Il messaggio di Mattarella: i cittadini e la sfida dei valori di Massimo Franco Corriere della Sera, 2 gennaio 2016 Il presidente ha indicato le vere frontiere da percorrere e attraversare; e i veri valori da conquistare e da salvaguardare. Sostenere che il presidente della Repubblica ha fatto un discorso poco politico, significherebbe ridurre la politica alla sua dimensione parlamentare e istituzionale. L’impressione è che nel suo saluto televisivo di fine anno agli italiani, Sergio Mattarella abbia piuttosto indicato le vere frontiere da percorrere e attraversare; e i veri valori da conquistare e da salvaguardare. Lavoro, tasse, corruzione, immigrazione e terrorismo sono le priorità sulle quali non solo un governo ma una nazione puntellano la propria legittimazione agli occhi dell’opinione pubblica; e la propria credibilità sul piano internazionale. Il capo dello Stato le ha affrontate con la semplicità e l’equilibrio che i più gli riconoscono, rinunciando a mettersi dietro alla scrivania presidenziale che forse intimidisce anche lui; e con qualche impaccio in meno rispetto a quello che gli viene di solito attribuito. Di riforme costituzionali ha parlato di sfuggita, e anche sul governo non si è soffermato. Eppure ha dato atto implicitamente a quanti, nelle istituzioni, hanno avuto il merito di arginare una china pericolosa, contribuendo "a tenere in piedi l’economia italiana"; e offrendo qualche timido elemento di fiducia sul futuro. Può darsi che a qualcuno sia parso un approccio "extraparlamentare". Se tale è sembrato, non lo è tuttavia nel senso polemico e antisistema che si dà a questo aggettivo. Mattarella sente acutamente l’esigenza di ricalibrare in primo luogo i confini culturali con i quali l’Italia sarà costretta a misurarsi e sarà misurata nei prossimi anni. E sa che la stessa democrazia può ritrovare spinta solo se riesce a intercettare malumori e inquietudini espressi fuori e spesso contro la nomenklatura dei partiti e i suoi eletti. Quando parla di tasse eccessive e insieme ammonisce a pagarle per consentire che si abbassino, sfida la cultura dominante dell’evasione fiscale. Allo stesso modo, quando addita corruttori e corrotti, e li contrappone non solo a un’opinione pubblica che esige onestà ma anche ai valori della Costituzione, accredita una saldatura virtuosa tra Stato e popolo. Non sono accostamenti né facili né scontati. Raccontare l’immigrazione, come ha fatto l’altra sera Mattarella, senza concedere nulla ad una narrativa imbottita di luoghi comuni e larvatamente razzista, significa accettare una sfida tutt’altro che popolare. Raffigurare lo straniero che vive e lavora in Italia "in larghissima parte" rispettoso e onesto, "versando alle casse dello Stato più di quanto non ne riceva", equivale a riaffermare una verità che molti non vogliono vedere; così come, obnubilati dalla paura, si tende a non accettare l’idea che l’immigrazione "durerà a lungo". Sono semi di una cultura democratica che non tutta l’Italia è disposta a ingoiare. Eppure, l’alternativa al governo dei fenomeni migratori è quella di subirli, illudendosi di esorcizzarli con riflessi xenofobi. Mattarella non ha velato le divergenze di opinione, né le ha diplomatizzate. Ma ha detto quale Paese cercherà di rappresentare e promuovere nei suoi sette anni al Quirinale: insistendo anche, attraverso la citazione di alcune donne-simbolo, sul ruolo crescente che naturalmente dovranno assumere. Vuole ricreare quella che, declinando laicamente la "misericordia" papale, il capo dello Stato definisce convivenza civile. Sono un sostantivo e un aggettivo poco frequentati, ultimamente. L’impatto dell’eversione di matrice fondamentalista rappresenta un’ipoteca seria su ogni risposta ragionevole e coraggiosa. Ricordare la necessità di non farsi ricattare da chi scommette tutto sul panico aiuta a capire che cosa significa essere cittadini di un’Italia e di un’Europa insidiate e spaventate dall’incertezza. La riforma della giustizia emergenza dimenticata di Carlo Nordio Il Messaggero, 2 gennaio 2016 Come una buona ragione - secondo l’insegnamento di William Shakespeare - deve sempre cedere a una ragione migliore, così una priorità deve sempre cedere a una priorità più prioritaria. Di conseguenza, quantunque il governo abbia sempre indicato come urgente e indifferibile la riforma della giustizia, di fronte alle urgenze più urgenti come il terrorismo, il salvataggio delle banche, i dissidi con la Merkel e le unioni civili, anche la giustizia può aspettare. "So let it be". Dunque, aspettiamo. Resta il fatto che quel poco che il governo ha fatto per la Giustizia è stato fatto senza una strategia, e quel tanto che resta da fare non si capisce bene se e quando sarà fatto. Mi limiterò a due problemi: l’inefficienza dell’apparato e la sua vetustà culturale. L’inefficienza, cioè la lentezza dei processi, è notoriamente la malattia endemica del sistema. Da essa dipendono quasi tutte le altre patologie, come l’abuso della carcerazione preventiva, l’incertezza della pena, e più in generale l’esasperata sfiducia del cittadino nella giustizia: una sentenza che costringa il debitore a pagare con dieci anni di ritardo è comunque una sentenza sbagliata. La risposta governativa a questa emergenza è stata la rottamazione di centinaia di magistrati ultrasettantenni, con la conseguente temporanea paralisi degli uffici giudiziari. Per di più il provvedimento è stato adottato oltre un anno fa con un decreto legge, necessario e urgente, che tanto urgente non doveva essere, visto che la sua operatività è stata prorogata due volte. Questa, e altre incongruenze, lo hanno esposto a una solenne bocciatura del Consiglio di Stato, e probabilmente lo esporranno a quella, più radicale e devastante, della Corte Costituzionale. Molti magistrati hanno fatto ricorso, e l’incertezza nell’assegnazione delle cariche incombe funesta e sovrana. Intanto molte Corti rinviano i processi al 2020. Vedremo. La vetustà culturale. Il nostro codice penale è datato 1930, e reca la firma di Mussolini e di Vittorio Emanuele. È ovvio che su certi principi, come la disponibilità del diritto alla vita, la legittima difesa ecc. è incompatibile con una moderna visione liberale. Per di più è appesantito da centinaia di norme speciali, spesso assurde, inutili e incomprensibili, che rendono l’intero sistema un indovinello dentro un enigma avvolto in un mistero. Malgrado la quasi totalità degli operatori - magistrati, docenti universitari, avvocati - siano concordi nella necessità di una semplificazione e di un’armonizzazione sistematica, si continua a intervenire con leggine ad hoc, generalmente ispirate dall’emotività di eventi contingenti, come il femminicidio, l’omicidio stradale o i vari reati economici. Quanto al codice di procedura penale, esso sta anche peggio. Benché firmato da una medaglia d’oro della Resistenza, è già stato snaturato e demolito più del suo fratello firmato da Mussolini. Basta sfogliarne il testo per notare un’inquietante preponderanza degli articoli in corsivo, che rappresentano le interpretazioni, soppressioni, integrazioni, modificazioni e sostituzioni intervenute in questi 25 anni. Con due codici così non c’è da stupirsi che la giustizia sia impantanata. Intanto continuano a languire i progetti su temi fino a ieri indifferibili e prioritari: la vergogna delle intercettazioni, l’irrazionalità della carcerazione preventiva, la favola vuota della prescrizione. Mentre l’eroico Pannella, che ha trascorso Natale e Capodanno tra i detenuti, rischia la vita per far correggere un sistema sanzionatorio a dir poco obsoleto. Concludo. Comprendiamo benissimo le ragioni del Governo e le sue priorità. Ma con la stessa sincerità con la quale gli diamo atto di essere intervenuto coraggiosamente per modernizzare le istituzioni e la finanza, e, non ultimo, per rinvigorire il ruolo del Paese nel concerto europeo, vorremmo auspicare un’attenzione maggiore nei confronti della Giustizia. In fondo, come insegnava il filosofo, il grado di civiltà di un popolo si vede dalle sue carceri. E anche, aggiungiamo più modestamente noi, dal tempo che un creditore deve attendere per farsi pagare. Intervista a Rodolfo Maria Sabelli. "Giudici: Orlando sbaglia, il ricambio sia graduale" di Liana Milella La Repubblica, 2 gennaio 2016 "Non contrapporre i giovani magistrati ai più anziani o si perde la memoria storica. Le riforme di sinistra? Non lo so Alcune vanno bene, ma la responsabilità civile è un errore". Il presidente dell’Anm Rodolfo Maria Sabelli risponde al Guardasigilli Andrea Orlando. Dice il ministro, spazio alle nuove generazioni di magistrati. Anche se stanno andando in pensione toghe famose, da Guariniello a Pomarici. Da che parte sta l’Anm? "È ovvio che non si può impostare la questione in termini di contrapposizione tra giovani e anziani. La successione delle generazioni è un fatto naturale e il ricambio è fisiologico, ma dovrebbe essere anche graduale. L’Anm non si è mai opposta alla riduzione dell’età pensionabile e quando il limite fu portato da 70 a 72 anni e poi addirittura a 75, fummo fermamente contrari. Abbiamo criticato i tempi troppo repentini della riduzione dell’età, perché sapevamo che avrebbero causato la scopertura improvvisa di centinaia di posti in organico, soprattutto negli incarichi direttivi". Uno svuotamento della vostra memoria storica non rischia di fare anche un danno alle indagini? "La diluizione nel tempo del ricambio serve a consentire la trasmissione graduale delle esperienze. Questo si realizza affiancando nelle indagini i giovani ai più anziani. Purtroppo quando abbiamo chiesto maggiore gradualità, alcuni ci hanno accusato, in modo del tutto ingiustificato, di reazione corporativa. Il tempo ci ha dato ragione, tant’è che poi si è dovuta prevedere una parziale proroga". Orlando vanta di aver fatto "cose di sinistra" nella giustizia e cita anticorruzione, auto-riciclaggio, falso in bilancio... "La mia valutazione si sottrae a una classificazione di tipo politico. Il giudizio su quelle riforme è complesso. Averci messo mano è senz’altro una cosa positiva, ma servono ulteriori iniziative. Sulla corruzione bisogna rafforzare gli strumenti di indagine. Quanto all’auto-riciclaggio, è un reato che si attendeva da anni, ma la previsione di non punibilità per i beni destinati a uso personale rischia di introdurre incertezze applicative. A fronte del ripetersi di gravi fatti criminali, occorre rafforzare la capacità di intervento del sistema penale nel suo complesso, anche per evitare il diffondersi di un ingiustificato senso di insicurezza che potrebbe alimentare pericolose derive dettate da un irrazionale populismo penale". Era di sinistra fare la responsabilità civile dei giudici? "È stata una riforma sbagliata. Penso all’aver eliminato il filtro, che ha dato via libera alle azioni strumentali e inammissibili, che faranno perdere tempo in cause inutili, o alla pericolosa confusione che nasce con le nuove ipotesi di responsabilità per travisamento del fatto o delle prove. Per comprendere il clima che ha accompagnato la riforma, basta considerare le altre proposte, largamente sostenute, che pretendevano addirittura di introdurre l’azione diretta o di sindacare la motivazione di alcuni provvedimenti giudiziari, proposte fortunatamente non approvate e palesemente incostituzionali". Il Guardasigilli ritiene un successo l’aver messo nella legge di stabilità un concorso per mille cancellieri. Lo è? "Naturalmente è una buona notizia e ci aspettiamo che il bando di concorso segua in tempi brevissimi. Purtroppo non basterà a risolvere i problemi. Le carenze di organico sono molto maggiori per il blocco del turn over e le difficoltà dell’organizzazione sono numerose e non riguardano solo il personale". Renzi, nella conferenza stampa di fine anno, dà per fatto il ddl sulla prescrizione. Il suo giudizio su quel testo? "Insoddisfacente, come abbiamo detto in ogni occasione. L’unica soluzione adeguata sarebbe il definitivo blocco della prescrizione almeno dopo la sentenza di primo grado, che restituirebbe alle impugnazioni la loro natura genuina di strumenti di verifica sulla decisione di primo grado e di appello. Ciò non dovrebbe portare a un aumento dei tempi dei processi: si dovrebbe procedere alle necessarie riforme organizzative e a semplificare le regole processuali, fermo restando il rispetto delle garanzie effettive. Da questo punto di vista, il disegno di riforma del codice di procedura penale, in parte è insufficiente, in parte è sbagliato. Alcune previsioni rischiano addirittura di indebolire lo strumento investigativo e processuale". Intervista a Giovanni Legnini. "Una stretta legislativa sugli incarichi delle toghe" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2016 Troppe consulenze, troppi incarichi esterni: "Sono maturi i tempi per una stretta legislativa" dice il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, in questa intervista in cui affronta il tema degli intrecci tra politica e magistratura, fonte di polemiche, come quella recente sul Procuratore di Arezzo Rossi. "Correttezza, trasparenza, sobrietà, rispetto dei diritti e dei doveri": secondo il Capo dello Stato è questo che i cittadini onesti "pretendono da chi governa, a ogni livello". La magistratura è in grado di rispondere a questa esigenza? "È un richiamo molto forte che condivido totalmente. Lo leggerei insieme al riferimento diffuso, nel bellissimo discorso del Presidente, alla legalità intesa come attuazione piena dei principi e dei valori costituzionali. Il richiamo al rispetto delle regole da parte di tutti, anzitutto di chi governa le istituzioni, va letto insieme alla necessità di assicurare un’efficace lotta al malaffare, alla criminalità, alla corruzione, all’evasione fiscale, che assumono centralità per restituire fiducia e speranza dei cittadini nelle nostre istituzioni e per consolidare la ripresa del Paese. La magistratura italiana, che il Presidente ha voluto espressamente ringraziare insieme alle forze dell’ordine, è dotata di straordinarie professionalità e capacità per corrispondere a tali prioritari obiettivi del Paese. E tale capacità andrà consolidata nel nuovo anno anche col lavoro straordinario che il Csm è chiamato a svolgere". Il "caso Rossi" sembra essersi sgonfiato, anche se, a quanto pare, la prova del 9 sarà la decisione del Procuratore di iscrivere altri consiglieri di amministrazione di Banca Etruria alla luce della relazione del liquidatore. Come dire che, se Boschi padre sarà indagato, la credibilità della magistratura è salva; se non lo sarà, rimarranno ombre e