Le sfide dell’anno giudiziario 2016: ipotesi prioritarie di Renato Balduzzi Avvenire, 28 gennaio 2016 La seconda metà di gennaio è tradizionalmente dedicata alle cosiddette inaugurazioni dell’anno giudiziario. Oggi in Cassazione, sabato prossimo nella generalità delle Corti d’Appello. Momenti storicamente mai formali, che andrebbero ancora di più colti come occasioni di corretta informazione e di dialogo inter-istituzionale. Vediamo un elenco delle sfide prioritarie per il 2016. La prima concerne la lunghezza dei tempi dei processi e le possibili conseguenze sulla fiducia nella magistratura. Nessun dubbio che, come recita l’antico brocardo, "iustitiae dilatio est quaedam negatio": una migliore organizzazione degli uffici e la semplificazione dei riti processuali sono le condivise "ricette", la prima realizzabile in via auto-applicativa, la seconda che ha bisogno anche del legislatore. I dati mostrano luci e ombre: il settore civile e commerciale continua a soffrire (oltre 600 giorni per il giudizio di primo grado), ma diminuiscono gli affari pendenti, che nel 2015 sono 4,2 milioni. Numero che resta impressionante ma, anche qui, con una speranza: il numero di cause definite è superiore a quello delle nuove cause avviate, il che conferma l’elevata produttività dei magistrati italiani. Un’altra sfida attiene al legame tra povertà e ingiustizia. La crisi economica comporta il rischio che i soggetti più deboli non siano debitamente tutelati nei rapporti socio-economici, come at-testa l’aumento, nel 2015, degli infortuni mortali sul lavoro. L’intervento della magistratura, segno che la prevenzione non ha funzionato bene, può facilitarla, così che la competitività rimi con il controllo e la difesa delle posizioni più deboli. Ancora: il rapporto tra giustizia ed economia. A episodi di scontro (Ilva) si affiancano molti casi di attività economiche illegali (criminale, lesiva della concorrenza e dei diritti dei consumatori) scoperte e perseguite. Serve un giudice che, saldo nella difesa della legalità, sappia stare con buon senso e spirito di collaborazione nei conflitti. Infine, il legame tra magistratura, società e politica. Sembra importante una reciproca "desistenza". Fatti anche recenti consigliano di limitare lunghe permanenze presso i medesimi uffici giudiziari (specie se ubicati in piccoli centri), così da evitare conflitti di interesse, anche inconsapevoli. Da parte della politica serve una diminuzione dell’impiego dei magistrati in compiti affidabili ad altri soggetti. Come si vede, c’è lavoro supplementare per tutti, Csm incluso. Per tornare a essere civili iniziamo dall’amnistia di Maurizio Turco (Tesoriere del Partito Radicale) Il Tempo, 28 gennaio 2016 È facile prevedere che l’anno giudiziario verrà aperto affermando che lo stato della giustizia italiana è lievemente migliorato mentre i provvedimenti in corso di attuazione promettono lievi evoluzioni per il futuro. Si contabilizzerà con soddisfazione che sono diminuiti di qualche centinaio di migliaia di casi i processi pendenti, con dolore si richiamerà il peso dei milioni ancora in essere; ci si dimenticherà di sottolineare che il peso dei processi pendenti continuerà a far maturare prescrizioni e rallentare il corso dei processi fino all’irragionevole durata, cioè alla non giustizia. Con le doverose cautele e gli appelli più o meno strazianti alla politica tutto sembrerà andare nella giusta direzione. Va avanti così da decenni. Ma due fatti accaduti proprio alla fine dell’anno dovrebbero attirare una maggiore attenzione. Non è certo sfuggito che il Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura forse per la prima volta, e comunque da tanto tempo per quel che riguarda i messaggi di fine anno, non ha ritenuto di dovere menzionare la questione della giustizia né per auspicare radicali riforme, né per sottolineare la gravità della situazione. Presidente della Repubblica che solo pochi giorni prima aveva controfirmato la legge di stabilità - approvata a grande maggioranza dal Parlamento - la quale, tra l’altro, è stata presentata come un intervento decisivo per ridurre uno dei mali cronici del sistema italiano della giustizia ovvero l’eccessiva durata dei processi. Eccessiva durata dei processi che dall’inizio degli anni ‘80 è all’origine di continue e ripetute condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Condanne che hanno comportato e comportano, ma soprattutto comporteranno un danno erariale che, per le sue dimensioni, costituisce una vera e propria ipoteca erariale sul futuro del paese. Condanne alle quali la Repubblica italiana ha storicamente risposto prendendo impegni poi non mantenuti, esibendo proposte di legge mai adottate, adottando misure presentate come risolutive ma che hanno aggravato la situazione allungando ulteriormente la durata dei processi in Italia e causando la proliferazione dei