Anno Giudiziario. Il Pg della Cassazione: "no ai processi mediatici" di Francesco Grignetti La Stampa, 29 gennaio 2016 Il procuratore generale Pasquale Ciccolo: "Bisogna bilanciare la riservatezza delle indagini e diritto all’informazione". Un appello raccolto e condiviso anche da parte degli avvocati. C’è un piccolo grande problema che assilla i giuristi italiani, che siano alti magistrati o avvocati: i processi mediatici in tv. A sollevare il problema, è il procuratore generale Pasquale Ciccolo all’inaugurazione dell’Anno giudiziario in Cassazione: "I fatti di cronaca giudiziaria maggiormente capaci di colpire l’opinione pubblica non costituiscono soltanto oggetto d’informazione ma addirittura di veri e propri processi paralleli - con ricostruzione di luoghi, testimonianze, valutazioni tecniche - che si svolgono sulle varie reti televisive in concomitanza con lo svolgimento delle indagini nella sede propria ed esclusiva, quella giudiziaria. Agli effetti negativi di tali spettacolari esposizioni nell’ambito processuale sono chiari riferimenti in alcune delicate recenti vicende giudiziarie". La televisione che si sostituisce alla magistratura è un male sempre più esteso. Dilaga in tutt’Europa, non per caso se ne sono lamentati di recente in una riunione i procuratori generali dei diversi Paesi della Ue. Concludeva Ciccolo, presenti le massime cariche dello Stato a cominciare da Sergio Mattarella: "Sarebbe vivamente auspicabile raggiungere un equo contemperamento fra la libertà di espressione e di stampa da un lato, e dall’altro le altrettanto fondamentali esigenze di rispetto della vita privata, della dignità delle persone, di riservatezza delle indagini, di presunzione di innocenza, di diritto ad un giusto processo". Il punto è chiaro: la spettacolarizzazione dei processi in tv prevede regole diverse da quelle della procedura penale. E la presunzione di innocenza spesso fa a pugni con la ricerca di audience. Non è un monito nuovo, questo che giunge dalla Cassazione. Stavolta, però, sono d’accordo in tanti sul versante degli avvocati. "Non possiamo permetterci di legiferare o non, depenalizzare o non sulla spinta dell’emotività, né permettere la spettacolarizzazione del processo penale e il protagonismo autopromozionale di avvocati e magistrati", sostiene Andrea Mascherin, presidente del Consiglio nazionale forense, ossia gli ordini degli avvocati. Anche Benimino Migliucci, presidente dell’Unione camere penali, condivide: "Giusto il richiamo del ministro Orlando a rifiutare una giustizia simbolica e populista. E giusto il richiamo del Procuratore generale contro la spettacolarizzazione dei processi e le gogne mediatiche". Anno Giudiziario. No a trionfalismi, ma finalmente si torna a parlare di "qualità" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2016 "Quello che mi piace del diritto è che ogni tanto...non sempre, ma a volte..., diventa parte integrante della giustizia applicata alla vita. E quando avviene, è un’esperienza davvero eccitante". Le parole dell’avvocato Andrew Beckett (interpretato da un bravissimo Tom Hanks) nell’indimenticabile film Philadelphia (Usa, 1993), ben si prestano a descrivere il senso della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione. La "crisi" della giustizia, testimoniata dai pessimi dati sulla Cassazione, l’organo che in base alla Costituzione deve garantire l’esatta e uniforme interpretazione del diritto, rende l’esperienza del diritto che si fa giustizia del caso concreto ancora oggi un’aspirazione, più che una realtà. E tuttavia, dopo anni trascorsi quasi esclusivamente a discutere di numeri, leggi ad personam, scontri istituzionali, inerzie legislative, oggi si può cominciare almeno a ragionare di quel salto di "qualità", tanto indispensabile in uno Stato costituzionale di diritto quanto aleatorio nella nostra esperienza di giustizia. Non tutto è cambiato, ma molto è cambiato o sta cambiando: sicuramente il clima, meno infuocato, e forse anche le misure adottate e in cantiere, alcune lacunose, in qualche caso ambigue o solo annunciate, di sicuro poco appetibili mediaticamente, ma non per questo poco feconde, sia pure in tempi medio-lunghi. I dati "positivi" forniti dal ministro della Giustizia non consentono trionfalismi ma indicano una tendenza che comunque fa sperare nel futuro. Questa consapevolezza consente di ragionare di giustizia anche in termini di qualità, e di elaborare una visione, un progetto. Un’idea comune, insomma. Che è poi quella che - almeno a parole - ieri sembrava attraversare gli interventi di Canzio, Orlando, Legnini, Ciccolo, Mascherin, nell’aula magna del Palazzaccio. Comune anche nel richiamo a serrare le file, perché il futuro è adesso o, per dirla con le parole di Goethe citate da Canzio, "Finché dura il giorno vogliamo tenere alta la testa; e tutto quello che potremo produrre, noi non lo lasceremo fare a quelli che verranno". Il salto di qualità riguarda la politica giudiziaria, la legislazione, l’interpretazione della legge, l’organizzazione e gestione degli uffici, la formazione professionale dei magistrati, l’autogoverno. Non è un salto mortale o senza rete, proprio perché sembra esserci un’inversione di tendenza anche nella visione della giustizia, intesa anzitutto come terreno di garanzia - in Italia e in Europa, luogo in cui cittadini e imprese debbono trovare una risposta efficiente ed efficace, ma sempre nel rispetto dei principi dello Stato di diritto. Occorre, dunque, una legislazione penale che non sia né simbolica né populista né emergenziale né tanto meno ambigua. Occorre poi una magistratura moderna, capace di conciliare professionalità, etica, responsabilità, e che, come ha detto Orlando, "non si sottragga" ai cambiamenti della società, perché la presunta "supplenza" si verifica quando è la politica a sottrarsi a quei cambiamenti. Come spesso accade. Occorrono soluzioni che, per dirla con Mascherin, "evitino di incoraggiare un percorso di privatizzazione della giustizia o che ne selezionino l’accesso attraverso il censo". Ma occorrono anche avvocati a prova di deontologia, competenza e specializzazione professionale per "garantire alla giurisdizione un apporto tecnico corretto e di grande qualità" per trovare con la magistratura soluzioni "da mettere a disposizione del Paese". Occorre che il ministro della Giustizia garantisca la copertura del personale, di magistratura e di cancelleria, che il Csm assicuri trasparenza e rapidità nella scelta dei dirigenti, la formazione continua dei magistrati nonché riposte efficaci e tempestive ai comportanti "opachi e anomali" della magistratura, per non intaccare credibilità e fiducia giustizia, come ha rilevato Legnini. Occorre un Parlamento consapevole di quanto sia fertile il terreno della corruzione per le organizzazioni mafiose che, lo ha detto Ciccolo, "oggi più che mai sono soggetti con forte vocazione imprenditoriale e capacità di partnership economica, prima ancora di essere un fenomeno criminale". E quindi occorre prendere atto che un’efficace lotta alla corruzione passa anche per una riforma strutturale della prescrizione, sull’esempio di altri Paesi europei, senza scorciatoie demagogiche come l’aumento delle pene, storicamente inutile, come dimostra anche l’alta percentuale di furti impuniti, nonostante l’ennesimo inasprimento delle sanzioni. La strada è lunga e non in discesa. Ma la prospettiva di poter fare l’esperienza quotidiana del diritto che si fa giustizia nel caso concreto è "eccitante" e forse è più vicina di quanto sembri, se alle parole ascoltate ieri seguiranno comportamenti coerenti di chi le ha pronunciate. Anno Giudiziario. Tante ombre e poche luci sulla giustizia di Martino Villosio Il Tempo, 29 gennaio 2016 Vuoti di organico e risorse, carichi arretrati e processi infiniti Il presidente: "La Cassazione versa in stato di profonda crisi". Due relazioni in bilico: tra la volontà di dare atto al governo Renzi delle riforme fatte nei settori civile e penale, e l'apprensione cocente per problemi che restano enormi tra vuoti di organico e di risorse, carichi arretrati, processi infiniti, leggi che cambiano di continuo "spesso ispirate a logiche emergenziali". Mentre monta la rabbia dei cittadini, cresce la loro sfiducia verso i magistrati bombardati da migliaia di esposti. Si riassume così l'affresco della giustizia italiana disegnato dagli interventi più attesi per l'inaugurazione dell'anno giudiziario andata in scena ieri in Cassazione tra le pomposità, le toghe di ermellino e i velluti rossi d'ordinanza. A tracciarlo, sotto gli occhi del ministro della Giustizia Andrea Orlando, sono stati il primo presidente della Suprema Corte Giovanni Canzio e il procuratore generale Pasquale Ciccolo. Con il primo (freschissimo d'insediamento) che ha riconosciuto come nel penale "il progetto riformatore messo in campo dal Governo e dal Parlamento stia dando risultati incoraggianti negli uffici di merito" anche se "non invece nella Cassazione" definita in "profonda e visibile crisi di funzionamento e identità". Il titolo della giornata, poi, è arrivato dalla bastonata all'esecutivo per quanto riguarda il reato di immigrazione clandestina che non è stato depenalizzato malgrado a inizio gennaio fosse in agenda il decreto apposito. "La risposta sul terreno del procedimento penale si è rivelata inutile, inefficace e per alcuni profili dannosa", ha scandito il presidente della Cassazione, "mentre la sostituzione del reato con un illecito e con sanzioni di tipo amministrativo, fino al più rigoroso provvedimento di espulsione, darebbe risultati concreti". Orlando ha poi risposto che il governo si adopererà per il superamento del reato. La toga più importante del Paese ha anche chiesto di non adottare leggi speciali nella lotta al crimine organizzato e al terrorismo, compreso quello jihadista. Fenomeni da combattere "nel rispetto delle regole stabilite dalla Costituzione". E poi la prescrizione: Canzio ha chiesto il suo "depotenziamento", cioè di eliminarne gli effetti almeno nel caso in cui sopraggiunga dopo che è stata pronunciata la sentenza di primo grado. Una carezza al governo sul fronte della giustizia civile: Canzio ha ricordato come l'Italia nel rapporto 2016 "Doing Business" su tempi e costi delle controversie commerciali sia risalita di 13 posizioni. Ora, su 189 Paesi, siamo al 111° posto. Di proporzioni "strabilianti" e "mostruose", secondo il primo presidente, resta il divario quantitativo dei ricorsi trattati e decisi dalla Cassazione rispetto alle Corti Supreme di ogni altro Paese europeo. Davanti al Capo dello Stato Sergio Mattarella e al vice-presidente del CSM Giovanni Legnini, è toccato poi al procuratore generale Ciccolo ricordare al governo che "ancora oggi i cittadini non riescono ad ottenere una risposta di giustizia efficiente e rapida". E alla magistratura tutta "l'insoddisfazione dei cittadini per il servizio reso", capace di generare "crescenti diffidenze e insofferenze non solo per la lentezza dei tempi dei procedimenti, ma nei confronti delle decisioni in sé". Anno Giudiziario. Zavorra arretrato, 4,2 milioni di cause civili di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2016 Vista dagli osservatori internazionali (Rapporto 2016 Doing Business, in funzione della verifica dell’idoneità del sistema economico a favorire lo sviluppo dell’iniziativa economica privata), la giustizia italiana, pur in ripresa, è al n. 111 (su 189 Paesi) della classifica su "tempi e costi" delle controversie, ben al di sotto di Germania (12), Francia (14), Regno Unito (33), Spagna (39), Svizzera (46), Belgio (53). E tuttavia, per la qualità del servizio, in una scala da 1 a 18 il nostro Paese schizza al secondo posto con 13 punti, il più alto dopo quello del Regno Unito (16,5). Vista dai nostri uffici giudiziari, la giustizia resta zavorrata da un arretrato di 4,2 milioni di cause civili e di 3,5 processi penali; recupera terreno sui tempi del civile, che rispetto al 2012 scendono dell’1,4% in Tribunale e del 10,4% nelle Corti d’appello ma aumentano del 23% in Cassazione e del 5% davanti ai giudici di pace, mentre nel penale aumentano in tutti gli uffici giudiziari, con punte dell’11% in Cassazione e in appello; così come continuano ad aumentare le prescrizioni dei procedimenti (67.420 nel primo semestre 2015 a fronte delle 63.753 del secondo semestre 2014), soprattutto in Tribunale e in appello, rispettivamente 16.362 e 11.903 nei primi sei mesi del 2015. Sul versante dei reati che più impegnano la giustizia, il primato (anche in Cassazione) spetta a quelli contro il patrimonio, in particolare ai furti, specie in appartamento, di cui resta ignoto l’autore. "È plausibile - scrive il primo presidente Gianni Canzio - che considerato