Il Ministro Orlando: cambiare cultura pena, il sistema sanzione-reclusione è anacronistico Askanews, 30 gennaio 2016 "Il 2015 ha segnato il superamento del sovraffollamento carcerario. L’ambizione è tuttavia quella di imprimere un segno ancora più incisivo in termini di cambiamento nella cultura della pena. Il fine ultimo è abbandonare un sistema anacronistico che identifica troppo spesso la sanzione penale con la reclusione in carcere". Lo ha detto il ministro della Giustizia Andrea Orlando intervenendo stamani a Palermo all’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la Corte di Appello. "Al 31 dicembre 2015 - ha detto Orlando, la popolazione carceraria è scesa a 52.164, 39.274 sono i soggetti trattati in regime di esecuzione penale esterna. L’indice di sovraffollamento delle carceri è sceso dal 131% al 105%. Tutto ciò è stato possibile anche grazie all’impegno e alla crescente professionalità degli operatori sociali degli uffici per l’esecuzione penale esterna, al crescente coinvolgimento degli enti locali, alla dedizione della polizia penitenziaria, al lavoro della magistratura di sorveglianza". "Puntiamo ad ampliare e potenziare il ricorso a sanzioni penali diverse dalla detenzione - ha proseguito il ministro -, percorsi di messa alla prova e di esecuzione di misure alternative che, pur mantenendo la fisionomia di sanzione, siano in grado di accompagnare il ritorno nella società del condannato e nel contempo rafforzare la dimensione ripartiva della giustizia penale". Cari pm e cari media, il garantismo non si tocca.. ce lo chiede l’Europa! di Ermes Antonucci Il Foglio, 30 gennaio 2016 Stop ai processi mediatici, alle conferenze stampa-show di pubblici ministeri in cerca di visibilità, e alla colpevolizzazione delle persone indagate o imputate fino a sentenza definitiva; rafforzamento del principio dell’onere della prova in capo alla pubblica accusa (e non alle persone chiamate in giudizio) e del diritto a presenziare al proprio processo. Questi i punti principali della direttiva approvata dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione europea lo scorso 20 gennaio, dedicata esplicitamente, per la prima volta, al "rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali", e che ora dovrà essere recepita entro due anni dagli stati membri, a partire dall’Italia. Già, perché la frecciata presente in uno dei 51 "considerando" che compongono la direttiva - quello in cui si nota come diversi stati dell’Unione europea, pur essendo firmatari della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, non risultano assicurare "un grado sufficiente di fiducia nei sistemi di giustizia penale" - sembra proprio essere indirizzata, in primo luogo, al nostro paese, terra ormai consolidata di gogne mediatiche, magistrati da salotto televisivo e aspiranti trampolieri politici, informazione giustizialista e distruzione pubblica, fisica e psicologica delle persone destinatarie di semplici avvisi di "garanzia" (notare l’ossimoro). È proprio al fine di combattere queste degenerazioni mortali per lo stato di diritto che le istituzioni europee hanno deciso di imporre a tutti gli stati membri misure necessarie a "garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole". Per autorità pubbliche sono da intendersi, specifica la direttiva, "le autorità giudiziarie, di polizia e altre autorità preposte all’applicazione della legge", così come "altre autorità pubbliche, quali ministri e altri funzionari pubblici": a questi soggetti gli stati dovranno ricordare "l’importanza di rispettare la presunzione di innocenza nel fornire o divulgare informazioni ai media" (fatto salvo il diritto nazionale a tutela della libertà di stampa e dei media), e impedire, di conseguenza, la divulgazione di informazioni sui procedimenti penali non "strettamente necessarie per motivi connessi all’indagine penale" e che rispecchiano "l’idea che una persona sia colpevole" ancor prima che la sua colpevolezza sia stata effettivamente dimostrata. Una tirata d’orecchie, insomma, non solo all’esuberante protagonismo di certi magistrati, ma anche al manettarismo strisciante degli organi di informazione. Ma non basta: gli stati Ue dovranno adottare misure volte a ribadire il principio per cui "l’onere della prova della colpevolezza di indagati e imputati incombe alla pubblica accusa", e che dunque "qualsiasi dubbio dovrebbe valere in favore dell’indagato o imputato". La direttiva ribadisce inoltre il diritto al silenzio e alla non autoincriminazione, secondo il quale "le autorità competenti non dovrebbero costringere indagati o imputati a fornire informazioni qualora questi non desiderino farlo", nonché il diritto a presenziare al proprio processo (remember Mafia capitale?). Certo, si dirà, la presunzione di innocenza è già presente nel nostro ordinamento (articolo 27 della Costituzione), e quindi la direttiva lascia il tempo che trova. Che però tale principio sia de facto inesistente appare ormai ovvio a chiunque abbia un minimo contatto con la realtà e conservi un po’ di onestà intellettuale. Ben venga, quindi, il "bastone" europeo: gli stati saranno infatti tenuti a recepire la direttiva e a trasmettere alla Commissione i dati relativi all’attuazione dei diritti da questa sanciti. Basterà? Sesso in carcere, il Parlamento accelera: c’è già il via libera del ministro Orlando e del Pd di Claudio Marincola Il Mattino, 30 gennaio 2016 Mogli, mariti, fidanzati, figli, ma anche amanti, conviventi, "amici: il carcere si prepara ad aprire le porte alle "stanze dell’amore". La proposta di legge per concedere ai detenuti il diritto all’intimità, diritto che in altri paesi europei è già legge, inizierà domani il suo iter legislativo in commissione Giustizia. Il primo firmatario è Alessandro Zan, ex Sel e ora deputato Pd di fede renziana. L’accordo politico c’è già. E ci sarebbe, garantisce Zan, anche il via libera del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Per la prima volta nella storia repubblicana verrà audito dai parlamentari della commissione un gruppo di carcerati che stanno scontando la pena nella sezione di alta sicurezza del carcere di Padova. I tecnici della Camera hanno già predisposto la logistica. Il Dap ha dato la sua autorizzazione: Il collegamento verrà effettuato via Skype. Ci saranno anche ergastolani, verranno sentite anche le famiglie, una figlia e una sorella porteranno la loro testimonianza. Walter Verini, Capogruppo del Pd in commissione Giustizia rileva il valore "on solo simbolico". Spiega: "Dopo i risultati raggiunti nella lotta al sopraffollamento occorre proseguire l’impegno per rendere le carceri luoghi davvero umani e non barbari, dove la pena significhi formazione, lavoro, recupero, reinserimento. Il tema dell’affettività è centrale in questa direzione: investire in carceri umane vuole dire investire in sicurezza per i cittadini". "Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione", sosteneva Voltaire. Se il motto del filosofo francese fosse ancora valido oggi - e lo è - noi italiani non ci faremmo una gran figura. "Viviamo in un Paese civile, il carcere deve essere punizione ma non barbarie - ribadisce il concetto Alessandro Zan, che ha sostenuto la proposta di audizione - è in gioco il rispetto della dignità umana. L’alternativa alla proposta di legge è dare una delega al governo ma si vada fino in fondo. I tempi ci sono". Si vuole fare sul serio, insomma, mandare avanti una battaglia che in passato fu sponsorizzata soprattutto dai radicali e - fatalmente - s’arenò strada facendo. E intanto accelerare perché il disegno di legge sulle Unioni civili sia approvato entro l’anno. Due strade - pardon due percorsi ad ostacoli - che andranno avanti in parallelo. Nella proposta di legge portata avanti da Zan e firmata da 20 parlamentari, non solo democrat, è prevista una visita al mese della durata minima di sei ore e massima di 24 ore "in locali adibiti e realizzati a tale scopo senza controlli visivi e auditivi". Di fatto una modifica della legge 26 luglio 1975, n° 354. La visita potrà avvenire con qualsiasi persona che già effettua i colloqui ordinari. I permessi "di necessità" possono essere concessi non solo in caso di morte o malattia grave ma anche "per eventi familiari di particolare rilevanza affettiva", la nascita di un figlio ad esempio. Il magistrato di sorveglianza potrà concederli solo ai "condannati che hanno tenuto una regolare condotta" ed estenderli come premio fino a un massimo di 45 giorni. Il diritto all’affettività è un tema già discusso in passato che ha creato sempre polemiche e divisioni tra favorevole e contrari. I primi definiti "buonisti". I secondi "forcaioli". E c’è una terza classificazione: quella morbosa, di chi riduce tutto alle "celle a luci rosse". "Quando si parla di spazi intimi non si fa alcun riferimento al sesso - chiarisce Ornella Favero, direttrice di "Ristretti Orizzonti", l’associazione che ha organizzato l’audizione con i detenuti di Padova e che da sempre si batte su queste tematiche - definirle così avvilente non solo per i detenuti ma anche per le famiglie che hanno diritto a incontri riservati, "normali"". Tribunali ad attività ridotta per mancanza di cancellieri di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2016 La protratta e progressiva scopertura di personale amministrativo sta costringendo alcuni uffici, a Milano, Bergamo, Monza, Prato, ad adottare misure estreme, dalla chiusura parziale delle cancellerie alla riduzione delle udienze, con conseguente dilatazione dei tempi dei processi e inevitabili disagi per l’utenza, a cominciare dagli avvocati. Né si escludono "interventi più radicali". Questi uffici sono la rappresentazione plastica dell’emergenza più acuta che sta attraversando il servizio giustizia e che certamente verrà rilanciata nelle cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario in programma oggi nei distretti di Corte d’appello. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, continua a rivendicare di aver rotto l’immobilismo di 25 anni, assumendo, anche grazie alla mobilità, più di 4mila unità di personale amministrativo, che entro un paio d’anni prenderanno servizio, aggiungendosi ai 593 già immessi negli uffici giudiziari. Ma i magistrati lamentano l’insufficienza e l’inadeguatezza dell’intervento ministeriale sia perché i tempi del ricambio non consentono neanche di rimpiazzare il turn over dell’ultimo anno, derivante da pensionamenti e cessazioni (per cui il saldo è negativo), sia perché finora la distribuzione dei nuovi ingressi è stata "irrazionale", sia perché, trattandosi di mobilità da altre amministrazioni, quegli ingressi avranno bisogno di una formazione specifica per trasformarsi in buoni assistenti, cancellieri e funzionari. A Monza e a Milano hanno ridotto l’orario delle cancellerie. Nell’ufficio Gip del capoluogo lombardo (che per dimensioni corrisponde a un Tribunale medio) le cancellerie rimangono chiuse dalle 9,00 alle 11,00, idem per l’ufficio decreto penale mentre per l’ufficio sentenze la chiusura è di due giorni alla settimana. Lo hanno deciso il presidente Aggiunto, Claudio Castelli, e il Dirigente amministrativo del Tribunale, con un provvedimento del 2 dicembre, reiterato il 20 gennaio. La situazione è considerata "insostenibile" poiché la scopertura dell’organico ha toccato il 30%, in un ufficio già penalizzato nel rapporto nazionale tra numero di magistrati e di personale, pari a 2,52 (l’ufficio più fortunato d’Italia è Sulmona, con 6,6). Da Milano chiedono di agire subito e con una distribuzione oculata, non indiscriminata com’è stato finora. Dai dati ministeriali (risalenti al 2013) emerge infatti che 18 Tribunali avevano un surplus di organico e che 40 avevano invece scoperture superiori al 20 per cento. "La situazione oggi è peggiorata in molte sedi, tra cui la nostra" dice Castelli, ricordando che, con la prima tranche di mobilità, un addetto è stato inviato a Bergamo, 33 tra tutti gli uffici di Milano, 112 tra quelli di Roma, 116 tra quelli di Napoli. Quindi il problema non è chiedere nuove assunzioni, precisa Castelli, ma insistere per tempi rapidi, per un immediato sostegno degli uffici più in sofferenza, per una distribuzione equa e per un piano nazionale di formazione. A Prato la scopertura arriva al 34% nella cancelleria Gip/Gup, chiusa un giorno a settimana; le udienze sono state contingentate (una commessa brava e volonterosa funge da cancelliera). Al Tribunale di Bergamo - da sempre tra i più produttivi - la situazione è diventata drammatica. Già nel 2013 risultava in "fascia rossa" per carenza di personale, insieme a Milano, Monza, Napoli Nord