Un appello e tante lettere al Vescovo di Padova Ristretti Orizzonti, 3 gennaio 2016 Per difendere i 35 detenuti dell’Alta Sicurezza che rischiano il trasferimento da Padova e il ritorno nei ghetti delle sezioni AS sparse per l’Italia. Carissimo Vescovo di Padova, ci rivolgiamo a Lei perché è passato poco tempo da quando è arrivato in città, ma già ha dato tante prove del suo interesse profondo per il mondo del carcere, è stato più volte alla Casa di reclusione, ha voluto conoscerci, vedere come viviamo, sapere le nostre storie, e poi ha deciso che la cappella del carcere diventasse Porta santa del Giubileo. È per questo, perché La sentiamo vicina e abbiamo visto la sua sensibilità, che Le chiediamo di farsi testimone e portavoce di una realtà complicata che riguarda il carcere di Padova: la presenza, al suo interno, di 35 detenuti del circuito dell’Alta Sicurezza, che da nove mesi attendono che il loro destino venga deciso. Quando il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha preso la decisione di chiudere le sezioni AS, sapeva di chiudere una delle poche realtà di questo tipo di circuiti che funzionano davvero, garantendo alle persone detenute un reale percorso di rieducazione. I detenuti presenti in quelle sezioni hanno deciso allora di chiedere di essere declassificati, dopo anni di permanenza in Alta Sicurezza, e di poter così rimanere a Padova nelle sezioni comuni, una richiesta che si basa sul rispetto della legge, che stabilisce che ogni sei mesi sia rivista la permanenza del detenuto in un circuito. Alcuni detenuti hanno ottenuto la declassificazione, ad altri è stata negata e sono quindi stati trasferiti. 35 aspettano da nove mesi, vivendo in una condizione di angoscia e di paura di perdere, da un giorno all’altro, quella condizione di quasi "normalità" che hanno trovato a Padova, dove passano il tempo in modo utile, andando a scuola, lavorando, partecipando ad attività come la redazione di Ristretti Orizzonti e il progetto di confronto fra le scuole e il carcere, che costringe le persone detenute a un confronto serio e profondo con la società. Le chiediamo allora di rappresentare di fronte alle autorità la situazione di questi 35 detenuti, e di chiedere che l’anno della misericordia inizi con un atto di umanità nei confronti loro e delle loro famiglie. Non si tratta di mettere in libertà delle persone, non stiamo chiedendo l’impossibile, si tratta solo di fargli continuare l’esperienza che hanno iniziato nel carcere di Padova: un’esperienza di superamento delle condizioni di vita nelle sezioni-ghetto dell’Alta Sicurezza, alle quali dovranno tornare se non gli verrà, finalmente, riconosciuto che non sono più persone pericolose, che sono in grado di affrontare la vita detentiva in una sezione comune e di continuare il loro percorso di crescita, di cambiamento, di recupero della loro umanità. Perché di fronte a una condanna disumana si deve aggiungere altra sofferenza? di Lorenzo Sciacca Buongiorno Signor Vescovo, mi chiamo Lorenzo Sciacca, ci siamo conosciuti nella redazione di Ristretti Orizzonti, come avrà capito sono un detenuto, un detenuto "comune". Caro Vescovo mi sento in dovere di dirle che non sono credente, lo ero, ma la mia fede è andata persa da molti anni, la mia fede è stata messa a dura prova e io quella prova non sono riuscito a superarla, forse per debolezza o forse per altro, non lo so, so solo che oggi preferisco provare a credere esclusivamente nelle persone. Le scrivo perché vorrei tanto che mi aiutasse a trovare delle risposte, risposte a domande che ho fatto molte volte nei miei scritti, ma mai nessuno si è degnato di rispondermi. Così ho deciso di provare a condividerle con Lei, se dovesse approvarle, mi piacerebbe tanto che le rivolgesse anche Lei alle persone competenti, magari la sua voce avrà l’effetto che tanto desidero, quello di essere ascoltato e avere risposte. Come saprà il carcere è suddiviso nei cosiddetti circuiti, le sezioni comuni e le sezioni di Alta Sicurezza che, a loro volta queste ultime, si dividono in altre due classificazioni, sezioni AS1 e sezioni AS3. Ormai è da quasi un anno che i miei compagni dell’Alta Scurezza sono in lista per partire. Caro Vescovo stiamo parlando di uomini che sono in carcere da decenni, alcuni anche tre decenni. Uomini che da quasi un anno, grazie all’ex Direttore Dottor Salvatore Pieruccio, frequentano le varie attività che questo istituto offre. La scuola, la redazione di Ristretti Orizzonti, laboratori di lavoro tipo di scrittura, di falegnameria, insomma fanno qualcosa di costruttivo e in più occupano anche queste giornate che molto spesso sono tristi e buie. La cosa che bisogna che Le precisi è che durante queste attività, questi uomini sono in contatto con tutti i detenuti come me, cioè detenuti comuni. Prendiamo per esempio la realtà della redazione di Ristretti Orizzonti. Come sa noi tre volte a settimana incontriamo gli studenti, circa seimila l’anno e non solo, organizziamo convegni invitando 600 persone esterne, organizziamo seminari con i giornalisti, insomma siamo a contatto con il mondo esterno, siamo liberi di poterci confrontare con la società che molto spesso crede che il carcere non le appartenga, nella nostra attività siamo costantemente in contatto con il mondo esterno. Ecco, quello che io mi chiedo è perché è stato deciso che queste persone debbano partire per andare in posti dove si rischia una regressione della persona, perché sono carceri che di umano non hanno proprio niente, perché caro Vescovo? Io ho un vissuto molto complicato e oggi sto provando a ricostruirmi una vita con la consapevolezza del male che ho recato in tutti questi miei anni vissuti immoralmente. Se oggi, con grande difficoltà, ho deciso di intraprendere questo percorso di cambiamento è perché inizio a comprendere cose che prima, accecato dalla troppa rabbia, non riuscivo a vedere. Vede, caro Vescovo, i miei compagni stanno facendo lo stesso lavoro che faccio io e cioè si mettono in discussione, allora mi chiedo perché non far proseguire questo percorso di cambiamento? Stiamo parlando di uomini che la loro grossa condanna già la stanno subendo perché molti di loro, quasi tutti, hanno l’ergastolo ostativo, quindi difficilmente potranno riabbracciare la libertà, un figlio, la propria moglie o una madre anziana. Perché, Caro Vescovo, di fronte a una condanna così disumana l’essere umano deve aggiungere altra sofferenza? Perché non ci si accontenta mai? Io provo a immaginare le loro famiglie, i loro figli, il cambiamento radicale che dovranno subire, per esempio negli altri carceri saranno concesse solo due telefonate e i colloqui Skype non esistono, invece qui a Padova si cerca di umanizzare una pena, di renderla meno sofferente di quello che già la rende l’essere privati della libertà. Mi ricordo questi uomini quando iniziarono a scendere le prime volte nella redazione, mi creda Signor Vescovo, non riuscivano a comunicare, erano impacciati nei movimenti, avevano perso quei tratti che caratterizzano ogni essere umano perché non riuscivano ad esprimersi, e questo era causato da tanti anni di carcerazione rinchiusi senza la possibilità di confronto se non tra di loro, invece oggi con molta fatica hanno ripreso ad esprimersi con un vocabolario che differentemente da prima supera i cento vocaboli. Da quasi un anno sono costretti a vivere nel limbo più assoluto senza sapere cosa ne sarà di loro, e le loro famiglie vivono ancora peggio, perché anche se hanno i propri mariti, i genitori lontani da casa da tanti, troppi anni, le famiglie non smettono mai di amarli. Papa Francesco nella messa domenicale ha detto che un genitore deve benedire il proprio figlio al primo risveglio e a fine giornata, questi uomini non lo possono fare perché devono pagare degli errori fatti tanti e tanti anni fa, ma perché infliggere altro dolore? Caro Vescovo, il mio scritto non vuole convincerla in una causa che io e la redazione abbracciamo fortemente, voglio solamente porre a lei queste domande e le chiedo esplicitamente che se non riuscisse a darmi delle risposte, allora mi aiuti, ci aiuti a cercarle dalle persone che da anni gestiscono le carceri, spesso in maniera poco umana. Ci aiuti a far comprendere che l’uomo può sbagliare, ma è anche in grado di redimersi se gli viene tesa una mano. Concludo salutandola con una forte stretta di mano e con la speranza di poterla incontrare nuovamente nella nostra redazione. L’anno della misericordia sia un miracolo per noi che siamo rinchiusi in queste sezioni-ghetto di Domenico Vullo Monsignor Claudio Cipolla, sono il detenuto Domenico Vullo, ristretto presso l’istituto di pena Due Palazzi. Le scrivo in quanto da diversi mesi mi trovo nell’attesa di essere trasferito o declassificato. Mi ritrovo in questo istituto da circa tre anni dove da subito mi sono adoperato per migliorare il mio percorso detentivo, studiando tenacemente mi sento cambiato. La mia declassificazione servirebbe al mio miglioramento, nonché al recupero del calore della mia famiglia. Che questa misericordia della Porta Santa sia un augurio verso coloro che non credono nel redimersi di una persona, Il cammino di catecumenato che frequento con impegno ha cambiato il senso della mia vita, spingendomi ad assumere una responsabilità di uomo, di padre, non solo verso la mia famiglia ma anche verso il mio prossimo. Sono certo che la sua voce arriva più alta alle persone competenti come l’istituzione che non sembra ascoltare le parole di papa Francesco, che più volte ci ha ricordati nelle sue preghiere. Quest’anno nella misericordia sia un miracolo per tutti noi che siamo rinchiusi nel ghetto di queste sezioni. Vivo nell’attesa che ci sia un evento fortunato per noi e per le nostre famiglie la ringrazio di avermi ascoltato e letto questo umile scritto. Le auguro un sereno anno nuovo e di rivederla ancora. Sia Lei, Vescovo, a chiedere un atto di coraggio verso di noi di Giovanni Zito Monsignor Claudio Cipolla, sono l’ergastolano Giovanni Zito, detenuto presso il Due Palazzi. Rivolgo il mio appello alla Sua cortese attenzione in quanto ormai da diversi mesi temo con ansia di essere trasferito chissà dove. In questi ultimi tempi si parla della misericordia di Dio e dell’apertura della porta Santa che Lei simbolicamente ha voluto dentro questo istituto di pena. Il mio desiderio è quello di poter essere declassificato in quanto sono ristretto presso la sezione di Alta Sicurezza, che non significa mandarmi a casa o avere la libertà, ma vivere la mia detenzione come i detenuti comuni, avendo più occasioni di partecipare ad attività trattamentali e continuare il mio cammino di ravvedimento. Perché questo ergastolano scrive al vescovo? perché sono un uomo che con tutti i propri errori sta cercando disperatamente di sopravvivere. Sono detenuto dal 1996 ed ero quasi un giovane adulto quando avvenne il mio arresto. Da allora la mia vita non ha trovato pace, ho scontato 10 anni di tortura in regime di 41 bis e dopo essere stato declassificato da quel terribile regime mi ritrovo sepolto in un’altra sezione, dove si parla poco o nulla della mia vita, se vita si può definire un fine pena mai. Desidero voltare pagina, ma più cerco di uscirne vivo e più le istituzioni non vogliono ascoltare, ecco perché il mio grido silenzioso si posa sulla Sua persona, a Lei Monsignore che si è rivolto a questa sezione in cui siamo 24 naufraghi aggrappati con tutta la nostra tenacia, a Lei che ha toccato la povertà, la fame degli uomini, il dolore devastante della vita, dove l’indifferenza uccide il prossimo lasciandolo solo. Noi della sezione di Alta sicurezza osiamo chiedere al nostro Vescovo che agisca affinché