sospetti. Un bel paradosso, non crede? "Escludo categoricamente che tale sia la motivazione che ha indotto i relatori della prima commissione ad anticipare una valutazione che sarà definitivamente approvata non prima dell’11 gennaio. Si sono escluse situazioni di incompatibilità alla luce di altri elementi forniti dal Procuratore Rossi. Inoltre, la documentazione della Banca d’Italia che la commissione intende acquisire riguarda le attività pregresse della Procura e non può certo riferirsi a quelle future. Peraltro, il 31 dicembre è scaduto il rapporto di consulenza di Rossi con il Governo e quindi quel che farà o non farà dal 1° gennaio in avanti non potrà essere oggetto di esame nell’ambito della procedura svolta dalla Prima Commissione. Il paradosso che lei ipotizza, dunque, semplicemente non esiste". Il caso Rossi ripropone il tema degli incarichi extragiudiziari e dei magistrati "fuori ruolo" su cui il Csm ha introdotto una stretta. Fatto sta che ogni volta che la politica vuole il supporto di un magistrato (vedi i casi di Tronca, Cantone, Grasso), il Csm è di manica larga, soprattutto i laici. Non c’è il rischio di fare figli e figliastri? "Ribadisco che abbiamo riformato la disciplina in senso restrittivo, predeterminando presupposti e limiti per l’autorizzazione in modo da ridurre la discrezionalità del Csm. Tali rilevanti novità, varate di recente nel più ampio contesto dell’autoriforma, sono state approvate a larga maggioranza e il peso dei laici è stato rilevante. Non solo. Come chiunque può verificare dai verbali del plenum, la posizione dei laici è in prevalenza opposta a quella che lei descrive: il loro voto si è mostrato coerente con le novità regolamentari di cui ho parlato in precedenza. Spesso, infatti, i consiglieri laici hanno espresso voto contrario o di astensione sulle richieste di collocamento fuori ruolo o di conferimento di incarichi extragiudiziari ai magistrati". Veramente, nel caso del commissario straordinario di Roma Capitale, Francesco Tronca, che ha voluto come responsabile della propria segreteria tecnica la giudice di Milano Carla Raineri, tutti i laici, tranne Zaccaria, hanno votato in favore del fuori ruolo per sei mesi... "Quell’incarico è stato conferito da un organo tecnico, il commissario della Capitale d’Italia, per un tempo limitato, al fine di procedere a una gestione straordinaria di un ente che ha una sua rilevanza costituzionale, da tempo investito da molteplici indagini giudiziarie e gravato da misure interdittive, nel pieno dello svolgimento del Giubileo e sotto il peso di altre rilevanti emergenze. Ritengo che abbiamo fatto bene ad autorizzarlo". Contro le toghe in Parlamento c’è stata una vera e propria campagna politica, che ne ha praticamente decimato la presenza e l’apporto specifico. Tuttavia, per giustificare la richiesta di consulenze e collaborazioni, la politica fa leva proprio sulla necessità di avere l’apporto tecnico specifico dei magistrati. Non è quanto meno contraddittorio? "Terrei ben distinte le tre forme di partecipazione alla vita istituzionale del Paese: un conto è l’esperienza che nasce in seguito a un’elezione, su tutte quella parlamentare; un conto è quella cui si accede in base a un incarico fiduciario; ancora diversa è l’attività di collaborazione tecnica. Sull’impegno dei magistrati in politica, com’è noto, abbiamo prodotto una precisa proposta di modifica legislativa rivolta al Governo, che tra l’altro per la prima volta affronta anche il tema degli incarichi di assessore nei governi locali e regionali. Invece, sugli incarichi da svolgere fuori ruolo abbiamo reso più rigorosi i criteri per l’autorizzazione. Dunque, non so se se ne può trarre conferma della contraddizione che lei evidenzia. Quel che è certo è che sono maturi i tempi per un intervento legislativo sistematico che ridisegni i limiti e le condizioni per ciascun impegno istituzionale. Sarebbe un grave errore fare a meno dell’eccellente professionalità dei magistrati italiani ma, al contempo, l’esperienza ci dice che occorrono regole chiare, predeterminate che proteggano anche la percezione dell’imparzialità dell’ordine giudiziario e non solo la concreta indipendenza e terzietà che - è bene ricordarlo - sono valori costituzionali". Spesso la politica chiede il supporto di un magistrato in quanto garanzia di legalità e di credibilità del proprio agire. Ma questo bisogno di farsi scudo dei giudici non è una sconfitta della politica? Non crede che così la politica si delegittimi, come fu delegittimata dal governo dei tecnici in un momento di grave crisi economica dell’Italia? "Finalmente condivido appieno l’idea che sta alla base di una sua domanda. Anch’io penso che delegare la garanzia di legalità dell’agire politico ai magistrati sia un errore e possa costituire una fonte di delegittimazione per la politica". Da più di 20 anni la magistratura è alle prese, nel penale, con responsabilità dei politici o, nel civile, con vicende che hanno ricadute economiche anche sul piano politico. Ciò non comporrebbe una specialissima cautela nel chiedere e nell’autorizzare incarichi a supporto della politica? "Assolutamente sì. Certo, molto può essere risolto con nuove regole, come ho già detto. Ma non bisogna mai dimenticare che per tali incarichi c’è chi li conferisce e chi li accetta. Un di più di cautela è ovviamente consigliabile per tutti". Eppure, certi incarichi vanno a ruba perché sono "medagliette" utili alla carriera. Il Procuratore di Arezzo, ad esempio, ha spiegato di aver accettato la consulenza a Palazzo Chigi perché poteva tornargli utile nel curriculum... Forse bisognerebbe eliminare le medagliette... "È precisamente ciò che abbiamo fatto con la riforma della dirigenza, definendo quali sono gli incarichi che possono essere oggetto di valutazione positiva per il conferimento degli uffici direttivi. E l’elenco di tali incarichi, per lo più di carattere ordinamentale, è stato puntuale e restrittivo. Certi ruoli ricoperti dal magistrato, all’opposto, non solo non attribuiscono titolo per una valutazione positiva ai fini dell’accesso agli uffici direttivi, ma possono persino costituire elementi a sfavore". Raffaele Cantone è oggi il simbolo per eccellenza della legalità. Un "marchio" che Renzi sfrutta in ogni occasione per tacitare polemiche e sospetti, peraltro forte della serietà e professionalità di Cantone. Ma se e quando Cantone tornerà a fare il magistrato, lei crede che sarà percepito dai cittadini come assolutamente imparziale e indipendente? "Naturalmente questa valutazione la farà il Csm che sarà in carica al momento del rientro in ruolo di Cantone, cioè nel 2020 e, aggiungo, con le regole in vigore allora. Per il resto condivido la sua valutazione sulla serietà e professionalità di Raffaele Cantone, il Paese se ne sta giovando. In termini generali, l’esperienza dimostra che l’incarico di presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione è uno di quei ruoli per i quali è giusto che si possa ricorrere anche a un magistrato". I costituenti vollero che una parte del Csm fosse di estrazione politica. I laici, quindi, fanno parte a pieno titolo del Csm e hanno la stessa legittimazione dei togati. Eppure, sono vissuti come una componente "estranea". Pregiudizio, retaggio dell’ultimo ventennio oppure conseguenza di condotte poco trasparenti? "Anzitutto ritengo che l’intuizione dei costituenti si sia rivelata fertile e lungimirante. Senza i laici, il governo autonomo sarebbe assai diverso da quello che è e questo i magistrati lo sanno bene e lo apprezzano. Le accuse, i sospetti di corporativismo sarebbero più veementi e penso che i laici svolgano un ruolo decisivo per allontanare o attenuare i rischi di un governo autonomo autoreferenziale. Certo, dipende anche dal modo in cui la funzione di consigliere viene esercitata e anche dalla speciale e delicata funzione del vicepresidente, di cui non a caso la Costituzione impone la provenienza laica. Penso che il "soffio esterno" - per citare Giovanni Leone ai lavori della Costituente - faccia proprio bene al governo autonomo della magistratura italiana. E i laici di questa consiliatura, dei quali posso parlare, stanno pienamente corrispondendo a tale ispirazione costituzionale". Da anni si critica il correntismo giudiziario degenerato in lottizzazione ma guai a ipotizzare che analoga logica di appartenenza, in questo caso politica, spinga anche le scelte dei laici. Non le sembra una grande ipocrisia? "Ciascuno di noi è non di rado portatore di una storia politica, di convincimenti personali e risponde dei propri comportamenti. Ciò che posso dirle riguarda la mia esperienza, che credo sia comune a quella di tutti i colleghi laici che siedono oggi al Csm. Non mi sono mai sentito così libero da condizionamenti di ogni genere e indipendente nei miei giudizi e nelle mie decisioni come nell’esercizio di questa delicata funzione costituzionale". Suvvia, presidente! Non vorrà dire che non ha mai ricevuto pressioni dal governo… "Mai, di nessun genere. E comunque, mai mi sono sentito obbligato ad ascoltare sollecitazioni esterne. Dopodiché, questo non significa che io non lasci spazio alle opinioni di altre istituzioni, di uffici giudiziari, di operatori del diritto. E, anzi, rivendico il dovere di assolvere a una funzione di ascolto e collegamento con le altre istituzioni, garantendo sempre la sintonia con la funzione presidenziale affidata al Capo dello Stato. Se non lo fa il vicepresidente, che è tre volte legittimato dal voto del Parlamento in seduta comune, dal voto del plenum e dalla delega del Capo dello Stato, chi altro deve farlo? Anche così si combatte il rischio che il Consiglio diventi un corpo separato, isolato dagli altri, immerso in logiche autoreferenziali ed esposto a rischi di pressioni esterne". Eppure, nel Csm si sta vivendo una fase delicata perché molti lamentano pressioni e ingerenze politiche in una serie di scelte: dai pareri, come quello sull’anticorruzione, alle nomine dei vertici giudiziari, da Firenze alla Cassazione... "Mi piacerebbe conoscere chi sono "i molti" a cui lei si riferisce. Comunque, che alcune scelte siano state frutto di pressioni politiche esterne è un’affermazione falsa e chi si spinge a tanto avrebbe il dovere di precisare da dove trae un simile convincimento, anche perché gran parte delle decisioni sono assunte all’unanimità o a larghissima maggioranza. Il che fa presupporre una condivisione piena, frutto di orientamenti autonomi e sereni di ciascuno dei consiglieri nell’esprimere il proprio voto. Vuole sapere qual è la verità sul punto, secondo me?". Dica... "Da qualche tempo spira un venticello denigratorio dall’interno e dall’esterno del Csm su presunte pressioni politiche, che non esistono e non sono mai esistite; questo venticello è alimentato per contrastare il cambiamento che stiamo producendo nel segno dell’autoriforma e dell’apertura al dialogo collaborativo anche con le altre istituzioni. Si può e si deve evitare qualunque ingerenza politica se si esercita fino in fondo la funzione di collegamento con le altre istituzioni, tenendo sempre fermo il principio della piena e totale autonomia delle decisioni consiliari e delle sue finalità dettate dalla Costituzione". La nomina di Gianni Canzio come primo presidente della Cassazione, però, non è avvenuta all’unanimità come lei auspicava; e durante il plenum con Mattarella si è avuta la rappresentazione plastica di un dissenso di metodo, non certo di merito, esplicitato dai due togati di Area (Aschettino e Morosini) che si sono astenuti denunciando una sostanziale forzatura delle regole. Questo è un fatto... "Rispetto le obiezioni, anche se non le condivido. Mi auguro che le polemiche si superino rapidamente perché a fronte della possibilità di scelte che, per fortuna, il Csm ha compiuto potendo contare su una platea di aspiranti di altissimo profilo, ai vertici della suprema Corte abbiamo nominato due tra i più prestigiosi giuristi italiani: Giovanni Canzio e Renato Rordorf. E tra i magistrati, nell’avvocatura e nell’accademia, registro una grandissima condivisione per quelle scelte. Queste scelte possono costituire un esempio per le altre 250 nomine che ci attendono nel nuovo anno". Conversazione con il giudice Raffaele Cantone, lo "smacchiatore d’Italia" di Salvatore Merlo Il Foglio, 2 gennaio 2016 Renzi e De Magistris, la politica e la giustizia, le banche popolari e l’antimafia, la simpatia per il Msi e il rischio di fallire. A tu per tu con Raffaele Cantone. Scusi dottore, lei è un moralista? "Ebbene sì". Ovviamente lei è un elettore del centrosinistra, si sente dire questo gran togato che gode della massima fiducia di Matteo Renzi. Silenzio. Occhi in movimento, come seguissero di soppiatto qualche orbita segreta, ticchettando calcoli occulti. Sorriso appena diffidente. Poi tutto d’un fiato: "Veramente ho votato anche altro". Non mi dica Berlusconi. "Questo non dovrei dirglielo, ma una volta da ragazzino a Napoli feci ‘filonè a scuola…". E che sarà mai. "… E andai con gli amici a sentire un comizio di Gianfranco Fini che era allora il capo del Fronte della gioventù". Ma và. Poi Alleanza nazionale? "Movimento sociale. La mia collocazione è la destra". Legge e ordine, dunque. Nulla a che fare, come si vede, con la formazione politico giudiziaria di Pietro Grasso o di Luciano Violante, più Antonio Di Pietro che Gian Carlo Caselli. "Ma non ho mai fatto politica, nemmeno all’università. Credo di non aver mai nemmeno votato per i rappresentanti d’istituto al liceo. Non mi sono mai iscritto a un partito". E adesso? "Adesso faccio il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione", trecento persone impiegate in un labirintico palazzo che si affaccia su Galleria Sciarra, a un passo dalla Fontana di Trevi, un luogo che per sapienza del destino fu anche l’epicentro del primo grande scandalo di corruzione della storia d’Italia: nel 1893 il padrone di casa, principe Maffeo Barberini-Colonna di Sciarra, fu implicato nell’affaire della Banca Romana. Così Raffaele Cantone, questo signore magro, di media altezza, semplice nel vestire (con un tocco eversivo: calze a rombi colorati in campo verde), cade ironicamente dalle nuvole: "Lei apre nuovi orizzonti alla mia fantasia". L’autorità Anticorruzione nel palazzo del primo grande scandalo di corruttela. "È un divertente contrappasso". Ma viene pure da pensare che altro stile non ci sia stato mai, sotto sotto, nelle cose d’Italia. "La corruzione è un fatto sistemico, fisiologico", arieggia lui, con l’espressione dell’entomologo che descrivendo gli insetti giustifica anche la propria