 dicembre scorso la Cassazione ha annullato l’assoluzione dei medici disponendo un Appello bis per omicidio colposo. Ilaria Cucchi e quella foto sul web che sa di gogna di Giusi Fasano Corriere della Sera, 4 gennaio 2016 Ilaria va alla guerra. Non quella di sempre, non più con la fotografia di suo fratello morto fra le mani e la voce a scandire quella parola: giustizia. No. Stavolta Ilaria Cucchi usa nuove armi, se così si può dire. E per la prima volta si muove in direzione dello stesso piano che lei ha sempre creduto appartenesse soltanto ai suoi "nemici", i cinque carabinieri indagati per la morte di suo fratello Stefano, arrestato per droga e restituito cadavere alla famiglia una settimana dopo. Era il 2009. In questi sei anni l’abbiamo vista mille e mille volte, Ilaria, quasi avvolta in quella gigantografia di Stefano con la faccia tumefatta. Una sorella che chiede la verità, nient’altro che la verità, per suo fratello. Ma ieri no. Ieri abbiamo visto (anzi, immaginato) un’Ilaria diversa, per la quale è un po’ più difficile provare quell’empatia spontanea che si prova per le vittime e per le loro famiglie. È successo che dalla sua pagina Facebook Ilaria ha deciso di postare la fotografia di uno dei carabinieri sotto inchiesta per la morte di Stefano. Un uomo in costume in posa davanti agli scogli, fisico da evidente dipendenza da palestra e sorriso verso l’obiettivo. "Volevo farmi del male" diceva la didascalia, "volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo. Le facce di coloro che lo hanno ucciso". Una gogna, in sostanza. In un momento e in una fase in cui la strada verso la verità che Ilaria chiede da anni non è che all’inizio. Perché il fascicolo sui carabinieri è aperto da giugno 2015, perché - al di là delle convinzioni personali di ciascuno di noi - non siamo ancora arrivati nemmeno alla richiesta di rinvio a giudizio degli indagati e perché vale sempre quel famoso principio secondo cui nessuno è colpevole fino a prova contraria. Quella stessa mancanza dello stato di diritto che Ilaria lamenta per suo fratello Stefano non può essere evocata per i suoi (al momento presunti) carnefici. Da donna intelligente quale è deve aver capito anche lei di aver fatto quantomeno un passo falso, anche perché contro il carabiniere si sono esibiti i giustizialisti del web. Tanto da convincere Ilaria a un nuovo post: "Non tollero la violenza, sotto qualunque forma. Ho pubblicato questa foto per far capire la fisicità e la mentalità di chi gli ha fatto del male, ma se volete bene a Stefano vi prego di non usare gli stessi toni che sono stati usati per lui. Noi crediamo nella giustizia e non rispondiamo alla violenza con la violenza". Ecco. Questa è l’Ilaria di "prima", quella avvolta nella gigantografia di Stefano. Quella che crede nello stato di diritto. Sei anni di galera. Innocente di Valter Vecellio lindro.it, 4 gennaio 2016 Giulio Petrilli, accusato di "banda armata", chiede un risarcimento con una lettera al Ministro Boschi. Questa è una storia strana. Strana non perché sia strana nel senso che comunemente viene dato al termine "strano". Strana perché non si comprende quale sia il capo e quale la coda; il senso, la logica che ne è alla base. Per cercare di raccapezzarci in questa specie di racconto partorito dalla cupa fantasia di un Franz Kafka o di un Friedrich Dürrenmatt conviene partire da una lettera, scritta da un signore che si chiama Giulio Petrilli. Vedremo tra un attimo chi è il Signor Petrilli. Occupiamoci prima della lettera. È indirizzata in prima persona al Ministro per le Riforme Costituzionali Maria Elena Boschi. Il signor Petrilli chiede al Ministro Boschi un impegno preciso: "Le chiedo di impegnarsi affinché anche chi è stato detenuto ingiustamente, possa avere il giusto e doveroso risarcimento. L’Italia è l’unico Paese in Europa dove esiste una norma che vieta lo stesso a coloro che pur essendo stati assolti, hanno avuto cattive frequentazioni. Chiedo pubblicamente a lei di impegnarsi per cancellare questa norma e consentire il risarcimento a tutti coloro sono stati vittima di errori giudiziari. Ho scritto tante volte al Premier Renzi e al Ministro della giustizia Orlando, senza avere risposta, ma penso che con lei possa trovare maggiore attenzione. L’inviolabilità della libertà personale è il cardine del diritto e quando la persona che ha subito questa ingiustizia non viene risarcita, subisce una doppia incredibile ingiustizia. Chi le scrive l’ha subita all’età di diciannove anni e per la durata di sei anni, con l’accusa poi risultata infondata di partecipazione a banda armata. Ho fatto tante istanze per avere il risarcimento, ma nulla, sempre le risposte giudiziarie inerenti il risarcimento, motivavano il diniego con la motivazione di "cattive frequentazioni" e così non solo non ho avuto nulla, ma ho dovuto pagare anche le spese processuali. Come dire, dopo il danno, la beffa. Le chiedo di poterla incontrare, per illustrarle meglio la mia vicenda e di quella di tante persone come me, affinché lei possa fare qualcosa per proporre l’abolizione della norma che vieta il risarcimento per cattive frequentazioni. Scrivo a lei, perché essendo Ministro per le riforme costituzionali, constati che la norma che le ho citato è palesemente anticostituzionale, in quanto lede la libertà delle persone di frequentare le persone che si vuole ed è assurdo che una frequentazione pur non essendo reato, è ostativa per il risarcimento di chi è stato assolto". Qualche ulteriore, oltre quelle fornite nella lettera, non guasta. Il signor Petrilli, quand’è ancora ragazzo, viene accusato di "banda armata". Una banda armata pericolosa e assassina: quella "Prima Linea" che per alcuni anni è in competizione con le Brigate Rosse. Quella Prima Linea fatta da fuoriusciti di Lotta Continua che impugna le armi e si rende responsabile di una quantità di delitti; quella, per esempio, del giudice Emilio Alessandrini, ucciso proprio quando si sta occupando di delicate inchieste sul Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, e altri scandali di regime. Nessuna dietrologia, per carità, ma le coincidenze colpiscono… Torniamo al signor Petrilli. Incarcerato, prima di una condanna e una sentenza definitiva, viene sbattuto in isolamento: "Un periodo terribile, per cui oggi chiede un risarcimento". Sei anni di carcerazione preventiva. Poi lo dichiarano innocente. D’accordo, erano i cosiddetti "anni di piombo". D’accordo, c’era una legislazione emergenziale; in nome del "fine" non s’andava troppo per il sottile, per quel che riguarda i "mezzi"; e dall’altra parte non si esitava a sparare, colpire, uccidere. È un elenco infinito quello dei morti ammazzati colpevoli d’essere Magistrati, poliziotti, carabinieri, agenti di custodia, giornalisti, imprenditori, sindacalisti, professori universitari…tutta gente che faceva il suo lavoro, e proprio per questo, ‘solò per questo, uccisi. Al tempo stesso erano tempi, anni di veri e propri "rastrellamenti giudiziari". Appartenevi a qualche formazione extraparlamentare e potevi trovarti in un attimo in questura o in cella. Sono scolpite in un atto parlamentare le amare, preoccupate parole di Leonardo Sciascia, Deputato radicale: "In Italia basta che si cerchi la verità perché si venga accusati di convergere col terrorismo nero, rosso, con la mafia, con la P2 o con qualsiasi altra cosa! Come cittadino e come scrittore posso anche subire una simile accusa, ma come deputato non l’accetto. Non si converge assolutamente con il terrorismo quando si agita il problema della tortura. Questo problema è stato rovesciato sulla carta stampata: noi doverosamente lo abbiamo recepito qui dentro, lo agitiamo e lo agiteremo ancora!". È questo il contesto che fa da sfondo all’arresto del signor Petrilli: partecipazione a banda armata, con funzioni organizzative. Secondo la pubblica accusa va punito con almeno undici anni di carcere. Il signor Petrilli è uno studente universitario, iscritto alla facoltà di Lettere a L’Aquila. Ha degli ideali, dei sogni, vuole rovesciare il mondo; ideali ingenui, magari; sogni balordi; e sicuramente il mondo non aspetta lui, per rovesciarsi. Come sia, viene condannato in primo grado a otto anni di reclusione. Comincia a scontarli; passa da un carcere all’altro, in un regime detentivo peggiore dell’attuale 41 bis. È quello dell’articolo 90: prevede l’isolamento totale. Arriva l’appello. La sentenza è completamente opposta: assoluzione; e infine la Corte di Cassazione, che conferma l’esito dell’appello. E quei sei anni di carcere? Chi, e come, li restituisce, li risarcisce? La domanda di risarcimento viene respinta. Una prima volta perché la sentenza di assoluzione arriva prima della riforma del codice di procedura penale, che nel 1989 introduce la riparazione per ingiusta detenzione, senza però prevedere la retroattività. La seconda ancora più incredibile: il signor Petrilli non solo non viene risarcito, ma è condannato a pagare le spese processuali. Perché? Perché con le sue frequentazioni aveva tratto in inganno gli inquirenti. Il signor Petrilli non si dà per vinto, e mette in cantiere una quantità di iniziative: scioperi della fame, ricorsi alla Corte europea dei diritti umani…e lettere. Tante lettere. L’ultima è quella al Ministro Boschi. Ora, figuriamoci, questo Paese è la patria del diritto e del suo rovescio, e figuriamoci se non ci sono legulei ed azzeccagarbugli capaci di trovarsi la norma, il codicillo, la pandette che ci può spiegare come sia giusto che il signor Petrilli sia cornuto e mazziato. Però dovrebbe comunque esserci un limite a ogni cosa. Nella lettera al Ministro Boschi, il signor Petrilli dice di essersi rivolto tante volte al Presidente del Consiglio Matteo Renzi e al Ministro della Giustizia Andrea Orlando. Beh, uno straccio di risposta avrebbe pure il diritto di averlo, no? In fin dei conti, il Presidente Renzi e il Ministro Orlando sono italiani che governano lo Stato italiano, che, non andrebbe mai dimenticato è composto da italiani, come il signor Petrilli. Si chiama educazione. Poi, cos’è questa storia che il signor Petrilli avrebbe tratto in inganno gli inquirenti per via delle sue frequentazioni? Ora le frequentazioni del signor Petrilli, come di tutti, possono risultare antipatiche, discutibili; perfino censurabili. Ma in qualche codice c’è una norma della serie: Dimmi con chi vai, ti dirò di che reato sei colpevole?. Vale la pena di approfondirla, questa questione: gli inquirenti sono stati tratti in inganno da, diciamo così, cattive compagnie? Va bene occuparsi del contesto, dell’ambiente, respirare l’aria e l’atmosfera come Jules Maigret; ma, appunto, bisogna essere Maigret; e comunque, da qui a emettere sentenze di colpevolezza, e poi scaricare sull’imputato risultato innocente la responsabilità di quello che non si è saputo o potuto provare, beh… c’è bisogno di commentarlo? Lasciamo parlare il signor Petrilli, ora: "Uscii innocente dopo cinque anni e otto mesi di carcere, da un’accusa di banda armata, che prevedeva anche la detenzione nelle carceri speciali e sotto regime articolo 90: anni d’isolamento totale, blindati dentro celle casseforti insonorizzate, senza più poter scrivere, leggere libri, anche quelli per gli