cessi questa specie di limbo di angosciante attesa nei nostri confronti e ci sia un atto di coraggio e clemenza perché siamo anche noi figli di Dio. C’è un versetto della Bibbia che recita: un pastore ha cento pecore e ne perde una, non lascia forse le altre novantanove per recuperare la centesima? Ecco io desidero che noi tutti possiamo essere recuperati con un atto di misericordia e vivere nella pace. Solo Lei Monsignore può gridare più di noi e farsi ascoltare dalle istituzioni competenti, Lei che veglia su questo gregge che vogliono far smarrire chissà per quali destinazioni. Non siamo più quei giovani di un tempo, adesso siamo uomini maturi e responsabili della vita, siamo padri, nonni, e tanti di noi non abbiamo più neanche i genitori vivi. La nostra vita sta finendo dentro le mura della prigione e ne siamo coscienti, ed è per questo che non osiamo chiedere di più se non solo un atto di considerazione per noi e le nostre famiglie, che sono coloro che soffrono di più seguendoci per tutta l’Italia. Abbiamo scontato più di vent’anni di carcere con dolori e sofferenze per i nostri figli che sono cresciuti senza un padre vicino anno dopo anno. Anche Papa Francesco più volte quest’anno si è ricordato di noi ergastolani, che sia Lei vescovo a chiedere un atto di coraggio verso di noi. Non voglio tediarla più di tanto e la prego di scusarmi se oso chiederle aiuto, ma La prego faccia un appello per questi detenuti congelati in questa sezione di Alta Sicurezza affinché possano rimanere qui e proseguire il loro percorso. Il rischio di un trasferimento interromperebbe il percorso che stiamo facendo qui a Padova di Antonio Papalia Caro Padre Vescovo Claudio, nell’occasione dell’apertura della porta Santa qui in carcere per l’anno del giubileo della misericordia di Dio, noi detenuti della sezione AS1, per la maggior parte condannati alla pena dell’ergastolo, approfittiamo per fare a Lei, quale massima rappresentanza religiosa della città di Padova, richiesta di un suo intervento, non per chiedere la libertà, ma affinché si metta fine alla sofferenza in cui stiamo vivendo da quasi un anno. Siamo appesi ad un filo perché la sezione AS1 verrà chiusa e non sappiamo ancora quale sia il nostro destino, siamo in attesa da circa un anno di una eventuale declassificazione che a tutt’oggi non arriva, lasciando noi e le nostre famiglie in balia di un mare in tempesta. Già soffriamo per la pena senza fine che stiamo scontando, a questa si aggiunge anche il rischio di un trasferimento che interromperebbe il percorso che stiamo facendo qui nel carcere di Padova e saremmo costretti ad iniziare tutto daccapo rischiando di vanificare tutto ciò che abbiamo fatto sino ad oggi. Caro Padre Vescovo Claudio, in nome di Dio e dell’anno della misericordia chiediamo a Lei di intervenire in nostro aiuto, chiedendo a chi di dovere la grazia di essere declassificati, cosicché possiamo proseguire il percorso che ognuno di noi sta facendo. Grazie per quanto potrà fare per tutti noi. Auguriamo buon Natale a Lei Eccellenza e a tutta la sua diocesi. I detenuti del 7° blocco lato A della Casa di Reclusione di Padova La speranza è che si possano aprire le porte dei cuori di chi può fermare questi trasferimenti di Letterio Campagna Carissimo Monsignor Claudio Cipolla, sono uno dei ventiquattro detenuti ristretti nella sezione di Alta Sicurezza AS1, mi chiamo Letterio Campagna e mi trovo in codesto istituto da quattordici mesi, dopo avere passato due anni e tre mesi nel circuito di 41bis. Ringrazio il nostro buon Dio di avermi fatto arrivare qui, poiché c’è la possibilità di usufruire del collegamento Skype con la propria famiglia. Non vedo di persona mia moglie e i miei figli da quattro anni e mezzo, perché abitano lontani e non è facile sostenere economicamente il viaggio. Sono un credente, frequento assiduamente un percorso di catecumenato e non mi perdo una Santa messa, mi sento vicino al Nostro Dio e la mia fede cresce di giorno in giorno. Ho ritrovato la speranza che avevo perduto durante la mia detenzione al 41bis, confortandomi nella preghiera. Adesso da un momento all’altro io e tutti i detenuti di questa sezione verremo trasferiti in altri carceri, con l’incognita di non sapere a cosa andremo incontro. Monsignore, sia io che tutti i miei compagni, ci rivolgiamo a Lei perché possa rivolgere una parola agli organi competenti, perché possano ascoltare le parole del Santo Padre, Papa Francesco. Siamo nell’anno del Giubileo, nell’anno della misericordia e del perdono, sono state aperte tante Porte Sante in tutto il mondo e in noi vive la speranza che si possano aprire anche le porte dei cuori di chi può fermare questi trasferimenti. Molti di noi aspettano una declassificazione da questo circuito di Alta Sicurezza, aspetto e convivo tutti i giorni con l’ansia che da un momento all’altro non potrò più vedere mia moglie attraverso Skype, per questo mi appello alla Sua misericordia, le Sue parole avranno una considerazione maggiore rispetto alle parole di un condannato, pongo tutte le mie speranze su di Lei, che Dio la benedica e Le auguro un buon anno pieno di pace e serenità. Tanti saluti da uno dei tanti umili servi di Dio. Quel santo cancello… di Angelo Meneghetti Ho un fine pena un po’ lungo, esattamente il "31.12.9999", sono un ergastolano detenuto presso la Casa di reclusione di Padova. Domenica 27 dicembre per me è stato un giorno speciale perché ho potuto partecipare ad un evento che sarà unico nella mia vita, a cui a diversi ergastolani e tanti detenuti non è stato consentito di partecipare (la chiesa è piccola). Dico evento unico perché non riuscirò mai a scontare la mia pena, ma se vivessi così a lungo, avrei diverse possibilità di essere presente ad eventi così particolari. Il vescovo di Padova, Claudio Cipolla, ha aperto la Porta della Misericordia, facendo sì che la chiesa del carcere sia una chiesa giubilare. Partecipando a quella Santa Messa, ho incontrato degli ergastolani "ostativi", ci siamo salutati velocemente con una stretta di mano. Raramente ci incontriamo, appartengono alla sezione differenziata "AS1", tranne quei pochi di loro che sono ammessi a frequentare le scuole e lì invece ci possiamo incontrare. Quelle facce di quegli ergastolani "ostativi", le ho incontrate la prima volta venti anni fa nel carcere di Cuneo, ed erano sempre situati al reparto differenziato, in quanto sottoposti al "brutale" regime del 41 bis. Li ho conosciuti che erano uomini, io ero un ragazzo, adesso io sono uomo (ho quasi cinquant’anni), e loro non sono più uomini, sono anziani (certi hanno raggiunto la terza età da diversi anni). Ovviamente, un ergastolano ostativo terminata la santa messa, mi ha detto: "Angelo, beato te che ti stai incamminando per quel "Santo Cancello", e hai la possibilità di accedere in diversi luoghi di questo carcere". Gli ho ricordato che, anche se posso accedere in qualche luogo del carcere e alla redazione di Ristretti Orizzonti, abbiamo però lo stesso fine pena e non saremo mai uomini liberi. Comunque, gli ho suggerito di non perdere la speranza, e se il vescovo ha aperto la Porta Santa, vedrai che prima o poi quel cancello di quella sezione differenziata in cui ti trovi (Alta Sicurezza), sarà il cancello della Misericordia, e voi differenziati sarete in mezzo ai detenuti comuni. Con rammarico mi ha risposto: "Ci vorrebbe un miracolo per essere declassificati". Ho ribattuto con il mio solito sorriso dicendogli: "Il vescovo ha celebrato l’Anno Santo qui in carcere, davanti a noi, vuoi che non sia l’anno dei miracoli?". Anche se il vero Miracolo sarebbe che tutti gli ergastolani avessero "un fine pena certo", come gli altri detenuti, in modo da continuare ad avere speranza che un domani potremmo tornare liberi e riprendere a vivere quei pochi giorni che ci restano, con i nostri familiari. Buon anno Italia, che tu sia un Paese più equo di Bruno Forte (Arcivescovo di Chieti-Vasto) Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2016 Quale augurio fare all’Italia e a ciascuno dei suoi cittadini in questo inizio del 2016? Non esiterei a rispondere a questa domanda augurando al nostro Paese e a ognuno di noi una giustizia più grande, tale da superare le pesanti sperequazioni che ancora caratterizzano la nostra vita sociale e incidono sul cammino personale e sulle possibilità reali offerte a ciascuno. Mi riferisco a tre livelli di differenze a mio avviso non conformi all’equità doverosa per una "repubblica democratica fondata sul lavoro". "Repubblica democratica fondata sul lavoro", quale è definita l’Italia dal primo articolo della sua Costituzione repubblicana: le sperequazioni lavorative, quelle relative al guadagno e alla distribuzione della ricchezza e quelle legate alla geografia, ovvero alle differenti possibilità offerte dal territorio in cui si vive. Sul piano del lavoro la prima clamorosa forma di ingiustizia riguarda i giovani: oltre il quaranta percento di coloro che hanno raggiunto l’età dell’accesso all’occupazione sono senza lavoro, e - quel che è peggio - sono spesso indotti a pensare che i tanti sacrifici fatti per studiare e formarsi a un domani in cui contribuire col proprio impegno alla realizzazione di sé, dei propri cari e dell’intera comunità, siano stati di fatto inutili. Togliere la speranza ai nostri ragazzi e costringerli a cercare soluzioni di vita fuori del nostro Paese, spingendoli talora anche ad abbandonarsi a forme pericolose di evasione, è una clamorosa negazione della giustizia che una sana democrazia dovrebbe garantire. Se poi si aggiunge a questa la situazione dei tanti che in età matura hanno perso il lavoro e non riescono a trovare una nuova occupazione dignitosa e capace di garantire a sé e ai propri cari le condizioni necessarie alla vita, si comprende quanto la sperequazione sul piano lavorativo suoni come un’inaccettabile ingiustizia: a fronte di chi non lavora, contro la sua volontà e le sue attitudini, ci sono situazioni di privilegio e favoritismi legati al potere, se non talvolta alla corruzione, che offendono la coscienza morale e l’esigenza collettiva di equità e la promozione responsabile del bene comune da parte di tutti. Il lavoro è un diritto e dove esso viene fatto passare come un favore ad essere lesa è la giustizia, senza la quale non è possibile costruire alcuna vera democrazia e promuovere il rispetto della dignità di ogni persona umana. La sperequazione lavorativa si associa a quella retributiva: a fronte di persone che con quello che guadagnano non riescono neanche ad arrivare a fine mese, che siano pensionati o lavoratori dipendenti o in proprio, ci sono altri che godono di guadagni spropositati o di pensioni d’oro, tanto più inaccettabili quanto più riguardano protagonisti delle istituzioni o della vita politica che avrebbero dovuto fare dell’equità il loro programma di vita. Un Paese in cui c’è chi guadagna in un anno o meno quanto la stragrande maggioranza dei lavoratori non riuscirà a guadagnare per tutta la vita è semplicemente malato, e in esso si alimenterà inevitabilmente una situazione di disagio diffuso e di disgregazione fino a che i suoi legislatori non troveranno vie per far crescere la giusta distribuzione dei beni fra i cittadini. Anche in questo campo il principio da scardinare è quello del privilegio e il coraggio del legislatore non deve fermarsi di fronte ad alcuna pretesa di diritto acquisito, tanto più se essa viene sollevata a difesa di posizioni che avallano sperequazioni insopportabili. Soprattutto nell’ambito degli stipendi pubblici occorre che siano fissati tetti massimi di guadagno che garantiscano l’equità, come peraltro avviene in diverse democrazie di antica