esistenza. "Nel 1900, il presidente del Consiglio Giuseppe Saracco istituì una commissione per indagare sulla corruzione e il clientelismo nel comune di Napoli. Gli atti di quella commissione sembrano scritti oggi". Manzoni diceva che l’Italia è "pentita sempre e non cangiata mai". E Cantone: "Se dovessimo ritenere che l’illegalità è immanente, dovremmo dire che c’è un tratto antropologico nel nostro paese. E io questo non posso accettarlo". Renzi ha caricato di aspettative salvifiche totali questo magistrato che molti anni fa fece condannare all’ergastolo il boss della camorra Francesco Schiavone ("mai fatto il giudice, soltanto il pubblico ministero"). E già qualcuno lo chiama lo "smacchiatore", come fosse un prodotto per lavanderia, da supermercato, da banco, è pronto all’uso e non c’è nemmeno bisogno di agitarlo: l’Expo ("è stato un successo, potremmo vivere di rendita ma non lo facciamo"), Mafia Capitale, poi le eco-balle in Campania, e ora anche le banche popolari, dopo il fallimento di Banca Etruria e di Banca Marche. "La storia degli arbitrati apparentemente non c’entra niente con l’Autorità anticorruzione", ammette l’uomo della renziana provvidenza. Ma poi aggiunge: "Il nostro compito è di creare un meccanismo, un sistema per stabilire chi avrà diritto agli indennizzi e chi no". Ma non tocca alla Banca d’Italia? "Quando avremo finito questa nostra conversazione dovrò incontrare il governatore Ignazio Visco. Ma guardi che l’Autorità è già dotata di una camera arbitrale. Voglio dire che non ci occupiamo di una faccenda completamente estranea alle nostre competenze. Insomma, non ci è stato mica chiesto di riformare il calcio!". E appena pronuncia queste parole Cantone si blocca, come sfiorato da un’inafferrabile ombra associativa, da un dubbio… E se succede? Mai dire mai, dottore. Non sia precipitoso. E d’altra parte lui è stato investito del ruolo di autorità morale, di vestale della legalità, di salvifica fatalità dell’italico destino, anche se dice che non è vero, che è una super-semplificazione rozza, persino inquietante. "Cercare un salvatore è molto deresponsabilizzante per una società", dice. "Sono le democrazie poco mature che cercano demiurghi e super-eroi". Il Foglio lo ha spiritosamente eletto uomo dell’anno appena trascorso: il suo nome rimbalza ogni giorno e più volte al giorno tra i più alti seggi dell’empireo politico nazionale. Cantone è stato candidato a tutto: sindaco di Roma, presidente della Campania, sindaco di Napoli, e persino presidente della Repubblica. "La invito a verificare l’abisso che c’è tra le funzioni che i giornali tendono ad attribuirmi e quelle che effettivamente esercito". E allora gli si riferiscono alcuni commenti ironici che lo riguardano, su Twitter. "Anche io vado a dormire. #Cantone mi rimbocchi le coperte?", scrive @ValentinaMeiss. Poi un falso e ironico Gianni Cuperlo: "Dalle urne spagnole esce un paese ingovernabile. L’unica è chiamare Cantone". E ancora: "Stanotte l’ho visto finalmente. Cantone Natale che scendeva per i camini a portare i regali". E poi @FabrizioRoncone: "L’Inter ha chiesto a Cantone di seguire dal punto di vista psicologico Melo. Cantone, all’inizio un filo riluttante, ha accettato". Persino Mara Maionchi, la madrina di "X Factor", alla domanda su chi secondo lei dovrebbe essere il prossimo giudice nel reality show di Sky ha risposto così: "Ma che domande sono? Cantone, ovviamente". Lui ascolta e sorride, con un atteggiamento di ritegno che pare allo stesso tempo di allerta. "Di tutto questo colgo l’aspetto ironico e positivo", soffia, con una limatura di sorriso. "Ma respingo l’idea che io sia una specie di mister ‘Wolf’ o peggio una fogliolina di fico. E poi, guardi, che essere evocato per un compito non significa che lo stai svolgendo". Sindaco di Roma? "Nessuno me lo ha mai chiesto, e io non avrei mai nemmeno accettato". Sindaco di Napoli? "Me lo chiesero". Eh, allora vede. Ora a Cantone tocca occuparsi anche delle banche, degli indennizzi, degli arbitrati… "Non sfuggo alle responsabilità, se sono confacenti alle funzioni della struttura che presiedo. Sarebbe sbagliato tirarsi indietro. Ma non sono disposto a fare cose per le quali mi sento inadatto. Roma, per esempio, non è la mia città. Non farei mai il sindaco". E insomma ad animarlo è la certezza di essere attore e non agito. E c’è d’altra parte una foto, scattata da Filippo Sensi, il portavoce di Palazzo Chigi, nella quale Renzi è ripreso di spalle mentre Cantone gli sussurra qualcosa all’orecchio. L’immagine suggerisce confidenza, un rapporto intimo e segreto. Quante volte vi sentite al giorno? "Quasi mai". Mai? "Ogni tanto un messaggio su WhatsApp". E all’orecchio di Renzi lei cosa sussurra? "Davvero non sono in grado di sussurrare nell’orecchio del presidente del Consiglio… Che peraltro è uno che non si fa sussurrare nell’orecchio da nessuno". Non ascolta. "Tiene in considerazione le opinioni". Diciamo così. Anche nel governo Berlusconi, con le dovute differenze, s’intende, c’era una specie di Raffaele Cantone. Era uno che faceva tutto, risolveva problemi, si chiamava… "Guardi che faccio gli scongiuri, se mi paragona a Guido Bertolaso", ride. Perché gli scongiuri? "Perché è finito male. Bertolaso è stato molto a lungo un personaggio positivo. Poi è andata com’è andata. Alla fine, gratta gratta, questo è sempre il paese dell’osanna e del crucifige, è sempre il paese di Masaniello. C’è una parte d’Italia che prova una contorta soddisfazione a veder cadere un simbolo nella polvere. La caduta permette poi di dire che nei comportamenti borderline siamo tutti uguali". Ma in realtà la storia politica d’Italia è piena di tecnici finiti malissimo, e non per comportamenti borderline. Persino Mario Monti oggi si aggira per il Senato con la maestà malinconica delle rovine. E lo stesso vale per i troppi commissari alla spending review, per i super prefetti delle mille emergenze italiane e per tutti i salvatori della patria che con indifferente pendolarità questo paese ha masticato e sputato via in sembianze tragiche, o macchiettistiche. Tutte falene che si accostano al freddo fuoco del linguaggio politico e vengono immancabilmente e cinicamente buttate via dai loro sfruttatori non appena le loro grazie appassiscono. Dottor Cantone, per lei sarà diverso? "La tendenza a nominare commissari ogni volta che c’è un guasto è la prova che il sistema non funziona. Ma io non sono chiamato a gestire un’emergenza, non sono il tipico "commissario", parola che evoca l’idea della straordinarietà. Il mio è un compito che sta nella fisiologia dell’amministrazione". E davvero tutto in lui svela l’impegno di una vocazione stabilita fin dalla sua nomina, mantenuta nell’intonazione libera, ma accordata sui tempi musicali del renzismo, persino nel sorriso, che in lui non è raro ma è attento, come studiato. Lei è un moralista, dottor Cantone? "La parola ‘moralè non mi dispiace. Preferisco però la parola ‘eticà, quell’insieme di principi ai quali ancorare la propria attività. Dunque se con moralista si vuol intendere qualcuno che crede nella forza dell’etica, allora sì, sono un moralista". In un paese in cui tuttavia i moralisti sono finiti troppo spesso moralizzati. L’Antimafia sociale, politica e giudiziaria è precipitata in una nera pozza con l’affaire dell’ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, Silvana Saguto, indagata per corruzione e abuso d’ufficio a Caltanissetta. "L’incarnazione più completa e sorprendente, preoccupante, del professionismo descritto da Sciascia", dice Cantone. La morale è dovunque conforme ai valori mutevoli nello spazio e nel tempo: con la prerogativa però, in Italia, di essere di generale convenienza. Si fanno anche carriere politiche così. "Perché l’Italia ha sete di legalità. Dunque ci sono anche i cinici, gli opportunisti, o gli sciocchi, come viene spesso raccontato, che la utilizzano. Ma io mi chiederei perché esiste questa patologia politica", la patologia dei magistrati che per esempio fanno grandi inchieste pirotecniche, poi le abbandonano prima della sentenza come Antonio Ingroia, e ancora prima che un giudice smonti tutto in tribunale si candidano alle elezioni. "Questa patologia esiste perché c’è una domanda forte di legalità nel paese, che si esprime anche in questo modo. Con tutti gli inestetismi del caso. Luigi De Magistris, quando venne eletto deputato europeo, fu tra i più votati in assoluto. E a Napoli, quando si è candidato sindaco, è stato un plebiscito. La domanda da farsi è: perché De Magistris prese tutti quei voti?". E perché li prese? "Li prese perché le persone ritengono che quello della legalità sia un nervo scoperto del paese. Se la gente vuole l’angelo vendicatore c’è un motivo. Può essere che sia immaturità dell’elettorato, ma può darsi che invece sia soprattutto un fortissimo desiderio di legalità. Allora la politica invece di lamentarsi della patologia, dovrebbe domandarsi perché la patologia ha grande successo. E porvi rimedio". L’inchiesta che rese famoso De Magistris, la notissima Why not, si è poi afflosciata come un pallone sgonfio, anzi alla fine a essere condannato dal tribunale di Roma è stato proprio De Magistris: un anno e tre mesi per abuso d’ufficio. "Il paese accetta gli errori, le contraddizioni, gli inestetismi e le cadute di stile, come quella di candidarsi nello stesso collegio in cui si è indagato con grande clamore. Accetta persino il sospetto della strumentalità, e lo fa perché questi aspetti sono considerati meno importanti di una battaglia di principio. Della battaglia per la legalità". E lei dottore, lei ritornerà a fare il magistrato? "Ad oggi la mia idea è di tornare in magistratura, ma il mio incarico all’Autorità anticorruzione scade nel 2020". E insomma c’è tempo. E mai Cantone è stato iscritto a un partito, come dice. Ma a una corrente della magistratura, sì. "Al Movimento per la giustizia, che era la corrente di Giovanni Falcone. Sono stato presidente dell’Anm regionale in Campania. Sono stato segretario del Movimento per la Giustizia a Napoli, ho sempre fatto parte attiva nel mondo della magistratura organizzata. A Napoli creammo una lista che si chiamava "Primo maggio", c’era anche De Magistris". Siete amici. "Con Luigi? Eravamo amici, anche se lui mi ha un po’ punzecchiato di recente. Aveva la stanza accanto alla mia in procura". E De Magistris, o’ sindaco di Napoli, è uno dei tanti magistrati contagiati dall’infezione della politica, uno di quelli che ha fatto "l’operazione", contribuendo non poco all’ambiguità dei tempi. "De Magistris si è dimesso dalla magistratura". Ma non sono troppi i magistrati in politica e nelle amministrazioni, persino quelli in aspettativa? "È un diritto che non si può negare, e un sistema che non garantisca il libero accesso alle cariche amministrative o rappresentative sarebbe un sistema ben poco democratico. Certo, ci vogliono regole d’accesso, ma il pluralismo delle provenienze arricchisce la democrazia. Il problema vero è il periodo successivo, sono le cosiddette porte girevoli". Cioè i magistrati che dopo aver fatto politica tornano a indossare la toga, e senza passare dal via. "Alfredo Mantovano oggi è giudice in tribunale", ricorda Cantone. E Michele Emiliano, da pubblico ministero di Bari, nel 2004 si fece eleggere sindaco della città in cui aveva indagato. Oggi è presidente della regione Puglia. Emiliano è un politico o è un magistrato? "La scelta delle dimissioni è un fatto personale. Non può essere obbligatorio". Tuttavia Pietro Grasso si è elegantemente dimesso dalla magistratura. "Ma era prossimo alla pensione!". Pausa. Sorriso. "Guardi, una cosa è sicura: chi ha fatto politica, poi non può tornare a fare il giudice esattamente come gli altri". Sabino Cassese ne ha scritto sul Corriere di recente, persino il Csm ha evidenziato il problema. "Ma non può essere il Csm a intervenire. Sono la politica e il Parlamento che devono fare una scelta di fondo. La magistratura ordinaria ha già fatto molto, come organismo, nel self-restraint: ha rinunciato agli arbitrati, alla giustizia sportiva… Tocca alla politica assumersi la responsabilità di una scelta. Non si può prevedere per legge che un certo ruolo all’interno del ministero della Giustizia sia riservato a un magistrato, e poi stupirsi con recitato scandalo se è un magistrato a ricoprirlo". E forse vuole dire che in questo astratto paese il nodo pratico e urgente delle questioni si diluisce sempre in dosi omeopatiche tra sguaiatissimi dibattiti da talk-show serale, tra furbizie e urlanti sceneggiate. E un motivo c’è se Cantone non è precisamente amato dai suoi colleghi dell’Associazione nazionale magistrati. La sua è una lingua basica, apparentemente priva di trappole, trabocchetti, doppi fondi. Sulla Terra dei fuochi, per esempio, Cantone non liscia il pelo del senso comune: "Vivo a Giugliano, piena terra dei fuochi. E su questa storia so con cognizione di causa che si sono dette balle spaziali. Si è andati dietro alle parole di un pentito, Carmine Schiavone, che dal 1993 noi magistrati consideravamo inattendibile su questo argomento". Fusti radioattivi, inferno atomico nelle campagne intorno Casal di Principe. "Mai trovati. Mai nemmeno un fusto. E quando sono stati trovati rifiuti interrati, non erano mai dove diceva lui". Ma la televisione sparava forte, per mesi, ci fu anche una prima pagina del New York Times. "Quella del traffico dei rifiuti è una faccenda seria. Lei crede che le zone più industriali della Pianura padana siano meno inquinate della Terra dei fuochi? Nessuno si è occupato di queste faccende per decenni. Poi all’improvviso si è creato un mostro mediatico, tutto suggestione, umori, sensazionalismo, pigrizia, ignoranza, si è fatto confusione tra la spazzatura bruciata, quella seppellita e quella che appesta certe zone della campagna. Un polverone inutile, che adesso ovviamente si è depositato. Nel silenzio e nell’inazione". A Caivano, padre Patriciello, prete di strada e di popolo, malediva i pomodori dal pulpito. "Io rispetto don Patriciello. Ma lui non è un medico, non è uno scienziato e non è nemmeno un poliziotto. Si è fatto un collegamento acrobatico tra i rifiuti interrati e l’insorgenza dei tumori. Un collegamento smentito dai tecnici. Ne è venuto fuori un pasticcio imprendibile. Lei pensi che alle ultime elezioni, lì dove abito io, si è persino presentata una lista che si chiamava ‘Terra dei fuochì". E insomma, dice Cantone, l’emotività è gratuita, fine a se stessa, il suo proposito non è la risoluzione dei problemi (che per loro natura sono pratici, non filosofici né sentimentali), ma soltanto di creare