e Santa Maria Capua Vetere, tutti al di sotto del 2,5 nel rapporto tra personale amministrativo e giudici. Allora la scopertura era del 20,1% ora è quasi del 40%, e non sono previsti arrivi per la mobilità. Di qui l’adozione di misure "drastiche" nel penale, seppure "dolorose", prese dal Presidente del Tribunale, Ezio Siniscalchi, il 14 gennaio: riduzione delle udienze del giudice monocratico (da 23-26 settimanali a 18), dei procedimenti del Gip (da 25 a non più di 12), con inevitabile allungamento dei tempi dei processi (tranne quelli con detenuti), chiusura delle cancellerie Gip/Gup il giovedì, oltre al lunedì. Gli avvocati stanno con il presidente Siniscalchi, e anche loro chiedono al ministro un intervento urgente. "Mondo di mezzo", arriva la prima sentenza e certifica la presenza mafiosa di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 30 gennaio 2016 Depositate le motivazioni della condanna a 5 anni e quattro mesi per Emilio Gammuto, collaboratore di Buzzi. È il primo giudizio in cui si parla di mafia nella Capitale. "Può ritenersi accertata la presenza nella capitale di un’associazione che presenta caratteri e indicatori di mafiosità (segretezza del vincolo, struttura gerarchica, assoluto rispetto del vincolo gerarchico, metodo mafioso utilizzato per l’acquisizione del controllo delle imprese, di interi settori economici e di appalti pubblici, il diffuso clima di omertà che ne deriva) che ha in Carminati il suo vertice". Un personaggio che ha "impresso" al gruppo "la cifra criminale e il metodo operativo, ne ha deciso la struttura, la collocazione, la direzione e gli ambiti di operatività". Così scrive la giudice Anna Criscuolo nella sentenza con cui il 3 novembre scorso ha condannato a 5 anni e quattro mesi di carcere Emilio Gammuto, ex collaboratore di Salvatore Buzzi, imputato di corruzione con l’aggravante di aver favorito l’associazione mafiosa. "Mondo di mezzo" - È uno stralcio del processo sul cosiddetto "Mondo di mezzo", celebrato col rito abbreviato, e ieri sono state depositate le motivazioni della decisione. Per confermare l’aggravante contentata dall’accusa, il giudice ha dovuto verificare l’esistenza dell’associazione mafiosa, ed è la prima volta che ciò avviene in un giudizio di merito, secondo i criteri "individuati dall’elaborazione giurisprudenziale". Finora le pronunce, anche della corte di cassazione, erano limitate ai provvedimenti di arresto; adesso, mentre il maxi-processo che si celebra nell’aula bunker di Rebibbia a Roma è ancora alle battute iniziali, siamo di fronte a un verdetto di colpevolezza, seppure solo di primo grado. Nella sentenza si legge che le "mafie silenti" esistono da tempo, e dunque "occorre sganciarsi dalla visione tradizionale della mafia storica, quella "che fa i morti", spara e insanguina le strade per incutere timore e garantirsi omertà al fine di acquisire predominio territoriale o incontrastata posizione dominante in attività illecite o in interi settori dell’economia o nel settore degli appalti pubblici". L’organizzazione di Carminati - L’organizzazione di Carminati rappresenta una di queste evoluzioni, e dal mare di intercettazioni raccolte dai carabinieri del Ros in oltre due anni di indagini la giudice ha colto molti dialoghi che a suo parere lo dimostrano. Inoltre, il fatto che minacce e percosse subite da personaggi dai quali Carminati e altri coimputati pretendevano riscossioni di denaro "non sono mai state denunciate dalle vittime se non dopo l’esecuzione delle misure cautelari nei confronti degli indagati, dimostra concretamente la condizione di assoggettamento e di omertà delle vittime"; allo stesso modo, sul versante del condizionamento della pubblica amministrazione e degli appalti truccati o pilotati con la corruzione, "è un dato di fatto che gli atti illegittimi e i reati commessi nelle procedure di gara non siano stati denunciati da alcuno dei funzionari onesti o dei concorrenti illegittimamente esclusi". Vinceva l’omertà e l’assoggettamento. "Bussacchiare agli amici del Comune" - Quando Carminati spiegava a un amico ex militante dei Nar che dopo le elezioni del 2013 per il Campidoglio bisognava andare a "bussacchiare agli amici del Comune" e dire che il lavoro "te lo faccio io, perché se vengo a sapé che te lo fà un altro allora è una cosa sgradevole", per la giudice era un "avvertimento e messaggio tipicamente mafioso, in quanto si prospetta come dovuta l’assegnazione di lavori dopo la preventiva messa a disposizione. E data la fonte da cui proviene, non è ammissibile che non si rispetti la consegna". L’imposizione del condizionamento deriva proprio dalla "caratura criminale" del "capo indiscusso" del gruppo, cioè Carminati, nonché "dal proprio percorso e dalla storia pregressa, essendo la risultante di organizzazioni passate dall’eversione nera alla contiguità con la banda della Magliana, della quale ha mutuato la struttura compartimentata e le strutture organizzative". Poco più avanti la giudice aggiunge: "In una realtà estesa, complessa, fluida e magmatica come quella romana, terra di conquista e di affari per le associazioni mafiose classiche, un’associazione criminale autoctona, radicata da tempo, che ha vissuto le stagioni più cruente e buie della storia romana, ha acquisito un patrimonio di informazioni, relazioni e protezioni che ne costituiscono il vero potere e la forza di intimidazione". Rapporti con la politica - Sul fronte dei rapporti con la politica, "l’utilizzo della forza d’intimidazione" risulta addirittura "più penetrante e incisivo", dal momento che l’organizzazione "si esprime al massimo, con modalità non violente, insidiose, pervasive, ugualmente efficaci e forse ancor più drammaticamente pericolose, che riescono a garantire risultati e hanno consentito all’associazione di conseguire, tramite le cooperative di Buzzi, una indebita e incontrastata posizione dominante del settore degli appalti pubblici". La giudice Criscuolo sottolinea che "la corruzione è forma evoluta del metodo mafioso, che ad essa strategicamente ricorre per permeare la pubblica amministrazione, evitando di compiere azioni violente, di esporsi e rischiare di attirare l’attenzione investigativa". È ciò che avrebbero fatto anche Carminati e Buzzi, secondo questa sentenza di primo grado. In attesa del processo d’appello e dei prossimi verdetti. Doppio processo per la vittima del reato che vuole il risarcimento del danno di Antonio Ciccia Italia Oggi, 30 gennaio 2016 La vittima del reato, parte civile in un processo penale, quando l’imputato viene prosciolto per incapacità di intendere e di volere, se vuole il risarcimento del danno, è costretta a ricominciare da zero un diverso processo civile. Il giudice penale, infatti, non può pronunciarsi sulla domanda di risarcimento della parte civile e la persona offesa è costretta a un doppio processo. Così prescrive il codice di procedura penale, che è stato salvato dalla Corte costituzionale (sentenza 12 depositata il 29 gennaio 2016). Anche se la Consulta non manca di sottolineare che il legislatore, se lo vuole, può disporre diversamente ed evitare la peregrinazione giudiziaria alla persona offesa. Ma da questo punto di vista l’orientamento attuale va in direzione contraria e cioè verso una ampia depenalizzazione e trasformazione di reati in illeciti civili. Ma vediamo di illustrare la sentenza. In un processo davanti al tribunale di Firenze, Pm e difensori hanno chiesto l’assoluzione dell’imputato, perché incapace di intendere e di volere al momento del fatto per vizio totale di mente. La parte civile ha chiesto l’applicazione dell’articolo 2047 del codice civile, che riconosce a favore del danneggiato un’equa indennità a carico del soggetto incapace. Ma anche questa strada è sbarrata. La corte ha ricordato che l’articolo 538 codice procedura penale consente al giudice penale di decidere sulle questioni civili solo nel caso di condanna dell’imputato: se questo viene sia assolto per totale infermità di mente, il danneggiato, non può fare altro che promuovere un autonomo giudizio davanti al giudice civile. Certo, si legge nella sentenza, il legislatore potrebbe, nella sua discrezionalità, introdurre un sistema per cui il giudice penale si pronunci sulle questioni civili, pur in assenza di una condanna dell’imputato. Ma al momento la diversa regola vigente non contrasta con la Costituzione. L’attuale sistema è, infatti, caratterizzato dal principio della separazione e dell’autonomia del giudizio penale rispetto a quello civile. Il danneggiato può scegliere se esperire l’azione civile in sede penale o in sede civile. Con altra pronuncia (sentenza n. 13 depositata il 29 gennaio 2016) la Corte costituzionale si è pronunciata in materia di compensi al difensore di soggetti ammessi al gratuito patrocinio. La pronuncia ha salvato la norma del testo unico delle spese di giustizia, che applica la riduzione di un terzo degli importi dovuti al difensore. Il problema è l’applicazione retroattiva della riduzione anche alla liquidazione di onorari per prestazioni già interamente compiute prima della entrata in vigore della norma censurata (art. 106-bis del dpr 115/2002). Nella sentenza la Consulta ha, però, bacchettato il giudice di merito, perché è partito dal presupposto per cui, nel caso di successione di diverse norme sugli onorari degli avvocati, il giudice debba necessariamente riferirsi agli onorari vigenti alla data del provvedimento di liquidazione. Tuttavia, le norme devono essere interpretate nel senso che un procedimento di liquidazione fisiologico comporta la concomitanza del momento dell’esaurimento della difesa, domanda del compenso e corrispondente provvedimento giudiziale di liquidazione. Firenze: Manconi (Pd) "Sollicciano è tra le peggiori carceri d’Italia" gonews.it, 30 gennaio 2016 Il carcere fiorentino di Sollicciano "è tra le peggiori carceri italiane, non c’è il minimo dubbio. I dati lo dicono inequivocabilmente". Lo ha detto il senatore Pd Luigi Manconi parlando oggi con i giornalisti a Firenze. Manconi è intervenuto all’associazione fiorentina Pantagruel, che si occupa di diritti dei detenuti, per presentare il suo libro ‘Abolire il carcerè. Secondo il senatore, "la gara a quale sia il peggior carcere d’Italia è complicata, anche perché non si hanno criteri omogenei di classificazione. Diciamo che Sollicciano rappresenta una punta particolarmente drammatica, direi un estrema, della situazione complessiva". Il sistema carcerario italiano nel suo complesso, ha aggiunto, "racconta in realtà una sorta di stratificazione sociale, vorrei dire l’epidemiologia. Oggi la popolazione detenuta è totalmente diversa da 30 anni fa e il carcere rappresenta la principale agenzia di stratificazione sociale del nostro Paese" ed "è la fondamentale macchina di creazione e di documentazione delle diseguaglianze sociali". Per Manconi, "se la componente definita pericolosa è valutabile intorno al 10%, il restante 90%, mai come oggi, rappresenta la fotografia realistica e tragica della marginalità sociale. Mai il carcere è stato così specchio della disgregazione della nostra società, della sua progressiva pauperizzazione". Il carcere "svolge in un modo pessimo quello che parte del welfare ha svolto fino ad un decennio fa". "Oggi - ha concluso - con la crisi del welfare, lo stato sociale si è ridotto sempre di più e alcune delle sue funzioni sono svolte dal sistema del controllo e della repressione, che ha al suo centro il carcere". Circa il 60% dei detenuti del carcere fiorentino di Sollicciano è affetto da almeno una patologia, la più diffusa è il disturbo mentale che interessa circa il 45% dei carcerati e in particolare quello da dipendenza da sostanza, che costituisce il 52% delle diagnosi psichiche, seguito dal disturbo nevrotico e da adattamento (22,4%). Lo sostiene l’associazione Pantagruel che si occupa dei diritti dei detenuti. Secondo l’associazione, "un sistema carcerario che registra una recidiva dei carcerati che rasenta il 70% dei detenuti, mentre quelli sottoposti a misure alternative (arresti domiciliari, semilibertà ecc.) sono meno di un terzo aggirandosi attorno al 20%, non può che rappresentare una minaccia alla sicurezza della nostra società. Ma le pene alternative in Italia riguardano il 36% dei detenuti, nel nord Europa raggiungono il 75%". Pantagruel ricorda che per aiutare i detenuti per i bisogni fondamentali della loro quotidianità, l’associazione promuove raccolte fondi riuscendo ad ottenere ogni anno circa 4 mila euro. Tali fondi vengono usati per sostenere la necessità di occhiali graduati a causa dell’alterazione della vista conseguente alla nuova condizione