esperienza. Se l’esempio comincerà ad essere dato nel pubblico, è possibile ed auspicabile che esso si estenda al mondo del privato e raggiunga specialmente quei settori in cui più ampio è il divario fra chi è arrivato e chi fa ancora la gavetta. L’urgenza di attuare condizioni di equità diffusa nella distribuzione dei beni deve insomma costituire un tarlo a cui non solo si ispiri l’azione dei politici, anche a esemplare danno dei propri privilegi, ma si conformino pure lo stile di vita e le scelte operative di chiunque contribuisca al bene comune del Paese col proprio impegno e la propria capacità imprenditoriale. Infine, c’è bisogno di maggiore giustizia in rapporto alla forte sperequazione territoriale, propria in maniera peculiare della nostra Italia: chi ha la fortuna di nascere o vivere e produrre in alcune aree geografiche della Penisola ha obiettivamente accesso a possibilità e vantaggi del tutto impensabili in altre zone. Questo tipo di differenziazione si è acuito con l’istituzione delle Regioni, che non solo hanno appesantito la macchina burocratica, ma hanno anche creato diversità di legislazioni e di potenzialità offerte ai cittadini di considerevole impatto. Il divario storico fra Nord e Sud, lungi dal ridursi, si è acuito, mentre la sperequazione fra Regioni è divenuta spesso vistosa e intollerabile. Le riforme di cui tanto si parla non potranno ignorare questa problematica, che ad esempio giustifica le perplessità di quanti vedono nelle scelte riguardo alla ventilata abolizione delle Province un oblio reale dell’impatto capillare che esse hanno rispetto alle istituzioni regionali, grazie proprio alla loro maggior vicinanza ai cittadini e al territorio. Anche per il lavoro relativo agli assetti istituzionali del Paese, insomma, l’equità dovrà essere considerata criterio imprescindibile e condizione di effettiva fecondità delle scelte. Ovviamente, questo generale bisogno di giustizia non potrà essere soddisfatto ai vari livelli senza il protagonismo di uomini e donne che ispirino alla giustizia le loro scelte e i comportamenti pubblici e privati. L’auspicio di un Paese più giusto risulta così inseparabile da quello di cittadini più motivati e impegnati nella promozione di una società equa e solidale, in particolare se si tratta di protagonisti della vita pubblica o dell’economia. Senza una diffusa tensione morale, senza un profondo amore per la giustizia radicato nei cuori, il superamento delle sperequazioni resterà lettera morta. Solo dove le coscienze saranno sostenute dal riferimento al bene che le trascende tutte, l’orizzonte degli interessi penultimi non potrà sopraffare quello dell’ultimo orizzonte, misura della verità e del bene. Per chi crede è qui facilmente riconoscibile lo spazio della ispirazione religiosa e la forza del giudizio e dell’amore del Dio vivente nei cuori che gli si aprono. Qui l’augurio per l’anno che inizia si fa in me preghiera perché si spalanchi in ognuno di noi questa porta del cuore e possano sempre più realizzarsi nell’anno che inizia per la vita di ciascuno e la storia di tutti le parole della Scrittura: "Misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno" (Salmo 85,11). Il plebiscito senza quorum nel paese dove regna Don Chisciotte di Eugenio Scalfari La Repubblica, 3 gennaio 2016 La mossa di Renzi di chiedere un referendum sulla sua riforma costituzionale potrebbe peggiorare la situazione. Una consultazione di tale importanza, che può essere valida senza un’affluenza minima di votanti, è molto pericolosa per la democrazia. Il nuovo anno è cominciato politicamente con il messaggio agli italiani del presidente Mattarella trasmesso su tutte le reti televisive alle 20.30 del 31 dicembre scorso. Era il primo messaggio del nuovo Presidente ed è stato eccellente nella sostanza e nella forma. Non si è occupato di politica (così ha detto lui) che spetta al Parlamento e ai partiti rappresentanti del popolo sovrano; si è occupato delle regole costituzionali e soprattutto dei problemi che condizionano la vita degli italiani e qui è apparsa la sostanza di quel messaggio che sinteticamente riassumiamo. Ha detto: "Senza un Mezzogiorno risanato economicamente e socialmente l’Italia non esiste; senza un tasso d’occupazione nettamente maggiore di quello attuale l’Italia non esiste; senza il rispetto della condizione femminile l’Italia non esiste; senza un recupero sostanziale dell’evasione fiscale e la corruzione che l’accompagna e la determina l’Italia non esiste; e infine l’Italia non esiste senza che i giovani abbiano speranza nel futuro e adeguata educazione nel presente". Non si potevano indicare con maggiore efficacia i problemi del Paese ai quali ha aggiunto quello dell’immigrazione, l’importanza di rafforzare l’Europa e la presenza italiana nelle istituzioni internazionali. Ha ricordato l’importanza della predicazione di papa Francesco che - ha detto - rappresenta il pilastro fondamentale della morale e della fraternità degli individui, delle comunità e dei popoli. Ha anche fornito cifre significative, la principale delle quali è stata quella dell’evasione fiscale che ammonta a 122 miliardi di euro. Basterebbe secondo lui recuperarne in breve tempo almeno la metà per ripianare la finanza dello Stato con essenziali ripercussioni sulle intollerabili diseguaglianze, sugli investimenti, sui consumi e sulla creazione di nuovi posti di lavoro. Anche altri suoi predecessori inviarono analoghi messaggi a cominciare da quelli di Scalfaro, di Ciampi e di Napolitano e prima ancora di Sandro Pertini, ma questo di Mattarella è particolarmente utile perché fa chiarezza in una fase di tempi estremamente cupi, di guerra e d’un terrorismo che non si era mai visto di tale ampiezza da sconvolgere il mondo intero. Un messaggio tanto più necessario per accendere una luce di speranza e di fiducia. Ma gli italiani come la pensano? Quali sono i loro timori e le loro speranze? Qual è il loro giudizio sulle istituzioni e sulle persone che le rappresentano? Un sondaggio di Ilvo Diamanti fornisce cifre estremamente significative. Ne ricordo qui alcune che bene inquadrano i sentimenti popolari che sono un elemento essenziale di una democrazia. Anzitutto i partiti e la democrazia: il 45 per cento degli interpellati pensa che senza i partiti la democrazia muore, ma il 48 per cento pensa esattamente il contrario. Ecco un giudizio che spiega l’ampia astensione e la crescente indifferenza dei cittadini verso la politica. Quanto alle istituzioni e alle persone che le rappresentano la classifica del 2015 è la seguente: al primo posto c’è papa Francesco con l’85 per cento dei voti; seguono le Forze dell’Ordine con il 68, la Scuola con il 56, il presidente della Repubblica col 49, la Magistratura con il 31, l’Unione europea col 30, lo Stato col 22, il Parlamento col 10, i partiti con il 5. Infine, richiesti se il 2016 sarà migliore o peggiore dell’anno appena concluso, il 41 per cento pensa che sarà migliore, il 42 che sarà eguale e il 15 per cento che sarà peggiore. C’è quindi un certo aumento della fiducia nel futuro, è ancora fragile questa fiducia ma c’è e questo è indubbiamente un dato positivo. Ci sarebbero ora molti altri argomenti da trattare: le banche, i risparmiatori, la riforma della Rai che contro il parere di ben tre sentenze della Corte costituzionale che affidano al Parlamento la responsabilità di guidare la politica radiotelevisiva, di fatto la mette invece nelle mani del governo; il contrasto tra Italia e Germania, le multinazionali che imboscano i loro profitti nei paradisi fiscali, le immigrazioni. Ed il referendum confermativo. Su quest’ultimo tema i pareri degli esperti politologi sono alquanto diversi. Angelo Panebianco sostiene che in democrazia prevale la ricerca del meno peggio, cioè il compromesso che però è particolarmente difficile in una situazione politica tripolare se non addirittura quadripolare come è attualmente quella italiana. È proprio questo che spinge Renzi a trasformare il referendum confermativo in una sorta di plebiscito: se la maggioranza dei votanti voterà per lui tutto procederà verso il meglio, ma se sarà sconfitto non resterà al governo neppure un minuto di più. Secondo lui, in mancanza di valide alternative di Palazzo Chigi, sarà lui a vincere e allora potrà tranquillamente governare come ha già dato prova di poter fare con qualche successo all’insegna del cambiamento, parola fatata, unita all’altra altrettanto fascinosa della rottamazione. Diverso il parere e le previsioni di Piero Ignazi. Secondo lui nei referendum confermativi chi detiene il potere ha sempre perduto, hanno vinto i no perché la gente comune che va a votare per il sì o per il no senza alcun vincolo di partito esprime sempre un voto negativo esprimendo in questo modo la sua antipatia per le caste, quali che siano gli interessi generali del Paese. Quindi, stando alle previsioni di Ignazi suffragate da tutte le precedenti esperienze a cominciare da quella sul divorzio e l’altra sul finanziamento pubblico dei partiti, potrebbe vincere il no. Sarebbe un no che esprime antipatia viscerale contro lo Stato, contro le istituzioni politiche, insomma contro il potere anche se talvolta (ma molto di rado) il potere non mira a rafforzare se stesso ma interpreta (una tantum) l’interesse dei cittadini. Perciò Renzi - secondo Ignazi - è molto a rischio e la trasformazione da lui tentata dal referendum in un plebiscito sulla sua persona non basta, anzi può perfino peggiorare la sua situazione. Sia Angelo Panebianco sia Piero Ignazi (l’uno sul Corriere della Sera, l’altro su Repubblica di ieri) non considerano tuttavia un dato di fatto estremamente importante: i referendum confermativi non prevedono alcun "quorum" di votanti. Al limite, se andassero a votare soltanto tre elettori e il risultato fosse determinato da due di loro che votano allo stesso modo, il risultato sarebbe tecnicamente valido. Ovviamente non è mai così, ma non c’è dubbio che da tempo l’affluenza alle urne è drasticamente diminuita, sia nelle elezioni politiche e sia in quelle amministrative. È già da qualche anno che non sono stati indetti i referendum ma l’indifferenza degli elettori è enormemente aumentata, i partiti hanno negli ultimi sondaggi un tasso di adesione che arriva con difficoltà al 5 per cento degli interpellati. La gente comune insomma non esprime più né amore né odio ma semplicemente un totale distacco, salvo alcune frange innamorate del leader di turno o rabbiose contro lui, ma si tratta di una piccola parte del Paese. Il resto rimane a casa o va al mare o in montagna, ma alle urne no. Salvo se sono in gioco amicizie e interessi para-mafiosi. Supponiamo che su centomila elettori, sessantamila non vadano a votare, il che è assai probabile, e supponiamo che su quarantamila che voteranno, trentamila voteranno in un modo e diecimila in un altro. Questo significa che meno di un terzo del corpo elettorale determina l’andamento politico del Paese, confermando il leader in carica o buttandolo giù dall’arcione. Sembra piuttosto una scena del Don Chisciotte che l’esercizio della democrazia. La conclusione è quella di stabilire un "quorum" per i referendum confermativi che dovrebbe aggirarsi attorno ai due terzi del corpo elettorale. D’altronde, per i referendum abrogativi esiste il quorum del 50 per cento, tanto che molti sono caduti nel vuoto per mancanza di elettori. Il referendum confermativo non dovrebbe fare eccezione. Senza una variazione costituzionale di questo tipo la democrazia è morta; non è importante chi vince o chi perde; senza un "quorum" quale che sia il risultato, la democrazia non c’è più. Che cosa allora bisogna fare? Secondo me occorre