sempre nuovi pretesti al suo libero e spensierato gioco ai danni dell’azione e persino dell’efficienza. E queste sono evidentemente posizioni che gli condensano attorno al capo vaste nubi di antipatia. Come quando, a Milano, presentando il libro dell’ex magistrato Piero Tony, disse che le correnti della magistratura "sono un cancro". E Md? "Non mi piace l’utilizzo della giustizia come lotta di classe". E l’Anm? "Non mi sento rappresentato". E il Csm? "Un centro di potere vuoto". Oggi Cantone dice che "molti di quei giudizi erano semplificati, perché si trattava della presentazione di un libro. E forse certe parole non le avrei dovute utilizzare, anche se esprimevano concetti di cui sono ancora persuaso. Per quelle frasi ho ricevuto attacchi violentissimi sulle mailing list della magistratura, ma ho anche ricevuto un numero rilevante di messaggi privati, di mail di incoraggiamento personale, da parte di moltissimi colleghi, attestati che ritengo importanti". Anche l’Anm l’ha criticata. "Persino in questi giorni leggo giudizi molto severi nei miei confronti sulla questione degli arbitrati, critiche da parte di colleghi che a Napoli appartengono alla lista dalla quale anche io provengo, magistrati che forse mi votarono persino. Vede, l’Anm non è la magistratura. E la magistratura non è un monolite. È un potere diffuso che rozzamente alcuni politici pensano si muova come un partito. È ridicolo. È una cosa tecnicamente impossibile. La magistratura è composta da molti uomini e molto diversi. E anche l’esercizio di critica, la vivacità persino dura con la quale si discute, ne è una prova, oltre a essere un sintomo di salute democratica". Berlusconi parlava di partito dei giudici. "Non solo Berlusconi. Ci sono uomini politici che pensano di poter influenzare un tribunale o una procura favorendo delle nomine, ingraziandosi alcune personalità della magistratura. Ma non è così che funziona. Questa è un’idea sciocca. Con tutti i suoi difetti la magistratura italiana non soltanto è un’istituzione libera da condizionamenti, ma è un fondamentale presidio di legalità". Con tutti i suoi difetti. "La magistratura ha spesso esorbitato, ci sono stati esempi di protagonismo esasperato. Ma l’umanità, si sa, è un legno storto". E bene ancora non si capisce quale ruolo lui sia destinato a giocare in quel labirinto di specchi, strumentalizzazioni e furberie che da circa vent’anni è il conflittuale e intrecciato rapporto tra politica e giustizia. Mezzo politico e mezzo magistrato, un po’ tecnico e un po’ no, attore del renzismo e agito da Renzi, sottoposto alla maledizione che sempre grava sugli uomini della provvidenza, Cantone è una delle creature più enigmatiche della nuova era italiana: non è Di Pietro e non è nemmeno De Magistris, non è uno di quei pm che ha indagato la politica e ha poi indossato la pelle dell’imputato. "Faccio solo il mio mestiere", dice lui, gettando uno sguardo distratto all’orologio, nel suo studio ammobiliato come un ministero di fascia alta, divano e poltrone come si deve, l’arazzo settecentesco, il ritratto del presidente della Repubblica. "È mezzogiorno, devo scappare", dice. Va dal governatore della Banca d’Italia. Come un ministro. Forse di più. "Così mio marito si vantò dopo il pestaggio di Cucchi" di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 2 gennaio 2016 Parla l’ex moglie del carabiniere indagato: "Testimonierò, ma ho paura. Lui mi parlò del pestaggio quando l’inchiesta prese una strada diversa". "Stefano Cucchi? Credevo che fossero esagerazioni di mio marito. Diceva: "Lo abbiamo pestato noi quel tossico...". Si vantava: lui è sempre stato così nel suo lavoro: "ho fatto questo, ho fatto quello", "ho avuto una missione importante" e così via. Tra carabinieri fanno così. Poi la radio ha trasmesso un’intercettazione in cui lui stesso parla con gli amici: "Ragazzi ci dobbiamo far dare la sospensione della pena..." Non è un’ammissione questa? La mia telefonata con lui ha fatto il giro dei siti. E sapete i commenti? La sua ex - dicono - vuole vendicarsi". Ed è vero, vuole vendicarsi? L’ex moglie di Raffaele D’Alessandro, il carabiniere accusato di aver pestato Stefano Cucchi 6 anni fa - se ne abbia provocato la morte è tuttora da stabilire - è una donna di trent’anni, magra da non sembrare mamma di tre figli, alta, bel viso, diretta. Si chiama Anna Carino. "Credeva di averla fatta franca, era compiaciuto". È sua la voce dall’altra parte del telefono nell’intercettazione che, secondo il pubblico ministero Giovanni Musarò, conferma l’ipotesi di un "violentissimo pestaggio" dei carabinieri della stazione Appia nei confronti del ragazzo. È lei a dire: "Non ti ricordi che mi raccontavi di come vi eravate divertiti a pestare "quel drogato di m.."?". Ma perché vantarsi di aver pestato un ragazzo "che pesava 40 chili" come a un certo punto si sente dire nelle intercettazioni? "Era l’inizio del 2010 - risponde lei -. Sembrava allora che i colpevoli fossero altri. Lui credeva di averla fatta franca, era compiaciuto". Ora, il primo giorno di un anno incerto, in provincia di Viterbo dove vive con il suo nuovo compagno, Anna Carino spiega: "Raffaele aveva 24 anni all’epoca, come me. Era spavaldo, certo, è sempre fuori di sé. Ne ho passate tante. Ma con lui ho avuto due figli e ora sono di là che dormono. Ho visto i commenti sui forum online e vi chiedo, se Raffaele finisce in galera cosa ci guadagno io, che vantaggio ne hanno i bambini?". L’indagato ai colleghi: "Se mi congedano, vado a rapinare gli orafi". Nei mesi scorsi gli investigatori della squadra mobile hanno monitorato le conversazioni di Raffaele D’Alessandro e di altri due colleghi che erano in servizio la notte in cui Cucchi fu arrestato e che ora sono stati raggiunti da un avviso di garanzia (assieme a D’Alessandro, oggi in servizio a Napoli, c’erano anche Alessio Di Bernardo e Francesco Tedesco). Non sembrano dialoghi fra carabinieri quelli. In un caso D’Alessandro dice agli amici: "Se mi congedano vado a fare le rapine agli orafi". Non è tutto. Il suo rapporto con le armi appare inquietante. D’Alessandro sembra ostentare il potere che gli deriva dal suo stesso ruolo. In seguito a un incidente in famiglia, dove viene visto puntarsi la pistola alla tempia, gli viene tolta l’arma in dotazione. "Mio marito odiava stare in divisa, quella notte era in borghese". Ma sapevano i superiori delle sue bravate? Suo marito fu trasferito? "A me ha sempre detto che fu lui a chiedere quel trasferimento" dice l’ex moglie. È una donna decisa: "Testimonierò se mi chiamano - dice - ma non sanno ancora se ci sarà un processo". Cos’altro sa? "Non molto, solo quello che mi ha raccontato lui. Perché lui ne parlava, non solo con me ma anche con altri, io questo l’ho ripetuto ai magistrati". E cosa diceva? "Che quella notte era in borghese come piaceva a lui. Odiava stare qui in provincia con la divisa addosso. Mi rimproverava sempre: "per colpa tua sono dovuto venire in questo posto di m...". E che il ragazzo, un tossicodipendente fu pestato. Raffaele mi parlò di Cucchi solo dopo che la prima indagine, quella che non è arrivata da nessuna parte, aveva preso un’altra strada. Penso volesse vantarsi per averla scampata. Nessuno li cercava più". "Prima o poi potrebbe decidere di vendicarsi di tutti noi". Il suo ex marito potrebbe essere processato per omicidio preterintenzionale..."Sì" risponde rivolta al suo attuale compagno. Poi torna sulla questione: "Non sono andata in cerca di tutto questo ma quando mi sono sentita fare delle domande, ho deciso di non mentire. Me le ricordo le foto di quel ragazzo". Persone che non erano coinvolte hanno subito un processo. Ci pensa mai? "Io e Raffaele siamo stati assieme fino al 2013" precisa lei, facendo domande a sua volta: "Domani (oggi, ndr) verrà a prendere i bambini e li terrà fino al 6 gennaio, credete che sia una cosa da niente? Sarà il primo giorno che ci vediamo dopo che i giornali hanno parlato della mia testimonianza. Non dovrei avere paura? Ce l’ho invece e penso anche che, prima o poi, a riflettori spenti, potrebbe decidere di vendicarsi nei confronti di tutti noi". Capodanno? In carcere di mattia feltri La Stampa, 2 gennaio 2016 Il primo giorno dell’anno non ci sono i quotidiani né le rassegne stampa. A Radio radicale si parla del Capodanno in carcere: ci sono andati Marco Pannella e altri, precisamente a Rebibbia. In Italia si sa qualcosa del disastro delle carceri perché ne parlano i radicali, ma nella noia generale. Uno che le visitava sempre era Charles Dickens: diceva fossero il posto migliore per conoscere l’animo umano e per misurare il grado di civiltà di un paese. L’anno che verrà e le domande senza risposta camerepenali.it, 2 gennaio 2016 Gli auguri dell’Unione delle Camere Penali Italiane per il nuovo anno, e per una giustizia migliore. L’anno vecchio finisce e lascia all’anno che viene alcune domande senza risposta. Domande su cosa sia per i magistrati la serenità, come la si misuri e come la possa misurare un qualsiasi utente della giustizia. Il Csm la misura utilizzando sonde psichiche infallibili, e con questo ci rassicura di come si possa essere convenientemente e serenamente consulenti e controllori al tempo stesso. Siamo sicuri che le risposte verranno da sole, in un paese in cui la separazione dei poteri è stata sostituita con la sovrapposizione dei poteri, anzi, di un solo potere. L’anno vecchio ha visto magistrati a gestire non solo la legalità nazionale, ma anche quella regionale e comunale, ha lasciato magistrati ovunque nei ministeri, negli enti e negli organismi. Perché un consulente procuratore capo dovrebbe dare scandalo. Meraviglia che il CSM si sia disturbato a misurarne il tasso di serenità. Qualcuno si sarebbe dovuto interrogare, magari utilizzando quella stessa sonda strepitosa, sul tasso di serenità di indagati e di imputati e persone offese ai quali la magistratura non appare indipendente e per i quali avere un giudice terzo, come dice la nostra costituzione, è ancora un sogno. In attesa che una commissione indetta nel vecchio anno si pronunci relazionando su come l’anno nuovo possa finalmente vedere un Csm riformato, ci chiediamo cosa ancora occorra per separare politica e magistratura, per impedire, con poche norme chiare, quella poco virtuosa osmosi che mortifica la politica e che nuoce all’indipendenza della magistratura. Ma il nuovo anno, ne siamo certi, porterà risposte adeguate. Il vecchio anno che finisce è stato l’anno delle indagini spettacolo, dei processi fatti per il pubblico, con video (fatti ed artefatti), intercettazioni, arresti e perquisizioni in presa diretta. Però una circolare del Csm impedisce ai magistrati esibizioni televisive troppo prolungate nei talk show. Il nuovo anno che verrà ci dirà se il problema vero è quello dell’uso che le tv fanno della magistratura, o quello dell’uso che la magistratura fa dei media e delle televisioni. L’anno che verrà ci farà certo capire molte cose. A cosa serve la prescrizione nel corso delle indagini, e se la tenuità del fatto ne farà emergere l’ambigua funzionalità sistemica, se gli aumenti di pena faranno ridurre corruzione e vittime della strada, se gli aumenti dei termini della prescrizione e ragionevole durata dei processi resteranno (come oggi sono) un autentico ossimoro. L’anno che verrà ci dirà se dovremo fare processi a distanza, e se la tecnologia, anziché essere usata nel processo per potenziarne l’umanità, sarà volta solo a mortificare la dignità dell’imputato. Se la libertà negata a un detenuto, a causa del braccialetto che non c’è, potrà essere ascritta ad un mero accidente, o se invece non debba dirsi uno scandalo politico ed economico di inaudita gravità. Così come è scandaloso, politicamente ed economicamente, che anche l’anno che è passato abbia visto l’ulteriore aumento del costo che lo Stato paga per le ingiuste detenzioni. Un fiume di denaro che costituirebbe una risorsa importante per realizzare una giustizia più efficiente. L’anno che verrà ci darà molte risposte, accendendo anche nuove speranze per le madri detenute che abbracciano i loro bambini in stanze senza sbarre, per gli internati degli ospedali psichiatrici giudiziari chiusi, per gli ergastolani ostativi, per le vittime del 41 bis e di tutte le altre torture. Noi cercheremo di dare a tutte le domande le risposte necessarie e, soprattutto, non ci stancheremo di lottare per una giustizia migliore. Un felice nuovo anno. "Il Dio-saldatore si è incalmato". Grazie, Salvatore! don Marco Pozza (Cappellano della Casa di Reclusione di Padova) sullastradadiemmaus.it, 2 gennaio 2016 Tutto goffo, pure un attimo rintronato. Uno di quelli che, ammaccati dalla miseria marcia, soccombono quasi sotto terra, incuranti di tutto, non curati da tanti, forse sbadati addirittura a se stessi. Uomini-ombra. È la notte di Natale, siamo dietro le sbarre di una patria galera del Nord-Est, quello contorto e gentile. Un pugno di gente: un prete che annuncia la nascita, tredici uomini - più avanzi d’umano che uomini tutt’interi, "gente avariata" direbbe qualcuno - mezzi assaliti dal sonno; qualche uomo generoso come lampione che illumina la notte. Notte santa, notte generosa, notte d’intrepida attesa. Notte-con-Dio. All’oscuro dell’italiano, com’è di tanti che hanno fatto della scarpata-della-strada la loro scuola, si prenota col dito una delle preghiere dei fedeli stampate sul foglietto. Sempre le solite, quasi sempre senza vita, sovente insipide e amorfe. Che importa? Da quand’è nato il mondo, sono sempre gli uomini a fare la differenza: al tempo dei faraoni, al tempo del bullo Erode. Salvatore (chissà se si chiama proprio così o se ha imparato a chiamarsi così) legge la seconda delle cinque preghiere. Quella dove sta scritto: "Nel mistero del Dio incarnato (…) preghiamo Dio salvatore (Ascoltaci, o Signore)". Non sempre ciò che si legge corrisponde a ciò che sta scritto: tra lo scritto e il letto di mezzo ci passa la vita: quella che sorprende e acciuffa, che stupisce e smarrisce, vita-sempre-vita. Salvatore non legge ciò che c’è scritto, legge ciò che capisce. Di più: legge ciò che gli risuona nel cuore più che quello che altri hanno scritto. Legge tutto d’un fiato, come di prende la rincorsa per fare il salto migliore: "Nel mistero del Dio incalmato (…) preghiamo Dio saldatore (Ascoltaci, o Signore)" Alzo gli occhi, anche solo per strappare un sorriso: la loro compostezza scoraggia la mia ilarità. Nessuno sorride, forse manco si sono accorti: tutti ignoranti? Oppure Salvatore ha detto ciò che anche loro pensavano per davvero nel cuore. Il Dio incalmato, non il Dio