studi universitari, qualche ora di tv, ma solo primo e secondo canale. Sempre, sempre soli, con un’ora d’aria al giorno, in passeggi piccoli e con le grate. Un’ora di colloquio al mese, con i parenti, ma con i vetri divisori. Dodici carceri ho attraversato in questi sei lunghi anni. Ebbi la sentenza di assoluzione dalla Cassazione nel 1989". E, si può aggiungere, neppure una parola di scuse. Ministro Boschi, non sarebbe il caso di rimediare? Processi sommari, ma veloci di Marino Longoni Italia Oggi, 4 gennaio 2016 Legge Pinto depotenziata con l’obbligo per le parti di richiedere l’accelerazione delle procedure. E per ridurre il numero delle cause si punta sulla negoziazione assistita. Una giustizia più veloce al costo di una giustizia più sommaria. Sembra essere questa la strada scelta dal legislatore con alcune disposizioni introdotte nella legge di Stabilità (legge n. 208 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 30 dicembre) che potrebbero avere un effetto importante nella riduzione di uno dei mali cronici del sistema giudiziale italiano, l’eccessiva durata dei processi. La filosofia di fondo è che, non potendo incentivare più di tanto la produttività dei giudici (anche se in realtà si è previsto un timido aumento della pianta organica dei magistrati), rimangono solo due strade: mettere barriere all’ingresso nel contenzioso o fare in modo che chi vi è già entrato trovi conveniente uscirne. Il primo approccio è già stato ampiamente percorso negli anni passati, con l’aumento del costo del servizio-giustizia fi no al limite della tollerabilità e con la previsione di vie alternative, come la media-conciliazione, che non ha però dato i risultati sperati. Con la legge di Stabilità si è puntato invece a meccanismi di velocizzazione dei procedimenti o su incentivi all’uscita. Nel primo caso riducendo gli indennizzi previsti dalla legge Pinto per l’eccessiva durata del processo, ma soprattutto ponendo una serie di condizioni che le parti devono rispettare per poter poi chiede il risarcimento: in sostanza gli avvocati devono fare di tutto per dimostrare di aver richiesto una giustizia più veloce, anche a costo di avere una trattazione più grossolana della causa. Nel processo civile per esempio devono optare per il rito sommario di cognizione o chiedere al giudice di chiudere il processo con una discussione orale cui segue lettura immediata della sentenza. Nel processo penale, in quello amministrativo o in Cassazione le parti hanno l’onere di sollecitare il giudice all’accelerazione del processo per non far scattare i termini previsti dalla legge Pinto, una sorta di promemoria obbligatorio a beneficio dei magistrati. I risarcimenti sono infine esclusi per le cause di modico valore (ancora tutto da specificare cosa questo significhi). Dietro procedure apparentemente poco ortodosse e certamente non garantiste è evidente il tentativo di scoraggiare manovre dilatorie, imponendo alle parti in causa un atto che perlomeno certifichi la volontà di non abusare delle lentezze del sistema per chiedere poi il risarcimento previsto dalla legge Pinto. Nella legge di Stabilità si è anche previsto di confermare, con la concessione di un credito fiscale fino a un massimo di 250 euro, la negoziazione assistita che, in qualsiasi stato del processo, consente agli avvocati di prenderne in mano le redini e di chiuderlo con un accordo che ha lo stesso valore di una sentenza. L’istituto era stato introdotto in via sperimentale nel 2015 per mettere una pezza al fallimento della media-conciliazione che, vista molto male dagli avvocati, non ha raggiunto i suoi effetti, tanto che quasi sempre viene vissuta come un passaggio rituale più che uno strumento efficace per risolvere le controversie. Con la messa a regime del credito fi scale (anche se con un tetto massimo che è la metà di quanto previsto per la media-conciliazione) questo può diventare un valido strumento per la riduzione delle controversie e quindi per accorciare i tempi necessari per chiudere i contenziosi. La negoziazione assistita, che può essere obbligatoria o facoltativa, può essere utilizzata in alternativa al decreto ingiuntivo. Ma rispetto a questo è più veloce e ha generalmente un costo più basso. Ulteriore vantaggio è che non ci sono spese di giudizio. L’unico costo è quello relativo alla parcella dell’avvocato. In definitiva, l’approccio è sempre più economicistico, sempre più attento al rapporto costi/benefici e sempre meno all’universalismo dei diritti. La giustizia, da valore assoluto, diventa sempre più un valore condizionato dalla sua sostenibilità. Strasburgo e Lussemburgo, come incidono su legislazione interna e attività dei giudici di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 4 gennaio 2016 Sempre più incisive le sentenze che arrivano da Strasburgo e Lussemburgo, con effetti sulla legislazione interna e sull’attività dei giudici nazionali. Nel 2015, al centro dell’attenzione di Strasburgo, materie sensibili sulle quali l’Italia continua a latitare non adottando una legislazione conforme alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Diritti delle coppie dello stesso sesso - Proprio per l’inerzia del legislatore sui diritti delle coppie dello stesso sesso, l’Italia è stata bacchettata nella sentenza del 21 luglio 2015 nel caso Oliari e altri contro Italia. Per la Corte, la mancata adozione di una regolamentazione sulle unioni civili per il riconoscimento legale delle coppie dello stesso sesso è una violazione dell’articolo 8 della Convenzione che assicura il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Con l’evidente conseguenza della necessità di adottare una legislazione adeguata al fine di non incorrere in nuove condanne dai giudici internazionali. La fecondazione in vitro - Come in passato, la Corte si è pronunciata sulla legge sulla fecondazione in vitro, seppure su un profilo non toccato in passato. Nella sentenza Parrillo del 27 agosto, la Strasburgo ha riconosciuto conforme alla Convenzione il divieto stabilito nella legislazione italiana di donare embrioni per la ricerca scientifica. La Corte ha chiarito che la possibilità di utilizzare gli embrioni rientra nella nozione di vita privata, ma gli Stati hanno un ampio margine di apprezzamento nelle scelte legislative su temi sensibili e sui quali manca un’uniformità di comportamento degli Stati parti alla Convenzione. La maternità surrogata - Sotto i riflettori della Corte di Strasburgo anche la maternità surrogata. In particolare, la Corte ha ritenuto, il 27 gennaio, che l’Italia (sentenza Paradiso e Campanelli) ha violato l’articolo 8 prevedendo l’allontanamento del minore da una coppia che aveva fatto ricorso alla maternità surrogata all’estero. Indispensabile, infatti, per i giudici internazionali, garantire anche i legami propri delle famiglie di fatto che prevalgono sul limite dell’ordine pubblico che non può essere considerato come una carta in bianco che consente l’adozione di ogni misura, soprattutto quando è in gioco l’interesse superiore del minore Adottabilità dei minori - Sempre in materia di rapporti familiari, con la sentenza S.H. del 13 ottobre, l’Italia è stata condannata perché lo stato di adottabilità dei minori può essere dichiarato solo dopo aver fatto tutto il possibile per mantenere il legame madre-figli e questo anche quando i genitori hanno evidenti e gravi difficoltà. Proprio la pronuncia in esame è stata seguita come parametro dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 25526/15 del 18 dicembre. La materia penale - In materia penale, Strasburgo, nel caso Contrada (n. 3), con la sentenza del 14 aprile, ha ritenuto violato l’articolo 7 sul principio di legalità delle pene e di irretroattività della legge penale perché il reato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso non era sufficientemente chiaro all’epoca dei fatti contestati al condannato. Durissima condanna all’Italia per l’assenza nell’ordinamento interno di una legge contro la tortura. Con la sentenza Cestaro del 7 aprile riguardante i fatti del G8 di Genova, la Corte ha richiesto l’adozione di una legge che punisca in modo effettivo i reati di tortura. Importanti pronunce sul fronte penale anche da Lussemburgo. In primo piano, la sentenza Taricco dell’8 settembre (causa C-105/14) con la quale la Corte di giustizia dell’Unione europea ha affermato che la prescrizione troppo breve a causa del calcolo dei periodi di interruzione, che non permette, in modo sistematico, l’applicazione di sanzioni a coloro che commettono frodi sull’iva a danno degli interessi finanziari dell’Unione europea, è contraria al diritto dell’Unione. Di conseguenza, la norma interna che la prevede deve essere disapplicata, senza necessità che il giudice nazionale - che non deve sollevare la questione di legittimità costituzionale - debba attendere la previa rimozione in via legislativa delle norme interne che conducono a un effetto contrario al diritto Ue. Concorsi - L’Italia è invece riuscita a far valere dinanzi al Tribunale Ue (cause riunite T-124/13 e T-191/13, 24 settembre) il principio in base al quale i candidati a un concorso bandito dall’Unione europea hanno il diritto di comunicare con l’Ufficio europeo di selezione del personale in ogni lingua ufficiale dell’Unione europea. In particolare, il Tribunale ha ritenuto contraria alle regole Ue la previsione che la comunicazione e la scelta della seconda lingua sia limitata a inglese, francese e tedesco (principio confermato con la sentenza T-275/13 del 17 dicembre). Immigrazione - In materia di immigrazione, con la sentenza del 1° ottobre (C-290/14), la Corte di giustizia Ue ha ritenuto che la violazione del divieto di reingresso imposto a un cittadino di un Paese terzo può essere punita con una sanzione detentiva, a condizione che il divieto di ingresso sia conforme all’articolo 11 della direttiva 2008/115 relativa alle norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. La Corte ha riconosciuto che gli Stati possono anche stabilire l’applicazione di sanzioni penali "per scoraggiare e reprimere la commissione di siffatta infrazione". Ambiente - Sul fronte ambientale, l’Italia è stata condannata al pagamento di una sanzione pari a 20milioni di euro per il sistema di raccolta e di gestione dei rifiuti in Campania (sentenza del 16 luglio, C-653/13). Misure cautelari personali, l’appello cautelare. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 4 gennaio 2016 Misure cautelari personali - Appello - Questioni non proposte con l’impugnazione o non esaminate dal giudice "a quo" - Esclusione della cognizione del giudice "ad quem". In tema di appello cautelare, stante la natura devolutiva del giudizio, la cognizione del giudice è circoscritta entro il limite segnato non solo dai motivi dedotti dall’impugnante, ma anche dal "decisum" del provvedimento gravato, sicché con l’appello non possono proporsi motivi nuovi rispetto a quelli avanzati nell’istanza sottoposta al giudice di primo grado, né al giudice "ad quem" è attribuito il potere di estendere d’ufficio la sua cognizione a questioni non prese in esame dal giudice " a quo". • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 15 luglio 2015 n. 30483. Misure cautelari personali - Appello - Acquisizione di nuovi elementi probatori - Potere - Sussistenza. L’appello concernente misure cautelari personali, implicando una valutazione globale della prognosi cautelare, attribuisce al giudice "ad quem" tutti i poteri "ab origine" rientranti nella competenza funzionale del primo giudice, ivi compreso quello di decidere, pur nell’ambito dei motivi prospettati e, quindi, del principio devolutivo, anche su elementi diversi e successivi rispetto a quelli utilizzati dall’ordinanza impugnata, applicandosi anche a tale procedimento l’articolo 603, secondo e terzo comma, cod. proc. pen. • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 3 giugno 2015 n. 23729. Misure cautelari personali - Appello - Possibilità di esame di elementi acquisiti dopo l’adozione del provvedimento coercitivo - Esclusione. In sede di giudizio di appello avverso provvedimenti in materia di misure cautelari personali, l’oggetto della cognizione è delimitato dai motivi e dagli elementi su cui è fondata la richiesta al giudice di prime cure e su cui questi ha deciso, sicché il giudice di appello non può assumere a sostegno della decisione elementi acquisiti dalle parti successivamente all’adozione del provvedimento coercitivo, fatta eccezione del caso in cui l’appello sia stato proposto dal pubblico ministero avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di applicazione di una misura cautelare. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 24 luglio 2006 n. 25595. Misure cautelari personali - Appello - Deducibilità di questioni non prospettate con l’istanza oggetto del provvedimento impugnato - Esclusione. In tema di procedimento di appello "de libertate", in ragione della natura pienamente devolutiva del giudizio la cognizione del giudice è circoscritta entro il limite segnato non solo dai motivi dedotti dalla parte impugnante, ma anche dal "decisum" del provvedimento gravato, dimodoché il "thema decidendum" proposto nell’atto di impugnazione deve coincidere con quello sottoposto al giudice "a quo"; non possono pertanto con l’appello proporsi motivi del tutto nuovi rispetto a quelli avanzati nell’istanza sottoposta al giudice di primo grado, nè al giudice "ad quem" è attribuito il potere di estendere d’ufficio la sua cognizione a questioni neppure prese in esame dal giudice " a quo". • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 21 luglio 1999 n. 3418. Stalking: il "cambiamento delle abitudini di vita" considerato nella percezione della vittima di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 4 gennaio 2016 Corte di Cassazione - Sezione V - Sentenza 13 novembre 2015 n. 45453. "In tema di atti persecutori, ai fini della individuazione del cambiamento delle abitudini di vita, quale elemento integrativo del delitto di cui all’articolo 612 bis del Cp, occorre considerare il significato e le conseguenze emotive della costrizione sulle abitudini di vita cui la vittima sente di essere costretta e non la valutazione, puramente quantitativa, delle variazioni apportate". Questo è il principio di diritto dettato dalla sentenza della Cassazione, Sezione V, 3 luglio 2015 - 13 novembre 2015 n. 45453, che interviene a precisare i presupposti per la ravvisabilità del "cambiamento delle abitudini di vita", uno degli eventi alternativi che concorrono a fondare l’esistenza dello stalking. I precedenti - Già in precedenza, con chiarezza era stato comunque affermato che, ai fini della configurabilità del delitto di atti persecutori (cosiddetto stalking, articolo 612 bis del Cp ) si deve intendere per "alterazione delle proprie abitudini di vita" ogni mutamento significativo e protratto per un apprezzabile lasso di tempo dell’ordinaria gestione della vita quotidiana (quali, l’utilizzazione di percorsi diversi rispetto a quelli usuali per i propri spostamenti; la modificazione degli orari per lo svolgimento di certe attività o la cessazione di attività abitualmente svolte; il distacco degli apparecchi telefonici negli orari notturni, e simili), indotto nella vittima dalla condotta persecutoria altrui e finalizzato ad evitare l’ingerenza nella propria vita privata del molestatore [cfr. Sezione V, 27 novembre 2012, F.]. Qui, nella fattispecie esaminata, la vittima, sposata, era stata destinataria di un corteggiamento assillante da parte di una persona molto più anziana, padre di una sua amica, e l’evento "cambiamento delle abitudini di vita" era stato dimostrato dal fatto che questa, per effetto dell’atteggiamento persecutorio e morboso dell’imputato, era stata costretta ad uscire di casa sempre accompagnata dal marito o dalle amiche, anche per espletare le normali attività quotidiane. L’identikit del reato - La sentenza si segnala per altre puntualizzazioni utili per ricostruire il proprium del reato di cui all’articolo 612 bis del Cp. Si riafferma, quindi, che il delitto di "atti persecutori" è reato abituale, giacché l’essenza dell’incriminazione si coglie nella reiterazione delle condotte. Da ciò consegue che anche due sole condotte tra quelle descritte dall’articolo 612 bis del Cp, anche se commesse in un arco di tempo molto ristretto, sono a tal fine idonee a costituire la reiterazione richiesta dalla norma incriminatrice. Mentre un solo episodio, per quanto grave, e da solo anche capace, in linea teorica, di determinare il grave e persistente stato di ansia e di paura che è indicato come l’evento naturalistico del reato, non è sufficiente a determinare la lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, potendolo essere, invece, alla stregua di precetti diversi; e ciò in aderenza alla volontà del legislatore che non ha configurato una fattispecie solo "eventualmente" abituale. Inoltre, proprio sul presupposto che si tratta di un reato abituale, si chiarisce che nel delitto in questione l’evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell’ennesimo atto persecutorio, in quanto dalla reiterazione degli atti deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che, solo alla fine della sequenza, degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme previste dalla norma incriminatrice. Dopo 30 anni dì carcere un uomo può tornare a vivere? di Pasquale Zagari Il Garantista, 4 gennaio 2016 Mi chiamo Pasquale Zagari. Ho trascorso in carcere gran parte della mia vita, 29 anni e 7 mesi di reclusione ininterrotta. Da nove mesi sono stato scarcerato. Ho vissuto il mio tempo da recluso come ergastolano ostativo, senza prospettive né speranze. La mia condanna, però, era illegittima perché all’epoca del processo, la scelta di essere giudicato con il rito abbreviato, da me operata, comportava la riduzione della pena a trent’anni di reclusione. La Corte Europea, con la sentenza "Scoppola" ha sancito il principio e comportato la riduzione anche della mia pena ad anni trenta. Ho scontato la mia condanna fino all’ultimo giorno, anzi, calcolando anche i giorni di liberazione anticipata concessimi per la buona condotta, ho espiato 34 anni. Oggi mi trovo sottoposto a sorveglianza speciale, una misura comminata con la sentenza, molti anni addietro che esprime un giudizio di pericolosità ormai lontanissimo nel tempo e certamente non più attuale dopo tanti anni di detenzione. Anche la Corte Costituzionale ha sancito la necessità di un nuovo esame che, dopo tanto tempo trascorso, verifichi la persistenza di ragioni di pericolosità soggettiva che legittimino la limitazione della libertà personale. Questo non è valso per me. Purtroppo la scarcerazione non ha significato per me restituzione alla libertà. Il pregiudizio rimane a precludermi un vero ritorno alla vita, quella restituzione alla società cui ogni uomo che ha patito la sua pena dovrebbe ambire. Sono soggetto al permesso dell’Autorità Giudiziaria per qualunque attività che comporti uno spostamento dal mio luogo di residenza, anche per la cura delle mie tante patologie. Ho scelto di restare al nord per non incorrere nel sospetto di perdurante contiguità con il mio ambiente di origine ma su di me è sempre vivo il sospetto e il pregiudizio. Dopo trent’anni un uomo non è cambiato? Non ha diritto di tornare alla società? Non ha la speranza che i suoi torti siano cancellati? Esce dal carcere macchiato per sempre e trova solo porte chiuse. Ogni passo è estremamente difficile, perfino il ripristino dei propri documenti, l’affitto di una piccola casa. La società non ha il dovere di accoglierlo se ha pagato tutto il prezzo che gli è stato richiesto? Il 18 e il 19 dicembre a Milano, dentro al carcere di Opera, dove ho trascorso gran parte della mia lunghissima carcerazione, l’associazione Nessuno Tocchi Caino ha organizzato un grande congresso: "Spes contra Spem", contro l’ergastolo ostativo, contro il 41 bis, per una pena che sia concreta speranza di cambiamento e di restituzione alla vita. Sono stato invitato dagli organizzatori e perfino il Direttore del carcere, Dott. Siciliano, su parere favorevole anche del Dap, ha riconosciuto l’importanza della mia presenza, scrivendo personalmente al Tribunale di Reggio Calabria, Sezione Misure di Prevenzione, perché portassi al congresso la mia esperienza, raccontassi il mio percorso, le mie vicissitudini interiori, il mio cambiamento. La richiesta veniva respinta. A sostegno del rigetto la motivazione che non si trattava di ragioni di studio e che, comunque, altri mezzi di comunicazione potevano consentirmi l’esternazione del mio pensiero. In sostanza, semplicemente un rifiuto alla mia possibilità di partecipare, di fare, di essere uomo, di essere vivo. Anche Sergio D’Elia, nel corso della importante manifestazione, ha stigmatizzato il provvedimento del Tribunale di Reggio Calabria che si traduceva in una ingiustificata esclusione. Ma un altro rifiuto, successivo, mi ha turbato ancora di più. Ho chiesto di trascorrere il Natale con mia madre, una donna anziana e molto malata, colpita da una grave ischemia. Non può viaggiare, non può venire da me. Da oltre trent’anni non ha il figlio accanto a sé per Natale. La legge favorisce gli affetti, l’unione familiare, l’avvicinamento dei propri congiunti, anche se detenuti. Le ragioni di salute dei familiari sono espressamente contemplate tra i motivi che consentono lo spostamento. Ma tutto questo non vale per me. Non potrò più vederla da viva? E quale legge lo ammette? Quale legge lo vuole? Quale Costituzione? Un uomo che ha espiato la sua pena deve portare con sé una stimmate indelebile che lo esclude dalla vita, dalla società, dall’amore? In nome del popolo italiano. Padova: il carcere Due Palazzi in tivù… il lavoro, il concerto e una porta che si apre Il Mattino di Padova, 4 gennaio 2016 A Padova - dentro e fuori dal carcere - ci sono rimasti per cinque giorni, intervistando, prendendo immagini, andando a caccia di storie e di volti. Parliamo dello staff di Rai Cultura, con la conduzione di Caterina Doglio e la regia di Daniele Biggiero, che ha lavorato alla seconda puntata della serie "Giubileo. L’Altro Sguardo". I frutti di questo approfondimento vanno in onda oggi alle 23 su Rai5 (canale 23 del digitale terrestre) in una trasmissione dal titolo "La Tentazione di Cambiare". "Cosa accade se in un carcere un impresa sociale decide di scommettere sui detenuti offrendo