che la Corte costituzionale sia interpellata. Non credo che possa cambiare la Costituzione ma può esprimere il parere che su questo punto sia opportunamente meditato. In quel caso 150 membri del Parlamento o 5 Regioni o cinquecentomila firme di cittadini elettori potrebbero proporre un referendum che chieda un quorum di due terzi degli elettori affinché il referendum confermativo sia valido. Credo che questo sarebbe il solo rimedio disponibile. È comunque incredibile che un referendum o plebiscito che sia possa essere validamente deciso se anche soltanto tre, dico tre, cittadini vadano a votare e tutti gli altri se ne freghino. Un Paese così, carissimo presidente Mattarella e carissimi emeriti Ciampi e Napolitano, cessa di essere democratico e può oscillare soltanto tra la tirannide e l’anarchia. Allora è meglio emigrare o tapparsi in casa e lasciare il Paese in mano ai migranti, alla faccia di Salvini. Sarebbe comunque una soluzione. "Giustizia dimenticata Mattarella ha steccato". Pannella stronca discorso Capo dello Stato di Dimitri Buffa Il Tempo, 3 gennaio 2016 "Mattarella ha steccato la prima, il suo discorso rappresentava il nulla di un Paese che ormai è ridotto a regime di se stesso...ma noi Radicali siamo fiduciosi lo aiuteremo, perché l’Italia, se torna a essere stato di diritto, merita un posto come membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu". Marco Pannella in questa intervista a Il Tempo dà un giudizio severo del primo discorso di fine anno del capo dello stato. Pannella, avrà notato: il Capo dello Stato non ha parlato di giustizia nel discorso di fine anno. "Noi Radicali siamo con lo Stato italiano e con le sue istituzioni, mentre proprio loro si trovano impigliati nell’eredità di un regime che si perpetua...Ecco noi vogliamo aiutarli a uscire fuori e presto Mattarella si renderà conto che ha fatto male a non parlare della giustizia in un Paese che viene costantemente condannato per le violazioni del diritto da tutte le corti internazionali". E quindi? "È la pesantezza del regime. Non avere parlato della giustizia è da scemi più che da pazzi, ma adesso si renderà conto". "Aridatece Napolitano"? "Sì, ma non è tanto quello, Giorgio era più ricettivo ma noi lo abbiamo aiutato per anni prima che arrivasse il famoso messaggio alle Camere sulla giustizia (che peraltro il Parlamento neanche ha discusso o quasi ndr ). Noi per il bene dell’Italia dobbiamo aiutare Mattarella a rendersi conto che quel nodo va affrontato. È la conditio sine qua non perché l’Onu dia un posto da membro non permanente all’Italia all’interno del Consiglio di sicurezza. Il nostro Paese se lo merita, nonostante tutto, mentre non si merita un regime che silenzia il dibattito mettendo anche in difficoltà le sue più alte istituzioni". Possibile che Mattarella non lo capisca? O non lo vuole capire? "Non lo capisce ma lo capirà tra poco. L’obiettivo diplomatico di essere annoverato tra i membri non permanenti del Consiglio di sicurezza Onu sarebbe per il nostro Paese un motivo di grande orgoglio e un’occasione da non mancare. Come è accaduto quando l’Italia impose grazie a noi la moratoria per le esecuzioni capitali e il bando delle mutilazioni genitali femminili". Iniziare un discorso di fine anno con la "lotta alla evasione fiscale" senza mai menzionare la parola "giustizia", sa tanto di vecchia sinistra della Dc. O no? "Non è neanche questo il punto, il problema è che lui va avanti alla giornata, senza una vera strategia politica. Perciò lo convinciamo noi". Non sarà che Mattarella vuole assomigliare alla imitazione televisiva di Crozza? "Certo appunto, io troverò il tempo di dirgli anche questo quando mi riceverà. Forse al Quirinale capiranno che al di là delle lodi di repertorio il nostro caro Sergio ha per così dire "steccato la prima". Vedremo adesso con i Radicali l’atteggiamento migliore da tenere, ma non c’è dubbio che la decisione sarà quella di aiutarlo a portare avanti il nostro disegno de "l’Italia tra i membri del Consiglio di sicurezza Onu". Questo successo diplomatico passa però per l’ammissione del problema interno e internazionale legato allo stato di diritto da mettersi in contrapposizione alla ragion di Stato. Per ora Mattarella non sembra avere capito un cavolo, ma se lo capirà il cammino verso questo obiettivo si metterà presto in discesa". Botte in caserma e carte false: l’Arma alla prova del caso Cucchi di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 3 gennaio 2016 Queste sono cose che gestiamo internamente, soprattutto dopo il polverone che si è alzato. Ci sono carabinieri che parlano da privati cittadini. Sentire il comandante generale Del Sette? Al 99 per cento è un no’. Sono passati sei anni e due mesi, c’è un’inchiesta della magistratura su eventuali reati commessi da cinque militari (accusati, a vario titolo, di lesioni e falsa testimonianza), ma l’atteggiamento dell’Arma sul caso Cucchi non cambia di una virgola. I panni sporchi si lavano in casa. Impossibile parlare col comandante generale, Tullio Del Sette. Impossibile parlare con l’allora comandante provinciale di Roma, oggi a capo della Scuola Ufficiali, il generale Vittorio Tomasone, che col Fatto si trincera dietro un "non posso e non parlerei comunque". Nelle intercettazioni ci sarebbe una telefonata tra due carabinieri, secondo i quali il generale si sarebbe informato sull’accaduto, ma ovviamente ciò non vuol dire che gli sia stata detta la verità. Quanto e se quei panni siano davvero sporchi lo stabilirà la magistratura, ma quel che è emerso finora, nell’inchiesta bis sull’arresto e la morte del geometra romano, lascia intendere che almeno l’atteggiamento avuto dai cinque carabinieri coinvolti poco si addice eticamente a chi indossa una divisa e rappresenta lo Stato. Basta leggere le intercettazioni telefoniche tra di loro e alcuni loro familiari trascritte dalla Procura nella richiesta di incidente probatorio depositata l’11 dicembre scorso. Il foto-segnalamento Cucchi non venne mai foto-segnalato, contrariamente a quanto si deve fare. Il maresciallo Mandolini, comandante della stazione Appia, ha spiegato che quell’atto non fu compiuto perché il ragazzo "aveva manifestato terrore" e che, trattandosi di un "soggetto tossicodipendente munito di documento valido, aveva ritenuto di soprassedere". I suoi uomini Francesco Tedesco e Alessio Di Bernardo, entrambi indagati, al telefono tra loro però lo smentiscono: "Il foto-segnalamento non funzionava e ce ne siamo andati", afferma Tedesco. E Di Bernardo: "La verità che non mi ricordo se non funzionava o se non c’era l’addetto...". In un’altra telefonata, Tedesco manifesta il timore che la "loquacità" di Raffaele D’Alessandro, un altro degli indagati, "avrebbe potuto metterli nei guai" se i telefoni fossero stati intercettati: "Mi raccomando non dire puttanate... che qua scoppia una bomba... non dire cazzate, non farti fottere. (...) Occhio a dire certe cose per telefono (...) se no è un macello". Rischio destituzione Alcuni degli indagati hanno manifestato al telefono paura di essere destituiti dall’Arma. In una conversazione tra Di Bernardo e D’Alessandro, il primo dice al secondo: "Raffaele se ci congedano ci apriamo un bar". E il secondo risponde: "Se mi congedano, te lo giuro sui figli miei, non sto giocando, che mi metto a fare le rapine (...). Vado a fare le rapine agli orafi, quelli là che portano a vedere i gioielli dentro le gioiellerie". Le famiglie Agli atti della Procura ci sono alcune intercettazioni tra D’Alessandro e la sua ex moglie. All’indomani dell’u s c ita sui giornali del nome dell’uomo, la signora gli scrive un sms: "Non mi ha stupito leggere il tuo nome in quell’articolo, prima o poi sarebbe successo". Ne nasce una discussione e la donna rincara: "Lo sai quello che raccontavi! Che raccontavi a me... a tua mamma a tuo padre, che te ne vantavi pure". In un altro sms, il racconto è ancora più esplicito: "Hai raccontato di quanto vi eravate divertiti a picchiare quel drogato di merda". Affermazioni che la signora ha ribadito davanti ai pm. Il processo Al primo processo per la morte di Cucchi, nel quale i carabinieri non erano imputati, Mandolini riferì: "Cucchi era una persona tranquilla, spiritosa. Abbiamo fatto anche quattro chiacchiere. Ricordo che, avendo avuto due cugini deceduti per droga, parlammo di questo: che non valeva la pena fare una vita del genere. Si è scherzato, aveva tratti spiritosi con un linguaggio romanesco simpatico". Dichiarazioni che stridono col racconto che alcuni suoi colleghi hanno fatto circa lo stato di salute del ragazzo. I social network Sempre Mandolini ha difesa il proprio operato sulla pagina Facebook del Fatto. "I carabinieri hanno fatto il loro dovere, arrestarono un grande spacciatore che spacciava fuori le scuole di un parco di Roma (...). Tutto il resto è speculazione politica per soldi e per arrivare in Parlamento". Di "codardia e vigliaccheria" ha parlato Ilaria Cucchi in un post in cui ha anche rivolto alcune domande al generale Del Sette. Che, si augura la famiglia, vorrà prendere adesso dei provvedimenti. Padova: "La Tentazione di Cambiare", oggi su Rai5 il Giubileo visto dal carcere officinagiotto.com, 3 gennaio 2016 A Padova - dentro e fuori dal carcere - ci sono rimasti per cinque giorni, intervistando, prendendo immagini, andando a caccia di storie e di volti. Parliamo dello staff di RaiCultura, con la conduzione di Caterina Doglio e la regia di Daniele Biggiero, che ha lavorato alla seconda puntata della serie "Giubileo. L’Altro Sguardo". I frutti di questo approfondimento li vedremo domenica 3 gennaio alle 23.00 su Rai5 (canale 23 del digitale terrestre) in una trasmissione dal titolo "La Tentazione di Cambiare". "Cosa accade se in un carcere un impresa sociale decide di scommettere sui detenuti offrendo una possibilità di riscatto attraverso il lavoro, un lavoro vero, con un vero stipendio?", spiega Caterina Doglio introducendo la puntata. "E i detenuti sapranno imparare a lavorare? Non è una cosa assurda, con la disoccupazione che c’è fuori e le tante persone che lo cercano, dare un lavoro proprio a dei carcerati? A che serve? A chi conviene? La seconda puntata di "Giubileo. L’altro Sguardo" ci ha fatto conoscere Guido, Nicola, Pierin e tanti altri che hanno scoperto in carcere la tentazione di cambiare". Nella prima puntata dal titolo "La Battaglia della Bontà" la trasmissione era andata a verificare come le parrocchie hanno accolto l’appello di Papa Francesco "ad accogliere una famiglia di profughi, un gesto concreto in preparazione all’Anno Santo della Misericordia". Nella puntata padovana invece si parlerà dell’attività lavorativa, quella a cui tanto Papa Francesco fa continuamente riferimento come possibilità concreta di avere o riacquistare dignità. Verranno presentate le testimonianze dei detenuti lavoratori di Officina Giotto dentro il carcere ma anche fuori del carcere, ma emergeranno anche due eventi che hanno segnato l’irrompere dell’Anno della Misericordia nella casa di reclusione padovana. Il primo dei due è il Concerto per Papa Francesco con I Polli(ci)ni, l’orchestra giovanile del Conservatorio Cesare Pollini di Padova, promossa dal Consorzio Sociale Giotto e dalla parrocchia del carcere, che si è svolto domenica 13 dicembre in uno dei capannoni artigianali di Officina Giotto normalmente adibito alla costruzione di biciclette e per l’occasione trasformato in sala da concerto. Un evento aperto dal collegamento in diretta con l’Angelus di papa Francesco, con la sorpresa del ringraziamento in diretta del pontefice stesso: "Saluto i detenuti delle carceri di tutto il mondo, specialmente quelli del carcere di Padova, che