di recluso, abbigliamento per i detenuti indigenti (che sono il 59% dei 690 reclusi) ma anche francobolli per la corrispondenza. Firenze: l’Associazione Pantagruel "Sollicciano da incubo, malati 6 detenuti su 10" quinewsfirenze.it, 30 gennaio 2016 Secondo l’associazione Pantagruel metà della popolazione carceraria è tossicodipendente e soffre di disturbi psichici. E la recidiva vola al 70%. Secondo il senatore della Repubblica, Luigi Manconi, Sollicciano è uno dei peggiori carceri d’Italia. Un primato che sta tutto nei numeri, come hanno spiegato i membri dell’associazione Pantagruel che si occupano dei diritti dei detenuti. Un esempio? La legge prevede che ogni 200 detenuti ci sia una cucina. Nel reparto maschile del penitenziario di Scandicci ce n’è una per ogni 600 persone. Ma è solo la punta dell’iceberg. Ben più gravi le altre situazioni messe in risalto dai numeri dell’associazione, che si riferiscono al 2014. Circa il 60% dei detenuti a Sollicciano è affetto da almeno una patologia e il 59% è indigente, povero, non ha neppure i soldi per telefonare. La malattia più diffusa, si legge nel rapporto, "è il disturbo mentale, che interessa il 35% dei detenuti. Dato inquietante se rapportato alla popolazione generale, dove la percentuale scende all’11,6%". Preoccupa il problema della dipendenza da sostanze stupefacenti, così come la recidiva, che a Sollicciano supera quota 70% mentre nei penitenziari con un sistema di pene alternative non supera il 22%. "Il carcere - ha detto Manconi - rappresenta la principale agenzia di stratificazione sociale del nostro Paese. È la fondamentale macchina di creazione e di documentazione delle diseguaglianze sociali. Se la componente definita pericolosa è valutabile intorno al 10%, il restante 90% mai come oggi rappresenta la fotografia realistica e tragica della marginalità sociale. Mai il carcere è stato così specchio della disgregazione della nostra società, della sua progressiva pauperizzazione". L’associazione Pantagruel ha approfittato per promuovere una campagna di raccolta fondi a favore dei detenuti. negli scorsi anni sono stati raccolti circa 4mila euro l’anno. Tali fondi vengono usati per sostenere la necessità di occhiali graduati a causa dell’alterazione della vista conseguente alla nuova condizione di recluso, piuttosto che l’abbigliamento per i detenuti indigenti. Pordenone: morto misteriosamente in carcere a 29 anni, dopo sei mesi la verità è secretata leggo.it, 30 gennaio 2016 A quasi sei mesi di distanza la famiglia Borriello ancora non sa come il loro figlio 29enne, Stefano, sia morto in carcere. E i tempi della giustizia rischiano che la verità arrivi troppo tardi per poter punire gli eventuali responsabili. Il giovane di Portogruaro (Venezia) si trovava da due mesi in carcere a Pordenone quando morì in circostanze misteriose lo scorso 7 agosto. Fino alla settimana precedente Stefano, tossicodipendente detenuto dopo aver tentato di rubare il portafogli un anziano, era in perfetta salute e il lunedì successivo avrebbe avuto un colloquio al Sert e pochi giorni dopo avrebbe chiarito la propria posizione anche davanti al pubblico ministero. I problemi sarebbero iniziati lunedì 3 agosto: Stefano non si presentò all’incontro con il cappellano del carcere perché "non stava bene". Tre giorni dopo don Andrea Ruzzene, parroco di Portogruaro e amico della famiglia Borriello, lo andò a trovare in carcere ma non riuscì a incontrarlo. "Dissero che era bloccato con la schiena e non poteva uscire, e non glielo fecero vedere in cella perché non era autorizzato", racconta la cugina di Stefano, Teresa. Nella sera di venerdì 7 agosto, intorno alle 20, il carcere allertò l’ospedale e fu disposto il ricovero. Stefano morì un’ora dopo, ma la madre fu avvertita solamente alle 23.15. Il primo referto medico parlò di morte sopraggiunta per arresto cardiaco, ma l’autopsia escluse l’infarto. Per questo motivo don Andrea, pochi giorni dopo la morte di Stefano, affermò di temere che quello fosse ‘un altro caso Cucchi’. Alla famiglia Borriello fu garantito che entro 60 giorni sarebbe giunta una relazione dei periti incaricati dalla Procura, ma i genitori di Stefano la aspettano ancora. I contorni oscuri della vicenda non convincono neanche la Procura, che ha deciso di secretare tutti gli atti e i documenti relativi alla morte del giovane, dalle cartelle cliniche agli interrogatori degli altri detenuti. E ora la legale della famiglia, Simona Filippi dell’associazione Antigone, tuona così: "Quegli atti sono inaccessibili anche a noi, quest’indagine è partita male e in netto ritardo. Qui si rischia seriamente che, nell’eventuale fase dibattimentale, tutto potrebbe finire in prescrizione". Camerino (Mc): consiglieri regionali e Ombudsman visitano il carcere Corriere Adriatico, 30 gennaio 2016 Sopralluogo presso la Casa circondariale di Camerino da parte della delegazione formata dall’Ombudsman, Andrea Nobili, dalla Vicepresidente del Consiglio regionale, Marzia Malaigia, dall’assessore Angelo Sciapichetti e dai consiglieri Elena Leonardi e Sandro Bisonni. L’incontro rientra nell’ambito delle iniziative promosse dallo stesso Ombudsman e dalla Presidenza dell’Assemblea legislativa per avere una fotografia precisa della situazione carceraria marchigiana. "In tutte le visite effettuate fino ad oggi - sottolinea Andrea Nobili - è stata registrata una significativa attenzione da parte dei consiglieri regionali rivolta ad approfondire la conoscenza delle diverse realtà, prendere atto delle criticità, dove sono presenti, e porre in essere le misure più adeguate per risolverle. Prova ne sia la mozione recentemente approvata in Consiglio, presentata dal Presidente Mastrovincenzo e che, anche attraverso gli emendamenti proposti da altri consiglieri, affronta un ampio ventaglio di problemi da sottoporre all’attenzione del competente Ministero". La Casa circondariale di Camerino si trova all’interno del complesso conventuale di San Francesco, con una parte già attiva agli inizi del 900. In base a dati aggiornati, nell’istituto ci sono attualmente 51 detenuti (di cui 6 donne) a fronte di una capienza regolamentare pari a 41 posti. Gli agenti di polizia penitenziaria attivi sono 32 (in pianta organica 46, assegnati 35) ed è previsto un solo educatore. Nel report dell’ottobre scorso, predisposto dall’Ombudsman, veniva evidenziata la presenza di barriere architettoniche e la mancanza di locali per le visite dei bambini e dell’ufficio per i colloqui domenicali. Il consigliere Elena Leonardi focalizza l’attenzione sulla situazione della polizia penitenziaria e degli operatori della sicurezza. "Il mio emendamento alla mozione Mastrovincenzo, sottoscritto da tutte le opposizioni - sottolinea - intende sostenere il miglioramento delle condizioni di vita e di servizio di queste importanti figure. I continui tagli alla spesa per i corpi di polizia, hanno creato diverse difficoltà, come la mancanza di alloggi per chi viene da fuori sede: lo Stato non sostiene più gli affitti per gli agenti di polizia penitenziaria". Il capogruppo di Fdi fa presente, inoltre, che l’emendamento presentato e approvato "servirà a portare all’attenzione del Governo le criticità presenti nel sistema di vigilanza e sorveglianza, indicendo una Conferenza di Servizi per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro all’interno degli istituti penitenziari marchigiani. I tagli del Ministero hanno messo a rischio il turnover delle forze dell’ordine, Agenti di Polizia Penitenziaria compresi. Con una popolazione carceraria in crescita occorre supportare concretamente gli stessi agenti in servizio". Da ultimo, la Leonardi ribadisce che provvedimenti come l’amnistia e l’indulto non possono essere considerati una soluzione ai problemi delle carceri italiane. Camerino (Mc): vicepresidente Malaigia "carcere inadatto a condizioni dignitose di vita" cronachemaceratesi.it, 30 gennaio 2016 Visita della vicepresidente del Consiglio regionale con una delegazione di consiglieri alla casa circondariale: "Non posso nascondere l’angoscia provata nel momento in cui sono entrata". Un ex detenuto: "In cella eravamo in 13". A pochi giorni dalla relazione alla Camera sull’amministrazione della Giustizia del ministro Andrea Orlando in cui si elencavano i numeri sulla capienza delle carceri, tema su cui l’Italia è stata messa sotto accusa dall’Unione europea la visita odierna al carcere di Camerino, della vicepresidente dell’assemblea legislativa delle Marche Marzia Malaigia, con un delegazione di consiglieri regionali del territorio, Angelo Sciapichetti, Elena Leonardi, Sandro Bisonni e l’ombudsman Andrea Nobili, dà un quadro meno confortante di quello del ministro. Per quanto riguarda Camerino i dati forniti dopo la visita indicano una capienza di 41 posti con presenti 51 detenuti (6 donne) e 32 agenti di polizia penitenziaria su 46 previsti. Quelli ufficiali sul sito della casa circondariale (aggiornati allo scorso giugno) si discostano leggermente con 38 posti e un affollamento di 55 detenuti, un educatore e sette amministrativi. La struttura contiene 10 stanze, una sala colloqui e un locale di culto. I dati nazionali elencati dal ministro sono i seguenti: "I detenuti, al 31 dicembre 2015, sono 52.164; la capienza è di 49.574 posti, i parametri della Cedu nel rapporto capienza/presenza sono rispettati in tutti gli istituti di pena del territorio nazionale. Nessun detenuto è sistemato in uno spazio inferiore ai 3 metri quadri previsto dalle raccomandazioni europee". ha spiegato il Guardasigilli, aggiungendo come, tuttavia, "l’Italia rimane uno dei Paesi a più alto tasso di recidività in Europa. Il che significa che non è conseguita, in troppi casi, la finalità rieducativa della pena. Sono assolutamente convinto - ha affermato - che in questo caso non soffriamo in particolare di previsioni normative inadeguate o insufficienti. Soffriamo di una disattenzione o di una colpevole distrazione generale". "In tutte le visite effettuate fino ad oggi - sottolinea Andrea Nobili - è stata registrata una significativa attenzione da parte dei consiglieri regionali rivolta ad approfondire la conoscenza delle diverse realtà, prendere atto delle criticità, dove sono presenti, e porre in essere le misure più adeguate per risolverle. Prova ne sia la mozione recentemente approvata in Consiglio, presentata dal presidente Mastrovincenzo e che, anche attraverso gli emendamenti proposti da altri consiglieri, affronta un ampio ventaglio di problemi da sottoporre all’attenzione del Ministero". Nel report dell’ottobre scorso, predisposto dall’Ombudsman, veniva evidenziata la presenza di barriere architettoniche e la mancanza di locali per le visite dei bambini e dell’ufficio per i colloqui domenicali. Il consigliere Elena Leonardi focalizza l’attenzione sulla situazione della polizia penitenziaria e degli operatori della sicurezza. "Il mio emendamento alla mozione Mastrovincenzo, sottoscritto da tutte le opposizioni - sottolinea - intende sostenere il miglioramento delle condizioni di vita e di servizio di queste importanti figure. I continui tagli alla spesa per i corpi di polizia, hanno creato diverse difficoltà, come la mancanza di alloggi per chi viene da fuori sede: lo Stato non sostiene più gli affitti per gli agenti di polizia penitenziaria. Con una popolazione carceraria in crescita occorre supportare concretamente gli stessi agenti in servizio". Da ultimo, la Leonardi ribadisce che provvedimenti come l’amnistia e l’indulto non possono essere considerati una soluzione ai problemi delle carceri italiane. Un quadro della situazione allarmante quello descritto dalla consigliera leghista: "Non posso nascondere l’angoscia provata nel momento in cui sono entrata". La vicepresidente denuncia: "Spazi angusti, dove mancano molti dispositivi di sicurezza e prevenzione e dove si registrano carenti condizioni igienico-strutturali, con un’offerta limitata di attività trattamentali e ricreative, anche per mancanza di spazi per queste attività. L’arredamento delle celle è vecchio e malconcio, gli spazi comuni inadeguati e non strutturati. La sezione femminile presenta condizioni di poco più dignitose, ma probabilmente dovute al minor affollamento e a qualche accorgimento di gestione proprio delle detenute. Il personale sanitario impiegato è insufficiente e le emergenze sanitarie che si registrano non riescono a trovare adeguate risposte nella offerta sanitaria del carcere: assistenza che copre 12 ore al giorno con un ambulatorio medico in cui mancano strumenti diagnostici affidabili. La situazione è poco sostenibile anche per il personale per la condizione cui