una possibilità di riscatto attraverso il lavoro, con un vero stipendio?", spiega Caterina Doglio introducendo la puntata. "E i detenuti sapranno imparare a lavorare? Non è una cosa assurda, con la disoccupazione che c’è fuori e le tante persone che lo cercano, dare un lavoro a dei carcerati? La seconda puntata di "Giubileo. L’altro Sguardo" ha fatto conoscere Guido, Nicola, Pierin e tanti altri che hanno scoperto in carcere la tentazione di cambiare". Nella puntata si parlerà dell’attività lavorativa, quella a cui tanto Papa Francesco fa continuamente riferimento come possibilità concreta di avere o riacquistare dignità. Verranno presentate le testimonianze dei detenuti lavoratori di Officina Giotto dentro il carcere e anche fuori, ma emergeranno anche due eventi che hanno segnato l’irrompere dell’"Anno della Misericordia" nella casa di reclusione padovana. Il primo è il Concerto per Papa Francesco con I Polli(ci)ni, l’orchestra giovanile del Conservatorio Cesare Pollini di Padova, promossa dal Consorzio Sociale Giotto e dalla parrocchia del carcere, che si è svolto domenica 13 dicembre in uno dei capannoni artigianali di Officina Giotto normalmente adibito alla costruzione di biciclette e per l’occasione trasformato in sala da concerto. Un evento aperto dal collegamento in diretta con l’Angelus di papa Francesco, con la sorpresa del ringraziamento in diretta del pontefice: "Saluto i detenuti delle carceri di tutto il mondo, specialmente quelli del carcere di Padova, che oggi sono uniti a noi spiritualmente in questo momento per pregare, e li ringrazio per il dono del concerto". Nel servizio di Rai Cultura c’è anche il più recente evento di domenica 27 dicembre con l’apertura della Porta della Misericordia in carcere, in seguito alla decisione del vescovo di Padova don Claudio Cipolla di dare alla cappella dell’istituto la dignità di chiesa giubilare diocesana. Bari: manca la struttura per poterlo curare, da un mese in cella dopo il proscioglimento di Gabriella De Matteis La Repubblica, 4 gennaio 2016 Il 3 dicembre scorso è stato prosciolto, dichiarato incapace di intendere e volere. Lorenzo Scattarelli, classe 86, sarebbe dovuto uscire dal carcere e invece è ancora detenuto, in attesa che l’amministrazione penitenziaria individui la Rems (una delle Residenze di esecuzione delle misure di sicurezza istituite dopo la chiusura degli ospedali giudiziali). Un’esperienza, quella delle strutture nate per superare i manicomi criminali, partita a singhiozzo in Italia, ma anche in Puglia. Lorenzo Scattarelli, dietro le sbarre, è da più di un anno. I carabinieri lo hanno arrestato accusandolo di aver cercato di uccidere, a coltellate, un suo vicino di casa. In passato aveva commesso un gesto analogo, provando ad ammazzare i familiari della sua ex compagna. I giudici del Tribunale di Bari, all’inizio del mese scorso, lo hanno assolto, ritenendolo non in condizione di capire la portata del suo comportamento e quindi non imputabile, ma nello stesso tempo hanno disposto il trasferimento in una Rems. Il giovane, così come certificato in una perizia disposta dai giudici, è considerato pericoloso. Scattarelli (assistito dall’avvocato Daniela Castelluzzo) è però ancora in carcere, in isolamento (le sue condizioni psichiche non consentono contatti con altri detenuti) nell’istituto penitenziario di Foggia. La residenza che deve accogliere il ventinovenne non è stata ancora individuata. Anche in Puglia, come in altre regioni, la nascita delle Rems è caratterizzata da ritardi. Con un delibera del maggio scorso, la Regione ha dato il via libera all’apertura di due residenze, stanziando più di due milioni di euro. Solo una però, il primo dicembre, ha cominciato la sua attività. È quella di Spinazzola dove i posti sono 20. L’altra dovrà sorgere a Corovigno, ma in questo caso i tempi sono decisamente più lunghi: l’Asl ha recentemente approvato il progetto esecutivo. La Spezia: Lion’s Club Host, "Premio della bontà" assegnato ai volontari del carcere di Giulio Napoli contattonews.it, 4 gennaio 2016 All’interno di un sistema carceri, al centro ormai da svariati anni, di polemiche e critiche per via del sovraffollamento, della scarsità di risorse, delle condizioni in cui versano i detenuti quello dei volontari riveste un ruolo preziosissimo. A fronte dell’importanza che il lo stesso Papa Francesco ha dato al tema delle carceri all’interno del "Giubileo della misericordia", a La Spezia si è voluto sottolineare l’attività dei volontari all’interno dei penitenziari quasi a buon auspicio per l’anno appena iniziato. Di fatti mercoledì 6 gennaio si terrà la cerimonia di consegna del "premio della bontà", il premio intitolato al vescovo Siro Silvestri, a La Spezia che quest’anno nell’edizione 2015 verrà dato proprio al gruppo di persone che operano come volontari nel carcere della città a Villa Andreini. Tra i volontari premiati il cappellano del carcere il francescano padre Felice D’Addario, e tra gli altri sacerdoti il vescovo emerito Bassano Staffieri. Il premio è sponsorizzato dal Lion’s Club Host, e verrà consegnato dal vescovo nella cattedrale il giorno 6 gennaio, giorno di Epifania, alle 10:30. Le origini del premio sono da ricercarsi in motivazioni solidali religiose ed etiche: "Verificate le diverse segnalazioni pervenute, la commissione ha ritenuto di riconoscere quest’anno il "Premio della bontà", all’opera dei volontari carcerari, attualmente attivi presso la Casa circondariale della Spezia. Trattasi di un gruppo di persone, animate da diverse motivazioni solidali, etiche e religiose, che operano volontariamente e gratuitamente a favore dei carcerati ospiti della struttura, in particolare assistendo gli stessi, sia dedicando loro momenti di ascolto personale, sia venendo incontro ad altre necessità concrete. Un sostegno alla persona in un momento di estrema fragilità e difficoltà interiore anche di fronte alle grandi domande della vita che in queste circostanze emergono nel cuore dell’ uomo. In considerazione di quanto sopra il Lyons club Host La Spezia mette a disposizione l’importo di euro 1.500 per rispondere alle necessità concrete dei detenuti. Tale offerta sarà resa operativa, devolvendola alla coordinatrice del gruppo dei volontari, dottoressa Licia Vanni". Reggio Emilia: un’altra rissa tra detenuti, il Sappe contro i vertici del carcere Gazzetta di Reggio, 4 gennaio 2016 È l’ennesimo scontro che si registra nella casa circondariale di Reggio Emilia. Sindacati di polizia penitenziaria denuncia: "Nessuno prende provvedimenti". Una maxirissa, scoppiata domenica sera nel carcere di Reggio Emilia, ha coinvolto un gruppo di tunisini e albanesi, tutti detenuti per reati di droga. "Solo grazie al pronto intervento della polizia penitenziaria è stato evitato il peggio" sono le parole di Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, e Francesco Campobasso, segretario regionale. A riportare le ferite più serie è stato un tunisino, curato nell’infermeria del carcere. Non è la prima volta che si parla di risse dentro il carcere della Pulce. Una situazione che i sindacati hanno denunciato più volte e che, spiegano, "si caratterizza ormai da più di un anno per le continue aggressioni tra detenuti, nonché contro la polizia penitenziaria, da parte degli stessi detenuti. Tutto questo è determinato anche dall’assenza di regole precise e, spesso, dalla mancata adozione di provvedenti adeguati, necessari per ripristinare ordine e disciplina. Tutti i detenuti godono del regime aperto, compresi coloro che si rendono responsabili di gravi episodi di violenza". Secondo il sindacato è "giunto il momento di un’inversione di tendenza, a cominciare da un immediato cambio del vertice, palesemente inadeguato a comandare ed a gestire una situazione che ormai sta sfuggendo di mano a tutti". Sondrio: la Direttrice "mi chiedono perché sono venuta a Sondrio, felice di essere utile" di Daniela Lucchini La Provincia di Sondrio, 4 gennaio 2016 Casa circondariale. La nuova direttrice Stefania Mussio ha raccontato agli studenti del Pio XII il suo arrivo in città "Fate qualcosa per voi stessi e che vi dia soddisfazione". Sostenuta da "una grande passione per il senso di giustizia", da sempre "affascinata dalla Costituzione", Stefania Mussio ha incontrato nei giorni scorsi gli studenti del liceo scientifico paritario Pio XII di Sondrio, invitandoli a non mollare mai e a spendersi per altri. Mussio ha altresì chiesto la collaborazione dei ragazzi per rinnovare la biblioteca della Casa circondariale di Sondrio, di cui è direttrice da alcuni mesi. E numerose sono state le iniziative che le hanno fatto incontrare la cittadinanza, in uno scambio di esperienze che vuole aprire le porte della "casa" alla città. Una lunga chiacchierata, al termine della quale il dirigente scolastico Daniele Spinelli ha consegnato, in dono, le offerte dei ragazzi che, per Natale, hanno deciso di aiutare con un semplice contributo il progetto della biblioteca. Soddisfazione. "Sono convinta che ognuno, anche voi ragazzi, dovrebbe cercare di fare qualcosa per migliorare il nostro Paese. Qualcosa che ci dia soddisfazione". Che renda felici: "Per come sono fatta, devo cercare una mia felicità - ha rimarcato Mussio, che ha spiegato perché ama tanto il lavoro che fa, perché è solo attraverso questo percorso, che riesco a fare qualcosa di utile per gli altri". Certo, non ha nascosto come, essere alla guida di un carcere, non sia cosa semplice: "E un lavoro che ti rende irrequieta, che non ti fa dormire, fatto di moltissime incognite. All’80% fatto di relazioni umane, importantissime per me". Ma essere donna complica il quadro: "Non è facile lavorare in un mondo come quello del carcere, molto maschile, gerarchizzato, militare". Ma Mussio ha fatto capire ai ragazzi che, quando in ciò che si fa ogni giorno, ci si mette passione, è tutta un’altra storia, seppur nelle difficoltà; "Non è facile in uno Stato, in cui il mondo dei giovani è sempre più un deserto. Ciò è gravissimo secondo me, anche perché le cose più belle, le iniziative più coinvolgenti, a favore dei carcerati, le ho fatte proprio con i giovani". La domanda. E ha aggiunto: "Non è facile in uno Stato, in cui il livello di corruzione è alto. Spesso mi chiedono: "Ma chi te lo fa fare, di prendere, partire da Pavia -dove è nata e dove risiede - e andare a Sondrio, per trenta detenuti?". La risposta è molto semplice ragazzi: me stessa". La sua natura è questa, pur ammettendo che il trasferimento nel capoluogo valtellinese non è stato indolore, dopo sette anni a dirigere il carcere di Lodi: "Senza retorica alcuna, posso garantirvi che ho ricevuto molto più di quello che ho dato. Sono venuta a Sondrio con grande travaglio, famigliare e lavorativo, ma felice di esserci". Libri e fumetti. Dopo la palestra, inaugurata ad inizio mese, Mussio ora pensa alla biblioteca: "Se qualcuno di voi ragazzi è appassionato di fumetti o di letture facili e divertenti, che magari avete dimenticato in qualche scatolone, sappiate che per noi sono importanti, per rinfrescare la nostra biblioteca". Emozioni con il vescovo nelle celle. "Il regalo che io chiedo a voi è quello di tenere almeno per un po’ le mie parole nella vostra testa e che possano