oggi sono uniti a noi spiritualmente in questo momento per pregare, e li ringrazio per il dono del concerto". Nel servizio di RaiCultura c’è anche il più recente evento di domenica 27 dicembre con l’apertura della Porta della Misericordia in carcere, in seguito alla decisione del vescovo di Padova don Claudio Cipolla di dare alla cappella dell’istituto la dignità di chiesa giubilare diocesana, accanto a chiese ben più note come la basilica del Santo. "Giubileo. L’altro Sguardo" è un racconto itinerante lungo dodici mesi: i mesi di un Anno Santo vissuto attraverso lo sguardo appassionato dei volontari, lo sguardo disincantato dei romani, quello dei pellegrini, degli imprenditori, degli amministratori, degli emarginati. Lo sguardo dei carcerati e quello di chi ha deciso di cambiare vita, di convertirsi. "Intendiamo fare un viaggio nella Misericordia attraverso la concretezza di piccoli o grandi gesti: uno sguardo, un sorriso, una mano tesa, una soluzione ai problemi", prosegue Caterina, "è il racconto di una Chiesa che nel silenzio, da sempre, aiuta le fasce più fragili della società, quelli che nessuno accoglie, guarda, ascolta. È il racconto dei laici che, giorno dopo giorno, aiutano chi è escluso a ricostruirsi, per poter ritrovare il senso della propria esistenza con un passo più deciso e sereno". Dodici reportage di mezz’ora, attraverso l’Italia - e non solo - per raccontare il nostro Paese e la chiesa di Papa Francesco, con la sua bellezza e le sue contraddizioni. Sondrio: visita dei Radicali al carcere "una struttura vecchia e sovraffollata" valtellinanews.it, 3 gennaio 2016 Una delegazione di Radicali Sondrio composta da Claudia Osmetti e Giovanni Sansi ha partecipato giovedì 30 dicembre 2015 a una visita ispettiva alla casa circondariale di Sondrio, in via Caimi. All’interno delle iniziative promosse dal Partito Radicale per il Capodanno del 2016 (Marco Pannella e Rita Bernardini sono stati la sera del 31 dicembre 2015 al carcere di Regina Coeli a Roma), una delegazione di Radicali Sondrio composta da Claudia Osmetti e Giovanni Sansi ha partecipato giovedì 30 dicembre 2015 a una visita ispettiva alla casa circondariale di Sondrio, in via Caimi. Erano presenti anche il senatore Pd Mauro Del Barba e il sottosegretario agli Affari esteri Benedetto Della Vedova. A seguire si è svolto un incontro con il garante comunale dei diritti delle persone limitate nella libertà personale, Francesco Racchetti. "Abbiamo riscontrato una situazione di sovraffollamento sostanziale: a fronte dell’ultima relazione datata aprile 2015 del garante dei detenuti di Sondrio, infatti, al 20 dicembre 2015 nel carcere di via Caimi risultano 35 persone detenute (più una in permesso) contro una capienza regolamentare di 27 posti", commenta Claudia Osmetti di Radicali Sondrio e membro del Comitato nazionale di Radicali italiani. "Certo una condizione migliorata rispetto alla presenza di oltre 60 detenuti di tre anni fa, ma sicuramente non ottimale. La struttura è antiquata: i servizi igienici sono fatiscenti, la sala computer (ristrutturata di recente) non è attrezzata, ci sono solo un paio di pc nella biblioteca. La maggior parte dei detenuti è straniera, motivo per cui una volta a settimana viene organizzato un corso di lingua italiana. Sono state fatte delle migliorie, come il parquet nuovo nella palestra, ma gli attrezzi sono ancora vecchi. Anche la sala colloqui è stata ristrutturata, ora è presente anche una sala adiacente per le visite famigliari". "Che il carcere di Sondrio sia una struttura piccola e con problemi tutto sommato più contenuti rispetto alle grandi realtà carcerarie del resto del Paese non è una scusante", conclude Osmetti: "Bisogna ricordare che il diritto a una vita dignitosa dell’ultimo dei carcerati, anche in Valtellina, è il diritto a una vita dignitosa di tutti". Nel corso della visita è stato richiesto agli agenti della polizia penitenziaria di compilare il questionario del Partito Radicale sullo stato effettivo della condizione carceraria sondriese: sarà cura di Radicali Sondrio rendere noti i dati non appena disponibili. La Spezia: il "Premio della bontà" ai volontari che operano in carcere cittadellaspezia.com, 3 gennaio 2016 Mercoledì la cerimonia di consegna dell’edizione 2015 alla presenza del vescovo Palletti. Si terrà il prossimo 6 gennaio la consegna del "Premio della bontà" intitolato al nome del vescovo Siro Silvestri, che volle istituirlo quarant’anni or sono. Proprio nella vigilia del nuovo anno è stato reso noto che l’edizione 2015 del premio diocesano è stata assegnata al gruppo delle persone che operano quali volontari nel carcere spezzino di Villa Andreini. Anche il tema delle carceri e delle condizioni di chi vi è recluso, come è noto, è stato posto dal Papa al centro, con altri, del "Giubileo della misericordia". Alla Spezia i volontari e le volontarie prestano da anni un servizio prezioso a sostegno delle persone recluse. Con loro ci sono il cappellano del carcere, il francescano padre Felice D’Addario, ed altri sacerdoti, tra cui lo stesso vescovo emerito Bassano Staffieri. Come detto, il premio, reso possibile grazie al contributo del Lion’s Club "Host", sarà consegnato dal vescovo nel corso del Pontificale che mercoledì prossimo, solennità dell’Epifania, celebrerà alle 10.30 in cattedrale alla Spezia (mentre alle 18 lo celebrerà nella concattedrale di Sarzana). Tutti sono invitati a questo sacro rito ed a felicitarsi con i premiati. Anche l’Azione cattolica considera il mese di gennaio quale "mese della pace": nel corso del mese ci saranno così in diocesi diverse iniziative su questo tema tali da coinvolgere tutte le fasce di età dell’associazione. Queste le motivazioni del riconoscimento: "Verificate le diverse segnalazioni pervenute, la commissione ha ritenuto di riconoscere quest’anno il "Premio della bontà", all’opera dei volontari carcerari, attualmente attivi presso la Casa circondariale della Spezia. Trattasi di un gruppo di persone, animate da diverse motivazioni solidali, etiche e religiose, che operano volontariamente e gratuitamente a favore dei carcerati ospiti della struttura, in particolare assistendo gli stessi, sia dedicando loro momenti di ascolto personale, sia venendo incontro ad altre necessità concrete. Un sostegno alla persona in un momento di estrema fragilità e difficoltà interiore anche di fronte alle grandi domande della vita che in queste circostanze emergono nel cuore dell’ uomo. In considerazione di quanto sopra il Lyons club Host La Spezia mette a disposizione l’importo di euro 1.500 per rispondere alle necessità concrete dei detenuti. Tale offerta sarà resa operativa, devolvendola alla coordinatrice del gruppo dei volontari, dottoressa Licia Vanni". Lucca: iniziativa per il carcere di San Giorgio, quando la musica è solidarietà lagazzettadilucca.it, 3 gennaio 2016 Un inizio d’anno all’insegna della partecipazione solidale, quello che contraddistingue l’impegno del Coro Nova Harmonia in questo primo appuntamento del 2016 presso la Chiesa di S. Andrea di Tempagnano. Orami da 10 anni il Coro Nova Harmonia, sapientemente diretto da Paola Vincenti, insegnante di musica e canto, nonché valente soprano e pianista, propone brani musicali di grande impatto, spaziando tra il repertorio classico, operistico, tradizionale e anche legato alla musica di grandi autori contemporanei che , come Trovajoli e Moricone, hanno composto per il cinema ed il teatro. Trenta coristi, veri e propri strumentisti della voce, che sanno coinvolgere con la loro passione e competenza anche il pubblico meno sensibile alla straordinaria energia vitale della musica. Per l’occasione del periodo natalizio l’insieme vocale Nova Harmonia proporrà una miscellanea di brani tradizionali e moderni, molti dei quali legati al Natale e un simpatico ed innovativo esperimento di partecipazione esperienziale attraverso il canto condiviso. Il coro Nova Harmonia si pone in quest’ottica di condivisione sia direttamente attraverso il coinvolgimento di persone che amano cantare ma che spesso non ne hanno l’opportunità, sia indirizzando alcune iniziative verso situazioni di disagio fisico, psichico o sociale. Il concerto del 6 gennaio infatti sarà il primo passo verso un percorso che porterà il gruppo a cantare in luoghi meno consueti delle chiese e dei teatri, avvicinando persone in difficoltà che sono degenti in Ospedali o Residenze Sociali, senza escludere nemmeno chi è detenuto. Quello della prossima Epifania, evento organizzato con la collaborazione del Parroco Don Simone Giuli, è quindi l’inizio di un’esperienza che porterà non solo benessere, ma anche una sentita e calorosa testimonianza di solidarietà, volta a migliorare la qualità della vita dei detenuti nella casa Circondariale di Lucca. I fondi raccolti saranno infatti devoluti a sostenere le varie iniziative riabilitative in atto al S. Giorgio. La "Terra dei fuochi" uccide, ecco le prove di Pino Ciociola Avvenire, 3 gennaio 2016 Ufficiale e certificato. Nella Terra dei fuochi si muore di più anche per "l’esposizione a un insieme di inquinanti ambientali che possono essere emessi o rilasciati da siti di smaltimento illegale di rifiuti pericolosi e/o di combustione incontrollata di rifiuti sia pericolosi, sia solidi urbani", parola dell’Istituto superiore di Sanità. Che lo ha messo nero su bianco nel suo volume "Mortalità, ospedalizzazione e incidenza tumorale nei Comuni della Terra dei fuochi in Campania", diffuso mercoledì scorso, che aggiorna al 2014 la precedente ricerca riguardante il profilo di salute nella Campania, dopo avere preso in esame la situazione epidemiologica nei 55 comuni delle province di Napoli e Caserta definiti, appunto, dalla legge del giugno 2014 come ‘Terra dei Fuochi’. Punto di partenza: "Il quadro epidemiologico della popolazione residente studiata" risulta caratterizzato "da una serie di eccessi della mortalità e dell’ospedalizzazione per diverse patologie a eziologia multifattoriale". Malattie che, appunto, "ammettono, fra i loro fattori di rischio accertati o sospetti, l’esposizione a un insieme di inquinanti ambientali che possono essere emessi o rilasciati da siti di smaltimento illegale di rifiuti pericolosi e/o di combustione incontrollata di rifiuti sia pericolosi, sia solidi urbani". Fra l’altro, la situazione ambientale da queste parti "è peculiare e complessa, data la presenza di diversi sorgenti di contaminazione ambientale, e la mancanza di una specifica caratterizzazione sistematica delle diverse matrici", spiegano i ricercatori. Non solo, ma "in relazione alla contaminazione del territorio dovuta allo smaltimento illegale dei rifiuti pericolosi e alla combustione incontrollata di rifiuti sia pericolosi sia solidi urbani", identificare i Comuni interessati da queste pratiche "è difficoltoso ", perciò nell’indagine "sono stati considerati solo quei 55 comuni". Dunque non è detto che gli altri, specie limitrofi, siano al sicuro e al riparo. Come prevedibile - e da tempo registrato - le preoccupazioni più grandi riguardano i più piccoli. A proposito della salute infantile - si legge - "è emerso un quadro di criticità meritevole di attenzione". In particolare "si sono rilevati eccessi nel numero di bambini ricoverati nel primo anno di vita per tutti i tumori, e, in entrambe le province, eccessi di tumori del sistema nervoso centrale nel primo anno di vita e nella fascia di età 0-14 anni". Ecco perché l’Istituto superiore di Sanità sottolinea come "i bambini e gli adolescenti debbano essere oggetto di tutela rispetto ai rischi ambientali per la salute, accertati o sospettati, sulla base di un approccio precauzionale". Al tempo stesso, ancora, viene "segnalata l’opportunità di individuare percorsi di rapido accesso ai servizi sanitari e prevedere l’ottimizzazione delle procedure diagnostiche e terapeutiche per l’infanzia". E ce ne fosse infine stato bisogno, i risultati contenuti nel volume "concorrono a motivare l’implementazione di piani di risanamento ambientale, peraltro espressamente previsti dalla legge del giugno 2014". Alleanze criminali. Che accadrà ora sul fronte della guerra all’Isis in Siria e in Iraq? di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 3 gennaio 2016 Maledetta guerra. Che accadrà ora sul fronte della guerra all’Isis in Siria e in Iraq? L’Ue, alle prese con la crisi dei migranti, e gli Usa hanno da tempo deciso di assegnare un ruolo risolutore della crisi a Turchia e Arabia saudita, i baluardi militari ed economici dei nostri interessi. La messa a morte del leader sciita al-Nimr è una bomba contro il processo in atto in Medio Oriente e le coalizioni ufficialmente in campo contro lo Stato islamico. Ma devastante come se non peggio dell’abbattimento in Siria dell’aereo russo da parte della Turchia. L’esecuzione, avvenuta con altre 46 persone, deflagra però non solo nel lontano Medio Oriente, ma in Occidente e qui in Italia. Occidente ed Italia fin qui silenziosi sul massacro in corso nello Yemen da parte dei bombardamenti aerei sauditi, taciturno sulle pene capitali emesse dallo stato più boia al mondo in percentuale rispetto al numero degli abitanti, strabico di fronte ad una dittatura feroce che opprime opposizioni e diritti umani. Eppure l’ultimo leader occidentale arrivato a omaggiare il regime medioevale dei Saud è stato proprio un mese e mezzo fa il "nostro" Matteo Renzi. Si capisce per il "made in Italy", per la metropolitana che le imprese italiane stanno costruendo e, manco a dirlo, per i più sostanziosi traffici in armi di Finmeccanica in tutti i Paesi del Golfo. La petro-monarchia dei Saud manda un messaggio di sangue al mondo, alla coalizione anti-Isis di nuovo conio (la stessa che da apprendista stregone ha attivato le forze jihadiste in tutta l’area, dalla Libia, all’Iraq alla Siria) e insieme al mondo sciita nemico giurato. Vale a dire all’Iran, all’organizzazione libanese Hezbollah, al governo di Baghdad che combattono armi alla mano sul campo le forze del Califfato. A noi manda a dire che non sarebbe vero che Riyhad aiuta il terrorismo jihadista anzi lo condanna a morte: ma come dimenticare che proprio il regime dei Saud lo ha organizzato per anni in chiave di destabilizzazione dell’intera area. Ma al-Nimr, decapitato ieri, è responsabile solo di avere guidato, sull’onda delle tanto care quanto dimenticate Primavere arabe del 2011, la protesta democratica della minoranza sciita in Arabia saudita, repressa come quella in Barhein con violenza dall’esercito saudita, armato e addestrato dall’Occidente. Che accadrà ora sul fronte della guerra all’Isis in Siria e in Iraq? L’Ue, alle prese con la crisi dei migranti, e gli Usa hanno da tempo deciso di assegnare un ruolo risolutore della crisi a Turchia e Arabia saudita, i baluardi militari ed economici dei nostri interessi. Pur sapendo che sono gli stessi Paesi che con il nostro aiuto hanno attivato la distruzione della Siria per fare a Damasco quello che è riuscito a Tripoli. Questi due Paesi sono ormai considerati decisivi per la riuscita del conflitto. Ma con la provocazione dell’esecuzione del leader sciita al-Nimr appare sempre più chiaro - come scriveva ieri Gian Paolo Calchi Novati - il fatto che, anche di fronte ad una sconfitta parziale di Daesh - visti i mille nuovi rigagnoli del l’integralismo jihadista internazionale sempre più forte, denuncia lo stesso Pentagono, in aree come l’Afghanistan che dovrebbero essere bonificate dopo quattordici anni di intervento della Nato - che non c’è alcuna "vittoria" all’orizzonte. La guerra nell’area è destinata ad allargarsi. E stavolta non più solo per procura. Il governo italiano, impegnato sia a sostenere Israele cancellando la questione palestinese, sia sul fronte delle guerre appaltate dagli Usa in Afghanistan, a Mosul in Iraq e prossimamente in Libia, esprimerà due righe di "alto" sdegno. Non romperà certo i rapporti diplomatici con Riyadh come sarebbe giusto se è la pace che si vuole conquistare. E tutto continuerà come e peggio di prima. Arabia Saudita: Riyadh uccide il leader sciita al-Nimr e sfida l’Iran di Chiara Cruciati Il Manifesto, 3 gennaio 2016 Arabia saudita. Esecuzione di massa: decapitati 47 prigionieri tra cui il religioso che guidò pacificamente le proteste sciite nel 2011 e 2012. Teheran minaccia: "Pagherete un prezzo alto". Manifestazioni di protesta nel paese e in Bahrein. Il fratello Mohammed lo aveva previsto: l’uccisione del religioso sciita Nimr al-Nimr infiammerà gli sciiti sauditi. È successo: in migliaia sono scesi in piazza nella Provincia Orientale, a Qatif, furiosi per la condanna a morte del noto religioso, e hanno dato alle fiamme auto e pullman mentre l’esercito veniva dispiegato a protezione degli uffici governativi. Al-Nimr è stato decapitato ieri mattina, insieme ad altri 46 detenuti, in 12 diverse città. Un’esecuzione di massa come non accadeva da 35 anni: l’ultima risale al 1980 quando a venire uccisi dalle sciabole del boia furono i 63 responsabili dell’occupazione della Grande Moschea della Mecca, tentativo fallito di rovesciare i Saud. Il millennio è cambiato, la petro-monarchia no: i critici vanno zittite. Perché se tra i 47 prigionieri buona parte erano qaedisti (tra cui il leader Faris al-Shuwail), 6 erano manifestanti sciiti. La figura più nota era Nimr al-Nimr, 56 anni, leader delle proteste del 2011 e 2012, reazione all’istituzionalizzata marginalizzazione politica ed economica della comunità (il 15% della popolazione). È stato ucciso per "terrorismo", equiparato ai qaedisti arrestati tra il 2003 e il 2006, membri di un’organizzazione che in Yemen è ampiamente tollerata. Guidò la sollevazione chiedendo riforme democratiche e maggiore uguaglianza, senza violenza: "Contro l’autorità [preferisco] il ruggito della parola - disse in un’intervista alla Bbc - La parola è più forte dei proiettili". È stato arrestato l’anno dopo, nel 2012, per trascorrere buona parte degli ultimi tre anni in isolamento. Nel 2014 è stato condannato a morte, dopo un processo che Amnesty ha definito colmo di irregolarità e violazioni del diritto alla difesa. La rabbia della discriminata minoranza sciita è esplosa anche nel vicino Bahrein: manifestazioni ad est della capitale Manama sono state attaccate dalla polizia, mentre in Iran manifestanti assaltavano il consolato saudita a Mashad e toglievano la bandiera della petromonarchia. Immediata era stata poche ore prima la reazione di Teheran per un atto che radicherà lo scontro tra asse sunnita e asse sciita: "L’esecuzione di un personaggio come Sheikh Nimr, che non aveva altri mezzi che la parola per portare avanti obiettivi politici e religiosi, mostra la profondità dell’imprudenza e dell’irresponsabilità [saudite] - ha detto il Ministero degli Esteri iraniano - Il governo saudita sostiene i terroristi mentre uccide i critici in casa. Pagherà un prezzo alto". Condanne anche dal movimento Houthi in Yemen e dall’Iraq, che aveva tentato senza successo - tramite la negoziazione dell’Ayatollah al-Sistani - uno scambio di prigionieri con Riyadh per salvare al-Nimr. Ieri parlamentari iracheni e membri dell’organizzazione Badr hanno fatto appello a Baghdad perché sospenda le relazioni diplomatiche con l’Arabia saudita (in questi giorni Riyadh ha riaperto l’ambasciata in Iraq), mentre il religioso Moqtada al-Sadr chiedeva agli sciiti sauditi e del Golfo di scendere in piazza "come deterrente all’ingiustizia e al terrorismo di Stato". Sullo sfondo restano gli obiettivi sauditi: infiammare le tensioni mentre si tenta l’uscita dalla crisi mediorientale, allargando le distanze tra un asse sunnita indebolito e un asse sciita rafforzato dal ruolo svolto tra Siria e Iraq. Al guanto di sfida lanciato ieri Teheran non potrà non rispondere, vuoi - scrivevano ieri alcuni analisti - abbassando il prezzo del petrolio o foraggiando gli sciiti sauditi e spingerli di nuovo in piazza. Resta in vita per ora il nipote 21enne di al-Nimr, Ali, arrestato a soli 17 anni per partecipazione alle proteste e condannato a decapitazione e crocefissione. Una brutalità che ha sollevato sdegno nella comunità internazionale. Alle accese proteste delle organizzazioni per i diritti umani ha fatto eco l’ipocrisia dell’Occidente che ha chiesto a Riyadh di annullare la condanna a morte del giovane - accusato di terrorismo e lancio di molotov - ma fa mancare del tutto reali pressioni politiche ed economiche, le uniche in grado di far breccia. I sauditi restano interlocutori privilegiati di Europa e Stati uniti che ufficiosamente sostengono la guerra contro lo Yemen vendendo armi e fornendo intelligence. Nel 2013 (un anno dopo la violenta repressione delle proteste sciite) era stato Edward Snowden a rendere nota l’espansione della cooperazione tra la Nsa statunitense e i servizi segreti sauditi, non tanto nella regione quanto nel paese: sostegno tecnico e analitico (tecnologia e training) per fronteggiare le questioni di sicurezza interna, ovvero per migliorare la capacità saudita nell’individuare determinati individui. Che a Riyadh si traduce nell’attacco contro ogni voce critica, fatti che Washington conosce bene se nello stesso periodo il Dipartimento di Stato pubblicava un rapporto in cui imputava alla polizia saudita l’uso sistematico della tortura contro i prigionieri e la sorveglianza continua dei dissidenti. Così l’Arabia Saudita prosegue, coperta dall’immunità degli alleati occidentali, nella violazione sistematica dei diritti umani. L’anno appena trascorso è stato il più brutale degli ultimi 20: 157 condanne a morte, pena inflitta per reati diversi, omicidio, apostasia, adulterio, spaccio. Alla morte si aggiunge la gogna: spesso i corpi dei condannati vengono esposti al pubblico, sfregio che serva da monito a chi viola la legge e chi critica il regime. Arabia Saudita: mai così tante esecuzioni negli ultimi 20 anni La Repubblica, 3 gennaio 2016 Nel 2015 sono almeno 158 le persone condannate alla pena capitale. Anche in Iran incremento record rispetto al totale della popolazione. Qui, tra i reati puniti con la morte, il traffico di stupefacenti e lo stupro, ma anche l’omosessualità. Almeno 158 esecuzioni nel 2015: un record negli ultimi 20 anni per l’Arabia Saudita, che oggi ha annunciato le uccisioni di altre 47 persone tra le quali lo Sheikh sciita Nimr al Nimr e il leader locale di Al Qaida Fares al Shuwail. Record degli ultimi 20 anni. Si tratta del numero più alto di persone messe a morte negli ultimi 20 anni: una tendenza che vede il Regno saudita accomunato al nemico sciita nella regione, l’Iran, il Paese che ha visto una crescita esponenziale delle esecuzioni nell’ultimo ventennio e che detiene il record del più alto numero di persone giustiziate al mondo rispetto al totale della popolazione. Secondo l’Onu, le esecuzioni capitali in Iran fino alla fine della scorsa estate sono state 694, di cui 33 in pubblico, ma secondo Amnesty International il numero potrebbe aver superato i mille entro la fine dell’anno. Giustiziati anche minorenni. Sia in Arabia Saudita sia in Iran si può essere giustiziati per crimini commessi da minorenni. Il primato della Cina. Si ritiene comunque che il Paese con il più alto numero in assoluto di esecuzioni al mondo sia la Cina, anche se non esistono dati precisi in materia perché sono considerati segreto di Stato. I reati per i quali c’è pena di morte. In Arabia Saudita, dove