l’elevato numero di archiviazioni contro ignoti relative ai furti, un buon numero di essi non sia nemmeno denunciato dalle persone offese". Negli anni, poi, la crisi ha moltiplicato (quasi del 200%) le denunce di usura mentre è stabile il numero di omicidi volontari, tranne nel napoletano, anche se "preoccupano" gli omicidi in ambito familiare ai danni di donne e bambini nonché le violenze sessuali e lo stalking. Quanto ai reati contro la pubblica amministrazione, diminuiscono in alcuni distretti ma la corruzione, "al di là del dato statistico di tipo giudiziario, costituisce un fenomeno criminoso che coinvolge diversi settori della Pa, della politica e dell’economia", offrendo "complessivamente la visione di un desolante quadro di illegalità diffusa". A tale proposito la relazione cita il Parlamento europeo: "La corruzione - il cui costo ammonterebbe a 120 miliardi di euro annui, pari all’1% del Pil dell’Ue - (...) non è soltanto un reato contro la pubblica amministrazione ma è uno dei più gravi reati contro l’economia". Il Procuratore generale della Cassazione Pasquale Ciccolo segnala gli esposti presentati alla Procura generale della Cassazione, "nell’ordine di migliaia", dalle parti soccombenti che "sempre più spesso non sembrano disposte ad accettare le decisioni in sé o che imputano ad errori o addirittura a iniziative persecutorie dei magistrati". E anche se "la gran parte non ha nulla di rilevante sotto il profilo disciplinare o deontologico", a volte questi esposti "evidenziano condotte e prassi non rispondenti a standard adeguati di comportamento". Infine, nel 2015 sono state solo 3 le citazioni per risarcimento danni con conseguenze pre-disciplinari, sulla base della legge sulla responsabilità civile. Mentre sono state promosse, dal ministro e dal Pg, 138 azioni disciplinari, con un calo del 25% rispetto al 2014: il 17% per ritardi nel deposito di provvedimenti, il 44,7% per aver mancato di correttezza e imparzialità. Anno Giudiziario. Dalla Cassazione appello al governo "il reato di clandestinità è inutile" di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 29 gennaio 2016 Il presidente Canzio: la lotta al jihadismo nel rispetto della Costituzione. C’era pure Matteo Renzi tra gli invitati dal neo-presidente della Corte di cassazione Giovanni Canzio all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Ma il premier non è andato, evidentemente preso da altri impegni. Ci fosse stato, avrebbe ascoltato di persona l’appello del primo giudice d’Italia, appena insediato, a una più proficua collaborazione tra istituzioni; nonché l’esortazione a governo e Parlamento a legiferare senza cedere a tentazioni e "logiche emergenziali". Come nel caso dell’immigrazione clandestina, e il relativo reato introdotto nel 2009. "Non c’è dubbio che la risposta sul terreno del procedimento penale si è rivelata inutile, inefficace e per alcuni profili dannosa - ha scandito Canzio - mentre la sostituzione del reato con un illecito e sanzioni di tipo amministrativo, fino al più rigoroso provvedimento di espulsione, darebbe risultati concreti". Proprio Renzi, poche settimane fa, ha stoppato la depenalizzazione già prevista dal Parlamento, perché di questi tempi "la gente non capirebbe"; un colpo di freno determinato dal timore di una percezione negativa da parte dell’opinione pubblica dopo gli ultimi episodi di violenze in cui sono stati coinvolti gli extra-comunitari, in Italia ma soprattutto all’estero. Ora il primo presidente della Cassazione invita a superare quel timore e a riprendere in considerazione la cancellazione del reato. Ribadito anche dal presidente dell’Associazione magistrati Rodolfo Sabelli: "Quella norma è un esempio perfetto di utilizzo simbolico del diritto penale; le buone riforme richiedono informazione, serve un approccio che non continui a guardare al penale come l’unico strumento per garantire sicurezza". Anche il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Legnini, sostiene da tempo che il reato "va superato", aggiungendo però che "il come e il quando spetta a governo e Parlamento deciderlo". Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che ha subito lo stop alla depenalizzazione imposto da Renzi e dal suo collega dell’Interno Angelino Alfano, assicura che "con la delega contenuta nella riforma del penale, contrastando un uso simbolico e populistico, ci adopereremo nel quadro di una ridefinizione delle regole che disciplinano il fenomeno migratorio per il superamento del reato di immigrazione clandestina". Le difficoltà derivanti da una maggioranza che tiene insieme centrosinistra e centro-destra sono evidenti, ma quando il leader leghista Salvini invita i giudici a "lavorare di più e fare meno politica" il responsabile giustizia del Pd Ermini insorge a difesa di Canzio; con quali effetti pratici si vedrà. Il reato continua ad essere contestato dall’opposizione di sinistra, da Luigi Manconi e dal segretario di Radicali italiani Riccardo Magi, che bolla quella norma come "un feticcio ingannevole della demagogia securitaria". Ma all’inaugurazione dell’anno giudiziario non s’è parlato solo di immigrazione. Il presidente Canzio ricorda che il contrasto al crimine organizzato e al terrorismo, "anche internazionale di matrice jihadista", va condotto "nel rispetto delle regole stabilite dalla Costituzione e delle leggi dello Stato". Dopodiché sollecita "un intervento straordinario" per abbattere il debito pubblico giudiziario degli oltre 100.000 processi civili pendenti in Cassazione che non si riesce a smaltire. Riforme e autoriforme dovrebbero agevolare la magistratura a svolgere meglio il compito di applicare e interpretare norme che "chiare, precise, comprensibili e osservabili". Un tasto battuto anche dal procuratore generale della Cassazione, Pasquale Ciccolo, insieme all’allarme lanciato sul pericolo che "la spettacolarizzazione del processo" si trasformi, soprattutto attraverso le tv, in "veri e propri processi paralleli" che producono guasti anche in quelli che si celebrano nelle aule di giustizia. Anno Giudiziario. Il "sorpasso" in magistratura, ci sono più donne che uomini di Francesco Grignetti La Stampa, 29 gennaio 2016 Il procuratore generale della Cassazione: hanno raggiunto il 50,7 per cento. Il cambiamento più significativo nelle nomine agli incarichi direttivi. Il "confino". È ormai passato il tempo in cui le donne che entravano in magistratura venivano dirottate quasi sempre verso la giustizia minorile. Alla notizia non è stata data l’enfasi che meritava, eppure è possibile leggerla nella relazione del procuratore generale della Cassazione, sua eccellenza Pasquale Ciccolo: "Rispetto agli anni precedenti - scrive - nella popolazione dei magistrati in servizio si ribalta il rapporto tra uomo e donna, pur rimanendo attorno alla parità: 50,7% di donne, e 49,3% di uomini". È una piccola grande rivoluzione. Alle donne, come ricordava qualche tempo fa a un convegno la presidente dell’Associazione donne magistrato italiane, Carla Marina Lendaro, è stato aperto l’accesso in magistratura appena 50 anni fa. Perciò fecero una festa in Cassazione "per ricordare quelle prime otto temerarie - diceva Lendaro - che affrontarono, vincendolo, il duro primo concorso del 1965". Molta acqua nel frattempo è passata sotto i ponti. Da qualche anno, al concorso per magistratura le donne stracciano regolarmente gli uomini. È una donna il capo dell’ufficio degli ispettori ministeriali, Elisabetta Cesqui. Ci sono due donne nel consiglio direttivo della Scuola superiore della magistratura. Sono molte le donne ai vertici delle correnti della magistratura associata. Ed è lontano il tempo in cui le (poche) donne che entravano in magistratura finivano confinate nella riserva indiana della giustizia minorile. Delle 252 nomine fatte dal Consiglio superiore della magistratura negli ultimi 15 mesi sotto l’impulso del vicepresidente Giovanni Legnini, se si guarda agli incarichi direttivi si vede che 101 sono uomini e 25 sono donne; se si esaminano i vice direttivi, 83 sono uomini e 43 sono donne. Il cambiamento dei vertici della magistratura è in effetti una mezza rivoluzione. "Un passaggio storico e un’autentica palingenesi", lo definisce Legnini. Il cambio di rotta - più donne, più giovani, più attenzione al merito - ha del clamoroso per un mondo tradizionalista come quello delle toghe. Diceva ieri il ministro Andrea Orlando intervenendo all’inaugurazione dell’Anno giudiziario: "Si sta rompendo il tetto di cristallo che impediva alle donne l’accesso alla guida degli uffici giudiziari. Dobbiamo andare avanti su questa strada partendo dal dato che vede ormai un sostanziale equilibrio di genere nella composizione della magistratura". Evidentemente stanno meritando i loro successi, le donne in toga. C’è un’altra statistica fondamentale nella relazione del procuratore generale, in una materia che gli compete strettamente: se uomini e donne in magistratura sono in numero pressoché uguale, salta però agli occhi che i magistrati oggetto di procedimenti disciplinare sono al 69,2% uomini e 30,8% donne. A controprova di come sia aumentato il peso specifico femminile in magistratura, però, c’è anche un caso negativo. È una donna, infatti, anche la protagonista della vicenda più dolorosa che la magistratura sta vivendo: l’ex presidente delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, indagata dai colleghi di Caltanissetta per un uso spregiudicato dei beni confiscati alla mafia, sospesa dal Csm. Guarda caso, ha trascinato nello scandalo anche due prefette, amiche sue. Uno scandalo, quello di Palermo, tutto in rosa. La giustizia non insegua il consenso, stesse garanzie con processi più brevi di Paola Severino (già Ministro Guardasigilli) Il Messaggero, 29 gennaio 2016 Si respirava un’aria bella e costruttiva ieri, in Cassazione, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Abituati come eravamo a relazioni che a volte si risolvevano in un "cahier de doléances" sugli annosi problemi della Giustizia, ascoltare anche e soprattutto apprezzamenti per le riforme attuate e stimoli a quelle ancora da realizzare, ha segnato un cambio di registro che si auspica possa proseguire nel futuro. La densa e contemporaneamente sintetica relazione del Primo Presidente della Corte di Cassazione, fresco di nomina, si è aperta con un richiamo alla conoscenza e all’etica del limite, quali caratteristiche del giudice, che deve raccordare "potere, dovere e responsabilità, sì da scongiurare il rischio che la supplenza della magistratura, all’incrocio tra politica, economia e diritto, sposti il fondamento della legittimazione sul terreno delle pratiche del consenso popolare". Ho voluto trascrivere testualmente il passaggio perché sarebbe difficile sintetizzare con maggiore efficacia concetti così delicati e difficili da coniugare senza il rischio di squilibrare i piatti della bilancia. Ne discende che un corretto confronto fra la dimensione giurisprudenziale del diritto vivente e il principio di legalità formale deve risolversi nel rispetto delle garanzie di prevedibilità, stabilità e uniformità della decisione. Garanzie che non solo tutti i cittadini invocano, ma di cui l’economia ha un profondo bisogno. Le imprese, nella selva normativa che ne disciplina la vita, richiedono una legislazione chiara e una giurisprudenza che trovi nella specializzazione la chiave della "predictability" delle decisioni. Solo così giustizia ed economia non rappresenteranno più due termini in contrapposizione, ma due elementi consonanti per la crescita del Paese. Certo, rimane il tema della durata dei processi civili e penali. Ma anche qui, sia il Presidente ed il Procuratore Generale, sia il Ministro della Giustizia non hanno mancato di far sentire una voce di speranza ed una prospettiva di miglioramento attuale e futura, tratteggiando efficacemente i temi della deflazione della domanda di giustizia e dell’attenzione alla qualità della risposta che ad essa si può dare. In particolare, il fil rouge che ha legato le riforme su questo tema nei Governi che da ultimi si sono succeduti con criteri di assoluta omogeneità è stato ampiamente evocato e rappresentato come chiave di un successo che solo cambiamenti strutturali che si susseguano nel tempo e con connotazioni uniformi possono dare. Il richiamo agli istituti già varati con successo del filtro in appello, del processo telematico, dal ricorso a sezioni specializzate, si è accompagnato alla illustrazione di altri interventi, futuri ed auspicati, di auto-organizzazione della Corte, di modelli legali di motivazione sintetica, di limitazione del ricorso alla sola violazione di legge in caso di "doppia conforme" assolutoria. Si tratta di alcuni soltanto dei