sono costretti gli operatori e la polizia penitenziaria. Svolgono il loro lavoro in uffici poco salubri e stando attenti a centellinare addirittura materiale di facile consumo, per mancanza di risorse economiche. L’organico, sottodimensionato di almeno dieci unità, si trova frequentemente a fronteggiare anche situazioni di emergenza, dovute ai malori (specie nelle ore notturne scoperte), per le quali garantire una scorta al 118, comporta inevitabilmente che alcune aree rimangano sguarnite. Grazie alla disponibilità degli agenti, questo viene ovviato da repentini rientri in servizio". Marzia Malaigia da insegnante di professione fa un parallelo tra la precaria situazione della casa circondariale e quella di tanti edifici scolastici in cui ha prestato servizio: "Si evidenzia un’identica carenza a livello strutturale e sussidi obsoleti, quando non del tutto mancanti". Al termine della visita la vicepresidente ha avanzato proposte progettuali di collaborazione con la Regione, e anche con privati e scuole, verso cui tutti si sono dimostrati interessati. "Mi auguro dunque che, quanto prima, - conclude Malaigia - questa manifestazione d’intenti possa concretizzarsi e che anche le persone giustamente private della loro libertà personale per gravi reati possano godere di un’occasione di riscatto personale in un percorso di riabilitazione che il carcere dovrebbe offrire". A raccontare delle condizioni di detenzione nella struttura di Camerino anche un ex detenuto. "Eravamo 13 persone in 19 metri quadri", ha detto l’uomo al telefono durante lo speciale di Radio Radicale dedicato alle carceri, andato in onda ieri sera. Camerino (Mc): la denuncia di un ex detenuto "in cella eravamo in 13 in 19 metri quadri" di Lisa Dignazio picchionews.it, 30 gennaio 2016 "Vivendo per tre mesi nel carcere di Camerino, ha rimpianto il carcere di Poggioreale." Lo dice il signor Giuseppe, ieri sera in collegamento telefonico con "Radio Carcere", la trasmissione di "Radio Radicale" condotta da Riccardo Arena. Trentasette anni, ex tossicodipendente, Giuseppe ha trascorso tre mesi nel carcere di Camerino ed è uscito di prigione lo scorso 23 dicembre. La sua testimonianza arriva a una settimana dalla relazione sulla giustizia del Ministro Andrea Orlando, in cui ha affermato che in Italia "nessun detenuto è sistemato in uno spazio inferiore ai 3 metri quadri previsto dalle raccomandazioni europee". Giuseppe non la pensa proprio così. "Sono stato per un periodo in una cella di 19 metri quadri con 13 persone, poi in un’altra che aveva una capienza per due persone, ma eravamo in quattro". Giuseppe ha vissuto, quindi, in circa un metro quadro e mezzo su letti a castello di tre piani, che spesso arrivano fino al tetto e da cui più di un detenuto nelle carceri italiane spesso cade provocandosi ferite. Come si vive in una cella sovraffollata? Giuseppe racconta che non si vive proprio bene. Le ore d’aria in cui Giuseppe aveva più di un metro quadro e mezzo erano 9, le altre 15 le passava in cella. "La sera dopo cena ti sentivi male perché non potevi fare niente, e non facevi niente nemmeno il giorno, perché nelle ore d’aria potevamo solo passeggiare nel corridoio del carcere, nell’ozio più totale". Stare in una cella stretta e non poter nemmeno respirare: "Io non fumo ma mi hanno messo in una cella fumatori anche se soffro d’asma." E non solo: mangiare o lavarsi, tutto diventa un problema. "Il cibo era zero, scadente e tutte le sere solo brodo e chi non ha soldi di cucinarsi in cella fa la fame. Per lavarsi avevamo 4 docce, ma ne funzionavano due e l’acqua era sempre fredda". Le celle del carcere di Camerino sono non solo strette, ma anche umide e vecchie, e soprattutto prive di luce. "Le celle sono buie perché le finestre sono alte e oltre alle grate ci sono le reti metalliche che non fanno arrivare la luce. Vivevamo con la luce sempre accesa che ci faceva male agli occhi." Sembra che il sole sul carcere di Camerino non sia mai arrivato. "Anche il cortile dell’ora d’aria era molto piccolo - racconta Giuseppe - e non entrava il sole perché le mura sono alte, non ci andava quasi nessuno tranne 4 persone a giocare a biliardino". Il tempo nel carcere di Camerino, come in tanti altri istituti italiani, non passa mai. "Tenevano le celle aperte ma stavamo tutto il giorno a fare nulla - racconta Giuseppe - non esisteva un’attività lavorativa utile e così quando esci dal carcere sei arrabbiato più di quando entri, perché non c’è niente che ti aiuti a reinserirti nella società". Il carcere di Camerino è un carcere piccolo e vecchio. Secondo gli ultimi dati del Ministero della Giustizia, aggiornati al 31 dicembre 2015, ospita 52 detenuti su una capienza regolamentare di 41 posti. È stato ricavato dalla struttura di un ex convento e ne ha ereditato gli spazi umidi e angusti. Ha una struttura a "L" con un corridoio interno su cui si affacciano 7 celle della sezione maschile, mentre al piano superiore sono situate 5 celle destinate alle donne. Anche il Garante dei Detenuti della Regione Marche, Andrea Nobili, riconosce che "a Camerino ci sono problemi di carattere strutturale: mancano gli spazi per le attività fondamentali dal punto di vista dell’aspetto trattamentale". Delle attività a Camerino esisterebbe anche, "ci sono corsi come teatro o yoga, ma resta il problema degli spazi - spiega Nobili - spesso la cappella dove viene celebrata la messa viene usata per tutto". Il Garante dei Detenuti delle Marche proprio questa mattina ha fatto visita al carcere di Camerino, insieme a una delegazione composta dall’Assessore regionale all’Ambiente, Angelo Sciapichetti, e ai consiglieri regionali Sandro Bisonni del Gruppo Misto, Marzia Malaigia della Lega Nord e Elena Leonardi di Fratelli d’Italia. Sul fronte del sovraffollamento, denunciato da Giuseppe, il Garante parla di "una situazione adeguata dal punto di vista della popolazione carceraria di Camerino, con un leggerissimo sovraffollamento, ma niente di patologico". Per Nobili "Orlando è nel vero nel dire che quasi nessuna realtà registra situazioni di vivibilità inferiori ai tre metri quadri. Anche nelle Marche con gli ultimi provvedimenti la situazione è migliorata". Ad oggi, non esisterebbero dunque problemi di sovraffollamento a Camerino. L’unico punto debole di cui parla il Garante, oltre al problema strutturale, è rappresentato dal sottodimensionamento del personale. "La polizia penitenziaria, al di sotto del numero regolare di 10 unità, - spiega il Garante - a fronte di 46 agenti che dovrebbero essere presenti nella struttura, e anche gli psicologi, che sono in sottorganico, come in quasi tutte le carceri italiane". Anche Giuseppe a "Radio Carcere" ha denunciato le difficoltà incontrate a Camerino dal punto di vista dell’assistenza psicologica. Lui, un ex tossico, come trattamento psicologico aveva ricevuto solo cure farmacologiche. "Quasi tutti nel carcere di Camerino avevano problemi di tossicodipendenza. - racconta - Mi hanno dato solo psicofarmaci come Tavor, gocce e tranquillanti, ma io li ho rifiutati perché stavo malissimo, invece gli altri detenuti si drogavano con gli psicofarmaci, che ti fanno dormire dalla mattina alla sera". La cura delle malattie dei detenuti diventa più difficile se la malattia è fisica, in questo caso a causa di problemi burocratici e organizzativi, non sempre le cure adeguate alle persone che vivono in cella riescono ad essere garantite. "Se una persona sta fuori dal carcere può scegliersi il medico specializzato in una determinata patologia - spiega Samuele Animali di Antigone Marche - invece un detenuto deve aspettare che la Regione assegni un medico al malato". E sempre Giuseppe a testimoniare quanto sia difficile curarsi in carcere: "Mi si era infiammata l’ernia al disco e mi hanno curato con la tachipirina, me ne davano 3 al giorno, ho chiesto altro ma mi hanno risposto: le punture non le facciamo perché è vietato". Senigallia (An): accordo Uepe-Anci-Csv; detenuti impiegati in lavori di pubblica utilità viveresenigallia.it, 30 gennaio 2016 Manutenzione del verde, attività nei canili, accompagnamento di disabili o anziani, azioni di protezione civile. È ampio e variegato l’elenco delle opportunità alternative alla detenzione per coloro che, precedentemente incensurati, devono estinguere un reato penale superiore a un anno, ma considerato di lieve gravità. Lo prevede il protocollo sottoscritto dall’Anci Marche, il Centro Servizi Volontariato e l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna del provveditorato regionale delle Marche, che si propone di incentivare la messa in prova per i detenuti adulti nei lavori di pubblica utilità. Le attività, rigorosamente su base volontaria, potranno essere svolte in enti e associazioni, secondo le modalità stabilite dal protocollo medesimo. Ciò, è bene sottolinearlo, non toglierà alcuna occasione di lavoro a chi ne è in cerca, poiché non solo non è prevista alcuna retribuzione, ma le attività riguarderanno servizi che diversamente non sarebbero espletati. "Non si tratta solo di dare una seconda possibilità a chi ha sbagliato - afferma il sindaco Maurizio Mangialardi - ma di ripensare la detenzione come un momento davvero utile al reinserimento sociale delle persone, come previsto dal nostro ordinamento. Troppo spesso, infatti, il carcere rischia di essere un’esperienza brutalizzante che non solo acuisce le problematiche di chi è stato costretto a viverla, ma diviene fonte di pregiudizi che ostacolano e rallentano il ritorno alla vita normale degli ex detenuti. Si tratta, dunque, di un progetto di alto valore etico, che già nei prossimi giorni proveremo ad attuare mediante il monitoraggio dei fabbisogni del nostro territorio". Foggia: convenzione tra Comune e Tribunale, lavori di pubblica utilità per sei detenuti Quotidiano di Foggia, 30 gennaio 2016 La Giunta comunale ha approvato, su proposta dell’assessore comunale al Patrimonio, Sergio Cangelli, la delibera con la quale si autorizza il sindaco Franco Landella a sottoscrivere con il Tribunale di Foggia, nella persona del presidente Domenico De Facendis, la convenzione finalizzata all’impiego di soggetti ammessi alla pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità. L’Amministrazione comunale si impegnerà dunque ad impiegare 6 soggetti in interventi manutentivi del patrimonio comunale o collegati alle attività in campo ambientale, sostenendo i soli costi della copertura assicurativa. La convenzione avrà una durata annuale, con la possibilità di essere rinnovata di anno in anno. "Si tratta di una convenzione importante, frutto del lavoro di collaborazione con il presidente del Tribunale di Foggia De Facendis, che ringrazio per l’interlocuzione positiva che ha inteso costruire con l’Amministrazione comunale - commenta il sindaco di Foggia, Franco Landella. La pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, infatti, permette di completare in modo pieno il processo di recupero sociale e offre contemporaneamente un contributo al Comune di Foggia nell’azione di risanamento del patrimonio o di tutela dell’ambiente". "Siamo convinti che i soggetti interessati dalla convenzione saranno di grande aiuto per il lavoro che l’Amministrazione sta svolgendo in chiave di recupero del nostro patrimonio comunale - aggiunge l’assessore comunale Sergio Cangelli -. Questa intesa è dunque una bella pagina di cooperazione inter-istituzionale nell’interesse della città". "Già nel recente passato il Comune di Foggia aveva sottoscritto una convenzione con l’Istituto Penitenziario di Foggia per l’impiego di 6 detenuti presso "Masseria Giardino" - ricorda l’assessore comunale all’Ambiente, Francesco Morese. Questo accordo con il Tribunale di Foggia si inserisce quindi nel solco di una collaborazione operativa concreta, orientata a coniugare solidarietà e valorizzazione delle proprietà comunali. Da questo punto di vista, pensiamo a formule che permettano di impiegare i soggetti ammessi alla pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità anche nel campo ambientale, settore in cui stiamo profondendo il massimo dell’impegno politico ed amministrativo". Rimini: sarà donna il nuovo Garante dei detenuti, la terna rosa in Consiglio comunale altarimini.it, 30 gennaio 2016 Arriva in Consiglio Comunale, per la nomina definitiva, la terna dei nomi candidati a Garante dei diritti dei detenuti. Sono tre donne, Ilaria Pruccoli, Annalisa Natale e Annalisa Calvano. In commissione le tre candidate sono state scelte tra una rosa di 12 nomi, ci sono sei avvocati, mentre in cinque lavorano per l’associazione "Madonna della carità" e allo sportello Carcere. Nella scelta hanno