spesso le esecuzioni avvengono tramite decapitazione e in pubblico, i reati più comuni per i quali si è condannati a morte sono l’omicidio, il traffico di stupefacenti e lo stupro. In teoria la pena capitale è prevista anche per l’adulterio e l’apostasia, anche se in questi casi viene applicata di rado. La medesima situazione si registra in Iran, dove è prevista la condanna a morte anche per l’omosessualità e le esecuzioni avvengono per impiccagione. L’allarme di ‘Nessuno tocchi Caino". Nessuno Tocchi Caino teme che il 2016 vedrà un’ulteriore "escalation nella pratica della pena di morte" in Arabia Saudita in nome della "guerra al terrorismo", dopo che Riad "si è posta alla testa della Grande Coalizione anti-Stato Islamico". Arabia Saudita: Ali e quei dissidenti ragazzi che spaventano la monarchia di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 3 gennaio 2016 Arrestato il 14 febbraio 2012 ancora diciassettenne con l’accusa di militare tra i giovani della "Primavera Araba" in Arabia Saudita, oggi rischia di essere decapitato e crocifisso. È uno dei tanti figli delle nuove generazioni del Medio Oriente affascinati dalla prospettiva di un futuro democratico contro le dittature teocratiche e nepotistiche che dominano nella regione. Prima imputato di "diffondere la democrazia" con il suo BlackBerry, in seguito di un colpa molto più grave: "Era violento e armato". Forse non pensava, non si rendeva conto Ali al Nimr di essere tanto in pericolo. Il peso della repressione saudita gli è caduto addosso quando già era in cella. E allora ha capito: è un giovane sciita, figlio di un credo considerato "eretico" da questa che si concepisce come la monarchia- guida del purismo sunnita, il Paese custode di Mecca e Medina, il diretto erede del Profeta. Ma soprattutto è nipote di Nimr al Nimr, lo sceicco attivista tra le comunità sciite nelle province orientali a sua volta arrestato nel 2012 e la cui condanna a morte è stata eseguita nelle ultime ore. Così adesso Ali potrebbe a sua volta venire "giustiziato". La prassi è quella del purismo wahabita per i casi come il suo: prima decapitato, poi crocefisso. La condanna a morte del resto è già stata emessa il 27 maggio 2014. Non importa che il processo sia giudicato "illegale" dai funzionari Onu che l’hanno seguito. Lui stesso ha dichiarato di essere stato picchiato e torturato. Il padre dice di averlo visto in ospedale alcuni giorni dopo l’arresto con diverse ossa rotte. Ogni confessione pare gli sia stata estorta con la violenza e le minacce. Il regime di Riad si erge a paladino della difesa dei diritti sunniti nella regione, a partire da quelli in Siria e Iraq, ma in realtà i suoi sistemi non sembrano molto diversi da quelli utilizzati dalla dittatura di Bashar Assad e dalla polizia segreta di Bagdad. L’intimidazione è diretta soprattutto ai giovani. L’avvocato di Ali non ha potuto interrogare i testimoni presentati dall’accusa. Il processo si è svolto in modo frettoloso. E ciò nonostante le proteste di vari organismi e leader stranieri, tra cui Amnesty International e il presidente francese François Hollande. Ora il suo destino è nelle decisioni di re Salman, l’unica autorità in grado di dare la luce verde all’esecuzione, oppure concedere la grazia. Una sorte simile aspetta altri prigionieri, molti sciiti, chiusi nelle carceri saudite. Nonostante le smentite o i no comment di Riad, è generalmente stimato che siano circa 30 mila i detenuti politici del Paese. E il timore è che adesso, con il deteriorarsi delle tensioni con l’Iran e il mondo sunnita, a farne le spese siano proprio i prigionieri sciiti. Iran: attivisti; 27 religiosi sunniti nel braccio della morte Aki, 3 gennaio 2016 Sono 27 i religiosi e i predicatori sunniti nel braccio della morte in Iran, che potrebbero venire giustiziati in qualsiasi momento. Lo ha detto l’Iranian Human Rights Activists Network Agency (Hrana), che teme una esecuzione di massa di detenuti nel carcere di Rajai-Shahr a nordovest di Teheran. Nel giorno dell’esecuzione di 47 detenuti in Arabia Saudita, tra cui l’imam sciita Nimr al-Nimr, gli attivisti in Iran riferiscono che nei giorni scorsi sono rimasti nel carcere di Rajai-Shahr solo i condannati a morte, mentre gli altri detenuti sono stati trasferiti. Per le famiglie si tratta di una decisione che potrebbe svelare un piano del governo per mettere in atto le pene capitali in qualsiasi momento. La maggior parte dei detenuti è stata arrestata tra il 2009 e il 2010 durante manifestazioni nell’Iran orientale, spiegano gli attivisti. I detenuti sono stati tenuti in isolamento per mesi, senza contatti con i familiari o con gli avvocati, e si teme che siano stati torturati per ottenere confessioni. Le accuse nei loro confronti vanno da "azioni contro la sicurezza nazionale" alla "propaganda contro lo Stato", dalla "diffusione della corruzione sulla Terra" fino al reato contestato di essere "Moharabeh", ovvero nemico di Dio. Insieme a Cina e Arabia Saudita, l’Iran è uno dei Paesi al mondo con il più alto numero di esecuzioni. Si stima che solo nel 2015 siano state eseguite mille condanne a morte. Amnesty International denuncia che in molti casi i detenuti vengono informati della loro esecuzione solo poche ore prima, mentre alle famiglie viene data la notizia anche diverse settimane dopo. La scorsa settimana detenuti politici sunniti in Iran hanno scritto una lettera aperta, intitolata ‘L’ultimo pianto’, nel quale annunciavano una prossima esecuzione di massa. "Vorremmo informarvi che dopo una serie di esecuzioni di giovani sunniti negli ultimi anni, questa volta il regime iraniano vuole giustiziare tutti i detenuti sunniti che sono nel braccio della morte nel carcere di Rajai-Shahr", affermava la lettera, che chiedeva ai sunniti iraniani e ai leader religiosi di condannare e cercare di evitare questo "crimine storico". Afghanistan: liberati 59 detenuti da prigione talebani nella provincia di Helmand Ansa, 3 gennaio 2016 Le forze di sicurezza afghane hanno liberato ieri, in una operazione che ha comportato anche l’uso di elicotteri d’attacco, 59 prigionieri da una prigione dei talebani nella provincia meridionale di Helmand. Lo scrive l’agenzia di stampa Pajhwok. Citando un comunicato del quartier generale delle forze militari americane a Kabul, l’agenzia ha precisato che il centro di detenzione gestito dagli insorti si trovava nel distretto di Nahr-i-Saraj e che i militari afghani non hanno subito perdite. Le forze statunitensi, si è inoltre appreso, si sono limitate a fornire un appoggio a livello di pianificazione e di intelligence senza intervenire direttamente sul terreno. È la seconda operazione di questo tipo realizzata in un mese. La precedente, nel distretto di Naw Zad dell’Helmand, aveva permesso la liberazione di 60 detenuti. Germania: l’allerta terrorismo a Monaco e la gestione social della crisi di Marta Serafini Corriere della Sera, 3 gennaio 2016 L’ufficio stampa della polizia della città tedesca ha informato senza sosta i cittadini sull’evolversi degli eventi evitando che si diffondesse il panico. E in Italia? Hanno twittato, postato, mandato messaggi. E perfino trasmesso la conferenza stampa su Periscope, l’applicazione di Twitter per le dirette streaming. Per tutta la durata dell’allerta terrorismo l’ufficio stampa della polizia di Monaco non ha mai smesso di informare i cittadini su quanto stava accadendo attraverso i suoi social. Uno sforzo comunicativo che colpisce. E colpisce ancora di più perché visto da qui, da un Paese dove l’utilizzo delle piattaforme social nella pubblica amministrazione per la gestione delle emergenze è praticamente fermo a zero. Il primo tweet (scritto in lingua tedesca) è arrivato alle 22:40 del 31 dicembre. "Ci sono indicazioni che si possa verificare un attacco terroristico a #München. Per favore evitate i luoghi affollati, la stazione centrale e quella di Pasing". Un messaggio semplice, secco, che in 140 caratteri ha messo sul chi vive tutti. Tanto che è stato ritwittato 4.164 volte. Subito gli utenti hanno iniziato a scambiarsi informazioni tra di loro. Certo, c’è stato chi ha fatto anche delle ironie "Controllate anche se i miei vicini hanno delle bombe sotto il divano", ha scritto qualcuno. Ma l’ufficio stampa della Polizia ha tirato dritto per la sua strada. E nelle ore successive sono stati diffusi altri 28 messaggi, tradotti anche in diverse lingue oltre al tedesco, dall’inglese, passando per l’italiano fino al polacco. "La polizia ha fatto sgomberare la stazione centrale e la stazione Pasing. I treni non transitano più, vi preghiamo di attenersi agli ordini", si leggeva all’1:08 del mattino nella nostra lingua quando ormai l’anno nuovo era iniziato. Così mentre giornali, televisioni, agenzia media facevano fatica a seguire gli avvenimenti perché a ranghi ridotti (al Corriere la copertura degli avvenimenti è stata garantita fino a notte inoltrata), l’ufficio stampa della Polizia di Monaco di Baviera ha tenuto informato il mondo e ha trovato pure il tempo di fare gli auguri di buon anno ai suoi follower. Un modo per dare aggiornamenti, dunque. Ma anche per tranquillizzare e tenere tutti calmi. Alle due del mattino la conferenza stampa del capo della polizia e del ministro degli Interni della Baviera è stata trasmessa in diretta Periscope. Poi alle 4:15 il sollievo: "Le stazioni sono riaperte. Rimaniamo sul posto e vi aggiorneremo". La gestione del panico attraverso i social. Monaco diventerà dunque un esempio di come la gestione di un’emergenza passi anche dal corretto impiego dei mezzi di comunicazione. In caso di allerta terrorismo è fondamentale che non si diffonda il panico. E che le informazioni non rimbalzino in modo incontrollato, soprattutto in rete. Per due motivi. Se le persone iniziano a spostarsi o a scappare senza un criterio per gli agenti diventa davvero difficile monitorare gli spazi. Ma non solo. In caso di allerta, i terroristi potrebbero approfittare delle informazioni che circolano sui social network e cambiare i loro piani di conseguenza. Non a caso in Belgio, durante il blitz anti terrorismo seguito agli attacchi di Parigi, la polizia chiese il silenzio sui social. Tuttavia la polizia di Monaco è andata ben oltre la gag degli agenti belgi che ringraziarono con dei croccantini virtuali tutti gli utenti che avevano postato gattini durante Brussels Lock Down. A Monaco, dopo una notte di lavoro senza sosta, all’ufficio stampa della Polizei Munchen hanno potuto scrivere su Facebook: "Buon giorno, Monaco! A tutti quelli che hanno passo la notte fuori, grazie per essere stati calmi e per aver avuto comprensione". Sotto il post, centinaia di messaggi di ringraziamento agli utenti con tanto di cuoricini ed emoticon. Un successo dunque, tanto più che non è accaduto niente. E che da questa parte delle Alpi lascia con la triste sensazione di non essere davvero pronti. Nonostante gli sforzi di alcuni Comuni e di alcune amministrazioni che stanno iniziando a muovere i primi passi social, fino ad oggi in Italia non abbiamo ancora potuto assistere a un efficiente impiego della tecnologia al servizio del cittadino. E la faccenda non è solo sgradevole da un punto di vista di prestigio. In casi di allerta terrorismo come quello di Monaco rete e social network possono fare la differenza. E contribuire a salvare delle vite. La Polonia di Kaczynski blinda media e giustizia di Monica Perosino La Stampa, 3 gennaio 2016 Il governo: tutto falso, inutile allarmismo della sinistra. I direttori della televisione pubblica polacca si sono dimessi in massa. La Polskie Radio, la radio di Stato, ogni sessanta minuti manda in onda l’inno europeo (l’"Inno alla gioia" di