entrare in un solco che faccia nascere in voi una piantina di convinzione". È stato questa il messaggio che il vescovo Diego Coletti ha voluto rivolgere ai detenuti durante la sua visita prima di Natale, ricca di momenti significativi e denominata "Giubileo. La porta della cella come porta Santa". "Questo per noi è un evento straordinario - aveva sottolineato la direttrice Stefania Mussio. Un vescovo cosi dinamico e speciale come monsignor Coletti doveva per forza venire a vedere il nostro istituto. Questo, poi, è un anno in cui tutti siamo invitati ad avere un cuore più grande, solidale e misericordioso. Sono convinta che da qualcuno che sì sente bene dentro non può uscire qualcosa di brutto. Bisogna partire proprio da questo benessere interiore e, anche qui in carcere, cercare tempo per riflettere e attendere, fuori, un tempo migliore". Alessandria: il Cappellano "Natale fra gli ultimi, le festività vissute in carcere" di Marco Madonia alessandrianews.it, 4 gennaio 2016 Il giorno di Natale e l’inizio del nuovo anno sono momenti di riflessione per tutti, ma c’è chi, in carcere, vive questi giorni speciali con particolare sofferenza ed emozione. Abbiamo incontrato don Bodrati, cappellano della Casa di Reclusione di San Michele, per farci raccontare come vengono affrontate le festività da chi sta scontando una pena Don Giuseppe Bodrati è da 6 anni cappellano presso la Casa di Reclusione di San Michele, incarico che, a malincuore, si avvia a lasciare, visti i tantissimi impegni che ha, con due parrocchie da servire e la sua cattedra come insegnante. Con lui affrontiamo volentieri una riflessione sul Natale vissuto fra i detenuti e il personale della Casa di Reclusione, di cui è confessore, guida spirituale e spesso anche dispensatore di aiuti. Don Bodrati, com’è nata e si è sviluppata la sua collaborazione con il carcere? Tutto è iniziato quando c’è stato il problema di sostituire don Biasolo che insegnava nella scuola per geometri a San Michele, ed è stata fin da subito una bella esperienza. Poi sono diventato cappellano del carcere con il vescovo Versaldi. Che tipo di esperienza è? Cosa si imparare e cosa si insegna in un ambiente così speciale? Dal punto di vista umano e cristiano è un’avventura unica: il rapporto con i detenuti, con gli agenti, con il personale, non può che lasciare tantissimo. È un’esperienza che porterò sempre nel cuore. Con il tempo si instaura un rapporto confidenziale con chi si trova recluso, di fiducia, di rispetto e a volte anche di scontro. Il mio compito non è solo di sostegno, ma cerco anche di far loro capire il senso della pena che stanno scontando. Non chiedo mai perché si trovano lì, ma tanti hanno bisogno di parlare e di raccontarsi. È allora che si prova insieme a superare la fase di costernazione che chi è recluso spesso vive. Ci sono molte persone con problemi di alcol e droga. Cerco di dar loro un po’ di speranza e aiutarli a trovare la forza di ricominciare: se non ci credono loro per primi, è difficilissimo aiutarli. Quello del Natale è un periodo particolarmente delicato. Come viene vissuto in carcere? Facciamo una grande messa per il personale, un evento che si ripete anche a San Basilide, protettore della Polizia Penitenziaria. La liturgia della parola è sempre piuttosto frequentata, e c’è chi fa la comunione. Per i detenuti non è semplice: vedono in televisione il clima natalizio ma la quotidianità non cambia di molto. Per il giorno di Natale hanno cella aperta fino alle 22 e possibilità di fare il pranzo per gruppi di detenuti. Il rischio del carcere è il tempo che annoia. Cosa vuol dire essere il cappellano di tutti, a prescindere dalla fede delle persone che si ascoltano? La messa è l’unico momento in cui i detenuti possono incontrarsi anche con persone di diverse sezioni. Questo crea problemi per la sicurezza, ma è anche un momento di fraternità. Io lascio sempre 5 minuti per scambiare fra loro qualche momento di amicizia, pur nel rispetto delle regole e dei limiti imposti dal Ministero. In verità ai momenti di preghiera partecipano anche cristiano non cattolici, e talvolta anche detenuti di fede musulmana, con i quali il dialogo è molto aperto. E il rapporto con gli agenti? Anche gli agenti sono stressati, e in un certo senso sono i veri carcerati: si trovano da soli in sezione con 25-40 persone da dover gestire. Spesso è durissima. Qui ad Alessandria mi sembra ci sia un livello di professionalità davvero molto alto. Poi, va detto, sono persone e non supereroi, perciò sbagliano come tutti. Quali sono le altre funzioni che il cappellano svolge in carcere? Insieme a don Andrea, diacono che mi aiuta nella Casa di Reclusione, aiutiamo i detenuti in tante piccole faccende di quotidiana necessità: c’è chi ha problemi finanziari, trovandosi senza quei pochi euro che possono servire per la propria igiene personale o per telefonare a casa. In quel caso, grazie ai fondi dell’8 per mille che la diocesi mi mette a disposizione, cerchiamo di dare una mano. I detenuti sono però circa 200 e aiutare sempre tutti non è ovviamente possibile. Ci vengono anche chiesti spesso calendari (senza banda metallica, che in carcere non sarebbero autorizzati), ma anche testi sacri, fotografie, libri. Voglio però ricordare anche il grande aiuto che viene dai volontari del gruppo Betel, e il supporto economico della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Ci sono mai state delle conversioni avvenute in carcere? Certamente. Noi accompagniamo chi lo desidera lungo un cammino di lettura dei testi sacri, siano essi cattolici o musulmani: spesso chi si trova in carcere, al di là della propria fede dichiarata, conosce pochissimo i testi sacri di riferimento. C’è chi, musulmano, ripete a memoria parole in arabo senza però conoscerne il significato. Invero, l’unico musulmano radicale che ho mai trovato in carcere è un italiano convertito. Io ho eseguito tre battesimi di persone recluse, che dall’Islam hanno deciso di abbracciare la fede cattolica. Non so cosa li spinga, ma non penso si tratti di una scelta di comodo, anche perché non hanno alcun beneficio in termini di trattamento in carcere e anzi rischiano rappresaglie nei propri paesi d’origine dopo essersi convertiti. Quali sono i ricordi più belli della sua esperienza di questa anni? Penso alla gioia di un detenuto che ritrova la figlia dopo anni, al piccolo spettacolo teatrale che sa ancora emozionarli ed emozionare, agli sprazzi di luce in un ambiente grigio. Tutti gli operatori vanno incoraggiati a mantenere un atteggiamento in prospettiva positiva, ce n’è un enorme bisogno, e a credere in una pena davvero riabilitativa, non solo a Natale. Pisa: il Cappellano del carcere ordinato Vescovo, gli è stata affidata la diocesi di Pescia Ansa, 4 gennaio 2016 Monsignor Roberto Filippini, già cappellano del carcere Don Bosco di Pisa e rettore del seminario arcivescovile pisano, è stato ordinato vescovo nel pomeriggio nel Duomo di Pisa. A lui Papa Francesco ha affidato la diocesi di Pescia (Pistoia). Alla solenne cerimonia, presieduta dall’arcivescovo di Pisa, Giovanni Paolo Benotto, hanno partecipato tutti i vescovi toscani guidati dall’arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori. In cattedrale almeno 2500 fedeli hanno assistito alla funzione religiosa insieme alle autorità cittadine e pesciatine. Dalla nuova diocesi di monsignor Filippini, di Marina di Pisa, erano giunti dieci pullman per salutare l’ordinazione del vescovo. Durante i suoi saluti Filippini era visibilmente emozionato e la voce si è rotta per il pianto quando ha ricordato i ‘ragazzì, "i detenuti della casa circondariale testimonianza della forza micidiale del male ma anche della straordinaria energia di chi cerca un riscatto". Infine, il neo vescovo si è rivolto ai suoi nuovi fedeli direttamente: "Vengo tra voi consapevole dei miei limiti e delle mie fragilità. Ma ci metto il cuore - ha aggiunto scherzando - e anche il mio cardiologo ha detto che si può fare". Poi ha concluso: "In alto nel mio stemma da vescovo sono disegnati la colomba e il ramoscello della pace che sono un dono del Signore ma anche compito e passione che vanno svolti e interpretati ogni giorno e in ogni attività". L’ora del coraggio per i diritti civili di Stefano Rodotà La Repubblica, 4 gennaio 2016 I diritti civili, come quelli sociali, appartengono alla sfera delle inalienabili garanzie che spettano alla persona e devono essere garantite dallo Stato: non possono per ciò essere subordinate ai patteggiamenti della politique politicienne. I tempi dei diritti sono sempre difficili. Lo conferma la lunga e travagliata vicenda delle unioni civili, la cui conclusione è annunciata dal Presidente del Consiglio per il 2016. Le ragioni delle difficoltà sono molte. I diritti incidono sull’ordine costituito. E i poteri, e per ciò si cerca di neutralizzare questa loro intima capacità di cambiamento contrapponendo loro doveri sempre più aggressivi, imponendo limiti costrittivi, subordinandoli a convenienze politiche talora meschine e così pianificando scambi tra sacrificio di diritti sociali e mance di diritti civili. Si è inclini a dimenticare che i diritti sono indivisibili e che le vere stagioni dei diritti sono quelle in cui diritti individuali e diritti sociali procedono insieme. È il modello, non dimentichiamolo, della nostra Costituzione. È quello che è accaduto negli anni ‘70, quando il congiungersi del "disgelo costituzionale" e della capacità della politica di cogliere senza timidezze le dinamiche sociali cambiò davvero l’Italia, senza reazioni di rigetto determinate dal fatto che le richieste di diritti hanno sempre la loro origine nello sguardo lungimirante e nella cultura delle minoranze escluse. Di tutte quelle difficoltà sembra intrisa la maniera in cui si sta affrontando, al Senato, la questione delle unioni civili. Presentata come l’avvio di una nuova stagione di diritti civili, rischia di impigliarsi in compromessi al ribasso, che lasceranno una scia di polemiche e di risentimenti. Dopo che la Corte costituzionale e la Corte di Cassazione hanno riconosciuto che le unioni tra persone dello stesso sesso sono una delle "formazioni sociali" di cui parla l’articolo 2 della Costituzione, nella discussione parlamentare è spuntata una lettura restrittiva, e illegittima, di quella norma, definendo le unioni come "formazioni sociali specifiche". Dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia proprio per la mancanza di una adeguata disciplina delle unioni civili, che non può essere limitata ai soli aspetti patrimoniali, ecco riemergere le pretese di centrare la nuova disciplina proprio sugli aspetti patrimoniali. Si abusa di riferimenti alla "stepchild adoption", all’adozione dei figli del partner, che dovrebbe essere esclusa o sostituita dall’acrobatica invenzione di un affido "rafforzato". Viene così resuscitata la discriminazione contro i figli "nati fuori del matrimonio", eliminata nel 1975 e che ora ritorna evocando impropriamente lo spettro dell’"utero in affitto" e invocando ipocritamente un interesse dei minori che diverrebbero, invece, vittime di un sopruso. Una legge che dovrebbe produrre eguaglianza rischia di trasformarsi in una disciplina che formalizza, e dunque