suggerimenti proposti dal Presidente Canzio e ripresi dal Ministro Orlando. Sarebbe qui impossibile elencarli tutti, ma è invece opportuno sottolineare come essi siano accomunati da una fondamentale caratteristica: riuscire a mantenere un alto livello di garanzie, pur accelerando e semplificando alcuni procedimenti. Proprio l’attenzione ad entrambi gli aspetti ha portato i rappresentanti dell’Avvocatura pubblica e privata, nelle loro relazioni, a conclusioni totalmente convergenti (fatto anche questo da segnalare come prezioso e non frequente) sul presente e sul futuro della Giustizia in Italia. Conclusioni sintetizzate con rara efficacia nella relazione del Primo Presidente: "Il Paese ha sete di giustizia, legalità, efficienza ed efficacia della giurisdizione. Chiede che la legge venga applicata in modo uniforme e rapido e che tutti abbiano un uguale trattamento in casi simili". Una conclusione questa cui non solo i giuristi, ma anche tutti i cittadini di buona volontà, credo vorrebbero associarsi. La credibilità dei magistrati di Beniamino Migliucci (Presidente dell’Unione Camere Penali) Il Tempo, 29 gennaio 2016 Ha molte cause l’irreversibile crisi di credibilità della magistratura, sottolineata in apertura d’anno giudiziario. La ricetta per riconquistare la fiducia degli italiani passa attraverso una presa di coscienza dei magistrati: devono innanzitutto accettare l’idea che l’autonomia e l’indipendenza non rappresentano un privilegio caduto dall’alto ma sono il frutto di un comportamento responsabile e deontologicamente impeccabile. Il magistrato non deve ricercare il consenso, a quello ci pensa il politico. Le commistioni delegittimano l’autorevolezza della categoria al pari dell’arroccamento contro qualsiasi tentativo di rinnovare il sistema disciplinare. Perdonate il gioco di parole, ma è stato irresponsabile sostenere che la riforma sulla responsabilità civile, (che di fatto resta sempre indiretta) non si sarebbe dovuta fare. I giornalisti, i medici, i cittadini qualunque sono responsabili. Perché le toghe no? Il procuratore generale ha poi parlato di spettacolarizzazione dei processi legata alla commistione - questa volta evidente - tra magistrati e giornalisti. Quindi ha ribadito che i mali incurabili della giustizia restano i soliti, dalla lunghezza dei processi alla difformità di giudizio nei tre gradi processuali. Sull’irragionevole durata dei procedimenti l’opinione pubblica sa bene che la colpa non è scaricabile sull’eccesso di garantismo ma è delle lungaggini nelle indagini e dei troppi processi inutili istruiti. Il tema della lentezza non si può affrontare neppure dilazionando i tempi di prescrizione, perché il risultato sarà scontato: i tempi dei processi si allungheranno ancor di più. Ecco perché si deve contrarre il tempo delle indagini e dare centralità al dibattimento. Inoltre è indispensabile che ci sia un’interpretazione conforme delle leggi, poiché la certezza del diritto passa per il fatto che il cittadino sappia quale condotta è lecita e quale non lo è. Spesso in base alla medesima condotta si viene assolti o condannati, e questo non è accettabile. Il 40 per cento delle sentenze di primo grado viene riformato in sede di appello, che qualche illuminato voleva abolire. Se dopo due sentenze di merito con assoluzione si fa ricorso in Cassazione e, poi, quest’ultima condanna, dov’è finito il principio del ragionevole dubbio? Un altro provvedimento per recuperare credibilità è la riforma del Csm, che non è un "organo di autogoverno", come dicono i magistrati, ma di governo autonomo. Poi c’è il problema delle correnti delle varie anime della magistratura, che ormai hanno perso la funzione originaria. Hanno non di rado effetti negativi perché incidono sulle carriere dei magistrati, i quali spesso si rinchiudono in se stessi quand’invece dovrebbero accettare il dialogo con le altre anime di una giustizia da riformare. La ciliegina sulla torta per ridare definitivamente credibilità e autorevolezza alla categoria, sarebbe quella di promuovere, una volta per tutte, la separazione delle carriere. Anche se la politica ha lasciato e lascia troppe deleghe alle toghe, restituirebbe loro un’immagine ormai perduta di terzietà e imparzialità. Quei cavilli giudiziari che tengono ancora in vita gli Opg di David Allegranti Il Foglio, 29 gennaio 2016 Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, giudicati in violazione del principio costituzionale sull’inviolabilità della libertà personale, restano attivi in Toscana. Ma i governatori hanno impugnato le ordinanze che ne impongono la chiusura congelando tutto. Sono passati dieci mesi dalla data ufficiale di chiusura (31 marzo 2015), ma quattro ospedali psichiatrici giudiziari, Opg, restano ancora aperti. Nel 2011, l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano disse che erano un "estremo orrore" residuo, "inconcepibile in qualsiasi paese, appena appena civile". Sono strutture fatiscenti, come emerso nella passata legislatura anche dalla Commissione d’inchiesta sul Sistema sanitario nazionale, già sottoposte a sequestri per deficienze strutturali igienico-sanitarie e clinico-assistenziali. I sequestri sono avvenuti in passato a Montelupo Fiorentino (Firenze) e Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), due dei quattro Opg ancora aperti. Gli altri due sono a Castiglione delle Stiviere (Mantova) e Reggio Emilia, mentre a fine anno è stato chiuso, in ritardo di nove mesi, quello di Secondigliano, a Napoli. In sostituzione degli Opg sono nate le Residenze per l’esecuzione delle Misure di sicurezza (Rems), strutture sanitarie con pochi posti letto (al massimo 20), senza sbarre e senza agenti di polizia, diffuse capillarmente sul territorio. Il problema è che le Rems non lavorano a pieno regime, perché ci sono Regioni nelle quali, appunto, gli Opg sono ancora in funzione, come in Toscana. Nell’istituto di Montelupo ci sono ancora 53 persone, di cui 42 internati e 10 detenuti; nel 2012, secondo un rapporto dell’associazione Antigone, erano 111. Lunedì 26 gennaio il garante dei detenuti della Toscana Franco Corleone ha visitato l’istituto. Corleone ha evidenziato la necessità che Montelupo chiuda al più presto "per evitare il rischio - ha detto - del commissariamento della Regione. È ancora aperto in modo illegittimo. Al 1° aprile 2016 (giorno in cui nel 2015 è entrata in vigore la legge 81 che ne stabilisce la chiusura) si registra un anno di ritardo nella chiusura dell’Opg". C’è poi un’altra questione: che cosa farne di queste strutture, una volta chiuse? L’Opg di Montelupo, ha spiegato Corleone, "potrebbe ospitare una sezione di custodia attenuata dove far lavorare 153 detenuti al restauro della villa medicea in attesa di una nuova destinazione. La villa potrebbe diventare un museo, un centro studi o congressi". L’associazione fiorentina "L’altro diritto", guidata dal giurista Emilio Santoro, ha presentato tre ricorsi in tre Regioni (Toscana, Emilia-Romagna, Sicilia), lamentando la violazione dell’articolo 13 della Costituzione sull’inviolabilità della libertà personale: "Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge". Il punto è che la legge non prevede più gli Opg e tre ordinanze di tre diversi magistrati di sorveglianza hanno accolto i ricorsi, dando tre mesi di tempo alla Regione Toscana (che scadono l’11 febbraio) e 15 giorni alle altre due Regioni per mettersi in regola. I governatori hanno impugnato le ordinanze e così le hanno bloccate finché non ci sarà il giudizio definitivo della Cassazione. Il risultato, spiega al Foglio Sofia Ciuffoletti, ricercatrice e giurista de L’altro diritto, è che "abbiamo davanti ancora un anno e mezzo di giudizio prima che l'ordinanza diventi definitiva e si possa procedere con giudizio di ottemperanza. La base del nostro sistema giuridico e della nostra civiltà giuridica occidentale è la libertà personale. In un altro sistema, come quello inglese basato sul Common Law, non sarebbe pensabile di rimanere bloccati per mesi, in aperta violazione, come afferma Santoro, del cardine della nostra civiltà giuridica occidentale. Corte Europea dei Diritti Umani. Meno condanne all’Italia, ma resta quarta per ricorsi di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2016 Diminuiscono le condanne dell’Italia a Strasburgo. Il 2015 è stato un anno in parte positivo, guardando i numeri, con una diminuzione delle sentenze targate Italia, che da 44 del 2014 diventano 24 (20 le condanne). Crollo anche dei ricorsi dichiarati irricevibili che da 9.625 nel 2014 arrivano a 4.438 nel 2015, segno della migliore conoscenza italiana dei meccanismi della Corte europea. È quanto risulta dalla relazione annuale relativa all’anno 2015 presentata ieri a Strasburgo dal Presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo, Guido Raimondi. In via generale, per Strasburgo, il 2015 sarà ricordato come un anno con il segno più, vista la diminuzione continua dell’arretrato che passa da 69.900 ricorsi pendenti a 64.850 (-7%), con un numero di procedimenti chiusi che supera l’entrata di nuovi casi. L’Italia resta però quarta assoluta con 7.567 ricorsi pari, in percentuale, all’11,69% del totale. Ed è l’unico Paese Ue tra i primi quattro, preceduta dall’Ucraina (13.832), dalla Russia (9.207) e dalla Turchia (8.446). Il podio per il numero di condanne è conquistato dalla Russia (109 su 116 sentenze), seguita dalla Turchia (79 su 87). Dal 1959 al 2015 la Turchia risulta in vetta con 2.812 condanne, seguita dall’Italia a quota 1.780 e dalla Russia (1.612). La Corte ha migliorato gli standard di efficienza: nel 2015 i ricorsi comunicati agli Stati sono stati 15.965 a fronte dei 7.895 nel 2014 (+102%). Le sentenze sono state 823 in diminuzione dell’8% rispetto all’anno passato (891). Un dato che va letto nel complesso perché molte cause sono state riunite: il numero effettivo è, quindi, di 2.441 contro le 2.388 del 2014. Sotto il profilo della qualità, la Corte ha messo in primo piano le questioni più importanti che al 31 dicembre 2015 erano 11.490. Il numero di ricorsi prioritari è aumentato del 10% e quelli dichiarati irricevibili sono scesi del 35%. Resta il problema dei ricorsi seriali che ammontano a 30.500. Sul punto, indispensabile il contributo degli Stati che devono rispettare la Convenzione e applicarla correttamente sul piano interno tenendo conto della giurisprudenza della Corte. Strasburgo - ha detto il Presidente Guido Raimondi - dispone degli strumenti tecnici necessari per arrivare a una diminuzione degli affari seriali, ma questo dipende "anche dalla capacità degli Stati convenuti nel trattare questi casi". Per quanto riguarda il contenuto delle sentenze e delle violazioni accertate, nel complesso, nel 2015, sempre in primo piano la violazione dell’equo processo (24.18%). Allarmante che ben il 23% dei casi abbia riguardato la violazione dell’articolo 3 che vieta la tortura e i trattamenti disumani e degradanti. Segue la violazione del diritto alla libertà personale (15,63%). Arriva anche a Strasburgo il dramma dei migranti con 24 domande di misure provvisorie di profughi che hanno chiesto di non essere riportati in Ungheria. Tra i casi più significativi con al centro l’Italia, la sentenza Cestaro del 7 aprile 2015, sui fatti del G8 di Genova, in cui la Corte ha evidenziato la violazione del divieto di tortura da parte dell’Italia per gli attacchi ad alcuni manifestanti e ha chiesto all’Italia l’adozione di una legge che punisca in modo effettivo i reati di tortura. L’inerzia del legislatore italiano è stata colpita anche sui diritti delle coppie dello stesso sesso - di qui l’attuale scontro al calor bianco in Parlamento -, con una condanna pronunciata il 21 luglio 2015 nel caso Oliari e altri contro Italia. Per la Corte europea, la mancata adozione di una regolamentazione sulle unioni civili per il riconoscimento legale delle coppie dello stesso sesso è una violazione dell’articolo 8 che assicura il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Anche in questo caso, la Corte ha chiamato in causa il legislatore chiedendo di adottare una normativa conforme alla Convenzione e questo anche per evitare inevitabili ricorsi seriali a Strasburgo. Intercettazioni: per l’allargamento no al solo nesso investigativo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2016 Corte di cassazione, Terza sezione penale, sentenza 21 gennaio 2016 n. 2608. Un freno a interpretazioni troppo disinvolte sull’utilizzo delle intercettazioni. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 2608 della Terza sezione penale chiarisce che, anche volendo aderire a un criterio di valutazione sostanzialistico della nozione di "diverso procedimento" (recentemente puntualizzato dalle Sezioni unite), non è possibile aggirare le regole del Codice di procedura per valorizzare spunti investigativi anche significativi. La Cassazione ha così respinto il ricorso presentato dalla Procura di Catania contro la decisione del tribunale del riesame che aveva respinto la richiesta di applicazione della custodia cautelare nei confronti dell’ex presidente del Catania Calcio Antonino Pulvirenti e altri indagati per frode sportiva. Il tribunale del riesame aveva giudicato inutilizzabili le intercettazioni, negando qualsiasi collegamento tra il procedimento che vedeva Pulvirenti come persona offesa dei reati di minacce e tentata estorsione e quello che lo vedeva, insieme ad altri, come coautore della frode sportiva. Per la procura la frode era stata commessa per migliorare la posizione della squadra in classifica, risolvendo il problema delle minacce ricevute. Per la tentata estorsione erano state autorizzate le intercettazioni, i cui contenuti però erano stati utilizzati per chiedere la detenzione per frode sportiva. La Cassazione però ricorda come con questa impostazione viene considerato unitario il procedimento "sulla base di un’intuizione investigativa magari ex post verosimile ma probatoriamente inconsistente". I giudici sottolineano come, se la formale unità dei procedimenti sotto un unico numero di registro generale, non può essere utilizzata come schermo per l’impiego indiscriminato delle intercettazioni, facendo convivere procedimenti privi di collegamento reale, allo stesso modo, la separazione formale può comunque permettere che tra gli stessi esista un collegamento sostanziale, tale da escludere la diversità che impedisce l’utilizzo allargato. A fare da guida è il Codice di procedura penale che identifica il collegamento oggettivo nelle fattispecie disciplinate dagli articoli 12 lettere a) e b) (per esempio, reato provocato da più persone con condotte indipendenti), il nesso finalistico nelle fattispecie previste dall’articolo 12 lettera c) e 371 comma 2, lettera b) seconda parte e lettera c) (per esempio, reati commessi per favorirne o nasconderne altri). Nel caso esaminato, invece, il pubblico ministero on aveva indicato elementi che agganciassero il reato di frode sportiva a quello di tentata estorsione. A questo riguardo non basta il riferimento al "nesso investigativo unitario" e neppure l’emersione dei fatti di frode in occasione delle indagini contro ignoti per tentata estorsione. Gratuito patrocinio, Ministero parte necessaria nel giudizio sul compenso di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2016 Corte di cassazione - Sezione I civile - Sentenza 28 gennaio 2016 n. 1617. Tutto da rifare se l'erario non viene coinvolto nel giudizio che investe il compenso per il gratuito patrocinio. La Corte di cassazione, con la sentenza 28 gennaio 2016 n. 1617, ha infatti dichiarato, in un causa per gli "alimenti", la nullità dell'ordinanza emessa dal tribunale di Udine che aveva rigettato l'opposizione di un legale al decreto con cui il medesimo tribunale, dopo averne revocato l'ammissione all'istituto per manifesta infondatezza della pretesa, conseguentemente aveva rigettato la domanda di liquidazione del compenso. Come chiarito dalla Sezioni unite, il procedimento di opposizione a liquidazione delle spese in materia di giustizia (Dpr 115/2002, articolo 170) anche se riferito a liquidazioni inerenti ad attività espletate nel penale, "presenta carattere di autonomo giudizio avente ad oggetto una controversia di natura civile incidente su situazione soggettiva dotata della consistenza di diritto soggettivo patrimoniale". E, parte necessaria di tali procedimenti "deve considerarsi anche l'erario, da identificarsi nel ministero della la Giustizia in quanto titolare del rapporto di debito". La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha chiarito che i compensi dei difensori e dei soggetti patrocinanti a spese dello Stato "non gravano necessariamente sulle parti del giudizio presupposto, ma tendono ad incidere sullo Stato, genericamente qualificato "erario" dal Dpr n. 115 del 2002, che può non essere parte del giudizio presupposto" ma riveste, comunque,"ruolo di parte necessaria nel procedimento di opposizione alla liquidazione degli onorari, in quanto titolare del rapporto di debito". Nella specie, pertanto, il diniego del tribunale è stato emesso in assenza di contraddittorio con una delle parti necessarie - il Ministero della Giustizia, per cui va dichiarata la nullità del giudizio di merito. E il tribunale di Udine dovrà nuovamente giudicare, in sede di rinvio, previa però notifica dell'atto di opposizione al ministero della Giustizia. Liberiamo il Csm dai patronati togati di Claudio Martelli (già Ministro Guardasigilli) Panorama, 29 gennaio 2016 Il ministro Andrea Orlando ha tentato una riforma. Ma è già finita in un flop: anche per colpa della composizione delle due commissioni di studio, zeppe di magistrati. La vera soluzione? Fare un Consiglio basandosi sul sorteggio. I laudatori della Costituzione più bella del mondo non se ne erano accorti, ma il Consiglio superiore della magistratura è diventato il terminale dell'Associazione nazionale magistrati e cioè delle correnti (organizzate, politicizzate, clientelari) intente a spartirsi nomine, promozioni e persino le sanzioni disciplinari. Roba da far invidia a un suk arabo, per non dire delle lottizzazioni del manuale Cencelli. Non si tratta di un'influenza stagionale, ma del cronicizzarsi di un male antico: basti pensare a quali umiliazioni il Csm degli anni Ottanta inflisse a Giovanni Falcone. Da tempo poi, con buona pace della separazione dei poteri, le correnti hanno stonato la funzione costituzionale del Csm a quella di un sindacato politico e corporativo, in perenne attrito con governi e Parlamenti. Conscio del problema, il ministro Andrea Orlando aveva annunciato una riforma, ma contro ogni logica l'affidò a due commissioni. (Curioso: vent'anni fa, quand'ero ministro, le direzioni generali del ministero erano cinque; nel 2000 erano già raddoppiate e ora sono 40, quando l'intera Commissione europea ne conta solo 26). Com'era prevedibile, dopo qualche mese il lavoro si è arenato, smarrita ogni ispirazione tra contrasti insormontabili. Il difetto era nel manico cioè nella composizione delle due commissioni: su un totale di 32 membri, ben 27 erano magistrati e di questi 14 ex componenti del Csm; solo tre i professori e due gli avvocati. Per non dire del presidente di entrambe le commissioni: Vincenzo Scotti, anche lui ex magistrato, anche lui ex membro del Csm e da decenni dirigente del ministero e già ministro lui stesso. Alla faccia della rottamazione renziana! Il fiasco finale, più solenne degli annunci iniziali, è stato causato da diatribe paralizzanti su quale scrutinio adottare per l'elezione dei consiglieri: proporzionale o maggioritario? Collegi nazionali esposti all'organizzazione del voto da parte delle correnti o piccoli collegi esposti al clientelismo personale? Ora il pallino torna al titolare della giustizia, Orlando, che ha l'occasione di smentire la fama di ministro succubo dell'Anm e di fare una riforma limpida che liberi il Csm dal "cancro delle correnti" (Raffaele Cantone dixit). Solo una riforma che persegua con chiarezza cristallina il fine di dissequestrare il Consiglio dal dominio delle fazioni ideologiche e clientelari può restituirlo agli scopi per cui la Costituzione lo creò. Come avevano capito gli antichi, quando demagogia e indicibili accordi corrompono la vita democratica meglio affidarsi alla sorte cioè al sorteggio che allora apparve come l'unica soluzione limpida e radicale. Non a caso sul sorteggio concordano i magistrati più saggi e persino i giornali che pur da fronti opposti come Panorama, il Foglio e il Fatto quotidiano da anni conducono sui problemi della giustizia battaglie appassionate. Umbria: Radicali; lunedì incontro pubblico con i candidati a Garante dei detenuti radicali.it, 29 gennaio 2016 Radicali Perugia promuove un’assemblea pubblica con i candidati a Garante dei Detenuti della Regione Umbria lunedì 15 febbraio. L'Associazione "Radicaliperugia.org - Giovanni Nuvoli" per molti anni è stata impegnata per l’applicazione delle leggi regionali istitutive del Garante dei Detenuti. Per noi l’attuazione degli strumenti normativi previsti da queste leggi è stata innanzitutto una battaglia di civiltà giuridica per l’affermazione dello stato di Diritto che assicura la salvaguardia ed il rispetto dei diritti e delle libertà dell’Uomo. È anche una battaglia politica per il rispetto della stessa dignità dell’Assemblea legislativa che troppo spesso emana leggi che rimangono inattuate o vengono mal applicate. Per questo troviamo particolarmente grave che sia passato troppo tempo dalla scadenza del passato mandato alla elezione di un nuovo Garante. Questo sta creando un vuoto di attività nel sostegno e nel controllo delle attività negli istituti di pena. In passato avevamo cercato di supplire alla mancata attuazione delle leggi con una serie di iniziative pubbliche tra cui quella di un incontro pubblico con i candidati. Pensiamo che anche questa volta possa essere utile e necessaria un’assemblea di confronto pubblico con i candidati a Garante dei Detenuti della Regione Umbria a cui saranno invitati tutti i Consiglieri regionali. L’Assemblea si terrà lunedì 15 febbraio 2016 a partire dalle ore 16,00 presso la sala della Partecipazione dell’Assemblea legislativa della Regione dell’Umbria in piazza Italia. Milano: la direttrice di S. Vittore Gloria Manzelli "mancano strutture per il dopo-carcere" di Nicola Mente effemeride.it, 29 gennaio 2016 "Insisto sul fatto che vengano adibite strutture per persone scarcerate e con disabilità, sia di natura fisica che di natura psichica, condizioni che sempre più spesso affliggono i nostri detenuti data la loro situazione di fragilità estrema". Queste le parole di Gloria Manzelli, direttore del carcere di San Vittore, intervenuta a margine dell’udienza organizzata dalla sottocommissione Carceri del Comune di Milano sull’iniziativa del kit di accoglienza per detenuti. "Per cui chiediamo strutture sia sanitarie che materiali-aggiunge Manzelli- che siano in condizioni sane da poter assistere le persone con problemi, anche perché- conclude- attualmente in casi simili noi non sappiamo a chi rivolgerci in quanto non esiste alcuna struttura sul territorio che possa farsene carico nell’immediato, per poi reperirne una più specializzata". Firenze: "un carcere attenuato nell’Opg" l’idea del Garante dei detenuti Franco Corleone Il Tirreno, 29 gennaio 2016 Sono ancora 53 gli ospiti dell'ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo. Tra gli internati 23 sono i toscani dei quali la Regione, al momento della chiusura definitiva della struttura, dovrà farsi carico e ricollocare nella Rems (residenza sanitaria per l'esecuzione della misura di sicurezza) o nelle strutture intermedie secondo la valutazione della magistratura di sorveglianza. Il garante dei detenuti Franco Corleone ha visitato la sala colloqui con giardino esterno, l'officina con gli attrezzi, gli spazi per le attività ricreative e di socializzazione, le celle ampie, alcune appena imbiancate e tutte con i servizi. La direttrice Antonella Tuoni ha lamentato che "per il trasferimento degli internati alla Rems di Volterra, invece di prendere in considerazione le motivazioni psicopatologiche, si è partiti da chi aveva fatto ricorso". "Adesso - ha detto Tuoni - è in programma a breve il trasferimento di quattro internati toscani a Volterra". Corleone ha evidenziato la necessità che Montelupo chiuda al più presto "per evitare il rischio - ha detto - del commissariamento della Regione. È ancora aperto in modo illegittimo. Al primo aprile 2016 (giorno in cui nel 2015 è entrata in vigore la legge 81 che ne stabilisce la chiusura) si registra un anno di ritardo nella chiusura dell'Opg". Dall'incontro sono emerse diverse idee sul futuro dell'Opg: "Potrebbe ospitare - ha aggiunto Corleone - una sezione di custodia attenuata dove far lavorare 153 detenuti al restauro della villa medicea in attesa di una nuova destinazione". Trieste: rissa al carcere del Coroneo, detenuto finisce all’ospedale Il Piccolo, 29 gennaio 2016 Una decina i carcerati coinvolti. Volano sgabelli, agenti costretti a usare gli idranti. L’allarme del Sappe. Maxi rissa in carcere tra detenuti di origine rumena e magrebina. Ferito in maniera grave un detenuto al quale con un calcio è stata spaccata la milza. È stato trasportato d’urgenza all’ospedale di Cattinara. È successo l’altro pomeriggio nel terzo tratto del secondo piano. E non è stato semplice per gli agenti della polizia penitenziaria riportare l’ordine. Tutto