Beethoven) alternato a quello nazionale. "Il nostro è un messaggio - dicono dalla Tvp - ai 38 milioni di polacchi che ci ascoltano: nel nostro Paese la libertà di parola e di pensiero è gravemente minacciata". A Varsavia, così come nelle 200 stazioni radio decentrate, nessuno vuole parlare, se non in forma anonima: "I giornalisti rimasti ai loro posti hanno paura, siamo tornati alla censura e alle purghe pre 1989. Andiamo avanti, ma sappiamo bene che chi si oppone al governo salta". La legge di San Silvestro La legge sui media voluta dal partito nazionalista al governo del leader Kaczynski, e varata l’ultimo giorno dell’anno, prevede che sia il ministro del Tesoro a nominare i membri delle direzioni e dei cda dei media pubblici. Ed è dato per scontato che la legge voluta dal partito Diritto e giustizia (Pis) verrà firmata dal "suo" presidente Andrzej Duda. In una lettera aperta l’Associazione europea dei giornalisti (Aej) ha espresso il timore che la riforma voglia mettere i media sotto il controllo dell’esecutivo. Stessa preoccupazione del primo vicepresidente della Commissione europea, Timmermans. Ma per Varsavia tutto è in regola, anzi, si tratta di "inutile allarmismo - dice il neo ministro degli Esteri Witold Waszczykowski. Finora i media non facevano giornalismo, ma propaganda alla sinistra. Il governo polacco non intende mettere bavagli, anzi, vuole aprire l’informazione a tutte le opinioni. I giornalisti potranno criticarci senza alcun timore". La nuova strada La legge sui media è solo l’ultimo passo nella nuova strada imboccata dalla Polonia all’indomani delle elezioni del 25 ottobre che hanno consegnato il Paese alla forza ultranazionalista ed euroscettica del Pis. Il governo di Beata Szydlo non ha perso tempo. Nelle ultime settimane altre due decisioni mostrano l’inizio di una nuova fase politica del Paese. Il 15 dicembre il presidente Duda ha promesso sostegno finanziario, politico e energetico all’Ucraina. Pochi giorni dopo, il 19 dicembre, decine di migliaia di polacchi sono scesi in piazza contro la nomina diretta del governo di 5 nuovi giudici alla Corte Costituzionale. Nonostante i finanziamenti ottenuti dalla Ue (180 miliardi dal 2007 al 2020) Varsavia rivendica la propria sovranità contro un’istituzione che "non riesce a garantire stabilità", è decisa a sfidare gli "alleati-padroni" tedeschi su questioni come economia e rifugiati e a chiedere una maggior presenza della Nato, che terrà a Varsavia il prossimo vertice, l’8 e 9 luglio, per arginare il "nemico" russo, dalla cui aggressività - secondo il ministro degli esteri Waszczykowski, "ci dobbiamo difendere". Che aggiunge: "Abbiamo deciso di concentrarci sui problemi interni, ma la politica estera resta una priorità. E il sostegno all’Ucraina una priorità tra le priorità". E mentre la Polonia sa di non potere tenere a bada la Russia senza Europa e Stati Uniti, ed è consapevole dell’impossibilità di un’indipendenza economica dalla Ue, la diplomazia di Varsavia accorcia le distanze dall’Ungheria. Ed è ormai più che probabile che le posizioni del governo finiranno per scontrarsi con gli ideali liberali sanciti dall’Unione europea. Stati Uniti: una storia di impunità e di "affluenza" di Simone Pieranni Il Manifesto Nel 2013 un giovane texano guida in stato d’ebbrezza e ammazza quattro persone. Viene condannato a 10 anni in libertà vigilata, anziché a 20 di carcere, perché - dice il giudice - sarebbe "viziato", affetto da "affluenza" e quindi "inconsapevole" dei danni che il suo comportamento avrebbe procurato ad altri. Nel dicembre 2015 con la complicità della madre abbandona il Texas e fugge in Messico. Sui due c’è una taglia e vengono infine arrestati dalla polizia di Puerta Vallarta. Ventotto dicembre 2015. Ethan Couch ha diciotto anni, i capelli neri e baffetti appena accennati. Dimostra più della sua età, anche se è indaffarato a giocare con lo smartphone. Accanto a lui, sulla terrazza di un resort affacciato sul Pacifico a Puerta Vallarta, Messico, è seduta sua madre, Tonya Couch. È impegnata a recuperare qualcosa nella borsetta, poco dopo aver consumato una pizza ordinata via telefono. Guardano la distesa di mare di fronte a loro. Le onde increspate del Pacifico rimbalzano sui loro occhi, trasmettendo avvisaglie di tempesta. Fuori dal resort, che ha mure sporche e annerite, c’è la Loncheria Sebastian, il posto che i due frequentano da qualche giorno, per trascorrere la serata. Madre e figlio sono ricercati da un paio di settimane. Su di loro pende una taglia di 5 mila dollari emessa dal governo federale del Texas. Dopo alcuni minuti di silenzio, i due decidono di scendere a fare una passeggiata sulla spiaggia. A quel punto - secondo alcuni testimoni - arrivano gli agenti della polizia messicana. Scendono da un piccolo furgone bianco. Uno di questi poliziotti è grasso e sembra sudare in modo copioso, si tiene leggermente in disparte, a qualche passo dai primi due che scandiscono a voce alta i nomi degli americani. Questo poliziotto è soddisfatto di dover perdere del tempo con quei due yankee, perché Puerta Vallarta non è solo una località turistica messicana. L’ultimo intervento che ha fatto - ad esempio - è stato decisamente più pericoloso. Siamo pur sempre nella regione di Jalisco, l’Arena, Messico centro occidentale. Il regno dei Los Cuinis, quella è la loro Plaza. Si dice che Los Cuisinis siano addirittura più ricchi dei Los Zetas, o del cartello dei Sinaloa, protagonisti ben più noti della guerra tra narcos. Los Cuisinis sono gemellati con quelli del Jalisco New Generation Cartel, a loro volta fazione del Milenio Cartel, i monopolisti in fatto di metanfetamine e cocaina. Colombia, Messico, Europa e Stati uniti, tratta sicura. Trafficano in quella regione, bazzicano lì, nella località turistica frequentata per lo più dagli yankee. Americani che vanno avanti e indietro, per riposarsi, riprendersi, sballarsi, o per scappare. El Cuni e il giovane americano Come il ragazzo con i capelli neri, Ethan Couch, un fuggiasco. Il poliziotto messicano guarda lui, guarda la madre e pensa a El Cuni, Abigael Gonzalo Valenzia, uno che aveva pagato tre milioni di dollari per fare scomparire la sua faccia da ricercato dalle televisioni locali e nazionali. E ci era perfino riuscito, prima di essere arrestato, il 7 maggio del 2015. Non era noto come El Chapo o altri narcos che si sono imposti a suon di dollari e sventagliate di mitra. El Cuni aveva scelto un profilo più basso, preferendo comprare le persone anziché sgozzarle a gruppi di tre o quattro. Niente pistole tempestate di diamanti o narcomensaje appesi ai ponti o narcoscorridos a celebrarne gesta e latitanza. Niente di tutto questo. Ma quello che più conta, agli occhi del poliziotto messicano, è che El Cuni e Ethan Couch, alla fine, potrebbero essere la stessa persona. Impunità, è la parola chiave. C’è una differenza, però: di cose strane a Puerta Vallarta ne succedono tante, ma due fuggitivi dagli States che si fanno beccare perché ordinano una pizza con lo smartphone è chiaramente un sintomo di poca intelligenza. Li guarda, il poliziotto messicano, il ragazzo e la madre; li osserva mentre stancamente si fermano, si voltano a sentire i loro nomi, è un gesto istintivo e seguono (sembrano più rassegnati che spaventati) gli ordini degli altri poliziotti. In manette, ancora. Per Ethan Couch non è una novità consegnare le mani ai tutori dell’ordine. Gli era già capitato in Texas, nel 2013. Aveva guidato una macchina, ubriaco fradicio. Il diritto del più ricco. Con il suo Suv si era sentito legittimato ad affermare la propria volontà: bianca, ricca, impunita. Nella sua scorribanda aveva preso in pieno cinque persone: quattro sono morte sul colpo, una al momento è paralizzata e guarda la vita degli altri in uno stato vegetativo. Le vittime sono Breanna Mitchell, Hollie Boyles sua figlia Shelby, 21 e Brian Jennings. Couch aveva il livello dell’alcol in corpo molto alto, almeno tre volte il limite consentito per guidare. Ethan Couch allora era biondo, un poco di peluria sulle guance e sopra le labbra. Suo padre due anni prima aveva minacciato di comprarsi la scuola del figlio, se i professori avessero continuato a protestare perché Ethan andava a scuola in auto, a tredici anni. Il giro d’affari della famiglia Couch è di circa 15 milioni di dollari. Un budget che ha consentito alla famiglia di muoversi come fossero i padroni nella loro cittadina. La Cleburne Sheet Metal, trenta dipendenti, è roba loro. A Fort Worth, Texas, Stati uniti d’America, dove comincia l’Ovest. L’idea di comprarsi la scuola è solo una delle tante trovate o dei desideri, che da boutade di un padre miliardario, diventa intuizione geniale nelle parole dell’avvocato di famiglia al processo contro il giovane Ethan. Il ragazzo, aveva spiegato ai giudici il legale, non è un assassino. È solo un adolescente ricco affetto dall’"affluenza", una sorta di virus dei giovani ricchi, che tendono a non capire quali siano i loro obblighi sociali e finiscono per comportarsi in modo violento e irresponsabile. E il giudice - in quella circostanza - aveva finito per credere a questa teoria, sgravando di una condanna ben più pesante il giovane Couch. Dieci anni ai domiciliari e una terapia di recupero, anziché vent’anni dentro. L’"affluenza" e la sua considerazione nell’ambito penale è un tema tornato improvvisamente di moda nei quotidiani americani. La fuga della madre e del figlio ha provocato una nuova ondata di riflessioni e analisi sul tema. Sull’"affluenza" ci hanno scritto pure un libro, si intitola Affluenza: The All-Consuming Epidemic (gli autori sonoJohn de Graaf, David Wann, Thomas H. Naylor). La parola è costituita dall’unione dei vocaboli "affluent" e "influenza". Affluent and Influenza. La colpa delle morti, dunque, aveva detto l’avvocato, non è di Ethan. È della madre. È del padre. È del loro status sociale. Ethan è viziato e non ha idea delle conseguenze dei suoi atti. Non sa di dover rispettare delle regole, non sa di esserer sottoposto a delle norme. Del resto i suoi genitori hanno avuto che fare in molti casi con la giustizia. Il padre, almeno venti volte: ha spesso pagato cauzioni a fronte di comportamenti scorretti in auto o tentativi di aggressioni, anche nei confronti della ex moglie. Ora, questa storia dell’affluenza fa ridere, ma evidentemente ha funzionato. Ethan è stato condannato a dieci anni ai domiciliari per quattro omicidi colposi. Con una avvertenza: se lo avessero pizzicato, ubriaco o al volante di un’auto in condizioni non idonee, quei dieci anni sarebbe diventati veri, da passare dietro le sbarre di un penitenziario texano. Sempre meglio che venti al gabbio, come prevederebbe la legge. Ma l’affluenza incombe. Ed ecco che il poliziotto messicano ora può vederli da vicino questi due: il ragazzo scappato perché beccato a bere come un dannato in un video pubblicato in rete, e la madre pronta a sorreggerlo e ad aiutarlo nella fuga. Per giorni le televisioni messicane avevano mostrato il volto dei due fuggiaschi. Madre e figlio, partiti dopo aver organizzato una specie di party nella lussuosa casa di lei, ormai da tempo separata dal marito. I poliziotti messicani li hanno portati in carcere, ma il loro destino per ora non è lo stesso. La madre è già stata portata negli States, il ragazzo rimane in prigione, in Messico, in attesa dell’estradizione. La loro fuga ha fatto scalpore e ha avuto come corollario il ritorno in auge dell’"affluenza". Se a El Cuni, narcotrafficante messicano, l’impunità era regalata dai soldi e dalla corruzione, a Ethan Couch, giovane wasp nordamericano, fino a oggi era concessa dai soldi e dall’affluenza: il diritto del più forte.