rende ancor più evidente, una permanente discriminazione delle unioni tra persone dello stesso sesso. Comunque un passo avanti, si dice. Ma con chiusure che porteranno a nuove censure, interne e internazionale, mostrando una volta di più una sorta di allergia italiana a procedere correttamente sulla via del riconoscimento dei diritti delle persone. La tentazione del compromesso al ribasso, in queste materie, non è nuova. Il Pci cercò di disinnescare le polemiche intorno alla legge sul divorzio proponendo il cosiddetto "divorzio polacco", limitato ai soli matrimoni civili. Misero espediente, che venne rapidamente liquidato da una politica nel suo insieme capace di scelte nette e da una società reattiva che, nel 1974, votò no nel referendum abrogativo di quella legge. Politica che mostrò altrettanta lungimiranza quando nel 1978, in una materia difficile come l’aborto, venne approvata una buona legge, anch’essa confermata dal voto popolare. I richiami alla deprecata Prima Repubblica non sono graditi, ma proprio per i diritti vengono ancora insegnamenti che dovrebbero essere meditati. Oggi la politica sembra mancare di coraggio, trasformando in faticosa e costosa concessione quello che non è neppure il riconoscimento di un nuovo diritto, ma la rimozione di un ostacolo che impedisce ad alcune persone di esercitare un diritto di cui tutti gli altri già godono. E questa esclusione è fondata sul loro "orientamento sessuale", dunque su una causa di discriminazione ritenuta illegittima dall’articolo 21 della Carta europea dei diritti fondamentali, che ha lo stesso valore giuridico d’ogni altro trattato europeo. Un problema di eguaglianza dunque, tanto più evidente dopo che l’articolo 9 della stessa Carta ha eliminato il requisito della diversità di sesso sia per il matrimonio che per ogni altra forma di costituzione di una famiglia. L’assenza di questa consapevolezza mostra un limite culturale che continua ad affliggere la discussione parlamentare. La Corte europea dei diritti dell’uomo, infatti, non si è limitata a condannare l’Italia per il ritardo nel dare una adeguata disciplina alle coppie di persone dello stesso sesso. Ha ricordato pure che il nostro paese è ormai parte di un sistema giuridico allargato, di cui deve rispettare principi e regole, sì che la stessa libera scelta del Parlamento, la discrezionalità del legislatore risultano limitate. Si sottolinea che ormai la maggioranza dei paesi del Consiglio d’Europa (24 su 47) riconosce nella loro pienezza quelle unioni. E questo non è un semplice dato statistico, ma una indicazione che rende più stringente il "dovere positivo" dell’Italia di intervenire senza inammissibili restrizioni, perché siamo di fronte a diritti dal cui effettivo riconoscimento dipendono l’identità, la dignità sociale, la vita stessa delle persone. Il paradigma eterosessuale crea ormai incostituzionalità e di questo si deve tener conto quando si contesta l’ammissibilità dell’accesso delle coppie tra persone dello stesso sesso al matrimonio egualitario, di cui oggi non si vuol nemmeno discutere. Ma un ostacolo in questa direzione non può essere trovato nella sentenza del 2010 della Corte costituzionale, di cui oggi è necessaria una rilettura proprio nel contesto europeo che mette al centro l’eguaglianza e sottolinea come le dinamiche sociali, peraltro richiamate dalla stessa Corte, vanno nella direzione di un riconoscimento crescente del matrimonio egualitario, impedendo di riferirsi ad una tradizione "cristallizzata" intorno al matrimonio eterosessuale, ormai contraddetta dalle dinamiche sociali e dalle innovazioni legislative che escludono la possibilità di invocare una natura immutabile del matrimonio. Non è sostenibile, allora, che una legge ordinaria non possa introdurre nell’ordinamento italiano l’accesso paritario al matrimonio, proiettando nel futuro una discriminazione ormai indifendibile anche sul piano strettamente giuridico. Davanti al Senato è una grande questione di eguaglianza, principio fondamentale che oggi troppo spesso non viene onorato. L’annunciata nuova stagione dei diritti sarà valutata anche da questo primo passo, che tuttavia, anche se andrà nelle giusta direzione, non potrà far dimenticare il permanente sacrificio di diritti sociali. Anzi, proprio l’enfasi posta sul tema dei diritti civili impone una riflessione sulla politica dei diritti dell’attuale governo, tutta fondata su misure settoriali, bonus di varia natura, che mostrano l’accettazione della logica del "fai da te", dell’individualizzazione degli interventi. La società scompare e con essa una vera politica dei diritti. Molti economisti hanno mostrato che i dieci miliardi destinati agli 80 euro avrebbero potuto essere meglio utilizzati per una politica di investimenti, strutturalmente produttivi di occupazione, e per un primo passo verso il riconoscimento di un reddito di dignità. Chiara Saraceno non si stanca di ricordarci che gli interventi a pioggia non ci danno né una politica della famiglia, né una efficace politica contro la povertà. Se davvero vogliamo tornare a parlare di diritti, ricordiamoci che sono indivisibili. E, visto che il presidente del Consiglio riscopre un’Europa non riducibile all’economia, vorrà ricordarsi che proprio di questo parla la sua Carta dei diritti fondamentali? L’offensiva dei troppo "corretti" di Paolo Mieli Corriere della Sera, 4 gennaio 2016 Il presepe di Madrid, con i Re Magi donna, ultimo esempio di una deriva discutibile. La Spagna, che (sia detto per inciso) non è ancora riuscita a darsi un governo, tra due giorni sarà politicamente compensata da una straordinaria novità. La sindaca di Madrid, Manuela Carmena, eletta a maggio con l’appoggio di Podemos - reduce dall’aver vinto battaglie per il ridimensionamento del presepe nel Palacio de Cibeles e per la celebrazione del Natale multietnico con tamburi africani, poesia serba e musica palestinese - ha ottenuto che la sera del 5 gennaio debuttino i Re Magi donna. Come Conchita Wurst o Annie Girardot nel celeberrimo film di Marco Ferreri, Gaspare e Melchiorre saranno - nelle sfilate di Puente de Vallecas e Sans Blas-Canillejas - reinas magas con tanto di barba (Baldassarre no, perché è nero e farlo impersonare da una donna barbuta deve essere sembrato eccessivo). La sindaca madrilena gioisce in questi primi giorni del 2016 per i suoi personali trionfi che ne fanno un’eroina della guerra mondiale combattuta sotto le insegne del "politicamente corretto". Già, perché in Spagna il presepe non viene soppresso per andare incontro a bambini di altre religioni (i quali, peraltro, né direttamente, né attraverso madri e padri, hanno mai chiesto di adottare questo tipo di misure). A Madrid non c’è motivo perché, come è accaduto da noi, un Matteo Salvini si presenti con mantello e turbante all’asilo di sua figlia: Cristianesimo e Islam non c’entrano; Manuela Carmena si è spesa esclusivamente per un’Epifania che contemplasse "un rapporto più equilibrato tra uomini e donne". Va riconosciuto che da questo momento per il resto d’Europa (e del mondo intero) sarà arduo competere con questa apoteosi madrilena della correttezza politica. Certo, in anni recenti, altrove abbiamo assistito ad altri trionfi di questa inarrestabile offensiva: sono finiti sotto processo libretti di opere di Mozart, testi di Dante Alighieri, William Shakespeare, Herman Melville, Joseph Conrad. Il capitano Achab è stato messo all’indice in alcune università statunitensi perché "portatore di un atteggiamento sconveniente nei confronti delle balene". Lo scrittore nigeriano Chinua Achebe ha proposto la messa al bando di "Cuore di tenebra" in quanto "sprezzante nei confronti degli africani". La Columbia University ha aperto un contenzioso su Ovidio e sul "contenuto troppo violento" delle sue "Metamorfosi" che peraltro conterrebbero "scene erotiche tali da provocare traumi nei giovani lettori". Francis Scott Fitzgerald ha avuto, per così dire, seri problemi all’ateneo di Yale dove agli studenti è stato vietato di indossare una maglietta con una frase dell’autore del "Grande Gatsby" ("Penso a tutti gli uomini di Harvard come a delle femminucce") considerata alla stregua di un "insulto omofobo". Ian McEwan ha denunciato inorridito le minacce subite dal poeta Craig Rane per alcuni versi sulle fantasie erotiche di un vecchio. Persino Andrea Camilleri ha avuto i suoi guai allorché la commissaria europea alla pesca, Marta Damanaki, gli ha intimato di vietare a Montalbano di indulgere all’abitudine, "inaccettabile nel Mediterraneo", di cibarsi di pescetti. E credo che lo scrittore si sia adeguato togliendo dai suoi racconti ogni cenno al novellame. Potente è stata anche la carica contro i classici cinematografici. Il New York Post si è schierato per la censura di "Via col vento", quantomeno per il taglio di qualche scena del personaggio di Mami, interpretando il quale Hattie McDaniel fu la prima afroamericana a vincere l’Oscar. Visto che c’era, lo stesso giornale ha chiesto fosse tolta l’immagine di una domestica nera che campeggiava dal 1889 sulle confezioni di sciroppo da plumcake "Aunt Jemima" e quella del cameriere nero sul riso "Uncle Ben’s". Non sono stati risparmiati neanche i film di animazione. Quattro mesi fa, sulla piattaforma in streaming Netflix, lo stringatissimo racconto di "Pocahontas" è stato cambiato in fretta e furia. Già reso oscuro da un primo vaglio al setaccio del politically correct, recitava così: "Una donna indiana d’America è promessa sposa del guerriero più forte del villaggio, ma anela a qualcosa di più e incontra il capitano John Smith". Adrienne Keene, rappresentante di un’Associazione di nativi, ha obiettato che l’uso del verbo "anela" era "disgustoso". La Disney è corsa ai ripari e ha ottenuto il via libera dell’Associazione a costo di rendere quella mini-trama pressoché incomprensibile: "Una giovane ragazza indiana d’America prova a seguire il suo cuore e proteggere la sua tribù, quando i coloni arrivano e minacciano la terra che ama". I produttori eredi di Walt Disney si sono piegati anche perché memori di seri problemi avuti anni fa: in primis con Paperino quando un’Associazione per la difesa del fanciullo pretese gli venisse tolto il battipanni con cui inseguiva Qui, Quo e Qua; poi con Mr. Magoo, il personaggio molto miope creato nel 1949 da John Hubley, allorché la Federazione dei non vedenti impose l’abbandono del progetto di trarne un cartone animato che avrebbe fatto "ridere sulla disabilità". Il compromesso fu raggiunto con un film di Stanley Tong (interpretato da Leslie Nielsen) in cui, però, lo spirito del fumetto andò quasi interamente perso. Da quel momento la Disney si è buttata sulla correctness più irreprensibile e pochi giorni fa ha prodotto uno spot natalizio di Frozen in cui due uomini tenevano in braccio un bambino. Ma non si può mai stare in pace. Dall’Italia i parlamentari Carlo Giovanardi e Eugenia Roccella hanno chiesto che quel filmato venisse eliminato dalla tv poiché non era chiaro chi fossero i genitori di quell’infante: "Figlio di chi? dov’è la mamma?", hanno domandato maliziosi i due rappresentanti del popolo italiano. Qualcuno di quando in quando ha cercato di resistere al regime della correttezza. Antesignano