è iniziato con uno screzio, forse una battuta, non gradita sicuramente. Ma in un clima particolarmente teso è stata come una miccia. Così dalle parole i protagonisti di quella che poi è diventata una rissa da far west sono passati alle botte. È stato un fuggi fuggi generale con il lancio di oggetti come sgabelli, mazze di scopa, caffettiere, bombolette da fornello. Nella rissa è stata coinvolta una decina di reclusi sui 40 che sono ristretti in quell’ala. Tutto questo mentre per riportare l’ordine sono stati usati gli idranti dagli agenti. Il detenuto ferito è stato trasportato da un’ambulanza del 118 al Pronto soccorso. Attualmente nel carcere vivono 195 detenuti (comprese 19 donne). La capienza complessiva è di 139 posti letto. Sono 110 gli stranieri presenti. Non nasconde le sue preoccupazioni per l’accaduto Giovanni Altomare, segretario regionale sindacato Sappe, che ha reso noto l’accaduto: "Solamente grazie al pronto intervento dei colleghi è stato interrotto il lancio di oggetti con l’ausilio dell'idrante, per poi consentire loro di rinchiudere immediatamente i detenuti nelle rispettive celle per ripristinare l’ordine". Continua: "I baschi azzurri della Penitenziaria sono stati bravi a evitare gravi conseguenze. A loro va l’apprezzamento e la solidarietà del sindacato Sappe". Aggiunge Donato Capece, segretario generale dello stesso sindacato: "Le carceri sono più sicure assumendo gli agenti di polizia penitenziaria che mancano, finanziando gli interventi per far funzionare i sistemi anti-scavalcamento, potenziando i livelli di sicurezza, espellendo i detenuti stranieri. Altro che la vigilanza dinamica, che vorrebbe meno ore i detenuti in cella senza però fare alcunché. Al superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e alla maggiore apertura per i detenuti deve associarsi la necessità che questi svolgano attività lavorativa e che il personale di Penitenziaria sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico". Poi chiude: "Le idee e i progetti dell’amministrazione penitenziaria, in questa direzione, si confermano ogni giorno di più fallimentari e sbagliati così come ribadiamo che per il Sappe è fondamentale espellere i detenuti stranieri facendo scontare loro la pena nelle prigioni dei paesi di origine". Cremona: detenuto psichiatrico in attesa di essere assegnato alla Rems incendia la cella di Antonio Acerbis lanotiziagiornale.it, 29 gennaio 2016 Si pensava potessero risolvere il problema e invece il passaggio dagli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) alla Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive in sede sanitaria) ha complicato il quadro. Semplicemente perché tale passaggio, di fatto, non è avvenuto. O, meglio, non è avvenuto dappertutto. E allora ecco che le Rems bloccate (perché ancora non aperte o perché già sature) creano problemi di violenza all’interno delle carceri. Due sere fa, non a caso, un detenuto nordafricano, in attesa di giudizio, ha dato fuoco ad alcuni oggetti nella sua cella nel carcere di Cremona, creando un fumo intenso che ha richiesto lo sgombero della sezione da parte degli altri detenuti. Due agenti sono rimasti intossicati mentre spegnevano le fiamme: andati in ospedale, sono stati poi dimessi. Il detenuto è in attesa di essere assegnato alla Rems, ma nel frattempo si trovava in una casa circondariale. Da troppo tempo. Il rischio, insomma, è che il sistema resti congestionato. Esattamente come prima. Ma non è questo l’unico caso. In Calabria, infatti, la Rems prevista a Girifalco ancora non ha aperto, nonostante sia passato oltre un anno dalle scadenze della legge. E così, visti i colossali ritardi, alcuni Opg ancora sono aperti. A cominciare dalla struttura di Montelupo: qui sono ancora 53 i detenuti, come denunciato ieri dal garante dei detenuti della Toscana. Milano: tangenti in Commissione tributaria, arrestati due giudici di Sandro De Riccardis ed Emilio Randacio La Repubblica, 29 gennaio 2016 Il primo è anche un docente universitario, era finito in manette a dicembre. Sono accusati di aver preso denaro per chiudere il contenzioso di una società. Dopo il blitz del 18 dicembre scorso, in cui era finito in carcere il giudice tributario e docente universitario Luigi Vassallo, sorpreso con una tangente di cinquemila euro appena intascata, gli uomini del nucleo di polizia tributaria della guardia di finanza hanno eseguito un'ordinanza firmata dal gip Manuela Cannavale. I provvedimenti riguardano nuovi episodi di corruzione giudiziaria che coinvolgono lo stesso Vassallo - attualmente detenuto ad Opera - e un altro giudice tributarista, Marina Seregni. Le indagini, coordinate dai pm Laura Pedio ed Eugenio Fusco, hanno fatto emergere un nuovo episodio corruttivo, che coinvolge la società SWE-CO Sistemi, specializzata in telefonia. Per chiudere il contenzioso tributario il titolare, Ballarin, indagato a piede libero, avrebbe versato 65mila euro di tangenti a Vassallo, in minima parte (5mila euro) girati al giudice Seregni. Secondo le indagini, la sentenza emessa l'11 gennaio scorso, con Vassallo già in carcere, sarebbe stata scritta dallo stesso docente universitario e trascritta integralmente dal giudice Seregni. Tra gli elementi di prova raccolti, la minuta relativa al verdetto su SWE-CO, rinvenuta il 18 dicembre scorso nello studio di Vassallo. Milano: l’associazione "Artisti Dentro", presidente scrittrice Sibyl von der Schulenburg agenziafuoritutto.com, 29 gennaio 2016 Presentata nei giorni scorsi l’associazione Artisti Dentro Onlus, ideata e presieduta dalla scrittrice Sibyl von der Schulenburg con l’obiettivo di realizzare progetti culturali all’interno delle carceri a favore dei detenuti per causa di giustizia. "Ogni detenuto è anzitutto un essere umano, - dice Sibyl von der Schulenburg - un cuore pulsante e un cervello pensante. Prima dell’arresto aveva un’identità che, durante il trauma di processo e detenzione, ha subito graduali modifiche. Ciò che resta dopo anni dietro le sbarre è spesso una persona con identità, individuale e sociale, ridotte al puro livello di sopravvivenza. La sua mente si accartoccia sui dettagli quotidiani, s’aggrappa al minuscolo per non cedere alla follia, e perde la capacità di concepire lo spazio aperto". Così, dopo l’edizione pilota del Premio Letterario "Scrittori Dentro", nel 2015 è nata Artisti Dentro Onlus, con l’obiettivo di portare in carcere arte e cultura come mezzi di svago e crescita per degli esseri umani condannati a vivere in spazi ristretti e in carenza di stimoli. L’associazione si adopera per promuovere attività di vario genere che possano raggiungere l’obiettivo, nel rispetto dei diritti dell’uomo, a prescindere dai motivi che l’hanno portato alla condizione di detenzione. In particolare, i progetti attivati sono rappresentati da concorsi che non richiedono contatti vis-à-vis con i detenuti, ma si svolgono solo per posta. Nel 2014 è stato attivato il progetto Scrittori Dentro, nel 2015 Cuochi Dentro e nel 2016 il progetto Pittori Dentro. Scrittori Dentro è un premio letterario nato per aiutare i detenuti a dispiegare la mente, attingere alla memoria e riapprendere a organizzare il pensiero in ambito spazio-temporale, per trovare il modo di vivere, qui-e-ora, un’esistenza cosciente e dignitosa. La giuria del premio, che gode del patrocinio della Repubblica di San Marino e di Milano Città Metropolitana, è composta da scrittori professionisti ed è presieduta da Lella Costa. Cuochi Dentro è il premio culinario nato nella convinzione che il cibo unisca gli uomini a prescindere dai linguaggi e dalle culture. Dato che nelle celle italiane si cucina, l’intento dell’associazione è di stimolare l’arte culinaria già diffusa dietro le sbarre e dare anche a chi non sa scrivere la possibilità di partecipare a un concorso. Si presume che nel peggiore dei casi, anche un non italofono riesca a trovare qualcuno che gli scriva una ricetta. Alla sua seconda edizione, il premio conta in giuria personaggi come Claudio Sadler e Viviana Varese (presidente). Il premio gode del patrocinio della repubblica di San Marino. Pittori Dentro è l’ultimo progetto ideato dall’associazione per stimolare la creatività dei detenuti. Il concorso si rivolge a persone che presumibilmente hanno poco spazio e materiale a disposizione ma vogliano cimentarsi nell’arte visiva in senso lato, includendo il disegno, la pittura e il collage, qualsiasi cosa si possa creare su una superficie in carta di cm 10 x 15. Si tratta di mail art, un’opera che dovrà viaggiare attraverso le sbarre, superare i pericoli e le avversità della società esterna, il tempo meteorologico e anche la casualità. L’oggetto che alla fine arriverà nelle mani dei giurati sarà la vera opera d’arte che rappresenterà la voce "dentro", quella che non riesce in genere a penetrare la società esterna. A presiedere la giuria 2016 sarà Maria Fratelli, Dirigente del Servizio Case Museo e Progetti Speciali del Comune di Milano. Cagliari: "Pensieri e parole oltre il carcere", incontro con lo scrittore Bruno Acquas "Pensieri e parole oltre il carcere" castedduonline.it, 29 gennaio 2016 Sabato 30 gennaio alle 17 l’Associazione Culturale Nilde Iotti Onlus Ussana organizza l’evento "Pensieri e parole oltre il carcere", l’incontro con il verosimile scrittore - poeta Bruno Acquas. Bruno Acquas, detenuto nelle carceri di Buoncammino prima, nelle carceri di Uta ora, ci racconta la sua esperienza di carcerato in cui ha ritrovato la sua "libertà" interiore attraverso la scrittura. Autore di un libro di poesie e di alcuni romanzi, ancora in fase di pubblicazione, in questo incontro viene accompagnato dal prof. di Filosofia Dario Cosseddu che allieterà i presenti con un reading di alcune poesie di Bruno e alcuni passi tratti dall’autobiografia dello scrittore ancora inedita. Alla fine del convegno verrà data parola al pubblico per un confronto e un dibattito sui temi trattati dallo scrittore. "Ho colto il rammarico di non aver capito a suo tempo, l’importanza dello studio che apre la mente, che consente di coltivare sogni, pensieri, sentimenti e di riconquistare la vera libertà, la libertà interiore". È quanto ha affermato Bruno Acquas già in passato, parlando del suo punto di vista sulla realtà che ormai vive da anni. La crisi migratoria rivela chi siamo veramente di Lucio Caracciolo La Repubblica, 29 gennaio 2016 Stretti nella morsa della crisi migratoria e della minaccia terroristica - spesso assurdamente presentate come due facce della stessa medaglia - c’è da temere non tanto per il futuro dell’Unione Europea: che fosse un guscio vuoto, senz’anima né orgoglio, era già evidente prima di questa doppia sfida. In questione è ora il carattere delle nostre democrazie. Nessuna esclusa. Più precisamente: che ne è dei valori di libertà e di tolleranza ricamati nelle nostre costituzioni e fieramente esibiti al mondo come paradigma di civiltà? È la cronaca che ci impone questa dolorosa interrogazione. Ieri il governo di Stoccolma ha annunciato che rispedirà in patria - una patria ridotta a cumulo di macerie - ottantamila richiedenti asilo. Eppure la Svezia è una delle più solide democrazie continentali, che ha sempre generosamente accolto migranti d’ogni colore. E dove fino allo scorso anno il centrodestra affrontava in campagna elettorale la questione migratoria con lo slogan "Aprite i vostri cuori!". Oggi non salterebbe in mente nemmeno alla sinistra. La pulsione xenofoba, particolarmente diffusa tra Mar Baltico e Mar Nero - la fascia continentale più sfidata da imponenti flussi migratori - investe persino le due maggiori democrazie continentali: Francia e Germania. A Parigi, un governo di sinistra, nel finora malriuscito tentativo di sottrarre consensi al Fronte Nazionale, si spinge a rivedere la Costituzione in senso securitario sull’onda emotiva delle stragi del 13 novembre. Le dimissioni del ministro della Giustizia Christiane Taubira - contro la proposta revoca della nazionalità ai cittadini con doppio passaporto, nati in Francia e colpevoli di terrorismo - sono un’eccezione che non modificherà la regola. A Berlino, dopo i fatti di Colonia i sondaggi danno Alternativa per la Germania ben oltre il 10 per cento: nel prossimo Bundestag avremo per la prima volta dopo la fine della Seconda guerra mondiale una forte destra ipernazionalista e antieuropea. Con cui la signora Merkel, sotto tiro nel suo stesso partito per l’iniziale apertura ai migranti, dovrà fare necessariamente i conti. In tutta Europa vige ormai la prassi dello scarica-migrante, secondo una rigorosa direttrice Nord-Sud. Chi sta più a Settentrione cerca di bloccare il migrante - per quattro quinti profughi in fuga da Siria, Iraq, Afghanistan e altre zone di guerra - per