positivamente influito gli studi e l’esperienza conseguita in ambito penitenziario. A saltare, tra gli altri, c’è anche l’ex comandante dei Vigili urbani, Domenico Gallo. La terna è passata a maggioranza con Movimento 5 Stelle e Fds astenuti. Milano: nel carcere di Opera detenuto per bancarotta fraudolenta tenta il suicidio, salvato milanotoday.it, 30 gennaio 2016 Pronto l’intervento degli agenti di polizia penitenziaria. Tentato suicidio nel carcere di Opera nella mattinata di giovedì 28 gennaio. Intorno alle undici e mezza, l’assistente capo della vigilanza (durante un giro nel secondo reparto) ha notato un detenuto appeso con un lenzuolo alle sbarre della finestra della propria cella. Ha immediatamente chiamato altri agenti di polizia penitenziaria che hanno salvato la vita all’uomo. Si tratta di un 40enne italiano, detenuto per reati sulla legge fallimentare, con fine pena previsto per il 2022. Era rimasto solo in cella perché il suo compagno era andato nell’aula colloqui. La vicenda è stata resa nota dal Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Bari: detenuto appicca incendio in cella, agente di polizia penitenziaria in ospedale di Nicola Banti ilquotidianoitaliano.it, 30 gennaio 2016 Attimi di panico la scorsa notte nel carcere di Bari, dove intorno all’una e trenta un detenuto straniero con problemi di natura psichica ha dato alle fiamme il proprio materasso e di conseguenza distrutto gran parte degli arredi della cella e mandato in corto circuito l’impianto elettrico della terza sezione della prigione. L’odore acre e il fumo nero prodotto dall’incendio hanno allarmato la guardia carceraria impegnata nel giro di ricognizione, che ha potuto così avvisare immediatamente i colleghi e con loro procedere all’immediato sgombero dell’ala interessata, dove l’aria era diventata davvero irrespirabile. Il detenuto che ha appiccato l’incendio, tratto in salvo dagli agenti di polizia penitenziaria, ha aggredito un agente con un pezzo di legno costringendolo alle cure del pronto soccorso. "Ancora una volta siamo lasciati soli a combattere con detenuti con problemi psichiatrici che dovrebbero essere sottoposti a vigilanza specialistica 24 ore al giorno - scrive in una nota il sindacato autonomo di polizia penitenziaria -. Ieri un altro detenuto con problemi psichiatrici ha aggredito un agente nel carcere di Foggia, dopo averne aggredito un altro qualche giorno fa. Così non si può più andare avanti". Ivrea (To): riviste e laboratori in carcere, esperienze a confronto La Sentinella, 30 gennaio 2016 Una lunga giornata da protagonisti che si avviano a vivere oggi, venerdì 29 gennaio dai detenuti della casa circondariale- Il primo appuntamento con la realtà eporediese "La scuola incontra il carcere" è previsto alle 10 con gli alunni del liceo Gramsci, promosso dagli assistenti volontari penitenziari, nell’ambito delle iniziative previste nella convenzione in vigore da tre anni tra l’associazione e il carcere. All’incontro all’auditorium del liceo è prevista la presenza di alcuni detenuti del carcere di Opera tra i quali Giuseppe Catalano, già detenuto a Ivrea poi trasferito in quello milanese, che presenterà il suo libro "Radici violate". Al confronto parteciperanno la direzione della casa circondariale, l’assessorato alle politiche sociali, i volontari penitenziari dell’associazione Tino Beiletti. Nel pomeriggio, dalle 14,30 la giornata dei detenuti continua allo Zac (Sala rossa del Movicentro) dove è in programma un confronto tra i componenti delle redazioni dei giornali carcerari di Ivrea ed Opera "In corso d’Opera" e "L’Alba". Oltre al confronto tra i "Giornali in & dal Carcere" nel corso dell’incontro è in programma la presentazione delle iniziative del laboratorio leggere Libera Mente. Bologna: "Cinevasioni", primo Festival del cinema in carcere. Bologna articolo21.org, 30 gennaio 2016 Portare il cinema inteso come esperienza di un gesto creativo e come strumento di rieducazione, crescita e condivisione, nel percorso di riabilitazione della vita carceraria. È questa la sfida raccolta da Cinevasioni, primo festival del cinema in carcere, in programma dal 9 al 14 maggio all’interno della casa circondariale della Dozza di Bologna. Non un festival sul carcere, ma un festival in carcere. Realizzato da D.E-R Associazione Documentaristi Emilia - Romagna in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale Dozza di Bologna e con il contributo della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna e il patrocinio dell’Assemblea Legislativa della Regione Emilia Romagna, Cinevasioni è lo sviluppo culturale e didattico di CiakinCinema il percorso formativo che la D.E-R sta tenendo all’interno della Dozza dalla metà del mese di ottobre 2015 con un gruppo di venti detenuti. L’obiettivo di entrambe le iniziative è di portare il linguaggio e la cultura cinematografica all’interno della realtà carceraria e aprire il carcere ad autori e studiosi del cinema. "Questo progetto rappresenta una doppia sfida - dichiara Filippo Vendemmiati, direttore artistico di Cinevasioni - La prima nei confronti dell’istituzione carceraria, la seconda al mondo del cinema. Riuscirà "il linguaggio universale" del cinema a oltrepassare il muro più spesso quello che nella storia dell’uomo separa la società dei "liberi" da quella dei "ristretti"? Lancio un bando fuori concorso: il festival cerca presidente della giuria disponibile a mettersi in gioco e a confrontarsi con i detenuti che la compongono, si accettano auto-candidature". Sul sito cinevasioni.it sono reperibili la scheda di partecipazione e il regolamento del concorso per l’invio delle opere. La partecipazione al festival è gratuita e la scadenza delle iscrizioni è fissata per il 30 marzo 2016. Possono partecipare alla selezione lungometraggi di qualsiasi nazionalità, sia di finzione sia di genere documentario, la cui prima proiezione pubblica (sala o festival) sia avvenuta nel 2015. Requisito obbligatorio all’ammissione al festival, la presenza di un rappresentante dell’opera alla proiezione del film durante Cinevasioni (regista, attore principale, sceneggiatore, direttore fotografia, montatore, autore colonna sonora, produttore). Il festival si articola in un’unica sezione a tema libero. La selezione dei film avverrà a cura e giudizio insindacabile della Direzione del Festival. La Giuria, formata dai partecipanti al corso laboratorio CiakinCarcere e presieduta da una figura di spicco del cinema italiano, sarà chiamata a indicare e premiare l’opera più meritevole nell’ultimo giorno del festival. In totale Cinevasioni presenterà una decina di opere all’interno della sala cinema della Dozza di Bologna. Ad ogni proiezione potranno partecipare un centinaio di persone tra detenuti scelti a rotazione dalla direzione della casa circondariale e pubblico esterno precedentemente indicato dalla direzione del festival. I partecipanti al corso laboratorio CiakinCarcere, oltre ad aver già realizzato il manifesto del festival, dovranno anche realizzarne lo spot e la sigla, come sintesi finale del percorso formativo. CiakinCarcere, in corso fino alla fine di aprile, è organizzato da D.E-R Associazione Documentaristi Emilia-Romagna in collaborazione con la casa circondariale della Dozza di Bolognae si struttura in due moduli: una prima parte, già conclusa, intesa a fornire le conoscenze di base dell’analisi del film in rapporto anche al contesto storico del cinema, privilegiando un punto di vista più strettamente tecnico (inquadratura, montaggio, sceneggiatura, fotografia); una seconda parte, dal taglio più laboratoriale, che vedrà invece i detenuti alle prese con la realizzazione del video-spot scritto, diretto e girato all’interno della Casa Circondariale della Dozza e l’organizzazione del Festival Cinevasioni. Il progetto CiakinCarcere che ha coinvolto come docenti alcuni dei migliori professionisti del settore, ha visto, fino ad oggi, una partecipazione e un interesse da parte dei detenuti superiori ad ogni aspettativa, consentendo di porre le basi per la costruzione di un’opportunità non solo formativa ma anche intesa come mezzo per ricominciare a immaginare un percorso nuovo, fuori dal carcere. Cinevasioni - Direzione artistica di Filippo Vendemmiati (direzione@cinevasioni.it). Direzione organizzativa di Angelita Fiore (segreteria@cinevasioni.it). È organizzato da D.E-R (Associazione Documentaristi Emilia - Romagna). dder.org in collaborazione con Direzione della Casa Circondariale Dozza di Bologna con il contributo Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna e della Regione Emilia-Romagna, con il patrocinio Assemblea Legislativa della Regione Emilia-Romagna, con la partnership Adcom. Ufficio Stampa Cinevasioni: Michela Giorgini - +39 339 8717927 - stampa@cinevasioni.it. I raid dei ragazzini di Napoli che a colpi di kalashnikov sfidano anche la camorra di Andrea Malaguti La Stampa, 30 gennaio 2016 Il capoluogo partenopeo è la città più pericolosa del Paese: 69 morti nel 2015, il 40% in più. Ogni volta che polizia e carabinieri vincono, Napoli apparentemente perde. E sembra farlo due volte. È il complicato paradosso di una città meravigliosa e dannata costretta a fare i conti col veleno della camorra anche quando le forze dell’ordine ne decimano i vertici, lasciando lo spazio, mai occupato da un liceo o da una piscina, a giovani sciacalli che sognano di prendere il loro posto. Eccola la fotografia della doppia sconfitta: poca scuola e molti sciacalli. Nasce così la paranza dei bambini, il far west delle "stese", le scorribande a bordo di TMax e di Honda SH300 con raffiche sparate in aria, per rivendicare il controllo di un fazzoletto di territorio - "sdraiatevi a terra, stendetevi, che stiamo passando noi" - il marchio di infamia del 2015 napoletano che ha proiettato la città, con più di un morto ammazzato a settimana (69 vittime, una su due di camorra), in testa alle classifiche della pericolosità criminale, in compagnia di Foggia e di Bari e che anche nel 2016 fa sentire quotidianamente il suo fiato nauseabondo. Diciottenni con la pistola e il kalashnikov pronti a sparare a tutto e a tutti per conquistare un vicolo, una piazza, uno scantinato o un garage dove spacciare droga o imporre il pizzo. Centinaia di ragazzini fuori controllo e senza regole, imbevuti del mito di Gomorra, capaci di terrorizzare i quartieri nel cuore della città, cominciando a fare fuoco a 13-14 anni e concludendo la propria parabola criminale prima di compierne 25. La loro fine, in genere, è una galera. O, se va male, una bara. "Napoli è un’emergenza. Anche criminale", dice Antonio De Vita, comandante provinciale dei carabinieri. I banditi, certo, ma "anche", appunto, il deserto educativo e le fragilità familiari dei quartieri Spagnoli o dei rioni Sanità e Forcella, incastrati nel centro storico e appoggiati alla schiena delle case eleganti della Napoli bene, dove i revolver sono più numerosi delle lavagne. Secondo un rapporto di Save the Children, pubblicato il 2 dicembre, nel Napoletano il 19,76% dei ragazzi non arriva al diploma, il 35,8% degli alunni non raggiunge livelli sufficienti di competenza matematica e il 28% non sa leggere. È la legge della strada, da generazioni, l’unica ascensione sociale riconosciuta: vedetta, piccolo spacciatore, responsabile della piazza, gestore di una zona. Ma sei hai fegato un’arma, un motorino, un piccolo gruppo di fedelissimi e uno spazio da prenderti, in questi anni l’ascensore sale molto più in fretta. "Napoli è due città", dice padre Alex Zanotelli, che dopo una vita da missionario in Kenya, ha trasformato la chiesa di San Vincenzo nel punto di riferimento di chi, nel rione Sanità, ha ancora voglia di alzare la testa. L’ufficio del missionario è un piccolo loculo bianco scavato nella parete di un minialloggio incastrato in una zona laterale della chiesa. Ci sono bandiere della pace, foto di bambini africani, progetti legati alla sicurezza, all’occupazione e alle scuole stampati su fogli in ciclostile che non molti hanno la forza di leggere. Pile di carta. Una stufetta. Fuori i motorini si inseguono contromano e sui marciapiedi scassati. Il buco della legalità comincia così, con le piccole arroganze quotidiane. La strada è piena di voragini accompagnate da qualche sanpietrino. Le telecamere che dovrebbero garantire la sicurezza sono fuori uso. Tutte. Dei vigili neppure l’ombra. "La forza di questa camorra del centro è il caos. Criminalità disorganizzata, eppure, secondo l’amico don Angelo Berselli, più organizzata dello Stato". Ha il sorriso lento della stanchezza, padre Alex, dita nodose, una croce di corda intrecciata al collo, un’arancia