incarnato. Eggià: l’incarnazione è roba troppo astratta, odora di teologia e di frasi spurie, non trattiene l’odore consunto della terra, la voracità inimmaginabile del "Dio si è fatto carne" (liturgia della II^ domenica del tempo di Natale). L’incarnazione è dogmatica, troppa lontananza per i poveracci, ancora lungi dal loro essere terra-terra. Per loro dire che Dio si è incarnato non dice nulla: che Dio si sia incalmato, invece, è tutto un programma, il più ardito dei tentativi mai accaduti. Incalmare è verbo di botanica, sudicio di letame, gergo contadino: è inserire il ramo di una pianta su un’altra pianta di diversa varietà, per ottenere un individuo nuovo. È un tentativo di miglioria, un trucco da esperti, un tocco di finezza botanica. Il Natale? La divinità s’incalma con l’umanità, Dio s’innesta nell’uomo, l’Onnipotente s’incastra nell’impotenza. Mai trovata una traduzione più fedele di questa. Senti che tocco: "Dio si è incalmato e venne ad abitare in mezzo a noi" Mica finito, però. Era forse preoccupato, Salvatore, che qualcuno non s’intendesse di botanica e, perciò, rischiasse di non capire cos’è il Natale. Così, sfacciatamente geniale, ha firmato la seconda manovra da fuoriclasse: "Preghiamo Dio saldatore". Saldatore! La salvezza è una saldatura, congiungere due o più cose insieme in modo da formarne una sola. Il Natale è la saldatura di Dio: il Cielo si stringe alla terra, Dio s’aggroviglia in un abbraccio con l’uomo, il suo sogno diventa segno per tutti: "Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia" (Lc 2,12). Dio è il saldatore, il Bambino è la saldatura: la terra è saldata, anche salvata. L’aggancio è riuscito: Dio, incalmandosi, ha saldato la terra col Cielo. Due giorni dopo Natale, Salvatore Tremiterra, poco oltre i quarant’anni, è morto: un infarto l’ha colto improvviso dentro la sua cella di galera. Un pover’uomo in mezzo ad una ciurma di poveri-cristi. Stamattina ho celebrato il suo funerale: il funerale di Salvatore, il mio-piccolo-salvatore. L’uomo sbagliato che ha salvato il mio Natale giusto dal rischio dell’astrazione: il Dio-saldatore si è incalmato. Solo ai poveri Dio concede il lusso di dargli così sfacciatamente del tu senza renderlo banale. Campania: Ospedali Psichiatrici Giudiziari, un percorso dopo la chiusura di Emilio Lupo e Salvatore Di Fede* La Repubblica, 2 gennaio 2016 L’Ospedale psichiatrico giudiziario di Secondigliano è stato chiuso. Bene, benissimo, è una buona notizia per le persone che si trovavano ancora lì rinchiuse e per noi tutti che dentro e fuori da quei cancelli abbiamo lottato e costruito con grandi difficoltà e contro grandi resistenze, le possibili alternative a quel "dolore inutile". È una buona notizia per Napoli, che valorizza almeno così, pur nella crisi profonda del suo mostrarsi comunità ai più deboli, le radici ancora vive della sua fondativa capacità sociale; una buona notizia per chi è impegnato in imprese di trasformazione delle relazioni umane e delle modalità di rapporti di potere tra le persone; una buona notizia per associazioni come la nostra che - insieme ad altre - hanno fatto dei diritti all’esistenza e alla diversità, ragioni/azioni del loro agire. La chiusura dell’Opg è un’invenzione sociale - cioè un nuovo punto di vista per nuove pratiche di salute mentale - che non si sarebbe potuta ottenere senza uno strenuo attacco, come abbiamo contribuito a fare in questi anni, alla ideologia manicomiale alimentata dalle ricerche pseudoscientifiche dei nuovi guardiani della psichiatria custodialistica e se non ne avessimo elaborato, nel movimento di opposizione agli Opg, la sua decostruzione di senso. Una chiusura che è il risultato anche del nostro complessivo impegno di costruire opposizione alle istituzioni totali, sempre teso a svelarne i dispositivi mortificanti e gli interessi di parte (e di dominio), che oggi provano a spingersi fino al controllo sui nostri stessi corpi biologici. Un contributo, tra l’altro, che è passato attraverso le prassi concrete e alternative agli Opg, di trattamenti riabilitativi e di inclusioni sociali riuscite, con abbattimento delle recidive dei reati che, m alcune esperienze da noi monitorate, è tuttora del tutto pari a zero. La battaglia però non è chiusa. Restano ancora gli altri cinque Opg, tra cui quello di Castiglione dello Stiviere che con il solito miracolo burocratico si è trasformato in poli-Rems. Chiude, dunque, Secondigliano ma occorrerà impedire che le strutture Rems che accoglieranno quanti non potranno essere seguiti, direttamente, dai servizi di salute mentale - si sostituiscano, anzi che si costituiscano, come mini Opg. Psichiatria Democratica è altresì consapevole di quanto lavoro è toccato in sorte a quegli operatori dell’ex Opg, che hanno contribuito alla chiusura, e che senza il loro impegno, l’esito di questa battaglia non era scontato; impegno condiviso, va ricordato, con quanti sul territorio, per oltre quarant’anni, non sono arretrati di un millimetro perché si scrivesse la parola fine a questa bruttissima pagina di storia contemporanea. Guai però a pensare che la partita sia chiusa. Niente affatto. Ora, dicevamo, comincia da un lato un lungo processo di liberazione per i dimessi dalle strutture manicomiali e dall’altro - tenendo sempre al centro i Dipartimenti pubblici di salute mentale - la costruzione di un argine a possibili neoistituzionalizzazioni. Ecco perché, per il dopo Opg, Psichiatria Democratica ha proposto - al fine di garantire ai nuovi rei progetti individualizzati di cura sostegno attraverso risorse economiche certe e programmi di inclusione sociale come l’abi tare e il lavoro - "Protocolli operativi vincolanti" da stipularsi tra Aziende sanitarie locali (Asl) e i tribunali territorialmente competenti. Questi Protocolli dovranno assicurare con i programmi individualizzati il monitoraggio del percorso terapeutico/riabilitativo stesso. Per Psichiatria Democratica, infatti, il progetto personalizzato - attuato attraverso il lavoro comune di Asl e operatori della giustizia - garantirà sia una giusta allocazione delle risorse economiche ( in un momento così difficile e duro della sanità pubblica) sia il contrasto a nuove forme di neo-manicomializzazione, da cui bisogna sempre guardarsi. Ma su questa proposta, che giudichiamo di svolta, ritorneremo presto e più compiutamente. Intanto buon anno a tutti. *Gli autori sono rispettivamente segretario nazionale di Psichiatria Democratica e responsabile nazionale dell’organizzazione di Psichiatria Democratica. Biella: faceva proselitismo per l’Isis in carcere, trasferito in carcere di massima sicurezza newsbiella.it, 2 gennaio 2016 Un uomo di origini marocchine recluso nella Casa circondariale di Biella, B.M., è stato trasferito in un carcere ad alto livello di sicurezza, dopo essere stato sorpreso a cercare nuovi sostenitori per l’Isis, lo stato islamico anarchico. Dopo giorni di osservazione, da parte degli agenti della Polizia penitenziaria del reparto dedicato all’anti proselitismo, istituito dopo gli attentati di Parigi, è emerso che il nord africano lanciava segnali, pericolosi, agli altri reclusi, tanto da porsi quasi come un agente di reclutamento. È scattato immediatamente il provvedimento di trasferimento in un altro carcere. Milano: nuova evasione al Beccaria, 15enne rom fugge fingendo un malore Il Giorno, 2 gennaio 2016 Secondo episodio in poche settimane. Il 20 dicembre scorso durante l’ora d’aria un giovane di 17 anni era riuscito a scappare scalando i muri alti 9 metri. Un ragazzo di 15 anni è evaso dal carcere minorile Beccaria di Milano. È accaduto ieri mattina nell’ora d’aria: fingendo un malore, avrebbe approfittato della complicità degli altri detenuti che hanno finto di prestargli un primo soccorso, e sarebbe stato aiutato a scavalcare il muro di cinta. A darne notizia è il Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Il ragazzo, di etnia rom e detenuto per furto e rapina, si trovava nella stessa sezione della casa circondariale per minorenni del capoluogo lombardo da cui, durante l’ora d’aria tra le 9 e le 10 del 20 dicembre scorso, un giovane di 17 anni era riuscito a scappare scalando i muri alti 9 metri. Atterrando nella campagna di via Zurigo, uno dei lati del perimetro dell’istituto minorile Cesa, era svanito nel nulla. Il Sappe: "È un’evasione annunciata. Avevamo denunciato le troppe criticità del carcere minorile Beccaria che avevano inciso, seppur indirettamente, sulla precedente evasione e il non aver assunto alcun provvedimento concreto ha favorito un nuovo grave episodio di analogo tenore". Sono le parole, in una nota, di Donato Capece, segretario generale del Sappe, Sindacato autonomo di polizia penitenziaria. "A poco più di una settimana dall’evasione di un detenuto minorenne dal carcere milanese di Beccaria, ieri un altro detenuto minore è fuggito rocambolescamente dall’Istituto penale per minorenni meneghino. Da tempo denunciamo quelle che riteniamo essere irregolarità del Beccaria e la carenza di personale di polizia penitenziaria", aggiunge Capece. Milano: Sappe; catturato il detenuto evaso dal carcere minorile a fine dicembre Ristretti Orizzonti, 2 gennaio 2016 È stato catturato ieri, in una operazione interforze che ha coinvolto personale della Polizia Penitenziaria e delle altre Forze dell’Ordine, il giovane detenuto albanese che poco più di una settimana era evaso dal carcere milanese di Beccaria. Ma ieri un altro detenuto, anch’esso minore e straniero, è fuggito rocambolescamente dall’Istituto penale per minorenni meneghino. Ne da notizia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il più rappresentativo dei Baschi Azzurri. "Brillante è stata l’operazione di servizio che ha portato alla cattura del primo detenuto evaso, ma quella di ieri è stata un’evasione annunciata", denuncia Donato Capece, segretario generale del Sappe. "Avevamo denunciato le troppe criticità del carcere minorile Beccaria che avevano inciso, seppur indirettamente, sulla prima evasione e il non aver assunto alcun provvedimento concreto ha favorito un nuovo grave episodio di analogo tenore. Ieri è infatti evaso H.N., nomade di 15 anni, detenuto per furto e rapine. Il ragazzo apparteneva alla stessa sezione detentiva da cui era evaso il primo detenuto minorenne e simili sono state le condizioni. Mentre era all’aria un altro detenuto ha finto un malore e H.N., approfittando della complicità degli altri detenuti che hanno finto di prestare un primo soccorso al sedicente malato, nelle more dell’intervento della Polizia Penitenziaria, è stato aiutato a scavalcare il muro di cinta. Questo anche perché l’amministrazione probabilmente non aveva ritenuto "abbastanza pericolose" le falle nel muro di cinta e nei cancelli che erano stati segnalati da tempo dal Sappe. Dovremmo vedere scappare altri detenuti prima che ci si decida a fare qualcosa?". "Va ribadito con forza che le carceri, per minori e per adulti, sono più sicure assumendo gli Agenti di Polizia Penitenziaria che mancano, finanziando gli interventi per far funzionare i sistemi di sicurezza interna, potenziando i livelli di sicurezza delle carceri", conclude Capece. "Altro che la vigilanza dinamica, che vorrebbe meno ore i detenuti in cella senza però fare alcunché. Al superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e alla maggiore apertura per i detenuti deve associarsi la necessità che questi svolgano attività lavorativa e che il personale di Polizia Penitenziaria sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico, che vuol dire porre in capo a un solo poliziotto quello che oggi fanno quattro o più agenti, a tutto discapito della sicurezza. Le idee e i progetti dell’Amministrazione Penitenziaria e della Giustizia minorile, in questa direzione, si confermano ogni giorno di più clamorosamente fallimentari e sbagliati". "Tutti gli uomini del generale", in un libro la storia inedita della lotta alle Brigate Rosse di Alberto Custodero La Repubblica, 2 gennaio 2016 La scrittrice Fabiola Paterniti ricostruisce l’attività investigativa del Nucleo antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa durante gli Anni di Piombo. Il Pci mise in contatto i carabinieri con un infiltrato che consentì l’arresto dei brigatisti. Ma il Viminale sciolse il gruppo di investigatori poco prima del sequestro Moro. Il terrorismo brigatista vinto grazie al Pci che, dopo l’omicidio di Guido Rossa, chiamò il generale Dalla Chiesa e lo mise in contatto con un "infiltrato" comunista tra le Bierre. C’è anche un’altra verità sugli Anni di Piombo. Quella raccontata dagli uomini ombra del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (ucciso a Palermo dalla mafia 33 anni fa), i carabinieri che sotto copertura facevano parte del "nucleo antiterrorismo". I loro segreti sono stati raccolti dalla giornalista e autrice Fabiola Paterniti nel libro "Tutti gli uomini del generale" - editore Melampo - "la storia inedita della lotta al terrorismo". "Fu Ugo Pecchioli - spiega Paterniti - ministro dell’Interno ombra del Pci, a mettere in contatto il Generale con l’infiltrato che consentì di sgominare le brigate rosse". Un infiltrato il cui nome è ancora oggi coperto dal più totale riserbo. Che cosa faceva quel Nucleo, come si muoveva, che tattiche usava? Tanto si sa sul brigatismo rosso. Ma poco o quasi nulla è emerso negli anni sulla lotta al terrorismo, ovvero sulle modalità operative proprio di quel manipolo di super investigatori "invisibili". Paterniti ci consegna su quei misteri uno squarcio di verità, grazie a una meticolosa ricostruzione fatta intervistando sette di quei carabinieri, e due magistrati, Gian Carlo Caselli che ha coordinato le indagini sulla colonna torinese delle Bierre. E Armando Spataro, sulla colonna di Milano. Raccontano la storia di come funzionasse la macchina investigativa in tutti i suoi ingranaggi, compresi i difficili rapporti con le polizie Oltrecortina, quasi impossibili in quei tempi di Guerra Fredda. Gli uomini di Dalla Chiesa erano la sua famiglia. I suoi angeli custodi. Rischiavano la vita e lavoravano quasi come una sorta di servizio segreto. Vivevano in clandestinità per evitare che le bierre, che avevano un attivissimo servizio di contro-pedinamento e, per così dire, di "controspionaggio", potessero individuarli e ucciderli. Si sottoponevano ad addestramenti estenuanti con tecniche sofisticate per imparare anch’essi ad infiltrarsi. Selezionavano il personale presso la scuola sottufficiali di Firenze. Si chiamavano con nomi in codice, "Dan", "Trucido", "Baffo", "Ragioniere Severino", "Principino". Ancora oggi, per mantenere viva