rispedirlo al vicino meridionale. Un quarto di secolo dopo l’abbattimento del Muro di Berlino risorgono barriere fisiche e informali, dal filo spinato ai cordoni di polizia ed esercito. Schengen è di fatto sospesa in una mezza dozzina di Paesi. L’Unione Europea rischia di trasformarsi in arcipelago di ghetti. Incomunicanti e ostili. In alcune cancellerie europee si dibatte su come trasformare la Grecia in gigantesco campo profughi, cacciandola dal sistema Schengen visto che non siamo (ancora) riusciti ad espellerla dall’eurozona. Qualcuno propone di affondare le barche dei migranti. Dovunque latita una strategia di medio periodo e si preferisce trattare questo dramma quasi fosse un’emergenza, non per quello che è: parte decisiva della nostra vita di qui al futuro prevedibile. Nessun leader politico pare disposto a considerare un’alternativa razionale all’attuale deriva securitaria. Per esempio selezionare nei Paesi di frontiera con l’Unione Europea, a cominciare dalla Turchia, chi ha diritto ad essere accolto come rifugiato in casa nostra e chi invece non può aspirarvi. Ricevendo civilmente i primi e remunerando adeguatamente i paesi esterni all’Ue che dovranno continuare a ospitare diversi milioni di donne, bambini e uomini. I quali non hanno più casa loro e difficilmente ne avranno un’altra. Nelle prossime settimane il clima è destinato a peggiorare. Sta infatti per scattare, salvo ripensamenti improbabili, la nuova spedizione militare franco-britannica-americana, con qualche partecipazione italiana, in quel che resta della Libia. Obiettivo: sradicarvi lo Stato Islamico. Il quale non aspetta di meglio per ostentarsi campione della resistenza libica contro i crociati occidentali. E per scatenare le sue cellule europee contro gli "invasori". Gettando nuova benzina sul fuoco delle xenofobie nostrane, in un circuito perverso di azioni e reazioni irrazionali. La storia dimostra che l’angoscia collettiva è un mostro difficilmente addomesticabile. Ma rinunciare a combatterlo, per chi si professa democratico e liberale, equivale al suicidio politico. Quello cui si sta dedicando con ammirevole acribia buona parte della sinistra europea. Abolire Schengen per… salvare Schengen di Marco Bascetta Il Manifesto, 29 gennaio 2016 Il paradosso è servito. L’imponente afflusso di migranti dal Medio Oriente e dall’Africa non sarebbe più compatibile, sono in molti a pensarlo, con la libera circolazione all’interno dell’Ue, di fatto già interrotta dalla decisione unilaterale di diversi stati di ristabilire controlli alle frontiere. Nessuno ignora, tuttavia, che la fine di Schengen ostacolerebbe anche la circolazione delle merci e della forza-lavoro (anche quella comunitaria) assestando un serio colpo all’integrazione economica e al mercato comune. Una frontiera nazionale non la si può infatti circoscrivere a una singola emergenza né ricondurre a una regola generale condivisa. È, per definizione, affare della nazione che la istituisce. A questa e solo a questa sono riconducibili i criteri e i metodi di gestione del confine, la larghezza delle sue maglie, i suoi principi di selezione. Sul confine nazionale si arresta il diritto comunitario. L’involuzione autoritaria in corso nei paesi dell’est potrebbe, per esempio, sbarrare il passo ad altri fattori "inquinanti", quali attivisti transnazionali o altre persone "non grate". L’Unione si è del resto rivelata piuttosto impotente nel contrastare sostanziali deroghe ai principi della democrazia in alcuni dei suoi paesi membri. Il pericolo è evidente e fioriscono così le formule più varie per salvare il trattato di Schengen da se stesso. Si spazia dall’istituzione di un’area più ristretta di libera circolazione nordeuropea che trasferisce l’idea dell’ Europa "a due velocità" a quella dell’Europa "a due confini" (sancendo così definitivamente la frattura tra nord e sud e la fine dell’Unione) fino all’ipotesi di sospendere l’accordo per due anni. Quanto basta per renderlo un evanescente ricordo. Non sono che miserabili tentativi di dare una copertura europea alla dilagante riscossa degli egoismi nazionali e all’incapacità di tenerli sotto controllo. Dall’Olanda si propone la deportazione forzata dei profughi verso la Turchia (un buco nero dentro al quale nessuno ha interesse a gettare uno sguardo), mentre la Svezia annuncia 80.000 espulsioni via charter. Missione impossibile, aldilà dei suoi intenti propagandistici, destinata comunque a protrarsi per decenni. Altro che "emergenza". Alla fine la tempesta si abbatte sul reprobo per antonomasia, il governo della Grecia. Che la chiusura delle frontiere escludono di fatto dall’area Schengen dalla quale Bruxelles minaccia di escluderla anche di diritto se non saprà difendere come si deve il limes dell’Unione. Le pressioni erano partite dalla ministra degli interni austriaca Johanna Miltk-Leitner che aveva accusato la marina greca di non fare abbastanza per contrastare gli sbarchi. La risposta da Atene è stata netta: "Che dovremmo fare, affondare le imbarcazioni stracolme di rifugiati?" Forse a Vienna farebbe maggior comodo un governo di Alba Dorata, ben più adeguato a svolgere questo genere di funzioni. Per la seconda volta in pochi mesi, è in Grecia che lo stato in cui versa l’Unione europea, per non dire la sua natura distorta e squilibrata, viene pienamente in luce. Nonché il filo che lega la crisi dei debiti sovrani con quella dei migranti. Intanto i segni di imbarbarimento proliferano un po’ ovunque. Lasciando anche da parte quei paesi dell’est che dichiarano apertamente la propria divergenza dai modelli democratici occidentali, nella civile Danimarca la ministra dell’immigrazione Inger Stojberg interpreta fieramente il suo mandato con il compito di rendere la vita impossibile ai rifugiati tramite drastiche restrizioni del diritto di asilo e sadiche vessazioni quali il sequestro di tutti i beni in possesso degli immigrati che eccedano il valore di 1.340 euro. Misura infame analoga a quella, ancor più esosa, adottata dall’extracomunitaria Svizzera. La Gran Bretagna, sempre più blindata, accoglierebbe solo qualche migliaio di minori non accompagnati, passati attraverso il filtro dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu. L’orrore procede per slittamenti progressivi sempre più rapidi e inquietanti. E mentre tutto questo apparato di discriminazioni e respingimenti viene spacciato come strumento per sedare l’allarme dell’opinione pubblica ottiene il risultato diametralmente contrario: quello di alimentarlo insieme all’ostilità verso gli stranieri agendo come una implicita legittimazione dei sentimenti xenofobi. Non passa giorno che banali episodi di vita quotidiana non si trasformino in eclatanti allarmi terrorismo. In Germania, secondo gli organi di sorveglianza, migliaia di attivisti dell’estrema destra sarebbero pronti ad azioni violente contro i rifugiati. A questa gestione "protezionista" della crisi se ne affianca però un’altra, tutto sommato meno ipocrita anche se complementare. Se ne fa interprete il capo economista della Deutsche Bank David Folkerts-Landau secondo cui la discriminazione deve essere portata dentro i confini dell’Unione. Il flusso migratorio suggerisce, a suo parere, di abolire il salario minimo e il principio di uguale retribuzione per uguale prestazione. I rifugiati, insomma, nel bisogno impellente di trovare lavoro in seguito alla negazione dei sussidi, dovrebbero ottenere un salario inferiore a quello dei lavoratori tedeschi. Questo bacino di forza lavoro a basso costo consentirebbe allora di ricondurre in patria produzioni delocalizzate e costituirebbe una formidabile attrattiva per gli investimenti. Insomma un ulteriore fattore a favore della competitività dell’economia germanica. Una combinazione vincente di interesse nazionale e profitti. Che scatenerebbe però aspri conflitti su un mercato del lavoro giocato tutto al ribasso. Cosicché sarà un delicato equilibrio tra filtraggio dei migranti e bisogno di mano d’opera, necessariamente regolato da un confine, a guidare la politica di Berlino, ma non a tenere insieme l’Europa. Che mai è stata debole e instabile come lo è oggi. E che con la fine di Schengen, in un modo o nell’altro, si avvia verso l’insussistenza. "Rimpatri impossibili senza accordi": nella Ue ogni Stato ha le sue regole di Vladimiro Polchi la Repubblica, 29 gennaio 2016 Pochi "bilaterali" firmati dall’Unione con i paesi d’origine: meno del 40% degli irregolari allontanati se ne va. Le nuove rotte causate dalle sospensioni di Schengen: "Flussi inediti verso Italia, Spagna e Grecia". In Europa scatta il risiko delle espulsioni. In una giungla di accordi, in cui ogni governo fa da sé. Paese che vai, regole che trovi. Un esempio? Se sei senegalese, dall’Italia nessuno ti caccerà: con il tuo Stato infatti non c’è "accordo di riammissione". Nel Nord Europa invece la storia cambia: da qui verrai più facilmente allontanato. Espulsioni e sospensioni di Schengen rischiano così di trasformarsi in un mix esplosivo. Al Viminale lo sanno bene: la "chiusura" delle frontiere non fermerà l’ondata di profughi,ma ridisegnerà la mappa delle rotte. E tre Paesi avranno molto da perdere: Grecia, Spagna e Italia. Nel 2014 l’Europa ha espulso 470mila migranti e nel 2015 le stime parlano di oltre mezzo milione di rimpatri. I più severi restano i francesi, con 86mila allontanamenti, seguiti dai greci con 73mila e britannici con 65mila. L’Italia si piazza ottava, con 25.300 espulsi. "Ma attenzione - spiegano dal Viminale - una cosa sono le espulsioni, altra i rimpatri effettivi". È qui il trucco. "Con le espulsioni gli Stati membri intimano agli irregolari di lasciare il Paese - precisa Carlotta Sami, portavoce Unhcr per il Sud Europa - ma poi quasi mai questi si allontanano. Con i rimpatri invece il migrante viene effettivamente riportato nel Paese d’origine. Senza accordi di riammissione non si muove nulla". Non è un caso se la Commissione Ue nel settembre scorso scriveva: "Meno del 40% degli irregolari a cui viene ingiunto di lasciare l’Unione è effettivamente partito". Cosa non funziona? "I rimpatri procedono al rallentatore", confermano al Viminale: in Italia nel 2015 sono stati 15.979. "Colpa degli accordi di riammissione - spiega Simona Moscarelli dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni - ossia i trattati con i quali gli Stati di provenienza dei migranti si impegnano a riaccogliere i propri cittadini. Pochi quelli stipulati a livello di Unione europea (solo 17). Negli altri casi ogni Paese fa da sé con accordi bilaterali". Per capire chi viene rimpatriato, basta guardare gli accordi. L’Italia ne ha che funzionano bene con Tunisia, Nigeria, Egitto e Marocco. "E sono molti gli espulsi in questi paesi, ma con alcuni - sottolineano al Viminale - gli accordi mancano: Senegal, Gambia, Costa d’Avorio, per fare degli esempi". E senza accordi non ci sono rimpatri. La Grecia ne ha sottoscritto di recente uno con la Turchia, la Spagna con il Marocco e la Francia con Camerun, Capo Verde, Congo, Gabon, Senegal, Tunisia. Ma visto che ogni Stato europeo fa i propri accordi, "i migranti irregolari - scrive la Commissione Ue - possono evitare il rimpatrio trasferendosi da uno Stato all’altro". Con la chiusura delle frontiere, al ministero dell’Interno parte intanto la caccia alle nuove rotte. La più imponente, Western Balkan, che attraversa i Balcani occidentali, rischia di saltare. "Se Croazia e Slovenia "tappano" i confini potrebbe resuscitare quella adriatica: da Montenegro e Albania in Puglia". Altra nuova rotta, figlia della chiusura dell’Austria, dalla Slovenia in Italia. "Le conseguenze dei muri ricadranno su Grecia, Spagna e Italia", dice Christopher Hein, consigliere strategico del Consiglio italiano rifugiati. Non è un caso se le altre due rotte sotto osservazione sono la Western Mediterranean, passaggio dal Nord Africa alla Spagna e la più trafficata Central Mediterranean, che approda in Italia. Si prevede poi la ripresa della Eastern borders: 6mila chilometri che separano Ucraina e Russia da Estonia e Finlandia. La Svezia prepara 80 mila rimpatri. Naufragio nell’Egeo: 10 bambini morti di Alessandra Coppola Corriere della Sera, 29 gennaio 2016 Le espulsioni dei profughi con voli speciali. L’Olanda propone di rimandarli in Turchia sui traghetti. Dalla Svezia dovranno andare via 80 mila richiedenti asilo bocciati, la Finlandia ne rimpatrierà 20 mila, l’Olanda discute un piano per rimandare indietro i migranti a bordo dei traghetti, di nuovo verso la Turchia. Sono annunci, in alcuni casi solo vaghe idee, ma danno il senso di una politica dell’accoglienza ai profughi che pure in Paesi di storica e consolidata apertura sono ormai in fase di revisione verso il basso. Il