da sbucciare mentre resta incassato nella sedia di legno. "Qui, in 5 chilometri quadrati, vivono 65 mila persone. Non c’è un asilo comunale. C’è una buona scuola elementare ma non ci sono le medie. Infine c’è una sola scuola superiore che ha il secondo tasso di abbandono più alto d’Italia. Come si risolve il problema? Con i soldi naturalmente, ma quelli finiscono sempre altrove. Adesso stanno anche chiudendo l’ospedale. Ovviamente non c’è una banca. Dunque la gente si rivolge agli usurai". Lo dice con la voce neutra dell’abitudine. Inutile cercare un cinema, un teatro, una palestra, un campo da pallone. Però c’è droga di ogni tipo. Cocaina prima di tutto. Poi l’eroina, improvvisamente tornata di moda. Basta mettersi in un angolo e aspettare. Dosi a buon prezzo, quindici-venti euro l’una. Per un giro di affari calcolato in ogni spiazza di spaccio in circa novantamila euro settimanali. "Viviamo su una bomba sociale. C’è la città bene, quella di Chiaia, del Vomero, di Posillipo, e poi ci sono il centro degradato e le periferie come Scampia, Barra e Ponticelli. La cosa grave è che queste due città non si vogliono incontrare. I ricchi non vogliono mai avere a che fare con i poveri. Ma se va avanti così la pagheremo tutti. La ricchezza sarà attaccata". Quando in settembre padre Zanotelli ha officiato il funerale del diciassettenne Genny Cesarano, ucciso dalla camorra in piazza San Vincenzo, ha tenuto l’omelia fuori dalla chiesa. Le strade erano stipate. "Ho detto: nessuno verrà a salvarvi, dovete alzare la testa. Ma la tv e gli ultimi trent’anni di politica in questo Paese hanno distrutto i valori. E qui le famiglie non sanno neanche più perché sono al mondo". Servirebbero lo Stato e qualche volta genitori diversi perché ormai da tempo le dighe erette contro il debordare della violenza sono state travolte. Ma in queste ore lo spettacolo d’arte varia della politica, con un’inevitabile superficialità non troppo distante dal vero, si potrebbe riassumere così: Renzi non va a Napoli "per non mettere in imbarazzo De Magistris", De Magistris scrive su Facebook che Napoli è una città "derenzizzata", Bassolino dice a De Magistris che così non si fa e il sindaco dice a Bassolino che lui è il signore dei rifiuti. Si va da qualche parte in questo modo? La lotta per le piazze dello spaccio - Così, mentre la grande camorra, seppure sfiancata dal costante lavoro della Procura e delle forze dell’ordine, continua a fare i propri affari nella cintura cittadina tra racket, mercato del falso, stupefacenti, appalti e politica, a Napoli centro i cloni in sedicesimi dei boss finiti al 416 bis combattono corpo a corpo per seguire le loro orme, in un ricambio delinquenziale che non vuole avere fine. I baby sciacalli, barbuti e tatuati, hipster di casa nostra, sono capaci di spendere quindicimila euro a notte in discoteca sognandosi imponenti e imperiosi, immaginandosi come un concentrato di invincibile autorità virile. Nuove leve, ma anche terze generazioni di famiglie come i Giuliano finiti, in compagnia dei Sibillo, al centro della guerra contro i Mazzarella per il controllo di Forcella e Sanità degli ultimi mesi. "A Napoli e provincia ci sono almeno 70 clan criminali. Ma è un caos che non conviene a nessuno. In un’intercettazione abbiamo sentito due donne del clan Sibillo che dicevano: ora abbiamo paura, con la paranza dei bambini non si capisce più niente", dice il capo della squadra mobile Fausto Lamparelli. "Non si capisce più niente", un perfetto autoscatto. In compagnia della morte - Non sono bastate 140 ordinanze di custodia cautelare - cioè 140 ragazzi finiti dietro le sbarre - a chiudere la storia. Le Stese continuano. E lo spaccio prospera ovunque, con una nuova emergenza nel rione Traiano, a ridosso della città felice. Fuori uno avanti un altro. La polizia vince. La camorra continua a non perdere. "Le armi provengono in larga parte dai furti negli appartamenti e dalle rotte balcaniche. La droga dal Sudamerica. E più che dal porto passa dal trasporto via gomma. L’estorsione è capillare. Non c’è cantiere a cui non sia chiesto di pagare. Poco o molto, comunque devi pagà. Noi lavoriamo, ma la legalità va fatta a 360 gradi". L’ultimo arresto eccellente è stato quello di Pasquale Sibillo, 24enne boss di Forcella, datosi alla latitanza (e scovato a Terni), dopo che il fratello Emanuele, 19 anni, era stato fatto fuori dai rivali. Emanuele era considerato un gigante, perché ancora ragazzino era stato lui ad attaccare i Mazzarella. Ma qui i giganti hanno piedi d’argilla e vita breve. Muoiono loro e muoiono quelli che le forze dell’ordine chiamano "le vittime innocenti". È il caso di Maikol Giuseppe Russo, che il 31 dicembre si trovava al momento sbagliato nel bar sbagliato di Forcella. Un proiettile lo ha colpito alla testa durante una Stesa. Ancora lacrime. Ancora un funerale. Qualcosa si muove - Cattivi, innocenti, guardie e ladri, chiunque può finire per terra. Lamparelli, per esempio, è appena tornato da Montecatone dove è ricoverato un collega cinquantenne colpito dietro un orecchio in uno scontro a fuoco. È rimasto paralizzato. Ha due figli, una moglie e una vita da ricostruire da zero. Rischiano le forze dell’ordine, rischiano i cittadini, che faticano però a denunciare i reati. E più dell’omertà può la paura. "I reati diminuiscono, la stragrande maggioranza dei napoletani è sana e qui il coordinamento e la collaborazione delle forze dell’ordine sono eccezionali. Il punto è che il sistema deve garantire l’effettività della pena. I tempi per una sentenza definitiva sono troppo lunghi", chiarisce il procuratore capo della Repubblica Giovanni Colangelo. Come fai a denunciare qualcuno quando hai l’impressione di potertelo ritrovare sotto casa pochi mesi dopo? Eppure qualcosa si muove. "La platealità dell’azione criminale è in genere inversamente proporzionale al radicamento criminale. Nel centro di Napoli l’instabilità è molto forte. Ma dei segnali di risveglio si notano" assicura Tano Grasso, presidente onorario della Fondazione antiracket. Si affaccia alla finestra che guarda corso Umberto. "Vede? Da qui alla caserma Pastrengo, poco più di un chilometro, ci sono almeno cinque negozianti che hanno denunciato il racket. Un parrucchiere, un pizzaiolo, un barista, il titolare di un’agenzia turistica e quella di un mercato. Ora dobbiamo remare tutti dalla stessa parte per trasformare questa minoranza che reagisce in maggioranza". Il procuratore Colangelo, Lamparelli, De Vita, padre Zanotelli, don Angelo, Tano Grasso. In fondo dicono tutti la stessa cosa: Napoli è una città straordinaria e ferita e per curare queste ferite la repressione non basta. E nemmeno la prevenzione. Quelle ci sono. Sono le agenzie educative a mancare. E lì può intervenire solo la politica. Nell’attesa i baby sciacalli sparano a ripetizione, come se fosse sparita quella che Rousseau chiamava "la ripugnanza innata provocata dalla visione di un proprio simile che soffre". Sabato scorso in ospedale è finito un ragazzino di sedici anni. Perché durante una Stesa a Traiano qualcuno ha tenuto il braccio troppo in basso. E invece di sparare alla luna ha sparato a lui. Il colpo gli ha trapassato la spalla. Ma avrebbe potuto bucargli il cuore. Il Pentagono: "nella lotta all’Isis bene l’Italia… ma può fare di più" di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 30 gennaio 2016 La missiva è stata inviata dal segretario della Difesa Ashton Carter alla ministra Roberta Pinotti e ad altri alleati della coalizione. Lo rivela il New York Times. La lotta contro l’Isis procede bene ma va intensificata per riuscire a dare il colpo di grazia alle truppe del Califfato. È questa la conclusione cui sono giunti gli ufficiali del Pentagono che hanno presentato al presidente Obama i piani per un aumento delle operazioni belliche da condurre al fianco dei combattenti curdi, iracheni e siriani che sul campo combattono gli estremisti islamici. Gli alleati - Per questo gli Stati Uniti stanno cercando di convincere gli alleati della coalizione anti-Isis a incrementare le azioni militari. "Ho personalmente contattato più di 40 Paesi per chiedere di contribuire alla lotta contro Isis con più forze speciali, più voli di ricognizione e raid aerei, armi e munizioni e personale da addestramento" ha detto il capo del Pentagono Ashton Carter la scorsa settimana a Parigi. L’appello - Ma Carter ha fatto di più. Secondo quanto ha rivelato il New York Times, citando il sito Wikilao, il segretario alla Difesa nel mese di dicembre avrebbe scritto diverse lettere ai partner della coalizione esortandoli a intensificare le azioni contro il Califfato. Tra i destinatari anche la nostra ministra della Difesa Roberta Pinotti: "Apprezziamo profondamente l’impegno dell’Italia nella lotta allo Stato Islamico tuttavia c’è ancora molto lavoro da fare". Il nostro ruolo - Washington ribadisce che Roma potrebbe e dovrebbe inviare altri istruttori e personale per aiutare nelle operazioni di sorveglianza, intelligence e ricognizione ma riconosce al nostro Paese il merito del lavoro svolto nella formazione delle forze irachene, impiegate nel prendere il controllo delle città riconquistate dallo Stato Islamico. L’incontro - Il mese prossimo a Bruxelles il capo del Pentagono si incontrerà con i Paesi che fanno parte della coalizione contro lo Stato islamico, tra i quali anche alcuni stati arabi che dopo una partecipazione iniziale non hanno contribuito granché alla campagna. "Ogni nazione deve essere preparata a fare la sua parte" ha detto Carter. Immigrazione: frontiere sempre più chiuse di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 30 gennaio 2016 Nevicava ieri a Istanbul, con voli cancellati e traghetti fermi sul Bosforo. E le condizioni proibitive del tempo hanno fermato anche i barconi di disperati nell’Egeo. Ma sotto la coltre bianca niente di buono sta covando per il popolo dei fuggiaschi: i leader europei stanno mettendo a punto un cosiddetto "piano B" sui migranti. All’agenzia turca Anadolu il ministro degli Interni svedese, Ygeman Anders, lo stesso a cui si deve la recente decisione di respingere 80 mila delle 163 mila domande di asilo ricevute, ha confessato che la misura dei charter per i respingimenti di massa è troppo onerosa e che in futuro il problema può essere risolto solo con il "sostegno sincero alla Turchia", non dimenticando di ricordare i 3 miliardi stanziati dalla Ue allo scopo. "Le promesse economiche fatte ad Ankara devono essere mantenute, nessuno può permettersi il lusso di stare fuori dalla partita", ha aggiunto Anders con un implicito riferimento all’Italia, che finora ha fatto muro sul pagamento della sua quota. Il leader dei laburisti olandesi Diederik Samsom - il suo è il partito principale della coalizione di governo - ha spiegato che in futuro si può pensare a rimpatriare i richiedenti asilo esclusi con i traghetti, rimpatriarli non nei paesi d’origine - essendo pochi e spesso solo bilaterali gli accordi con i paesi terzi per i rimpatri - ma in Turchia, "non appena la situazione dell’accoglienza ai rifugiati sia migliorata in quel paese". Secondo Human Rights Watch attualmente non è assolutamente accettabile sotto il profilo igienico e dell’accesso a servizi fondamentali quali la sanità e l’istruzione di bambini e adolescenti e l’Europa "ha solo deciso di esternalizzare il problema in cambio di denaro". Idem in Macedonia, secondo il ministro greco che ieri ha voluto ispezionare l’area di servizio a 20 km dalla frontiera di Idomene dove, tra le pompe di benzina, 2.500 persone si sono accampate in attesa di proseguire il viaggio. La Turchia - tra l’altro nell’indice della corruzione precipitata al 66mo posto mentre Trasparency international, che compila la classifica, certifica come "si sta sempre più allontanando dagli standard europei", non è detto che resti a lungo paese di transito. L’Unhcr monitora la rotta del Mediterraneo centrale (Libia-Italia) come alternativa e oltre a quella adriatica esiste anche un incremento (relativo) sulla pista a nord, dalla Russia alla Finlandia. Nel frattempo il governo olandese del signor Samsom ha deciso ieri di partecipare ai raid aerei sulla Siria. Per aiutare i fuggiaschi a casa loro, evidentemente. Il commissario olandese Frans Timmemans sostiene che il 60 per cento delle persone che fuggono in Europa sono da classificare come "migranti economici" e in quanto tali da rimpatriare. Timmemans sostiene di estrapolare questo dato dai rilevamenti di Frontex ancora non resi pubblici. In realtà ieri è stato diffuso l’ultimo rapporto dell’Unhcr, l’agenzia Onu sui rifugiati, che prende in esame le segnalazioni di