di questi ribelli, lo scrittore Robert Hughes con un libro, "La cultura del piagnisteo" (Adelphi), che si è imposto come manifesto degli ostili a quella da lui descritta come "una sorta di Lourdes linguistica dove il male e la sventura svaniscono con un tuffo nelle acque dell’eufemismo". Tra i partigiani vanno annoverati l’anticipatore Saul Bellow, il cui testimone è passato a Philip Roth e poi a Martin Amis. Qui in Italia, merita una decorazione Umberto Eco che tempo fa sull’Espresso ha preso in giro l’iper-correttezza degli antiberlusconiani suggerendo di alludere con queste parole ai problemi di statura e trapianto del loro bersaglio prediletto: "Persona verticalmente svantaggiata intesa ad ovviare a una regressione follicolare". Medaglia anche per Sergio Romano che, su queste colonne, ha lamentato la scomparsa dalla letteratura contemporanea di termini "straordinariamente espressivi" come "sciancato, storpio, orbo, zoppo, straccione, pezzente" e ha rivendicato il diritto di ripetere le parole pronunciate dal poeta messicano Francisco de Icaza al cospetto dell’Alhambra e del Palazzo della Madraza: "Nella vita non vi è pena maggiore dell’esser cieco a Granada". Sacrosanto. Anche se consideriamo una sofferenza più afflittiva dell’essere ciechi a Granada, quella di godere di una buona vista a Madrid. Quantomeno domani sera quando sfileranno le regine barbute di Manuela Carmena. Medio Oriente: l’incubo di altre guerre, così fallisce la strategia di Obama di Federico Rampini La Repubblica, 4 gennaio 2016 Dietro la religione il conflitto è politico e tra petrolio, nucleare e business mette a rischio la coalizione voluta per affrontare il Califfato in Siria e Iraq. Rottura delle relazioni diplomatiche, evacuazione dell’ambasciata saudita a Teheran: l’improvvisa accelerazione della crisi moltiplica i rischi per tutti, ben oltre i due giganti rivali del Golfo. È un conflitto per ora politico, ma pronto a degenerare. Perché ne incrocia altri, già combattuti con le armi: dalla Siria all’Iraq allo Yemen. L’asprezza dello scontro tra Iran e Arabia saudita può destabilizzare i faticosi sforzi dell’Occidente per saldare una coalizione contro lo Stato Islamico. È un grave contraccolpo per Obama che di quella coalizione ha la guida. Nel corso del 2015 la sua strategia ha avuto due capisaldi. Primo: la scommessa sulla normalizzazione dei rapporti con l’Iran. Secondo: la costruzione di una grande coalizione contro lo Stato Islamico. Tutt’e due sono messi a repentaglio dalla crisi fra Teheran e Riad. L’accordo sul nucleare iraniano è stato - insieme a Cuba - uno dei "colpi" con cui Obama voleva costruire la sua eredità negli affari internazionali. È stata definita un’operazione kissingeriana, evocando il "patto col diavolo" che Henry Kissinger orchestrò negli anni Settanta tra l’America e la Cina di Mao. Anche Obama ha osato dialogare con un "demonio" che incombe sulla diplomazia americana dalla crisi degli ostaggi di Teheran (1979). Lo ha fatto non perché creda che il regime iraniano sia improvvisamente filo- occidentale (neppure la Cina di Mao cessò di essere comunista). La scommessa era sull’interesse comune degli iraniani a rimettersi in gioco. L’Arabia saudita, dopo avere strepitato per mesi contro l’accordo sul nucleare iraniano, ora è passata alle vie di fatto: sabotaggio attivo. Che complica molto i disegni di Obama. Dei sauditi lui non si fida molto più che degli iraniani ma non può buttar via decenni di "rapporto privilegiato", alleanza militare, intrecci finanziari. Ma i sauditi sembrano pronti a tutto pur d’impedire un ritorno dell’Iran nella comunità internazionale. Lo stesso avviene sull’Is. Obama è convinto che il Califfato possa essere sconfitto, ma non mandando truppe americane "infedeli" a riconquistarne i territori. La riconquista deve avere come protagonisti dei combattenti sunniti. Perché questo avvenga - Obama lo ha ripetuto al G20 in Turchia - tutte le potenze regionali devono accantonare altre rivalità e concentrarsi sul "nemico principale". Dunque tutte devono decidere che il primo avversario da abbattere è proprio lo Stato Islamico, voltando pagina rispetto ai doppi giochi. L’esplosione di ostilità tra Arabia e Iran spinge nella direzione opposta. Petrolio e nucleare, finanza e affari, s’intrecciano con la religione e la politica, nelle grandi manovre per un Medio Oriente post-americano. Non c’è solo l’antica contrapposizione politico-religiosa tra sunniti e sciiti dietro l’escalation fra Arabia saudita e Iran. Sullo sfondo c’è un tremendo contro-shock energetico, una guerra economica. Un ribaltamento dei mercati che ha ripercussioni catastrofiche per tutti i petro-Stati. Una dopo l’altra vanno in crisi con un effetto domino le economie che vivevano di rendita energetica. Molte, peraltro, sono nemiche storiche dell’America: Russia, Venezuela, Iran. Solo nel 2015 il prezzo del greggio è caduto del 40 per cento. Per chi il petrolio lo vende, l’impoverimento è brutale. All’interno dell’Opec, indebolita e lontana anni-luce dal potere oligopolistico del passato, è esplosa la guerra guerreggiata delle "quote". Con l’Iran che torna sui mercati mondiali e l’Arabia ben decisa a contrastare l’export del suo potente rivale. Ormai la parola austerity è arrivata sulle rive del Golfo Persico, dove le spese pubbliche faraoniche vengono ridimensionate, gli sceicchi devono tagliare. Rischiando a loro volta crisi di consenso interne, in paesi dove la spesa pubblica finanziata dal petrolio è spesso l’unico collante sociale. Questo scenario dà anche un altro significato allo scenario di un Medio Oriente "post- americano": quello di una ritirata strategica degli Usa che sancisce una progressiva perdita d’interesse geo-economico verso la regione. Da anni l’America non importa più neanche una goccia di petrolio dal Medio Oriente. Il prezzo che paga per mantenere in quell’area una vacillante egemonia - e due flotte - comincia a sembrare eccessivo ad una parte della classe dirigente Usa. Ma un ruolo di arbitro nella zona di transiti petroliferi che va dal Mediterraneo al Golfo Persico fino all’Oceano Indiano, fa parte dei prezzi da pagare per mantenere una leadership mondiale. Tanti altri, alleati o rivali, continuano ad avere bisogno del petrolio arabo: dagli europei ai cinesi. Finché l’America pattuglia con le sue flotte le grandi rotte navali del greggio, l’Europa e la Cina le riconoscono volenti o nolenti uno status "indispensabile". Per questo il "guerriero riluttante" Barack Obama è impegnato a ridisegnare le sue strategie, tenendo conto di due attrazioni contrapposte: da una parte l’interesse a non farsi risucchiare in conflitti fallimentari come l’Iraq; d’altra parte conservare una presenza che fa parte dell’influenza planetaria degli Stati Uniti. A questo punto, ogni calcolo e ogni scenario deve incorporare una nuova crisi. Con due potenze locali armate fino ai denti, nessuna delle quali può essere "decifrata" facilmente, tantomeno disciplinata da influenze esterne. Tramontata ogni illusione di Pax Americana, non esistono premesse di una Pax Russa o Cinese, solo la pesante realtà di guerre regionali dove alle etichette religiose si mescolano tanti altri interessi. La crisi in Medio Oriente e i due volti di Teheran di Franco Venturini Corriere della Sera, 4 gennaio 2016 Le profonde divisioni tra riformisti e conservatori si sono riaccese. E un Paese che deve stare attento a non esplodere dall’interno non è nella posizione migliore per raccogliere la provocazione saudita. Offeso e provocato dall’esecuzione in Arabia Saudita del predicatore al Nimr, l’Iran sciita non sembra voler alimentare troppo lo scontro con i sunniti di Riad. L’assalto all’ambasciata saudita a Teheran è stato controllato e poi fermato e la rottura dei rapporti diplomatici tra i due Paesi è stata decisa per iniziativa saudita. La Guida suprema Alì Khamenei ha previsto una "vendetta divina" contro i Saud, formula perfetta per prendere tempo. Gli inviti alla moderazione provenienti dall’America e dall’Europa non sono stati respinti. Forse la potenza sciita teme quella sunnita? Sarebbe illusorio pensarlo. L’Arabia Saudita ha fatto le sue mosse, e se l’Iran non vuole (per ora) portare la tensione alle stelle è per due motivi precisi. Il primo nasce dalla lotta di potere interna in pieno svolgimento a Teheran. Il secondo risiede nella molteplicità di risposte possibili di cui dispone l’Iran nell’ambito della lotta all’Isis, in Siria e in Iraq. Dopo la conclusione dell’accordo sui programmi nucleari iraniani nel luglio scorso, i più ottimisti pensarono che la prospettiva della revoca delle sanzioni avrebbe agevolato un processo di pacificazione politica a Teheran. Invece è accaduto che le profonde divisioni tra riformisti e conservatori, tenute a bada dall’ambiguità di Khamenei durante la trattativa con l’ex Satana americano e i suoi alleati, sono riesplose dopo l’intesa se possibile con ancor maggiore virulenza. La fazione moderata del presidente Rouhani è stata accusata di filo-occidentalismo. Una parte maggioritaria della società composta da giovani l’ha però sostenuta, accendendo ulteriormente lo scontro con i settori tradizionalisti guidati dai Pasdaran. Come altre volte la Guida suprema Khamenei ha allora usato i suoi poteri per congelare lo scontro ricordando implicitamente a tutti che l’Iran ha bisogno, se non vuole precipitare in una crisi economica ancor più grave, della fine delle sanzioni occidentali e di tornare a esportare liberamente il suo petrolio (con buona pace dei prezzi sul mercato, altro motivo di acredine verso l’Arabia Saudita). Un Paese che deve stare attento a non esplodere dall’interno non è nella posizione migliore per raccogliere la provocazione confessionale e strategica di Riad. Ha invece interesse a meditare con calma le sue rivincite, ma in realtà proprio le lotte interne potrebbero fornire nuove occasioni ai poteri iraniani più oltranzisti. Non a caso gli unici a chiedere un "castigo immediato" dell’Arabia Saudita sono stati prima i Guardiani della Rivoluzione e poi l’esercito regolare, confermando e allargando il tentativo non nuovo dei militari iraniani di accrescere il loro già notevole peso che riguarda anche settori chiave dell’economia. Khamenei dovrà continuare a mediare, e di nuovo non scontentare troppo gli uomini in divisa nel grande gioco mediorientale oggi dominato dalla guerra all’Isis e dal conflitto siriano. L’Iran è più intransigente della Russia nel sostenere lo sciita Assad a Damasco, e sarà difficile riportarlo, ammesso che ci sia mai riuscito, ad intavolare un vero dialogo con il fronte sunnita nell’ambito della prossima fase del "processo di Vienna". Reparti speciali iraniani operano in Siria assieme agli sciiti libanesi di Hezbollah, e sono stati a lungo, prima dei bombardamenti russi, il principale sostegno di Bashar al Assad. Inquadrate e guidate dagli iraniani sono anche le milizie sciite che si battono contro l’Isis in Iraq, ma il loro impiego viene limitato dal governo di Bagdad (per esempio a Ramadi) per evitare che dopo una vittoria, come è accaduto a Tikrit, scatti la caccia al sunnita. Senza l’Iran o contro l’Iran, insomma, sarà molto difficile battere l’Isis e sarà impossibile