una vecchia abitudine, si chiamano così tra di loro. Nessuno dei loro congiunti sapeva di quel lavoro segreto. Il Nucleo era espressione diretta della strategia del Generale che faceva un tutt’uno del suo passato di ex partigiano, della sua appartenenza ai ranghi militari e alla sua esperienza di carabiniere. Quegli uomini pedinavano (a volte anche 30 o 40 persone per ogni singolo sospetto), si infiltravano, schedavano, studiavano le tattiche di guerriglia brigatista, elaboravano statistiche, entravano e uscivano dalle carceri svolgendo colloqui riservati coi detenuti, facevano le irruzioni nei covi brigatisti, gestivano i primi pentimenti. L’ufficiale Gian Paolo Sechi fu tra i primi a raccogliere le confessioni del primo pentito, Patrizio Peci (al quale i brigatisti per vendetta e ritorsione trucidarono il fratello Roberto). Ancora oggi, ricorda Sechi, è molto legato all’ex brigatista, che vive in un luogo segreto, tutt’ora sotto protezione. E monitoravano il terrorismo dal punto di vista sociale. Sì, perché, come ha ricordato l’ex ministro dell’Interno Virginio Rognoni, a preoccupare Dalla Chiesa in quegli anni era soprattutto il sostegno dato al fenomeno brigatista sia da certa popolazione (secondo l’ex bierre Maccari, simpatizzanti e fiancheggiatori erano dai 30 ai 40 mila). Sia da una certa intellighenzia, un mix intellettuali-borghesia-giornalisti. Per il Generale, quella era una vera guerra psicologica, la più difficile da combattere perché asimmetrica. E per lui ad armi impari. Il libro svela retroscena poco conosciuti, se non inediti, e inquietanti nei rapporti tra la politica e il Generale. Come quando, dopo l’arresto dei big brigatisti Alberto Franceschini e Renato Curcio, il ministero dell’Interno chiuse la struttura di Dalla Chiesa. Inutili le proteste di quegli uomini che, al Capo di Gabinetto del Viminale, fecero presente che i brigatisti avevano in Svizzera armi della Seconda Guerra, che le stavano portando in Italia, in Lazio, a Roma. Non furono ascoltati, nonostante quell’allarme. Il Nucleo fu soppresso. E le bierre tornarno a colpire puntuali e spietate con il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro. Verso il diritto alla conoscenza di Domenico Letizia (Consiglio direttivo di "Nessuno Tocchi Caino") L’Unità, 2 gennaio 2016 Manuel Castells, il sociologo catalano rifugiatosi negli Usa durante gli anni del franchismo ha elaborato un’analisi dell’attualità politica ed economica intitolata: "Capitalismo informazionale". La sua lettura socio-economico-antropologico definita, appunto, "informazionale" è estremamente interessante perché, partendo dal presupposto che è in atto una transizioni da una società industriale a una società post industriale, globalizzata e transnazionale, incentra e analizza il ruolo strategico che ha, in questa transizione, la "conoscenza" umana al fine di produrre ricchezza e nel determinare le scelte politiche. La "società informazionale" è attraversata da conflitti che attengono alla "identità", un processo difensivo che produce fenomeni politici e culturali incentrati sulla "piccola patria" e, conseguentemente, sulla secessione come unica risposta al sistema globale transnazionale e informazionale. Per Castells, invece, a una realtà transnazionale non si può rispondere che in modo transnazionale. Tale percorso deve puntare alla costruzione dello stato di Diritto, democratico, federalista e laico là dove esso manca e/o alla sua ricostruzione e riformulazione dove sia in atto un processo di erosione come è quello in corso - definito come caduta nella "democrazia reale" -nelle democrazie occidentali. L’obiettivo prioritario per l’affermazione dei diritti umani è "convincere" il Governo italiano a fare da subito tutto l’occorrente per far rientrare formalmente, come primo passo, l’Italia dalle illegalità che le sono formalmente imputate dalle corti internazionali e nazionali. Questa è anche la proposta del Partito Radicale e delle sue Ong," Nessuno tocchi Caino" e" Non c’è Pace senza Giustizia". Dopo aver prodotto la Dichiarazione di Roma, sottoscritta da decine di personalità e intellettuali di rilievo internazionale, il Partito Radicale chiede al governo italiano e alle "massime magistrature" italiane di "intraprendere un’azione volta a favorire una transizione comune verso lo stato di Diritto e a codificare a livello universale il nuovo "diritto umano e civile alla conoscenza". Tale diritto consiste nella possibilità universale dei cittadini di conoscere e ragionare sulle azioni e proposte che stanno alla base delle decisioni che attengano alla politica, delle scelte - soprattutto in politica estera - dei governi e governanti. La sfera del diritto è chiamata in causa in modo diretto. Alla maggiore centralità dell’umano corrisponde una maggiore attenzione per i diritti umani universali. La critica "particolaristica" a questi diritti umani nasce dalla contrarietà all’universalismo dei diritti, considerati come il prodotto di una determinata cultura - quella occidentale, come affermano i suoi oppositori - mentre invece si tratta del frutto della storia e dello svolgimento del pensiero e della stessa civiltà. La storia insegna che il trauma causato dal dolore e dalla violenza (la guerra, la fame e - mai come oggi - il terrore) richiede oggi, nel mondo globalizzato, norme adatte a tutelare la dignità dell’essere umano in quanto tale. Uno dei più grandi dibattiti tra cultori del diritto positivo e giusnaturalisti è nato proprio in seguito ad un trauma storico, l’obbrobrio dell’Olocausto e dello sterminio. Quale è il trauma storico della contemporaneità politica? La conoscenza della pluralità dell’Islam. Bisogna dare risposte alla questione dell’applicabilità dell’Islam alla realtà contemporanea. La grande maggioranza dei musulmani è pronta, sia in Europa che nei paesi d’origine, ma non lo sono le classi dirigenti autoritarie che utilizzano la religione a fini politici per preservare i loro regimi autoritari e religiosi. La galassia radicale attraverso il dialogo con istituzioni, ambasciate e accademici del mondo islamico sta tentando di intraprendere un progetto che vada a rafforzare il terreno della democrazia. Su quale terreno si possono combattere le derive fondamentaliste dell’Islam di oggi? "Sul loro stesso terreno, l’Islam fondamentalista ha creato una rete sociale eccellente per aiutare i più poveri. L’Islam ha un’esperienza che non sa riconoscere in molti campi, per esempio, nei legami sociali o nella gestione dei grandi numeri, o nell’esperienza delle crisi, dei conflitti, del vivere in condizioni estreme", come ha ben ribadito l’antropologo e scrittore di origini algerine Malek Chebel. La consapevolezza universalizzata di questa frattura e del trauma storico richiede ormai, appunto, un nuovo "diritto umano alla conoscenza". Ma la formulazione e la codificazione di questo come dei diritti umani universali può avvenire solo all’interno di un processo politico globale che veda nell’affermazione dello "stato di Diritto contro la Ragion di Stato" la propria ragione di essere. La grande sfida richiede di sviluppare strumenti e strutture adeguati - a partire dalle Nazioni Unite, sollecitate a chiedere (ed ottenere) che i diritti umani siano rispettati all’interno di ogni singolo Stato. Si tratta insomma di formulare un criterio universale, preciso e operativo, per giudicare la legittimità di un governo, della sua capacità a proteggere e promuovere i diritti dell’uomo. Il progetto di transizione permetterebbe all’Italia di presentarsi con un programma definitivo al Consiglio di Sicurezza dell’Onu avendo come missione globale "il mantenimento della pace e della sicurezza". L’elaborazione teorica e pratica di questo processo, sia occidentale che mediorientale, dovrebbe essere alle fondamenta di ogni organizzazione e istituzione che fa della democrazia il proprio obiettivo. Capodanno a Ponte Galeria di Carlo Lania Il Manifesto, 2 gennaio 2016 Nel Cie romano sono presenti solo 40 donne, la maggior parte delle quali nigeriane. "Fuck Nigeria" c’è scritto sul muro intonacato di bianco della casetta circondata da sbarre. Qui ci vivono - si fa per dire - le nigeriane, qualcuna delle quali non deve avere proprio un bel ricordo del suo paese. Sono 23, la maggioranza delle 40 donne richiuse l’ultimo giorno dell’anno nel Cie romano di Ponte Galeria. Dopo la rivolta dell’11 dicembre scorso, quando la sezione maschile venne data alle fiamme, i 79 uomini presenti sono stati tutti trasferiti. Restano quindi solo loro, le donne, a popolare insieme a poliziotti e operatori la struttura alla periferia della capitale. Oltre alle nigeriane si conta qualche signora sudamericana, una donna cinese che dice di avere ottenuto la status di rifugiata in Francia (e per la quale sono in corso accertamenti) e qualcuna proveniente dai paesi balcanici e dall’Egitto. Vite sospese in attesa di conoscere il proprio destino, di essere identificate e, nel caso, rimpatriate. Un’attesa che stando alla legge può durare fino a 90 giorni ma che - sulla base di quanto previsto da due direttive europee recentemente recepite dall’Italia - può prolungarsi fino a 12 mesi nel caso dal Cie venga fatta una richiesta di asilo da qualcuno ritenuto per vari motivi socialmente pericoloso dalla questura. Molte delle donne oggi presenti a Ponte Galeria sono qui per aver ricevuto un decreto di respingimento dopo essere sbarcate. I respingimenti sono la novità del 2015 che si è appena chiuso. Provvedimenti emessi nei nuovi hot spot imposti dall’Unione europea a Grecia e Italia in cambio della promessa, finora non mantenuta, di ricollocare tra gli stati membri qualche decina di migliaia di richiedenti asilo. Finora quelli operativi sono due (a Lampedusa e Trapani) sui sei che l’Italia si è impegnata ad aprire. Molto probabilmente le 23 nigeriane che si trovano a Ponte Galeria sono vittime della tratta e come tali potrebbero ottenere presto la protezione internazionale. Nel frattempo però restano chiuse in gabbia a Ponte Galeria, tra i panni stesi ad asciugare tra le sbarre. "L’unica cosa che possiamo fare per voi è portare un po’ di conforto, farvi sentire che non siete sole", spiega a tutte il presidente della commissione Diritti umani del Senato, Luigi Manconi. Insieme alla deputata di Sinistra italiana Monica Gregori, al segretario dei Radicali Roma Alessandro Capriccioli e al segretario dei Radicali italiani Riccardo Magi (possibile futuro candidato alla poltrona di sindaco della capitale), Manconi ha compiuto una visita-ispezione al Cie romano per verificare le condizioni in cui si trova chi è costretto suo malgrado a vivere in questi "non luoghi", come usa definirli il senatore del Pd. C’è stato un momento in cui si è pensato che i Cie potessero essere un’esperienza finalmente lasciata alle spalle. A settembre scorso quelli ancora aperti erano solo cinque: oltre a Ponte Galeria, c’erano quelli di Bari, Trapani, Caltanissetta e Torino. Poi, secondo quanto previsto dalla road map inviata dal governo italiano alla Commissione europea, sono stati riaperti quelli di Crotone, Brindisi e Gradisca e presto riaprirà i battenti anche quello di Milano. "La tranquillità è importante, ma la libertà è tutto" ha scritto un’altra mano anonima sui muri del Cie di Ponte Galeria. Sembra banale, ma qui dentro niente è scontato. Anche perché è davvero difficile capire la logica che ha portato alla creazione di luoghi che, pur non essendolo, sembrano in tutto e per tutto delle prigioni. Luoghi dove puoi anche trovare storie come quella di Fatima, 34 anni. Rom originaria della Bosnia. Arrivò in Italia all’inizio degli anni ‘90 in fuga dalla guerra che stava devastando l’ex Jugoslavia. Da allora vive qui, ha avuto quattro figli, il più piccolo ha undici mesi il più grande 14 anni, ma al contrario di loro non è mai riuscita ad avere un documento di identità. Motivo per il quale è richiusa a Ponte Galeria. "I Cie e la detenzione amministrativa si sono dimostrati in questi anni strumenti inefficaci, utili solamente a provocare sofferenza e precarietà", commentano i radicali Magi e Capriccioli all’uscita dal Cie romano. "Siamo sicuri che il destino del nostro paese debba essere quello di aprire nuovi centri di identificazione ed espulsione per trattenere e rimpatriare quanti fuggono dalla miseria in cerca di un’opportunità di vita?". La "guardia di frontiera" Ue divide la Grecia dalla Turchia di Dimitri Deliolanes Il Manifesto, 2 gennaio 2016 Egeo. Atene di fronte alla riapertura ad Ankara in scontro con Mosca. La proposta della Commissione Europea di istituire una guardia di frontiera comunitaria è stata accolta con grandissima diffidenza da Atene. La proposta è stata gettata sul tavolo dopo mesi di duro confronto tra Atene con la Commissione sulla gestione della nuova massiccia ondata di rifugiati. Da parte europea c’è un evidente tentativo di arginare il flusso verso il nord Europa, bloccando i migranti nel paesi di primo ingresso, come esige il famigerato accordo di Dublino. Ma questo ancora non basta. Atene è accusata sempre più spesso di essere incapace di "difendere" le frontiere esterne dell’Europa. In sostanza, si chiede ad Atene di tornare alle pratiche dei precedenti governi di destra che respingevano i barconi in mezzo al mare, incuranti delle vite umane. Con la nuova Guardia di frontiera la controversia viene risolta in favore di Bruxelles: al contrario di Frontex, sarà un organo comunitario gestito direttamente dalla Commissione e potrà intervenire come e quando vuole, senza richiedere l’autorizzazione del paese interessato. La proposta inoltre prevede la facoltà di procedere a "accordi di collaborazione" con paesi terzi, in modo da tracciare, in piena autonomia, una "propria politica" di gestione dei flussi. Nel caso specifico, la Guardia europea potrà accordarsi con la confinante Turchia senza render conto ai greci. In pratica, ritorna dalla finestra la vecchia proposta dei pattugliamenti congiunti greco-turchi nella acque dell’Egeo, fermamente respinta da Atene. Le preoccupazioni di Atene hanno due motivi. Il primo è l’atteggiamento finora tenuto da Bruxelles verso Erdogan. Il governo turco dal 2010 ha sottoscritto numerosi accordi con l’Ue per la reintroduzione dei migranti, ma non li ha mai applicati. Anche adesso, dopo aver incassato ben tre miliardi, la Turchia fa ben poco per frenare il flusso, mentre non ha voluto neanche prendere in considerazione la proposta di Atene di collocare gli hot spots direttamente sul suo territorio. Poi c’è l’atteggiamento di Juncker. Nei suoi ripetuti incontri con il premier turco Davudoglu, il