Frontex e quelle che arrivano da altri 67 partner, tra cui anche l’Organizzazione internazionale delle migrazioni. L’Oim calcola che tra i richiedenti asilo arrivati in Europa attraverso la rotta balcanica (1,103 milioni nel 2015 e 55.652 nel gennaio 2016) il 94 per cento provenga da Siria (48,3%) Afghanistan (20%), Iraq, Iran e Pakistan. Frontex fa solo notare che negli ultimi mesi sono diminuiti progressivamente gli arrivi di siriani e aumentati quelli di iracheni (che tra l’altro in gran parte raggiungono la Turchia dall’Iran). L’Ocse da parte sua fa notare che seppure è vero che le domande d’asilo nei paesi Ue sono quasi raddoppiate dal 2014 ad oggi, si tratta pur sempre di integrare lo 0,1% della popolazione dei paesi più industrializzati e meno dello 0,3 % dell’intera popolazione Ue. Per il segretario generale dell’Ocse Angel Gurria "lontano dal rappresentare un problema, i rifugiati possono e devono essere parte della soluzione". Questa però sarebbe un’altra politica. Al momento l’Europa appare ancora più attratta dalla politica dei respingimenti e dei fili spinati. Due numeri descrivono plasticamente la scelta: a fronte di 244 migranti morti o dispersi nei naufragi tra Grecia e Turchia nel 2016, quelli ricollocati attraverso le quote decise a novembre sono 416 persone (su 160 mila del piano A). D’altra parte il vice cancelliere Sigmar Gabriel, anticipando il cuore del pacchetto di misure che il governo di Berlino varerà nei prossimi giorni, ha detto che i ricongiungimenti degli Asylanten con "protezione sussidiata" (che cioè non sono riusciti a provare di essere oggetto di persecuzioni nel paese d’origine) non possono accedere ai ricongiungimenti familiari. Il 20% dei siriani arrivati in Germania sono in questa situazione. Uomini soli, come quelli di Colonia. Immigrazione. il 70% degli espulsi non se ne va, molti paesi di origine non li riaccettano di Carlo Valentini Italia Oggi, 30 gennaio 2016 È auspicabile che il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che spesso interviene sui temi dell’immigrazione annunciando provvedimenti, e quello della Giustizia, Andrea Orlando, alle prese col tentativo di miglioramento del sistema giudiziario, si parlino. Possibile che nessuno di loro abbia scoperto il trucco utilizzato dagli immigrati che rende di fatto impossibili le espulsioni? Non è cosa da poco e non si tratta di xenofobia. Anzi, le stesse organizzazioni degli immigrati chiedono regole che consentano di scindere chi ha comportamenti irreprensibili da chi commette reati. Anche perché quest’ultima categoria provoca danni agli onesti. Bologna è la prima città italiana in cui la procura ha aperto un fascicolo per togliere il coperchio da una pentola in ebollizione: l’abnorme numero di richieste d’asilo che arrivano in questura. Una faccenda comune a molte altre città. Ma finora le segnalazioni di prefetti e questori non hanno avuto riscontri dai ministeri. Così nella città emiliana ha preso l’iniziativa la procura ed è emerso che coi regolamenti attuali chi arriva in Italia e delinque può tranquillamente farla franca e rimanere tra noi. Un conto è una giusta politica dell’accoglienza, poiché l’Europa non può tradire il proprio vissuto e chiudere la porta in faccia a chi scappa da una guerra o dalla fame: l’Europa è un continente complesso e con sensibilità diverse, ma i muri finiscono per cambiarne i connotati e dissolverla, sono un boomerang poiché la globalizzazione richiede grandi dimensioni territoriali per competere e progredire. Un altro conto è non potere intervenire a tutelare la legalità e accettare che chi varca il confine possa fare ciò che vuole. Se arriva e commette reati sarebbe giusto riconsegnarlo alle autorità del suo Paese. L’aumento del numero delle richieste d’asilo è stato definito anomalo dalla procura bolognese poiché va ampiamente al di là della crescita del numero degli arrivi sulle coste italiane e di coloro che (presumibilmente) hanno varcato in altro modo i confini. E il sospetto di questo exploit ricade sui pregiudicati stranieri prossimi all’espulsione che approfittano della normativa sui perseguitati politici per rimanere in Italia senza incorrere in nuovi problemi con la giustizia. Il trucco è semplice e legale perché consentito da un regolamento che finora nessun ministro ha sentito il bisogno di modificare. Eccolo: la normativa prevede per coloro che presentano la domanda d’asilo la sospensione immediata del decreto d’espulsione (anche se suffragata da motivazioni di natura penale) e un permesso di soggiorno temporaneo di sei mesi che servono alla commissione territoriale per valutare la richiesta. Se la commissione rifiuta la domanda d’asilo (magari perché ritiene il richiedente pericoloso) egli può comunque impugnare il provvedimento dinanzi alla magistratura, col risultato che può rimanere in Italia indisturbato ancora chissà per quanto tempo e contemporaneamente intasa il lavoro del tribunale, tanto che, nel caso di Bologna, il consiglio superiore della magistratura ha assegnato un giudice supplementare per far fronte alla gran mole di lavoro. La procura (ma anche la questura) ipotizzano (per non dire: sostengono) che lo stratagemma sia usato da pregiudicati stranieri, soprattutto marocchini, da molti anni in Italia, che commettono reati ma evitato in questo modo l’espulsione approfittando del fatto che la domanda può essere presentata in ogni momento e non solo appena giunti sul suolo italiano. Quindi appena un individuo straniero viene colto, poniamo, a rubare in un’abitazione, e il questore firma l’espulsione, egli non fa altro che presentare la domanda di rifugiato, anche se è in Italia da qualche anno, e può bellamente farsi gioco sia dei poliziotti che lo avevano arrestato che del questore che lo aveva espulso. Non finisce qui. C’è poi la differenza tra espulsione e rimpatrio. L’espulsione viene notificata all’interessato il quale, come abbiamo visto, può presentare la richiesta di riconoscimento di rifugiato, oppure può fare perdere le proprie tracce, magari cambiando città, e continuare a stare in Italia (salvo che non incappi in un casuale, successivo controllo). Il rimpatrio invece prevede l’accompagnamento coatto sull’aeroplano. Avviene per i casi più gravi o meglio: avverrebbe. Infatti con alcuni paesi non vi sono accordi bilaterali perché (anche qui) i ministeri non si muovono. Col Senegal, per esempio, manca un "accordo di riammissione" e quindi un senegalese non può essere espulso. Così come non c’è trattato con la Costa d’Avorio e altri paesi. Inoltre vi è una questione economica: i costi dei rimpatri sono ovviamente alti. La conclusione di tutto questo? In Italia vengono firmate circa 25 mila tra espulsioni e rimpatri ma neppure nel 30% dei casi chi ne è colpito rivarca il confine. La Svezia ha annunciato l’espulsione di 80mila richiedenti asilo la cui domanda è stata bocciata, l’Olanda vorrebbe rimpatriare in Turchia i migranti arrivati via mare in Grecia, e così via fino agli anacronistici muri nell’Europa dell’Est. In Italia invece ci si trastulla con una regolamentazione- colabrodo (le forze dell’ordine parlano di una sorta di "sanatoria nascosta"). Tra chi grida all’untore e chi mette la testa sotto la sabbia si fatica a trovare un punto d’equilibrio, a anche per questo sale la tensione nonostante gli appelli di Papa Francesco. L’immigrazione rimane tra i problemi prioritari ai quali l’Europa deve far fronte ma i ministri degli Interni dei paesi Ue si sono incontrati nei giorni scorsi e hanno registrato divergenze che appaiono insormontabili. Mentre Matteo Renzi ha trovato il tempo di parlarne (dopo il capitolo della flessibilità nei conti pubblici) nel summit di ieri con Angela Merkel, senza però risultati almeno per ora operativi. Rimane il ministro della Giustizia, che ha proposto la cancellazione del reato di immigrazione clandestina: "È un simulacro di reato, va abolito ma nell’ambito di un intervento complessivo che riguardi i rimpatri e i tempi per il riconoscimento dello status di rifugiato". Va bene, ma i tempi stringono. Intanto i responsabili dell’ufficio immigrazione che saranno sentiti dalla procura di Bologna racconteranno della difficoltà di verificare se si è davvero in presenza di un nucleo familiare o se la coppia con fi gli è solo un escamotage di facciata per ottenere il visto, dell’impossibilità di effettuare espulsioni in taluni paesi finché diplomazia e ministeri non si daranno una mossa, dell’impraticabilità di identificare gli immigrati che si presentano senza documenti e senza che all’arrivo siano state prese le impronte digitali. L’Europa ci ha anche sgridato per questi non riconoscimenti: sui 144 mila sbarcati in Italia nel 2015, a 40 mila non sono state prese le impronte digitali da inserire nel sistema Eurodac, che consente un confronto a livello europeo. Procedere con la forza in caso di rifiuto? Lo chiede l’Europa ma non è semplice. Spiega Cristoper Hein, portavoce del Consiglio italiano per i rifugiati: "Secondo regolamento, le impronte vanno prese entro 24 ore dallo sbarco. La polizia fa un uso discreto della forza perché preferisce attendere un ordine che solo la magistratura può validare. Sappiamo però tutti che ciò è in pratica impossibile. La magistratura è schiacciata dall’ingente mole di lavoro. A quel punto è la questura a formulare un decreto di respingimento entro 8 giorni nei confronti del migrante che si rifiuta di lasciare le proprie impronte. Dovrebbe andarsene dal Paese. Ma quale migrante lo fa? Nessuno". Gran Bretagna: sale bruscamente il numero delle morti nelle carceri inglesi di Ivano Abbadessa west-info.eu, 30 gennaio 2016 Secondo i dati diffusi dal Ministero della Giustizia di Londra, nel 2015 ci sono stati un totale di 257 decessi tra i prigionieri, rispetto ai 153 del 2006. Una parte della crescita è dovuta al costante aumento di suicidi e omicidi dietro le sbarre: sono stati 89 i detenuti che nel 2015 si sono tolti la vita, mentre 8 sono state le persone uccise in carcere. Da notare che una percentuale molto significativa di decessi nelle galere di Sua Maestà è dovuta a cause naturali (146 morti lo scorso anno contro gli 83 del 2006), visto il costante invecchiamento della popolazione reclusa. Egitto: il blogger in prigione: "ingenuo credere al sogno, ma un altro mondo è possibile" di Alaa Abd el Fattah Corriere della Sera, 30 gennaio 2016 Il blogger egiziano in prigione: oggi non ho più nessuna speranza, non ho nulla da dire se non che mi manca la parola, non riesco nemmeno a immaginare un pubblico. Cinque anni fa su quello che poi si sarebbe rivelato essere l’ultimo giorno normale della mia vita mi sono seduto alla scrivania in una piccola azienda informatica a Pretoria a far finta di lavorare, mentre in realtà stavo scrivendo un breve articolo per il Guardian. Trattava delle ragioni per cui la rivoluzione egiziana avrebbe dovuto essere presa sul serio. O, almeno, è così che me lo ricordo. Non posso tornare a quell’articolo ora; è più di un anno da quando ho avuto il mio ultimo accesso a Internet. In Egitto ai prigionieri non è permessa nemmeno una telefonata, ma non dovrei lamentarmi, visto che se non altro riesco a vedere la mia famiglia 2 o 3 volte al mese. Ad altri prigionieri politici (per lo più islamisti) non sono ammesse visite di nessun genere. Fu quel giorno di cinque anni la prima volta in cui mi impegnai nella battaglia sul racconto della rivoluzione, una battaglia che mi avrebbe consumato completamente per quattro anni. Ma quel giorno non ero nemmeno sicuro che stesse avvenendo una rivoluzione in Egitto; temevo che sarebbe finita male anche se avessi scritto di una nuova forma di Panarabismo giovanile. Mi ci volle un altro giorno per accettare che stava succedendo per davvero, e altri tre prima che di poter volare al Cairo e unirmi a Tahrir. Passai dal dubbio della profondità della rivolta alla preoccupazione di arrivare troppo tardi e perdermi tutti gli avvenimenti. Dopo la caduta di Mubarak la battaglia sul racconto crebbe d’importanza. Lo Stato fu costretto al compromesso con la Rivoluzione nel tentativo di contenerla appropriandosi della sua storia. Noi spiegavamo perché stavamo continuando a protestare e anche proprio per qual motivo stessimo protestando. I ragazzi che hanno lanciato pietre contro i poliziotti sono rivoluzionari o sabotatori? I detenuti morti durante le rivolte nelle carceri dovrebbero essere annoverati tra i martiri della rivoluzione o no? Qual è il ruolo dei militari nel regime di Mubarak? L’istruzione non dovrebbe continuare ad essere libera nelle università pubbliche? Abbiamo bisogno di una nuova costituzione? In caso