colpo più duro viene da Stoccolma, che per bocca dello stesso ministro dell’Interno prevede di fatto un rimpatrio di massa: 60 mila richiedenti asilo la cui domanda non è stata ritenuta ammissibile, "ma la cifra potrebbe arrivare fino a 80 mila". Le espulsioni avvengono di norma a bordo di aerei di linea, ma Ygeman ha spiegato che per un rimpatrio così massiccio sarà necessario far ricorso a voli speciali. Nell’arco di molti mesi, naturalmente, se non di anni. È il segno di una crescente difficoltà per il governo socialdemocratico svedese. Il Paese, che conta meno di 10 milioni di abitanti, solo nel 2015 ha accolto 163 mila richiedenti asilo. La media delle domande di protezione internazionale bocciate, ha sottolineato il ministro, è del 45%, per cui è legittimo attendersi oltre 70 mila dinieghi. L’apertura ai dissidenti politici o ai profughi di guerra è nel dna della sinistra scandinava, Stoccolma conta decenni di politiche di aiuto, impostate dallo storico premier Olof Palme. Dai cileni perseguitati da Pinochet ai rifugiati del conflitto nella ex Jugoslavia. L’arrivo in questi ultimi anni di centinaia di migliaia di profughi dalla Siria, dall’Iraq, dall’Eritrea, sta mettendo a dura prova un sistema finora rodato ed efficiente. L’uccisione della giovane impiegata Alexandra Mezher, accoltellata martedì da un ragazzino straniero in un centro per minori non accompagnati a Göteborg, ha esasperato le polemiche. Sul sovraffollamento delle strutture, e alla fine sull’impossibilità di far fronte a un flusso di arrivi così imponente. Il conteggio svedese tra richieste e dinieghi è simile a quello di Helsinki, che gestisce numeri più bassi e calcola però di aver fatto entrare una percentuale inferiore di migranti che davvero avranno diritto alla protezione internazionale: uno su tre, 20 mila su 32 mila domande presentate nel 2015 dunque saranno negative, e diventeranno rimpatri. La questione urgente al momento nelle acque dell’Egeo è un’altra: continuano i naufragi e le stragi. Ieri mattina 25 persone, tra cui 10 bambini, sono annegati al largo dell’isola di Samo. Poche ore più tardi, la Marina militare italiana ha condotto un’operazione di soccorso tra la Libia e la Sicilia, recuperando sei corpi senza vita, ma salvando anche 74 persone. Eurispes: sì degli italiani a canne e nozze gay di Eleonora Martini Il Manifesto, 29 gennaio 2016 Il Rapporto 2016 descrive un’Italia cattolica ma non praticante. E molto libertaria. Il 48,7% è favorevole al matrimonio omosessuale, il 47,1% alla marijuana libera, il 38,5% all’utero in affitto, il 60% all’eutanasia. Sono credenti praticanti ma solo per le feste comandate, si dividono sulla comunione ai divorziati e sul celibato sacerdotale ma sono sempre meno disposti a versare l’otto per mille alla Chiesa cattolica, credono sempre più (ma non ancora in maggioranza) che il Vaticano interferisca troppo sui diritti civili e questioni come aborto, fine vita, fecondazione assistita, scuola privata, e omosessualità, non inorridiscono davanti al matrimonio gay e sono sempre più possibilisti riguardo la legalizzazione dell’eutanasia ma sono ancora scettici sull’adozione di bambini per le coppie dello stesso sesso. Considerano invece legittima la pratica dell’"utero in affitto" e sono favorevoli all’uso della pillola abortiva Ru486, al testamento biologico, alla liberalizzazione della cannabis. Confidano in Papa Francesco ma con meno fervore di prima ma sono fiduciosi anche nelle forze dell’ordine, in particolare nella polizia, e soprattutto nel governo Renzi che acquista dieci punti percentuali rispetto allo scorso anno arrivando al 28,6% dei consensi. E naturalmente sono iper-connessi anche se ancora incollati alla televisione per tenersi "aggiornati", in simbiosi con il telefonino e sempre più dipendenti da Whatsapp. Sono gli italiani, almeno stando al Rapporto 2016 di Eurispes. Spiega il presidente Gian Maria Fara, che "l’invidia è il vizio che blocca l’Italia. Una vera e propria "sindrome del Palio" che non ci permette di trasformare la nostra potenza in energia". Ma non sono gli unici freni, secondo l’Eurispes: c’è "la burocrazia e la iperproduzione di norme, leggi e disposizioni che trattengono la crescita e mortificano spesso l’ingegno degli spiriti migliori", e c’è "l’incapacità della società italiana di "fare sistema": non più la società liquida descritta da Bauman, ma una società "evanescente" nella quale ognuno pensa a se stesso e che non riesce ad elaborare un progetto complessivo". Deve essere anche per questo che è sempre meno netto il rapporto degli italiani con la propria fede. Anche se sui diritti civili le idee stanno cominciando a schiarirsi. Secondo i sondaggi Eurispes, il 71,1% si dichiara cattolico credente ma solo il 25,4% è praticante (al massimo, per il 31%, va in chiesa per le principali festività, e per il 21,1% solo in occasione di battesimi, matrimoni e funerali). Ma chi è credente in cosa crede esattamente? Il 75,2% nella vita eterna dopo la morte, il 73,2% ai miracoli, il 59,6% a Paradiso e Inferno e il 56,6% ad angeli e demoni. Praticanti o no che siano, gli italiani si dividono sul celibato dei preti (favorevole il 51,6%), sulla comunione ai divorziati (sì dal 50,1%) e sulle donne a celebrare messa (il 50,7%). Il 55,4% dice no all’8 per mille per finanziare la Santa sede, anche se nel 2015 il 37% dei contribuenti ha scelto esplicitamente di devolverlo alla Chiesa cattolica (oltre un miliardo di euro di contributi). Infine, l’81,6% ritiene che Bergoglio abbia ridato slancio alla Chiesa ma l’anno scorso erano l’89,6%. Riguardo il rapporto tra Stato e Chiesa: il 40,6% della popolazione italiana giudica eccessiva l’interferenza ecclesiastica sulle questioni etiche (il 37,1% su quelle socio-politiche come scuola pubblica o privata, economia, ecc.), il 35,2% ritiene che la Chiesa intervenga nella giusta misura (il 31% lo pensa per quelle politiche) e solo l’8,9% crede che non sia ancora sufficiente (il 14,6% per le politiche sociali). È interessante notare l’appartenenza politica di coloro che considerano appropriata la presenza della Chiesa nel dibattito sulle questioni socio-politiche: il 41,2% appartiene al centrosinistra. Se poi si entra nel merito dei temi più dibattuti attualmente, l’Eurispes rivela che è favorevole alla tutela giuridica delle coppie di fatto, anche omosessuali, il 67,6% degli italiani, in aumento rispetto al 2015 (64,4%) ma con valori inferiori a quelli registrati nel 2014 (78,6%). Favorevole al matrimonio gay il 47,8%, in aumento del 7% rispetto al 2015, mentre solo il 29% si dice d’accordo con la possibilità per le coppie omoaffettive di adottare figli. La gestazione per altri è considerata pratica legittima invece per un numero più alto di italiani: il 38,5%, ma erano il 49,8% nel 2015. Sale il consenso per la pillola abortiva Ru486 (dal 58,1% dell’anno scorso al 61,3% attuale), per il testamento biologico (che passa dal 67,5% del 2015 al 71,6% del 2016), per la legalizzazione di hashish e marijuana (dal 33% al 47,1%) e per la legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito (a favore, ma solo in presenza di malattie terminali, il 60%, ben il 4,8% in più rispetto al 2015). La prostituzione perde invece consensi (dal 65,5% al 57,7%). Qualcuno avvisi il Parlamento. Norvegia: viaggio a Göteborg, un ghetto in paradiso di Marco Imarisio Corriere della Sera, 29 gennaio 2016 Il sistema svedese di welfare e accoglienza è un modello vecchio di trent’anni che produce nuove esclusioni. I ragazzi di Hammarkullen si trovano ogni pomeriggio di fronte allo Starbucks nella piazza della stazione. Non fanno niente, parlano tra loro, guardano e vengono guardati dai loro concittadini che tornano a casa dal lavoro. "Noi e i biondi siamo due pianeti che non entrano mai nella stessa orbita". Nelle parole di Ade Chukwu, nato qui nel 1994 da genitori nigeriani ci sono i sintomi del malessere che si è impadronito della progressista e tollerante Svezia. Il suo gruppo è composto da una ventina di giovani dalle origini diverse, siriana, pachistana, irachena. A volte non si conoscono neppure, ma salgono tutti sulla stessa metropolitana di superficie. La linea 8 collega i palazzoni piatti e rettangolari della periferia, separati solo da una siepe spelacchiata dalle quattro corsie dell’autostrada per Oslo, al centro cittadino e ai suoi negozi di alta moda. È come se ci fossero due Göteborg. La città da cartolina appartiene ai "biondi" e ai turisti. L’altra, invisibile agli occhi di chi arriva da fuori è fatta dai quartieri degli immigrati che si chiamano Hammarkullen, Angered, Biskopsgarden, Bergsjon, per i quali è stato coniato da anni un termine che li raggruppa tutti, e che tradotto in italiano suona come "aree di esclusione". Sven-Ake Lingren, professore di sociologia all’università locale racconta di una generazione di "perdenti cronici e radicalizzati" che vedono da vicino un modello di vita agiata al quale sentono di non poter mai arrivare. "All’estero continuate ad ammirarlo, ma il nostro sistema di welfare e di accoglienza è vecchio di oltre trent’anni e produce ghetti suburbani dei quali non importa nulla a nessuno, basta che siano lontani dagli occhi degli altri residenti". La più ricca città del regno scandinavo è un buon punto di osservazione per avere la misura di un fallimento. Dal 2013 a oggi sono partite per la Siria oltre 120 persone, su una popolazione che sfiora il mezzo milione di abitanti, duecentomila dei quali svedesi di prima o seconda generazione, un numero che è valso a Göteborg il poco ambito titolo di capitale europea dei foreign fighters. La palestra Gbg, appena dietro dietro al municipio, ha perso l’intera squadra di arti marziali miste. Erano quattro giovani di Hammarkullen, figli di immigrati iracheni e giordani. I primi tre sono morti sul fronte di Kobane. L’unico che è tornato indietro ha sfruttato la corsia preferenziale per l’impiego prevista dalla legge svedese e dopo due mesi di riabilitazione in uno dei due centri anti-jihad ha trovato lavoro come facchino nell’ufficio centrale delle poste. "La nostra tolleranza - dice Lingren - è servita far sentire bene noi ma non ha avuto alcun effetto sul loro disagio crescente". Le cose sono cambiate in fretta. Le statistiche del Migrationsverket, il centro nazionale di accoglienza degli immigrati, rivelano che ancora nel 2013 la Svezia ha accolto 54 mila richiedenti asilo, 18 mila dei quali provenienti dalla Siria. È la cifra più alta dal biennio 1990-1991, quando come conseguenza della guerra del Golfo giunsero 125 mila profughi iracheni. Dal settembre 2012 a oggi arrivano circa 1.250 profughi a settimana, ma la capacità dei centri di accoglienza è stimata dal governo tra i 500 e i settecento posti. "La saturazione del welfare - spiega lo studioso dell’immigrazione Peter Berg - è andata di pari passo con quella della popolazione". Stoccolma non fa testo. Sta lassù, lontana e cosmopolita, comunque diversa dal resto della nazione. La misura del disagio si coglie sulla costa occidentale, lungo i 250 chilometri che collegano Malmö a Göteborg, le due città che contengono ogni contraddizione del modello svedese. "Sono il simbolo - dice Berg - di un implicito baratto che ai nuovi svedesi ha dato segregazione in cambio dell’accoglienza". L’uccisione dell’impiegata del centro riservato ai giovani migranti nella periferia di Göteborg è considerata un pretesto. "Nella pancia della Svezia c’è qualcosa che da tempo urla per uscire allo scoperto", conclude Lingren. Gli aspiranti martiri di ritorno dalla Siria non sono la preoccupazione principale, il dibattito sulla questione non è intenso come altrove. La vera crepa che si è aperta sulla facciata di un Paese orgoglioso della sua tradizione aperta riguarda la sicurezza. Le guerre tra bande delle "aree di esclusione" hanno fatto aumentare a dismisura il numero di scontri a fuoco, 57 nel 2013, 71 l’anno seguente. L’esperto di criminalità Magnus Norell è convinto che il fenomeno delle gang giovanili e quello dei foreign fighters abbiano le stesse radici. "L’amicizia, il bisogno di identità, la voglia di una vita diversa dove ti senti davvero importante". Nel marzo dell’anno scorso un duplice omicidio in un bar di Biskopsgarden generò la prima manifestazione spontanea di protesta degli abitanti, che si radunarono a centinaia proprio davanti alla Centralstationen. "Non sanno neppure oggi chi è stato a sparare", mormora triste il giovane Ade. "Ma il colpevole lo avevano trovato subito". L’ultima corsa della linea 8 sta per partire. Da pochi mesi quel tratto di metropolitana è diventato l’unico servizio di trasporto pubblico che chiude alle 19. Le due Göteborg sono sempre più distanti l’una dall’altra. Turchia: il drammatico appello dei giornalisti turchi perseguitati deve ottenere risposta di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 29 gennaio 2016 Che cosa aspetta Matteo Renzi a rispondere all’appello che giunge dai giornalisti perseguitati in Turchia? Siamo consapevoli che la ragion di Stato induce la politica alla cautela. E comprendiamo bene la centralità del governo turco rispetto alle crisi che dal Medio Oriente investono l’Europa. Il rischio delle prese di posizione pubbliche è che aggravino il problema. Eppure, è proprio la durezza dell’amministrazione che fa capo al presidente Erdogan a sollecitare una reazione. Il processo del direttore e del redattore capo del quotidiano Cumhuriyet, Can Dundar ed Erdem Gul, contro i quali il pubblico ministero a Istanbul ha chiesto l’ergastolo, è ormai diventato un caso internazionale. I due sono a un passo dalla condanna, con l’aggiunta di altri trent’anni, che significa condizioni di detenzione particolarmente dure. L’imputazione? Agli inizi del 2014 pubblicarono un servizio con tanto di foto, in cui si documentava il passaggio di camion carichi di materiale bellico dalla Turchia alle milizie in Siria. I portavoce turchi replicarono che si trattava di aiuti destinati alla minoranza turcomanna minacciata. Ma il sospetto che tali armi potessero giungere alle milizie jihadiste e persino a Isis continua ad aleggiare. Tanto che Erdogan intervenne subito, accusando i due di essere "traditori al servizio dei nemici della patria". "Pagheranno personalmente il prezzo del loro tradimento", disse rabbioso. Detto fatto. In un Paese dove la libertà di stampa e di pensiero sono sempre più a rischio (al momento sono almeno 32 i giornalisti in cella), alcuni giudici hanno persino chiesto la pena capitale. Dundar a metà gennaio scrisse un appello all’Unione Europea e una "Lettera aperta al primo ministro d’Italia", chiedendo di non ignorare la difesa dei diritti umani in cambio degli accordi sulla questione migranti. È lecito chiedersi adesso se il silenzio non serva altro che ad avvallare una nuova ingiustizia. Francia: Jacqueline Savage, una grazia che si può concedere senza scandalo di Mario Chiavario Avvenire, 29 gennaio 2016 È accaduto in Francia ma poteva capitare in Italia. Protagonista suo malgrado, una donna oggi sessantasettenne, Jacqueline Savage, per 47 anni schiavizzata e brutalizzata dal marito, la quale, dopo aver subito un ennesimo episodio di pesante violenza, non ce l’ha più fatta e lo ha ammazzato. Condannata in primo grado e in appello a dieci anni di carcere, aspetta ora il giudizio di Cassazione, ma senza grandi speranze, dati i limiti che caratterizzano le competenze della Corte transalpina non meno di quelle della sua omonima nostrana. La condanna ha però scosso fortemente l’opinione pubblica francese, e non solo quella parte di essa che da sempre è più impegnata nel mettere a nudo e cercare di contrastare la vergogna del machismo, specialmente nelle sue manifestazioni più violente. Una vera e propria mobilitazione di massa si sta dunque registrando a sostegno della domanda di grazia, formulata dalle tre figlie della coppia, concordi nel sottolineare come la madre, durante tutta la vita matrimoniale, sia stata vittima di un uomo "violento, tirannico, perverso e incestuoso", secondo la terribile definizione che del padre non esitano a dare esse stesse, a loro volta oggetti di ripetuti stupri. La tristissima vicenda mette in particolare evidenza, ancora una volta, la profondità degli abissi cui può giungere il male anche nella quotidianità del nostro mondo civile, rendendo un inferno pure la vita in un ambito, quello della famiglia, in cui l’amore umano è chiamato a trovare la sua più autentica pienezza e le raggiungere vertici ineguagliabili di tenerezza. E sono emerse pure responsabilità morali diffuse, spesso destinate a rimanere sconosciute: quante indifferenze, quante inerzie, quanta incapacità da parte di chi - dai vicini di casa alle pubbliche istituzioni - non riesce a (o non vuole) vedere il dipanarsi di un vissuto di continue violenze di cui per sono per lo più donne a restare vittime (ma non sempre loro soltanto) e che, con altri atteggiamenti collettivi, potrebbero forse essere evitate o quantomeno fronteggiate efficacemente. A essere chiamato in causa, però, è anche il tipo di risposta che in casi come questo vengono a dare gli apparati della giustizia umana. Infatti, lo sdegno che anima la mobilitazione si appunta anche, e forse soprattutto, sul rifiuto che in questo caso due Corti d’assise hanno concordemente opposto, alla richiesta difensiva di riconoscere, nel caso di specie, la "legittima difesa" come giustificazione della reazione di Jacqueline: rifiuto, a quanto pare, motivato dalla mancanza di stretta contestualità tra l’ultima aggressione subìta dalla donna e la sua reazione. Difficile, da un osservatorio come il nostro, trarre valutazioni precise e sicure sul piano strettamente tecnico-giuridico, data la conoscenza soltanto approssimativa della dinamica del fatto che ha dato luogo all’imputazione; ma un paio di rilievi sembrano potersi egualmente fare. Da un lato, si può cioè capire il timore dei giudici, di creare, con un’assoluzione, un precedente su cui avrebbero poi potuto poggiare pericolose dilatazione del campo di applicazione della legittima difesa. D’altro canto, però, non può negarsi che è del tutto iniquo il far scontare una pena - e una pena detentiva comunque lunga e grave, sebbene di entità lontana dai massimi cui la specie del reato addebitato avrebbe potuto condurre - a una creatura che ha già subito ingiustamente una sorta di durissimo carcere domestico per la più gran parte della sua vita. È in casi come questo che la concessione della grazia - anche prima che si possa constatare se il condannato, avendo già scontato buona parte della pena, abbia dato segni di effettivo ravvedimento - può funzionare come rimedio a un’oggettiva ingiustizia, che rimarrebbe altrimenti tale, seppur provocata da una rigorosa applicazione della legge (summum ius summa iniuria); ma senza suonare a incoraggiamento per fare, di un gesto comunque tragico, un esempio da imitare. Messico: orrori e peccati di un paese discarica di Giovanni Porzio Venerdì di Repubblica, 29 gennaio 2016 Ci sono posti dove è normale trovare cadaveri nella spazzatura. Uscire per una commissione e non tornare più. Avere trent’anni e sentirsi fortunati per essere ancora vivi. Tra polizie corrotte e bande feroci, siamo stati nelle città e nei quartieri infernali dove a febbraio verrà papa Francesco. È un viaggio all’inferno quello che papa Francesco ha deciso di intraprendere, il 12 febbraio, sulle strade insanguinate del Messico. Cinque giorni di pellegrinaggio nel Paese che conta 27 mila desaparecidos e 50 mila cadaveri vittime della violenza disumana delle bande criminali implicate nel traffico di droga, di una polizia corrotta, di un sistema politico malato, dell’emarginazione sociale e di una miseria che incombe sul 47 per cento della popolazione. Francesco atterrerà in un aeroporto dove transitano tonnellate di cocaina, entrerà nelle carceri di Ciudad Juárez, la "città dei morti" al confine col Texas, dove centinaia di donne sono scomparse e migliaia di migranti rischiano la vita inseguendo il sogno americano. Celebrerà la messa per i campesinos del Chiapas nella cattedrale di San Cristóbal de Las Casas e visiterà il Michoacán, santuario della Familia, uno dei più spietati cartelli dediti al narcotraffico, ai sequestri, alle estorsioni, al riciclaggio di denaro sporco. Ma dopo gli incontri ufficiali la prima tappa, domenica 14 febbraio, sarà Ecatepec, sterminato quartiere dormitorio di Città del Messico. È una scelta coraggiosa, perché di quanto avviene nei bassifondi alla periferia della gigantesca metropoli nessuno vuol parlare: il governo, che tiene all’immagine rassicurante e glamour della capitale culturale e finanziaria della Federazione, minimizza; le forze dell’ordine, spesso colluse, lasciano fare; i giornalisti, minacciati e ricattati, non possono indagare; e la gente, costretta al silenzio, vive nella paura, in balia del crimine organizzato. Ecatepec è un barrio bravo, nel gergo locale spavaldo, fuorilegge: un informe agglomerato di case, baracche, condomini, mercati e centri commerciali attraversato da autopistas a quattro corsie, cavalcavia pedonali e binari del treno. Con le municipalità limitrofe di Nezahualcóyotl, Chimalhuacán e Chalco forma l’immensa conurbazione del cinturón de la pobreza, la cintura della povertà dove abitano almeno 6 dei 25 milioni di messicani che intasano l’area metropolitana della capitale. Amministrativamente non dipendono dal Distretto federale: fanno parte dell’Estado de México, una delle zone più derelitte e densamente popolate del Paese. A Ecatepec scorre un fetido canale, il Río de los Remedios. Nel 2014, durante dei lavori di drenaggio, le ruspe hanno recuperato centinaia di ossa, resti umani e i cadaveri decomposti di 5 uomini e di 16 giovani donne. Mariana Elizabeth, 18 anni, studentessa al Politecnico, potrebbe essere finita in quella fogna. Guadalupe, sua madre, vive da oltre un anno lo strazio indicibile dei genitori dei desaparecidos. Si sforza, tra le lacrime, di evocare l’incubo in cui è precipitata una sera di settembre, tornando dal lavoro. "Era uscita per fare delle fotocopie e non è più tornata" racconta nel salotto del modesto appartamento al secondo piano di una palazzina, seduta accanto a un altarino col ritratto della figlia, due candele accese e una statuetta della Madonna. "L’abbiamo cercata ovunque, nelle cartolerie, nei negozi, negli internet café, per tutta la notte. Abbiamo sporto denuncia alla polizia e in procura, ma nessuno si è preoccupato di indagare. Poi hanno chiesto un campione del mio Dna da confrontare con i resti trovati nel canale e alcune settimane dopo mi è stato comunicato che il test era risultato positivo". Tunisia: a cinque anni dalla Rivoluzione, conflitti e proteste di Paolo Hutter Il Manifesto, 29 gennaio 2016 Lanciata una nuova alleanza di gruppi e associazioni per la difesa delle libertà individuali. A cinque anni dalla Rivoluzione (con la erre maiuscola, ufficiale festa nazionale)che ha abbattuto il regime di Ben Ali, la Tunisia è un paese ricco di conflitti, di delusioni ma anche di speranze. Una nuova ondata di proteste sociali per il lavoro ha scosso molte città del paese dopo il suicidio per protesta a Kasserine di un giovane al quale era stato prima promesso, poi negato un posto di lavoro pubblico. Questioni di diritti sociali e/o individuali possono stare sulla ribalta in Tunisia perché l’apripista delle primavere arabe è anche l’unico paese che è riuscito a evitare colpi di stato e guerre civili. Per la transizione pacifica che ha sbloccato il pericoloso stallo del 2013 - quando gli islamisti di Ennahda primo partito esitavano a lasciar concludere il processo costituente e a convocare nuove elezioni - quattro soggetti della società civile tunisina hanno ricevuto il Premio Nobel della Pace. Il sindacato Ugtt, la Confindustria Utica, l’Ordine degli Avvocati e la Lega dei Diritti dell’Uomo. Alle prime elezioni presidenziali - con poteri un po’ inferiori a quello francese - ha vinto l’anziano Beji Essebsi, fondatore del nuovo partito Nidaa Tounes, che alle elezioni ha battuto quello islamista. Il governo ora è "di larghe intese" con Nidaa e Ennahda insieme (all’opposizione la sinistra radicale del Fronte Popolare). Recentemente però l’ala più liberale e critica ha abbandonato Nidaa Tounes, accusandolo di esser diventato un partito verticista e immobilista. La situazione economica e sociale è pesante, perché il turismo è crollato, boicottato dalle paure degli europei dopo i due attentati dell’anno scorso, il debito pubblico è cresciuto e non sembrano esserci settori in espansione. Col pretesto della lotta al terrorismo la polizia, una potenza nel regime di Ben Ali, ha ripreso vigore e vizi repressivi, spesso sostenuta, ma anche no, da una magistratura che vive nel pieno le contraddizioni della transizione. Parecchi sono stati i casi di giovani "alternativi" del ceto medio urbano arrestati con pretesti come il possesso di cartine per arrotolarsi spinelli. Una nuova alleanza di gruppi e associazioni per la difesa delle libertà individuali è stata lanciata il 19 gennaio a Tunisi. È in questo contesto che è venuta allo scoperto e si è sviluppata negli ultimi mesi la questione omosessuale, tra la richiesta di abrogare l’articolo 230 che ancora penalizza gli atti "di sodomia", il coming out inedito di giovani attivisti e gli episodi repressivi come l’incarcerazione di Marwen e poi dei sei ragazzi della Casa dello Studente di Kairouan.