presidente della Commissione si è mostrato così entusiasta della prospettiva di riattivare i negoziati di adesione all’Ue che si è anche spinto a promesse che non può mantenere: in una lettera lo ha assicurato che "ben presto" anche i cinque capitoli bloccati unilateralmente da Cipro saranno aperti. In risposta, Davudoglu ha ripetuto che il suo paese non ha alcuna intenzione di riconoscere la Repubblica di Cipro, paese membro dal 2004. Il secondo motivo ha a che fare con le mire revisioniste di Ankara nell’Egeo. La storia dura da quasi mezzo secolo, da quando cioè sono stati scoperti giacimenti di idrocarburi sul fondo a questo mare. La Turchia rivendica la sovranità sulla metà dell’Egeo e nel 1995 il suo parlamento ha approvato un documento che considera casus belli ogni espansione delle acque territoriali greche. Ma anche le ricerche petrolifere off shore, nella cosiddetta Zona Economica Esclusiva prevista dalla convenzione Onu sul mare, sono impedite dalla Turchia, che non ha sottoscritto la convenzione. Più di recente la posizione turca si è ulteriormente aggravata, sostenendo che anche lo status di molte isole greche è di "incerta sovranità". Proprio sui limiti di reciproca compentenza, i due paesi si sono trovati sull’orlo della guerra ben due volte negli ultimi decenni. Per risolvere la controversia, Atene ha più volte chiesto il ricorso alla Corte internazionale dell’Aja ma Ankara preferisce un accordo bilaterale. Alle tensioni greco-turche si è aggiunta quella tra Ankara e Mosca. Due settimane fa l’incidente tra le flotta russa in transito verso la Siria e un peschereccio turco. Il transito di navi di guerra russe nell’Egeo continuerà a lungo. Cosa farà la Guardia di frontiera europea? Terrorismo: l’allarme di Monaco e le "troppe" sfide, così il nemico saggia le forze di sicurezza di Guido Olimpio Corriere della Sera, 2 gennaio 2016 È necessario aumentare la presenza di unità intermedie, poliziotti con equipaggiamento e training a metà tra agenti ordinari e forze d’élite. Un terrorismo diffuso, una realtà che costringe a rivedere la gestione. Le ultime 24 ore hanno detto molto. A Monaco di Baviera, pochi minuti prima della mezzanotte, è scattato un piano d’emergenza. Evacuata la stazione centrale e quella di Pasing per il timore di un attacco di un commando di sette kamikaze siriani e iracheni. Una nota trasmessa dai servizi americani e francesi indicava una minaccia specifica. Tutto è poi rientrato. Situazione simile a Mosca, con due fermate del metrò evacuate. Nello Stato di New York arrestato un simpatizzante Isis pronto a compiere un attacco a colpi di machete. In Francia, a Valence, un uomo si è lanciato alla guida di un’auto contro una pattuglia di guardia a una moschea. I militari hanno aperto il fuoco: ferito l’aggressore, un passante e un soldato. Ripetizione di un modus operandi visto in Israele ma anche sul territorio francese. Episodi dove l’estremismo si mescola o si sovrappone alla follia, senza però cambiare l’esito. Paura, angoscia, senso di debolezza. Condizioni per le quali servono risposte su più livelli. Intanto nella comunicazione. Le autorità tedesche hanno informato in tempo reale via Twitter sulle misure prese. Metodo innovativo. Domanda: quante volte si potrà riprodurre questo schema? L’allerta perenne ha impatto economico, alimenta il senso di insicurezza, favorisce i criminali. A ogni minimo sospetto sarà chiuso un metrò o un aeroporto? O un intero distretto scolastico come è avvenuto a Los Angeles? I governi devono sensibilizzare l’opinione pubblica senza però fare il gioco di chi intende sovvertire il vivere comune. Questo presuppone: 1) Valutazione della fonte che segnala la minaccia; 2) realtà della minaccia stessa; 3) diffusione delle news senza innescare una reazione a catena. Il terrorismo non è certo un pericolo inedito per l’Europa, però quello che preoccupa è l’ampiezza degli input ricevuti. Troppi. E con il rischio che i militanti li moltiplichino per mettere alla prova gli apparati. Alla lunga c’è la possibilità di sottovalutare il segnale. Poi il "teatro". Agenti e soldati sono dei target e non solo perché proteggono un sito. Devono tutelare il bersaglio, ma anche badare alla loro sicurezza. Diverse inchieste hanno dimostrato che i jihadisti vogliono colpire gli uomini in divisa. Questo comporta un tipo di addestramento nuovo, pratico e psicologico. Infine l’organizzazione. Durante il massacro di Parigi le teste di cuoio sono intervenute con grande ritardo, vittime di strutture troppo ampie e non capillari. Il nemico ormai si affida a missioni sacrificali, nuclei votati al martirio, dotati di kalashnikov. È necessario aumentare la presenza di unità intermedie, poliziotti con equipaggiamento e training due gradini sopra a quelli di un agente di una volante e due sotto rispetto alle forze d’élite. Molto mobili, distribuiti sul territorio. Il gruppo di fuoco si contrasta, nell’immediatezza, con un dispositivo analogo, in modo da dare tempo agli "specialisti" di intervenire. Una linea di difesa indispensabile per salvare delle vite. L’appello del Papa: di fronte all’odio vincere indifferenza e falsa neutralità di Luigi Accattoli Corriere della Sera, 2 gennaio 2016 Ieri, primo dell’anno, Francesco ha aperto la sua quinta "porta santa", ha celebrato la "giornata mondiale della Pace", ha tenuto due omelie - in San Pietro e in Santa Maria Maggiore - e a mezzogiorno ha parlato a una gran folla in piazza San Pietro: forse 60 mila persone. Al centro di tutti i messaggi dell’interminabile giornata papale è stato l’appello a vincere "l’indifferenza" e la "falsa neutralità" che imprigionano l’umanità benestante nell’egoismo e le impediscono di coinvolgersi nei drammi dell’umanità vicina e lontana. Si avverte dalle parole del Papa che davanti ai suoi occhi continuano a sfilare le torme dei derelitti che scappano dalle guerre e dalla fame. "Fino a quando la malvagità umana seminerà sulla terra violenza e odio, provocando vittime innocenti?" si è chiesto nell’omelia del mattino, nella Basilica Vaticana, ricordando le "moltitudini di uomini, donne e bambini disposti a rischiare la vita pur di vedere rispettati i loro diritti fondamentali". La sua proposta ovviamente è quella dell’uomo di fede: "Siamo chiamati tutti a immergerci nell’oceano della misericordia divina (alla quale ha intitolato il Giubileo, ndr) e a lasciarci rigenerare, per vincere l’indifferenza che impedisce la solidarietà, e uscire dalla falsa neutralità che ostacola la condivisione". La grazia di Cristo - ha argomentato - "ci spinge a diventare suoi cooperatori nella costruzione di un mondo più giusto e fraterno, dove ogni persona e ogni creatura possa vivere in pace". Papa Bergoglio confida che la vocazione cristiana possa più dell’umanesimo, nel motivare l’impegno per la giustizia: "Dove non può arrivare la ragione dei filosofi né la trattativa della politica, là può giungere la forza della fede che porta la grazia del Vangelo di Cristo". Nel "messaggio per la Giornata della pace" che aveva pubblicato il 15 dicembre aveva trattato ampiamente del ruolo di animazione dell’impegno per la giustizia sociale e mondiale che le Chiese cristiane potrebbero svolgere in contrasto con l’attuale "globalizzazione dell’indifferenza", che tende a renderci "incapaci di provare compassione per gli altri, come se ciò che accade a loro fosse una responsabilità estranea a noi". Sempre in quel messaggio aveva affermato che la pace va perseguita come il "frutto di una cultura di solidarietà, misericordia e compassione". Nel pomeriggio di ieri Francesco ha aperto la "porta santa" della Basilica di Santa Maria Maggiore: era la quinta porta giubilare che apriva dopo quelle di Bangui (29 novembre), San Pietro (8 dicembre), San Giovanni in Laterano (13 dicembre), Ostello Caritas di via Marsala (18 dicembre). Egli vede nella moltiplicazione delle "porte della misericordia" - come le ha chiamate - una mano tesa dalla Chiesa a un’umanità smarrita e bisognosa di ogni soccorso. Nel discorso di mezzogiorno dalla finestra ha mandato un saluto di gratitudine al presidente della Repubblica Sergio Mattarella "per gli auguri che mi ha rivolto ieri sera nel suo messaggio di fine anno, che ricambio di cuore". L’intreccio mortale dopo la "guerra fredda" di Gian Paolo Calchi Novati Il Manifesto, 2 gennaio 2016 I conflitti di oggi, i lasciti di ieri. L’Isis adesso si può battere. Ma il "nuovo ordine mondiale" e le gerarchie politiche fissate dopo l’89 vacillano. Conflitti vecchi e nuovi consegnano un’instabilità che non passa. Il Califfato potrebbe rivelarsi un episodio transeunte. Più arduo è stabilire se con la sua eventuale sconfitta sul campo verranno meno le cause profonde che l’hanno prodotto. Poiché l’analisi corrente nella politica e nella comunicazione occidentale è viziata da una dicotomia fra Bene e Male, a cominciare dalla definizione riduttiva del Nemico come Terrorismo, gli esiti di questa vicenda così dolorosa per tutti potrebbero non essere veramente risolutivi nel senso della coesistenza se non della pace. L’obiettivo della guerra intentata dalla coalizione fin troppo estesa e variegata che fa capo agli Stati Uniti contro l’auto-proclamato Califfato nel 2014 e rilanciata con più accanimento nel 2015, anche con l’ingresso nella tenzone della Russia, è la cancellazione dalla carta geopolitica del quasi-stato che controlla ampi spazi di Iraq e Siria e la rimozione degli avamposti costituiti in suo nome in Libia (per tacere dello Yemen o del più lontano Afghanistan). In Iraq e Siria l’Isis svolge funzioni di governo, amministra un territorio con un popolo valutato in 5 milioni di persone, gestisce un’economia con la rendita garantita da petrolio, imposte e introiti di reperti archeologici e sequestri. Ci sono i sintomi concreti, sul terreno, di una perdita progressiva di posizioni. Lo sbarco a Sirte potrebbe essere un ripiegamento da quello che è stato e rimane l’epicentro del potere di Daesh e non un ampliamento della sua sfera di "sovranità". Gli attentati in Europa potrebbero essere a loro volta una dimostrazione di debolezza (a Mosul e Raqqa) più che di forza. Non è nemmeno sicuro che le cellule che agiscono qua e là nel mondo organizzando attentati (questi sì a tutti gli effetti configurabili come terrorismo, rispetto alla guerra asimmetrica che si combatte in Medio Oriente e Nord Africa), con richiami più o meno certificabili alla centrale (in questo Isis svolgerebbe una funzione paragonabile a quella di al-Qaida, che non si è mai curata di creare uno stato ma al più di disporre di una base), siano realmente una propaggine del Califfato, rispettino i suoi ordini e giovino alla sua causa. C’è da considerare, infine, le opinioni pubbliche dei paesi arabi e le minoranze arabe trapiantate in Europa, soprattutto quelle che provano più disagio in termini di economia e psicologia individuale o di gruppo. Alcuni analisti le considerano il "terzo cerchio" della strategia e dell’essenza stessa di Isis per il reclutamento di combattenti e ancora di più per la nube di consenso che si leva da loro incidendo sulla politica, e non solo sulla guerra, a livello mondiale. Gli avvenimenti che ruotano attorno al Califfato non sono propriamente una novità imprevista. È dalla fine della guerra fredda che gli Stati Uniti, sconfitto e ridimensionato il rivale storico, hanno dislocato da Est a Sud il loro apparato di sicurezza. Il primo episodio del dopo-bipolarismo fu la guerra contro l’Iraq per "liberare" il Kuwait. L’origine immediata della guerra fu una grossolana violazione delle regole internazionali da parte di Saddam ma la guerra fu sfruttata per fini che oltrepassarono ampiamente il caso specifico. Fra l’altro, fu verificata dal vivo la possibilità per gli Stati Uniti di mantenere l’egemonia anche in quello che George Bush senior definì subito "nuovo ordine mondiale". Doveva essere chiaro a tutti che - clash of civilizations o "fine della storia" - il responso della competizione Est-Ovest aveva fissato le gerarchie. L’Occidente avrebbe avuto la prima e ultima parola nel governo del mondo secondo il sistema che la scienza politica definisce "unipolarismo imperfetto": ne dovevano prendere atto la Russia e la stessa Europa, alleato obbligato di Washington, che sarebbe stata infatti chiamata ripetutamente a condividere gli atti di imperio di Clinton, Bush junior e Obama. La guerra fredda terminò senza che si fosse verificato un evento militare di grosse proporzioni in Europa, la terra in cui i due blocchi confinavano e si confrontavano. Le crisi e i conflitti avevano avuto tutti luogo fuori dell’Europa, in Asia e in Africa, in quel mondo in via di sviluppo che usciva dal colonialismo e quindi dall’orbita dell’Occidente e del capitalismo e che era in cerca di un modello di stato, sviluppo e alleati. Sempre nel discorso in cui enunciò la nascita del "Nuovo ordine mondiale", Bush non aveva nascosto che l’area strategica sarebbe stata ormai un Sud per proprio conto in piena transizione e verosimilmente instabile. La Corea, il Vietnam, l’Algeria, il Congo, l’Angola, la Palestina e per concludere, a parti rovesciate per quanto riguarda la potenza interventista, l’Afghanistan sono venuti prima dell’islamismo radicale. Un filo di cui ignoriamo il colore unisce le guerre in Periferia di prima e dopo lo spartiacque del 1989. Proprio l’Afghanistan chiuse la trama della guerra fredda (allora si parlava di ideologie) e aprì quella della sfida jihadista (adesso si parla di identità e di religione, comparse già con la rivoluzione in Iran). Il conflitto che stiamo vivendo non è cominciato nel 2011. Le Primavere arabe potrebbero essere state l’ultimo fallimento del tentativo dei paesi arabi di uscire dall’autoritarismo per vie democratiche. Alla ribalta urgono più che mai i problemi lasciati irrisolti dai passaggi storici del "secolo breve": la decolonizzazione e la scomparsa dell’Urss nella realtà europea e della "rivoluzione" variamente ispirata all’Ottobre come strumento di liberazione di popoli e classi. L’integrazione del Sud, entrato nel mercato e acculturato sommariamente per effetto del colonialismo, è ancora un’incompiuta. Le élites e le masse, in modo diverso e fra molte difficoltà (la prova più recente è l’Egitto di Morsi e al-Sisi), lottano, spesso in modo improprio, per emergere, soddisfare le esigenze primarie, conquistare il potere e - alla svolta del Millennio - affermare confusamente una continuità con un passato anch’esso mal definito. La contestazione nel mondo ha cambiato segno: non giova a nessuno sottovalutare un fenomeno che va molto oltre il