affermativo, chi dovrebbe scriverla? E così via. Ho scritto e scritto e scritto, per lo più in arabo, principalmente sui social media ed a volte anche per un quotidiano nazionale. Per lo più parlavo a compagni rivoluzionari e la mia voce diventava sempre più quella di chi vuol mettere in guardia: i miei temi principali erano la fragilità del momento rivoluzionario e la precarietà della nostra situazione. Non riuscivo, tuttavia, a scrollarmi di dosso quel senso puro di speranza e possibilità: nonostante le battute d’arresto i nostri sogni continuavano a veleggiare. La gente parla di una barriera di paura, ma io l’ho sempre sentita come una barriera di disperazione e, una volta rimossa, anche la paura, i massacri e le prigioni non sono riusciti a riportarla alla memoria. Ho fatto tutte le cose stupide che i rivoluzionari super-ottimisti fanno: mi sono trasferito in Egitto in modo permanente, ho avuto un bambino, ho fondato una startup, mi sono impegnato in una serie di iniziative progressiste volte a una democrazia più popolare, decentrata e partecipativa, ho rotto ogni legge draconiana e superato tabù, sono entrato in carcere sorridendo e ne sono uscito trionfante. Nel 2013 abbiamo iniziato a perdere la battaglia per il racconto in virtù di una velenosa polarizzazione tra uno statalismo pseudo-secolare rabbiosamente militarizzato e una forma di Islamismo brutalmente settario-paranoica. Tutto ciò che ricordo del 2013 è di come stridesse la mia voce mentre urlavo "la peste su entrambe le vostre case", di come ci si sentisse piagnucolosi e melodrammatici nel lamentarsi della maledizione di Cassandra che ci avvertiva di un fuoco che ci avrebbe divorato quando nessuno fosse stato ad ascoltarci. Così quando le strade furono invase da manifestazioni nelle quali venivano innalzate le foto dei poliziotti invece di quelle delle loro vittime ed i sit-in furono riempiti di cori contro gli sciiti e fiorirono cospirazioni copte, fu allora che le mie parole persero qualsiasi potere, per quanto continuassero ad uscirmi dalla bocca. Avevo ancora una voce, sarebbe bastato che anche solo pochissimi fossero stati ad ascoltare. Fu, però, allora che lo Stato decise di porre fine al conflitto commettendo il primo crimine contro l’umanità nella storia della Repubblica. Le barriere della paura e della disperazione sarebbero tornate dopo il massacro di Rabaa. Sarebbe iniziata una nuova lotta per il racconto: portare i non-islamisti a comprendere che c’era davvero stato un massacro e a respingere la violenza commessa in loro nome. Tre mesi dopo il massacro ero di nuovo in carcere e la mia prosa assunse un nuovo strano ruolo: invitare i rivoluzionari ad ammettere la sconfitta. Rinunciare all’ottimismo che era diventato pericoloso nel suo incoraggiamento a scegliere le parti: un trionfalismo militare o un’insistenza impopolare e poco pratica volta ad un completo cambio di regime. A servirci davvero era tutta la forza che avremmo potuto chiamare a raccolta per mantenere una qualche difesa di base dei diritti umani. Parlai di sconfitta perché lo stesso linguaggio della rivoluzione era andato perso, sostituito da un pericoloso cocktail di linguaggio nazionalista, nativista, collettivista e post-colonialista di cui si erano appropriate entrambe le parti in conflitto, e utilizzato per dare avvio a contorte teorie cospirazioniste e diffondere la paranoia. Nei primi mesi del 2014 era ancora controverso chiedere ai rivoluzionari di impegnarsi in una campagna per i diritti umani limitata alla revoca del Diritto di Protesta e la liberazione dei prigionieri politici. La maggior parte ancora credeva che la rivoluzione stesse vincendo (definendo "vincendo" come la scomparsa o il trionfo della Fratellanza Musulmana) visto che l’idea che lo stato di emergenza fosse la nuova normalità veniva respinta dalla maggioranza. Oggi sembra che abbiamo vinto la battaglia finale della narrazione. Mentre lo Stato ha ancora i suoi sostenitori, il loro numero sta diminuendo rapidamente, soprattutto tra i giovani. La maggior parte delle persone non discute più sulla natura degli eventi dell’estate 2013. Il Colpo di Stato vs. Dibattito sulla Rivoluzione è fuori moda. Anche i sostenitori di Sisi non credono davvero che la prosperità sia in arrivo. È più difficile misurare il sentimento tra i sostenitori degli Islamisti. La compassione per la loro brutta situazione è certamente in aumento, ma la fede nella loro capacità di organizzare un fronte unificato efficace contro il regime è probabilmente scarsa. È la disperazione a prevalere. Ho trascorso la maggior parte del 2014 in prigione, ma avevo ancora un sacco di parole. Il mio pubblico era molto diminuito e il mio messaggio non era certo di speranza, eppure sembrava importante ricordare che, pur ammettendo la sconfitta, potevamo ancora resistere, che tornare agli estremi che abbiamo combattuto all’epoca di Mubarak era accettabile fintanto che avessimo continuato a lottare per i diritti umani fondamentali. All’inizio del 2015, però, mentre stavo ascoltando la mia condanna, non mi era rimasto più nulla da dire, a nessun pubblico. Avrei potuto scrivere solo lettere personali. La rivoluzione e l’Egitto stesso sarebbe lentamente svanito anche da quelle lettere ed entro l’autunno 2015 anche le mie parole personali si sarebbero prosciugate. Sono passati mesi dall’ultima lettera scritta e più di un anno dall’ultimo articolo. Non ho nulla da dire: nessuna speranza, nessun sogno, nessun timore, nessun avviso, nessuna intuizione, nulla, assolutamente nulla. Come un bambino che mostra segni di autismo sto regredendo e perdendo le mie parole, la mia capacità di immaginare un pubblico e modellare mentalmente l’impatto delle mie parole su di lui. Cerco di ricordare ciò che scrissi per il Guardian cinque anni fa, nell’ultimo giorno normale della mia vita. Cerco di immaginare chi abbia letto l’articolo e quale impatto questo possa aver avuto su di lui, cerco di ricordare com’era quando il domani sembrava così pieno di possibilità e le mie parole sembravano avere il potere di influenzare (anche se di poco) quello cui il domani sarebbe potuto somigliare. Non riesco davvero a ricordarlo. Ora il domani sarà esattamente come oggi, e ieri e per tutti i giorni che precedono e tutti i giorni a seguire, io ormai non ho alcun influsso su nulla. Una cosa che ricordo, però, e che so, è che il senso di possibilità era reale. Sarà anche stato ingenuo credere che il nostro sogno si sarebbe potuto avverare ma non era da sciocchi credere che un altro mondo fosse possibile. Lo era per davvero. O, almeno, così me lo ricordo. Siria: Assad avanza (con l’aiuto di Putin) e sbarra i rifornimenti agli insorti di Guido Olimpio Corriere della Sera, 30 gennaio 2016 Successi importanti nella regione di Latakia e a Sud. Duello tra Mosca e Washington nella regione curda. I ribelli avrebbero ricevuto meno rifornimenti. La diplomazia cerca soluzioni per la crisi siriana e il regime, grazie al decisivo appoggio di Mosca, avanza. Successi importanti che solo il tempo dirà quanto duraturi, ma certamente significativi. Anche se il conflitto è stato sempre un’altalena di vittorie e sconfitte per entrambi i campi, troppo dipendenti dagli sponsor esterni. Teheran e Mosca per il raìs, paesi del Golfo, Turchia e occidentali per l’opposizione. L’offensiva. I russi hanno condotto quasi 6 mila incursioni aeree, non hanno badato troppo a chi ci fosse sotto, hanno messo a disposizione artiglieria e razzi a lungo raggio dall’impatto pesante, hanno impiegato in alcuni scontri le loro forze speciali, hanno mandato al fronte alti ufficiali. Gli iraniani, gli Hezbollah, le milizie sciite (composte da iracheni, afghani) hanno svolto un ruolo chiave affiancando le unità locali. Damasco ha usato reparti scelti, lasciando ai paramilitari Ndf il compito di presidiare. Assad avrebbe anche cambiato di recente il comandante della Guardia Repubblicana, uno dei perni dell’apparato, affidandola a Talal Makhlouf, uno dei suoi cugini. I consiglieri inviati da Putin hanno aiutato i lealisti ad adeguare - per quanto possibile - le tattiche, hanno fornito nuovi mezzi e i risultati - al netto della propaganda - sono arrivati anche se è stato pagato un prezzo pesante. Gli analisti continuano a dubitare sulla capacità del presidente di tenere il territorio perché non possiede abbastanza uomini per farlo. Per contro i ribelli sono risoluti, determinati, anche se divisioni profonde e faide li indeboliscono nei momenti critici. Rifornimenti. L’obiettivo - come ha indicato Elijah Magnier, giornalista di Al Rai con fonti russo-iraniane - è di tagliare i due principali corridoi di rifornimenti: quello che parte dalla Turchia e l’altro che arriva dalla Giordania. In queste settimane i caccia di Putin hanno martellato senza soste le vie di comunicazione vicino al confine turco incenerendo i camion e i loro carichi. Colpite duramente le fazioni sostenute da Ankara. Possibile che il comando voglia prendere il controllo di al Bab contando anche sulla progressione dei curdi da Est su Manbij. Se vi riuscirà avrà in mano uno snodo e potrà arginare eventuali iniziative della Turchia che da mesi parla di un intervento nella stessa zona. Latakia e il fronte nord. L’offensiva a oriente di Latakia ha permesso di rinsaldare le posizioni governative in una regione dove è alta la presenza alawita, la comunità alla quale appartiene il raìs. Prima dell’intervento della Russia era in pericolo, oggi la situazione è migliorata con il regime che è riuscito a prendere località importanti, come Salma e ora vuole proseguire spingendosi verso nord. Gli insorti, che pure erano ben organizzati all’interno di rifugi protetti, hanno resistito, per poi cedere ai distruttivi raid su difese e bunker. L’altro settore da seguire quello di Aleppo. I contendenti stanno concentrando reparti, i qaedisti di al Nusra hanno appena inviato una lunga colonna di oltre 200 veicoli senza che un singolo caccia (russo, governativo, americano) la prendesse di mira. Il movimento Nur al Din al Zenki ha lasciato la zona sostenendo di non aver ricevuto materiale bellico adeguato dall’estero, un riferimento anche ai missili Tow. A Est, il regime ha rotto l’assedio alla base di Kweires ma deve vedersela con l’Isis. E sempre lo Stato Islamico ha stretto ancora di più la morsa su Deir ez Zour, nel nord est, dove la guarnigione resiste da mesi e può essere rifornita solo dal cielo. Il fronte Sud. I lealisti hanno conquistato Sheikh Miskin mettendo in difficoltà formazioni dell’Fsa e c’è di nuovo battaglia sul fronte di Kuneitra. Gli insorti hanno attribuito il rovescio all’incessante azione dei velivoli russi, ad una riduzione nel flusso di armi, ai rapporti difficili con il centro di coordinamento in Giordania, dove sedevano anche gli americani. Lamenti che ritroviamo anche da parte di brigate ribelli presenti in altre regioni, accuse accompagnate dalla denuncia di pressioni da parte di Washington per accettare la trattativa. Mentre indiscrezioni parlano di contatti tra Amman e Mosca per una tregua locale. Di certo c’è che l’uso dei missili anti carro Tow nelle prime tre settimane è crollato. Ne hanno di meno? I lealisti hanno adottato tecniche per ridurne l’impatto? La zona curda. È come un piccolo grande gioco. I curdi siriani Ypg giocano tra due sponde. La prima è rappresentata dagli Usa. Grazie alla copertura dell’aviazione statunitense i separatisti hanno conquistato villaggio dopo villaggio spingendosi a ovest dell’Eufrate. Non è poco in quanto il fiume rappresentava la linea rossa invalicabile tracciata dalla Turchia. Il loro target è la cittadina di Manbij, anche se vorrebbero arrivare a Jarabulus, sul confine turco. L’altra meta, complessa, è Raqqa, una delle capitali dell’Isis. La seconda sponda per l’Ypg è rappresentata dalla Russia, ben lieta di usarli in chiave anti-Ankara. Mosca ha già fornito delle armi e promesso assistenza. Mosse delle superpotenze che ruotano attorno a punti geografici precisi. Gli americani hanno allungato una vecchia pista a Rmeilan e schierato reparti d’élite. Ufficialmente è un appoggio per "operazioni umanitarie", in realtà si tratta di un avamposto che potrebbe svolgere un giorno un ruolo più importante. I russi hanno risposto mandando una cinquantina di commandos a Qamishli, sempre nella zona curda, cittadina che dispone di un aeroporto. Così hanno riempito una casella del risiko siriano, sempre molto instabile dove hanno pesato, certamente, le divisioni degli avversari di Assad che si presenta ad un eventuale negoziato in condizioni migliori rispetto all’estate. Adesso tocca all’opposizione rispondere.