pacificare la Siria. Il guaio è che lo stesso può essere detto dell’Arabia Saudita, e del rassemblement di gruppi sunniti che ha appena tenuto a battesimo. Ed è per questo che le conseguenze dell’uccisione di al Nimr possono riportare all’essenza, cioè alla lotta di predominio tra sunniti e sciiti, il fenomeno Isis e le guerre siriana e irachena. Iran: "Riad è come l’Isis". E i sauditi rompono le relazioni con Teheran di Arturo Zampaglione La Repubblica, 4 gennaio 2016 Imam sciita giustiziato, espulsi i diplomatici. Scontri in Bahrein. Khamenei invoca la "vendetta divina". Dopo le ambasciate prese d’assalto, proteste di piazza da Teheran al Bahrein, accuse incrociate di terrorismo e invocazioni di una "vendetta divina" da parte del leader supremo, l’Ayatollah Ali Khameini che paragona Riad all’Is: Iran e Arabia saudita, si affrontano in modo feroce all’indomani dell’esecuzione di 47 persone tra cui lo sceicco sciita Nimr al Nimr, che il leader Hezbollah, Hassan Nasrallah, definisce "martire". Fino all’annuncio dell’Arabia Saudita che ha interrotto le relazioni diplomatiche con l’Iran. Il rischio ora è che il confronto degeneri, in un’ulteriore destabilizzazione dell’area e vanificando quegli sforzi faticosi per costruire una grande alleanza contro l’Is e per avviare, sotto egida Onu, il processo di pace in Siria. Questi timori hanno suggerito alle capitali occidentali di reagire senza troppo criticare né sbilanciarsi, cercando di "disinnescare le tensioni": come ha fatto ieri Federica Mogherini, Alto rappresentante della Ue per la politica estera, in una lunga conversazione con il ministro degli esteri iraniano Mohammed Javad Zarif. Entrambi hanno convenuto sulla "necessità che le parti facciano ogni sforzo per mantenere la situazione sotto controllo". Anche gli Stati Uniti hanno fatto appello ai leader della regione per "non esacerbare le tensioni regionali" e al governo saudita perché "rispetti e protegga i diritti umani, assicuri la trasparenza giudiziaria e permetta espressioni pacifiche di dissenso". Dichiarazioni, queste, non di Barack Obama (tornato ieri pomeriggio a Washington dopo le vacanze alle Hawaii), né di John Kerry, ma di un semplice portavoce del Dipartimento di stato: a conferma che in questa fase la Casa Bianca vuole esporsi il meno possibile e che sicuramente è in imbarazzo per la mossa Riad, da sempre il suo alleato di riferimento. Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha invece espresso il suo "sgomento", ricordando di essersi attivato nel passato per commutare la condanna a morte dello sceicco al Nimr. Ma è soprattutto a Teheran che si è scatenata la rabbia degli sciiti. Dopo l’assalto all’ambasciata saudita nella capitale iraniana la polizia ha arrestato 40 persone, ma le proteste di piazza sono riprese ieri, fomentate anche dalle guardie rivoluzionarie che hanno bollato la morte di al-Nimr come "un atto selvaggio e medioevale". E sono continuate anche in Bahrein. Nel Paese governato da una minoranza sunnita e sostenuto da Riad, i manifestanti sciiti si sono scontrati con la polizia che ha effettuato numerosi arresti. "Io, figlia dell’Islam contro la dinastia dei signori feudali" di Ghita El Khayat (Candidata al premio Nobel per la Pace nel 2008) Il Tempo, 4 gennaio 2016 Io, nata nell’islam e considerata come araba (mentre sono maghrebina), ancora una volta, non riesco a tacere su quello che l’Arabia Saudita esercita in quello che si chiama il mondo arabo. Già in passato scrissi una lettera al Comitato del Nobel per la Pace, per protestare contro il fatto che la bandiera di questo paese porta stampato il simbolo di un’arma, la spada con cui l’Isis ha tagliato migliaia di teste. Quest’arma del medioevo sulla bandiera saudita non può parlare, oggi, al posto del mio popolo e delle donne che lo compongono. Ho scritto anche un testo di denuncia contro la decapitazione degli omosessuali in questo paese: come accettare che degli essere umani vengano uccisi a causa della loro sessualità? Com’è possibile che dei paesi liberi e sovrani abbiano taciuto dinanzi a tale infamia, paesi in cui gli omosessuali hanno ricoperto le più alte cariche dello Stato, con dignità e competenza, come in Francia, Belgio, Lussemburgo, per citarne solo alcuni. La promozione dell’Arabia Saudita al Consiglio dei diritti dell’uomo, presso l’Onu, a fine settembre 2015, è uno scandalo di proporzioni inaudite e una buffonata per la gente di tutto il mondo che ama la giustizia, la libertà e la pace. Nimr El Nimr, suppliziato in nome della sua fede e delle sue rivendicazioni, oggi è un eroe. Egli ha avuto il coraggio di levare la sua voce contro una dinastia arcaica, attraverso la quale due o tremila principi possiedono un intero paese e le sue ricchezze, come i signori del feudalesimo più retrograde che lavorano solo per la propria ricchezza, esercitando un potere sostenuto dagli arcani politico-religiosi di un antenato più predatore dei suoi contemporanei: si tratta del wahabismo, movimento politico-religioso saudita scaturito dall’Islam sunnita hanbalita, fondato nel 18º secolo da Mohammed ben Abdelwahhab che predicava un islam "riformato", tornato alla sua "forma originale" che egli definì secondo un’interpretazione letterale e conservatrice del Corano e degli hadith. Oggi, egli sarebbe molto sorpreso dalle sue "pecorelle" saudite maschio che vanno nei paesi come il mio per approfittare della povertà, riducendo le ragazze e le donne a schiave sessuali e pagando in dollari la sottomissione e la bassezza. In qualità di psichiatra, antropologa e scrittore, protesto contro la barbarie che ha travolto il mondo arabo dopo le rivolte che gli occidentali hanno chiamato "La Primavera Araba": in quanto donna, ne sono vittima, dal momento che hanno operato un enorme arretramento della condizione femminile verso i periodi più repressivi e più bui della storia di questo mondo detto "arabo". Durante le numerose conferenze a cui partecipo, vengo spesso minacciata perché ho il coraggio di dire che il velo delle donne musulmane è un arcaismo, e le minacce provengono perlopiù da uomini che vivono nei paesi occidentali. Tutti gli atei del mondo musulmano tacciono. La responsabilità dei paesi liberi è enorme. Questi non hanno compreso quale sia veramente la sfida: l’imposizione obbligata dei Diritti dell’Uomo e il decreto di crimini contro l’umanità per tutto il resto, mutilazioni genitali delle bambine, delitti d’onore, matrimoni forzati, penalizzazione dell’omosessualità, crimine d’apostasia...È questo che produce i terroristi. Dietro alla morte del figlio dell’emiro di Dubai la doppia morale dei rampolli del Golfo di Francesca Paci La Stampa, 4 gennaio 2016 Ricchissimi ed esigenti, fuori dai loro paesi abbandonano i dettami dell’islam wahabita per festini orgiastici, alcool e droga. Automobili di lusso, festini orgiastici a base di alcool e droga, cornici di donne tutt’altro che modestamente coperte in osservanza ai dettami della sharia. Il doppio standard dei petrol-principi del Golfo, custodi del copyright della versione più integralista dell’islam wahabita ma al tempo stesso prototipi di estrema lussuria, è cronaca per i custodi di hotel come il Dorchester di Londra o il Claridges, dove le opulente macchine dei miliardari fanno la spola caricando e scaricando ospiti in jallabbya bianca e avvenenti fanciulle ingioiellate. Poi ogni tanto, quando per esempio il giovane saudita Majed Abulaziz al Saud viene accusato di molestie sessuali multiple dalla polizia di Beverly Hills la cronaca si arricchisce di dettagli. Così, alcune settimane fa, la morte ufficialmente d’infarto del 33enne Rashid, figlio maggiore del regnante di Dubai Sheikh Mohammed, ha aperto una finestra sullo stile di vita di un playboy votato alle corse di cavalli quanto alla droga e alle donne che diversamente dai suoi "colleghi" occidentali ostenta(va) di condannare in pubblico quanto pratica(va) in privato (la sharia stile saudita prevede la pena di morte per omosessualità, adulterio e qualsiasi comportamento ritenuto immorale). Ogni estate è la stessa storia, raccontano al Daily Beast quelli che li accolgono al Plaza Athénée, di proprietà del Sultano del Brunei, e ricevono le prenotazioni di alberghi, suite, ristoranti o sale da tè come il Claridges dove a giugno non si trova un tavolo che non sia occupato da arabi del Golfo. Per sfuggire al caldo del deserto i rampolli delle miliardarie famiglie del Golfo, molti tra i 21 e i 26 anni, si trasferiscono in Gran Bretagna, nel sud della Francia o negli Stati Uniti con tanto di corte e parco auto. Con la Qatar Airways, che dedica interi voli al trasporto dei veicoli di lusso, si stima che gli spostamenti stagionali dei bolidi costino circa 30 mila dollari per ogni singola auto. "Vogliono tutto quello che chiedono e lo vogliono subito, vogliono che li si guardi ma che non si domandi loro nulla" dice chi ci lavora. Danno risposte secche, una parola, niente nomi, sguardi fulminanti di chi pensa di potere qualsiasi cosa e di aver per giunta Dio dalla propria parte. Lo Sheikh Rashid era uno di questi playboy, forte di un patrimonio paterno stimato da Forbes in 1.9 miliardi di dollari (sebbene il padre, per il suo coinvolgimento in un omicidio, lo avesse privato del passaggio dei poteri preferendogli il fratello Hamdeen). E le principesse non sono da meno, come Maha bint Mohammed bin Ahmad al-Sudairi, cognata dell’ultimo re Abdullah, nota per aver occupato per 5 mesi 41 stanze allo Shangri-La Hotel di Parigi per oltre 7 milioni di dollari. "L’export più fruttuoso verso il Golfo è quello di biancheria intima costosissima ma per niente raffinata" racconta un commerciante iracheno di abbigliamento che fa la spola con il Medioriente, Golfo in particolare. E non si tratta solo dei reggiseni piumati made in China che, alla portata delle tasche di tutti, sventolano in qualsiasi suk delle capitali arabe. I playboy del Golfo pagano molto e viaggiano spinti dalla bramosia di soddisfare i piaceri che crocifiggono in patria. Tra il 2007 e il 2008 la periferia di Damasco era piena di nightclub in cui i principi sauditi andavano a "scegliersi" le minorenni irachene che le madri "vendevano" loro per mantenere numerose famiglie di profughi. Oggi avviene lo stesso alla periferia di Beirut, sono cambiate le ragazze, si tratta soprattutto di siriane, ma non sono cambiati i compratori. La morale più oltranzista non sembra turbare i sonni di chi la diffonde nel mondo musulmano fino alle derive jiadhiste: in fondo nel covo di Osama bin Laden fu trovata una quantità di materiale pornografico da far invidia ai suoi connazionali. Mauritania: leader salafita condannato a morte evade dal carcere Nova, 4 gennaio 2016 Uno dei leader dei salafiti mauritani, al Sheikh Ould al Salek, condannato a morte per terrorismo, è evaso l’altro ieri dal carcere di Nouakchott. Secondo quanto riporta l’agenzia di stampa mauritana "Ani", come sia avvenuta l’evasione ma sembra che al Salek sia riuscito a fuggire grazie a delle complicità interne e grazie a un guasto all’impianto elettrico che ha provocato un blackout. Il salafita sarebbe riuscito ad uscire indisturbato indossando la divisa di uno dei tecnici impegnati nelle attività di riparazione.