fondamentalismo e il terrorismo islamico. Giudicata nella lunga durata, l’intenzione affermata e riaffermata dal governo italiano di "ritornare" in Libia potrebbe essere un passo falso di grosse proporzioni, quale che sia il primo impatto con dirigenti di cui non si conoscono bene le ascendenze e i programmi. L’argomento ricorrente è che l’Italia ha una grande esperienza di Libia. Si dimentica che il nostro curriculum contempla personaggi del calibro di Badoglio e Graziani? Anche prescindendo dall’horror, si gira intorno a un privilegio che sembrava superato. Se invece la primogenitura dell’Italia si spiega con l’attività dell’Eni, per i cui interessi Renzi ha mostrato una particolare attenzione nei viaggi in Africa, si cade nei soliti cascami petroliferi che, da Mossadeq in poi, hanno fatto la storia delle interferenze occidentali nel Medio Oriente. Il capo del governo designato in base all’accordo di concordia nazionale fra Tobruk e Tripoli è stato ricevuto a Roma e ha sollecitato il nostro governo a rimettere in moto il trattato che sistemò il contenzioso fra Libia e Italia. L’accordo del 2008 fu l’ultimo atto di grande politica compiuto da Muammar Gheddafi: è come se l’impegno persino ossessivo a riscattare la Libia da una conquista e occupazione sofferte come una menomazione insopportabile abbia segnato, prima ancora dello scoppio della guerra civile, la fine del "tempo" di Gheddafi. Quella richiesta, venuta da chi dovrebbe rappresentare una classe dirigente dichiaratamente post-coloniale, è a suo modo una prova che il colonialismo conserva una sua rilevanza. Su grande scala, scontando le differenze che caratterizzano un’area vasta e composita come il mondo arabo-islamico, il nodo principale è l’insieme di prevaricazioni e frustrazioni del rapporto Nord-Sud. Fra i protagonisti della guerra per distruggere il Califfato ci sono stati arabi e islamici, sunniti o sciiti, con istituzioni e governi di dubbia legittimità e di incerta durata. Il futuro di Iraq e Siria non è messo in discussione solo dall’Isis. I membri della coalizione anti-Daesh hanno obiettivi propri, incompatibili fra loro. Il pericolo è che nelle capitali che contano ci si prepari a procedere alla ricomposizione degli stati e delle comunità senza stato seguendo le logiche con cui le potenze esterne, dall’alto, decisero giusto un secolo fa la sorte delle terre arabe appartenute all’Impero Ottomano. India: trattativa segreta per i marò, Delhi e Roma smentiscono di Matteo Miavaldi Il Manifesto, 2 gennaio 2016 Indiscrezioni di un quotidiano di Calcutta: al vaglio ci sarebbero scambi di favori tra i due governi in sede internazionale, per facilitare il ritorno in Italia di Girone. La vicenda dei due fucilieri di Marina italiani, dopo settimane di latitanza, è riapparsa sulle pagine della stampa indiana grazie a una curiosa indiscrezione di fine anno. Lo scorso 30 dicembre The Telegraph, autorevole quotidiano di Calcutta, racconta del "negoziato" che starebbe impegnando diplomatici italiani e indiani, alla ricerca della "conclusione di un’amara battaglia diplomatica durata 4 anni, piena di tradimenti e minacce, sull’arresto dei due marines italiani". Secondo tre funzionari di alto livello contattati dal quotidiano di Calcutta, Roma e New Delhi starebbero discutendo i termini di una "road map" che impegni entrambi i paesi a non ostacolarsi a vicenda, scambiando l’accondiscendenza del governo indiano nel caso che interessa i sottufficiali Salvatore Girone e Massimiliano Latorre con la fine dell’ostracismo che Roma esercita contro l’India in sede internazionale, dall’Unione Europea in su. Nel dettaglio, New Delhi vuole assicurarsi che Roma non ostacoli l’entrata dell’India in quattro organizzazioni transnazionali: il Nuclear Suppliers Group (Nsg); il Missile Technology Control Regime (Mtcr), il Wassenaar Arrangement (che regola l’esportazione di armamenti e tecnologie "dual use", cioè per il civile e il militare) e l’Australia Group (sempre organo di "armonizzazione delle esportazioni", per prodotti chimici e tecnologie relative "dual use"). L’Italia, che è paese membro di tutte e quattro le organizzazioni, nel settembre scorso aveva posto il proprio veto all’entrata dell’India nell’Mtcr. Inoltre, sempre secondo le indiscrezioni, a Roma sarebbe richiesto l’allentamento della pressione diplomatica esercitata, contro l’India, in seno alla Ue per quanto riguarda i trattati di scambio che il primo ministro indiano Modi vorrebbe siglare con Bruxelles entro la prima metà del 2016, quando è prevista la visita di stato del capo dell’esecutivo indiano a Bruxelles. Ultimo caveat per la parte italiana: impegnarsi di fronte alla Corte suprema indiana a rimandare entrambi i fucilieri in India qualora l’arbitrato internazionale aperto all’Aja decidesse di dare la giurisdizione del caso - l’omicidio dei pescatori Ajesh Binki e Valentine Jelastine al largo delle coste del Kerala - all’India. Un impegno, ricorda bene l’India, che l’Italia aveva già disatteso nella catastrofe diplomatica del marzo 2013, quando il governo Monti, attraverso l’opera del ministro degli esteri Giulio Terzi, si rifiutò di rimandare in India Girone e Latorre, in Italia per effetto di una singolare "licenza elettorale". Se verranno soddisfatti tutti questi punti, il governo indiano si impegnerebbe a non sollevare obiezioni in sede legale in India - quindi in Corte suprema - circa eventuali petizioni avanzate dalla difesa italiana. Una su tutte: il ritorno in Italia di Salvatore Girone, che permetterebbe al fuciliere di attendere da casa il verdetto dell’arbitrato internazionale. Girone, attualmente, risiede all’interno delle strutture a disposizione dell’Ambasciata italiana a New Delhi, con obbligo di firma settimanale e libertà di movimento in tutto il territorio della capitale indiana. Latorre si trova invece in Italia dal settembre del 2014, grazie a una licenza concessa dalla Corte suprema indiana per motivi di salute, dopo che il fuciliere ha sofferto di un attacco ischemico a New Delhi. Il percorso di riabilitazione che Latorre ha intrapreso in Italia, non ancora terminato, ha comportato una serie di rinvii della scadenza fissata per il rientro in India del fuciliere, al momento prevista teoricamente per il prossimo 15 gennaio. "Teoricamente", poiché in attesa della formazione del collegio arbitrale dell’Aja, lo scorso luglio l’Italia si è appellata al Tribunale del Mare di Amburgo, nel tentativo di far rientrare Girone in Italia prima della sentenza arbitrale (dai tempi incerti): richiesta respinta dal pool di giudici di Amburgo, che hanno però imposto la sospensione di ogni procedimento penale della Corte suprema indiana contro i due fucilieri. Per questo, alla scadenza del 15 gennaio, non è chiaro se e come i giudici indiani possano chiedere il rientro di Latorre in India. Il 31 dicembre il ministero degli esteri indiano, in un comunicato, ha negato l’esistenza di questa presunta "trattativa", sottolineando che la questione della giurisdizione è ora nelle mani della giustizia internazionale e che New Delhi continuerà a battersi nelle sedi appropriate per vedere riconosciuto il proprio diritto a giudicare in India i due sottufficiali italiani. Allo stesso modo, dalla Farnesina confermano che l’Italia continuerà ad affidarsi all’arbitrato internazionale dell’Aja che "nelle prossime settimane" dovrebbe valutare la richiesta italiana di far rientrare Girone a casa in attesa della sentenza circa la giurisdizione del caso di omicidio colposo che riguarda i due sottufficiali. Stati Uniti: "stop alle armi", Obama va avanti da solo di Arturo Zampaglione La Repubblica, 2 gennaio 2016 Mentre brindisi e fuochi d’artificio salutavano l’arrivo dell’anno nuovo in tutte le piazze d’America, un milione di irriducibili texani hanno festeggiato il ritorno ai tempi del Far West: da ieri, infatti, si è aperto un nuovo capitolo, ancor più buio e sconcertante, nel permissivismo sulle armi che ha sempre contraddistinto il più grande stato del Sud. In Texas, grazie a una nuova legge entrata in vigore con il 2016 che introduce "l’open carry", chi ha la licenza, può girare d’ora in poi con il revolver in bella evidenza nella fondina. E può persino entrare armato fino ai denti nel palazzo del Parlamento a Austin, sottoponendosi a meno controlli dei visitatori senza pistole. Di fronte a questa escalation della follia collettiva sulle armi, che si traduce nelle stragi ricorrenti, Barack Obama ha deciso di non rimanere più con le mani in mano in attesa di un’improbabile mossa da parte del Congresso, che ha dimostrato di essere ostaggio delle lobby. Il presidente, che ieri ha dedicato a questo tema il primo discorso radiofonico dell’anno, ha intenzione di imporre unilateralmente la settimana prossima, tornato dalla vacanza alle Hawaii assieme alla famiglia, regole più severe per la vendita delle armi. In particolare, dopo un colloquio col ministro della Giustizia Loretta Lynch, dovrebbe costringere i commercianti che hanno un maggiore smercio di armi a sottoporre gli acquirenti a controlli supplementari. "Qualche mese fa", ha detto ieri Obama, "ho chiesto ai miei collaboratori di studiare i modo per ridurre la violenza legata alla diffusione delle armi". L’ipotesi è ora che la Casa Bianca ricorra a un "ordine esecutivo" by-passando il Congresso. Di qui l’attacco immediato della Nra (National rifle association), la lobby delle armi, e dei parlamentari finanziati dalle industrie del ramo: "È una violazione inaccettabile dei principi costituzionali", hanno tuonato. Aggiungendo il solito ritornello: "Da sole le pistole non uccidono nessuno. Sono i criminali a uccidere, e sono in grado di procurarsi le armi in barba a tutti i controlli". La Nra continua anche a dire (con l’approvazione di Donald Trump) che la diffusione delle armi è un deterrente per le eventuali azioni di jihadisti. Il Congresso continua a non fare nulla, mentre l’attentato di dicembre a San Bernardino, in California, ha dimostrato che la facilità di acquistare armi in modo legale aiuta i terroristi ispirati dall’Is a compiere le loro azioni da soli, senza aiuti esterni. Nel 2013, subito dopo i 26 morti (di cui 20 bambini) nella scuola di Newton, nel Connecticut, i parlamentari di Washington cercarono di inasprire i controlli sugli acquisti di armi, ma la misura non ottenne al Senato i 60 voti su 100 necessari per l’approvazione. Obama, che considera quello delle armi uno dei grandi insuccessi della sua presidenza, ha deciso di farne una delle priorità per l’ultimo anno alla Casa Bianca, assieme alla chiusura di Guantánamo e alla riforma della giustizia. "Obama - spiegano i suoi collaboratori - ha intenzione di evitare a tutti i costi di scivolare nella irrilevanza politica, come spesso accade con i presidenti in via di uscita". Di qui il tentativo di forzare la mano sulle armi attraverso l’"ordine esecutivo". L’accelerazione della Casa Bianca ha il sostegno di personaggi come Gabrielle Giffords, l’ex-parlamentare californiana ferita gravemente in un attentato, e l’ex-sindaco di New York, Michael Bloomberg. Ci sono anche progressi a livello locale: a Seattle, nello stato di Washington, è scattata la nuova tassa sugli acquisti di armi da fuoco (25 dollari a pistola o fucile venduti, da 2 a 5 centesimi per ogni proiettile). Ma anche su questo provvedimento la lobby delle armi minaccia battaglia, come su tutta la svolta delineata da Obama. L’Arabia Saudita annuncia 47 esecuzioni, giustiziato anche capo religioso sciita La Repubblica, 2 gennaio 2016 Accuse di terrorismo per lo sceicco-oppositore Nimr al-Nimr. L’Iran ammonisce: "La sua morte vi costerà cara". La monarchia saudita è tra i governi con il più alto numero di esecuzioni nel mondo. Quarantasette persone accusate di terrorismo sono state giustiziate in Arabia Saudita. Lo ha annunciato il ministero dell’Interno saudita secondo quanto riferisce al Arabiya. Secondo il governo le persone messe a morte erano state condannate per aver progettato e compiuto attacchi terroristici contro civili. La maggior parte delle persone giustiziate sarebbe stata coinvolta in una serie di attentati compiuti da al-Qaeda tra il 2003 e il 2006. Molti di essi erano anche oppositori del regime. Secondo i dati di Amnesty International, l’Arabia Saudita è tra i Paesi con il più alto numero di esecuzioni nel mondo, secondo solo da Cina e Iran. Quelle di oggi sono le prime esecuzioni del 2016 nel regno ultraconservatore che ha giustiziato 153 persone nel 2015 secondo le cifre ufficiali. Le condanne sono state eseguite tramite decapitazione. Tra i condannati a morte anche un influente religioso sciita, lo sceicco Nimr al-Nimr. Lo sceicco è stato uno dei leader del movimento di protesta partito nel 2011 nella provincia orientale del Qatif, dove la numerosa popolazione sciita reclamava più diritti e meno discriminazione da parte della monarchia saudita, a maggioranza sunnita. Molto popolare tra i giovani, il suo arresto nel 2012 provocò anche proteste di piazza represse dal regime. La sua pena capitale per "incitamento alla lotta settaria" è stata confermata il 25 ottobre scorso. Dura la reazione dell’Iran, che ha avvertito l’Arabia Saudita: l’esecuzione di Nimr "vi costerà cara". Nel braccio della morte c’è anche suo nipote ventunenne Alì al-Nimr. Per salvarlo è partita nei mesi scorsi una mobilitazione internazionale. Guatemala: rissa in carcere provoca otto morti, due detenuti decapitati La Repubblica, 2 gennaio 2016 Ci sono anche oltre 20 feriti. La lite è cominciata nella notte di Capodanno quando alcuni carcerati hanno dato fuoco a materassi e lenzuola. Una rissa in un carcere del Guatemala è degenerata in efferate violenze: alla fine si contano otto detenuti morti e oltre 20 feriti, secondo il sito della Bbc. La strage è avvenuta nella città portuale di Puerto Barrios, sulla costa caraibica. Due degli uomini uccisi sono stati decapitati e altri due bruciati, precisa l’Associated press citando una portavoce della Procura dello Stato orientale di Izabal. Le autorità hanno riferito che la rissa è scoppiata mentre i detenuti stavano bevendo alla vigilia di Capodanno. Alcuni di loro hanno dato fuoco a materassi e lenzuola, tagliando anche la corrente al penitenziario. La struttura è stata costruita per ospitare 175 detenuti ma è affollata da oltre 900 persone. I carcerati in Guatemala sono, in maggioranza, componenti di bande di strada e spesso si assiste, dietro le sbarre, alla prosecuzione delle loro lotte. Il sovraffollamento rende difficili i controlli dei detenuti che riescono a costruirsi o a procurarsi armi, anche da fuoco.