ricorsi alla Cedu che, per questo motivo, è stata costretta ad introdurre misure restrittive all’accesso. Giova ricordare che il Presidente della Repubblica emerito, Giorgio Napolitano, durante il suo mandato ha inviato un solo messaggio alle Camere, nell’ottobre 2013, che è stato sostanzialmente ignorato dal Parlamento e nel quale tra l’altro si ricordava che "è fatto obbligo per i poteri dello Stato, ciascuno nel rigoroso rispetto delle proprie attribuzioni, di adoperarsi affinché gli effetti normativi lesivi della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo cessino". Con l’ultima legge di stabilità, non potendo incentivare la produttività dei giudici, si è proceduto ad un aumento simbolico della pianta organica dei magistrati e ad introdurre misure per disincentivare l’accesso alle richieste dei danni per l’eccessiva durata dei processi e incentivare la rinuncia per chi ha in corso un contenzioso. In sostanza siamo di fronte all’ennesima controriforma della cosiddetta Legge Pinto, provvedimento suggerito dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa come uno degli strumenti per contenere il numero dei ricorsi italiani alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, ricorsi in maggioranza inerenti l’irragionevole durata dei processi. A ciò si aggiunga il fatto che l’Italia è il paese che più di tutti non dà seguito alle stesse sentenze, così violandole, della Corte europea dei diritti dell’uomo. Per non dire delle più di 8000 domande ripetitive pendenti davanti alla Corte relative non solo alla durata delle procedure giudiziarie ma all’esecuzione delle decisioni prese ai sensi della Legge Pinto, che - è bene ribadirlo - avrebbe dovuto prevenire i ricorsi alla Corte. Riteniamo che nelle condizioni in cui si trova il nostro Paese, un provvedimento di amnistia costituisca di per se la prima, vera, grande riforma della giustizia accompagnata da misure, da adottare in tempi certi, atte a rimuovere le cause all’origine delle violazioni alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo perché, come ha sottolineato lo stesso Comitato dei 47 ministri degli esteri dei paesi che compongono il Consiglio d’Europa, i ritardi eccessivi nell’amministrazione della giustizia costituiscono un pericolo grave per il rispetto dello Stato di diritto. Se questi ritardi, come tutti noi ben sappiamo, pesano sulla corretta amministrazione della Giustizia da un quarto di secolo, è logico dedurre che l’Italia non corra più il pericolo ma ormai violi lo Stato di diritto. Stato di diritto che viene negato se fondato sulla sostenibilità economica a scapito dell’universalismo dei diritti. Stato di diritto di cui ribadiamo il suo valore assoluto e di cui il principio di legalità, da suo pilastro portante, è sempre più utilizzato per violarne le fondamenta. Sono queste le ragioni per le quali il Partito Radicale offre una leale collaborazione, senza alcuna contropartita, al Capo dello Stato e al Presidente del Consiglio per una campagna alle Nazioni Unite per una immediata transizione verso lo Stato di diritto, a cominciare da quei paesi a "democrazia reale" come il nostro, che potrebbe cominciare a darsi tempi certi per adottare misure atte al rispetto delle sentenze emesse e per prevenire ulteriori violazioni alla Carta europea dei diritti umani e ai Trattati europei. Orlando "trucca" i dati sulla giustizia? di Dimitri Buffa Il Tempo, 28 gennaio 2016 Sul sito del Ministero spariscono i numeri dei procedimenti contro ignoti Ignorati i ritardi delle cause giacenti. E in cella "si gioca" sui metri quadri. Rita Bernardini (Radicali): "Gli uffici del ministro Orlando fanno "il gioco delle tre carte". Hanno reso molto difficile l’accesso alla giustizia civile aumentando a dismisura i costi e le procedure, e adesso dicono che i ricorsi sarebbero calati. Però non parlano del fatto che su 4 milioni e rotti di cause giacenti tre quarti hanno accumulato ritardi da richiesta di risarcimenti ex legge Pinto. Che è un altro buco nero delle statistiche visto che non si conoscono esattamente né quante richieste pendano, né i costi certificati, anche se si parla di mezzo miliardo di euro l’anno. E soprattutto pochi sanno che i pagamenti vengono fatti ben oltre i cinque anni dalle sentenze e dalle ordinanze. Visto che ancora stanno rimborsando il 2010 in sedi strategiche come Perugia che si occupa di tutte le magagne giudiziarie di Roma. Nascondono i dati sui processi penali non mettendo sul sito del ministero di via Arenula i procedimenti contro ignoti. Che dovrebbero essere ben più di un milione. Dicono che le carceri sono tornate vivibili e che i detenuti sono ormai poco più di 52mila, dai 67mila che erano quando scoppiavano letteralmente, ma per la vivibilità applicano burocraticamente lo standard di tre metri quadrati per detenuto, stabilito da varie sentenze Cedu, senza calcolare suppellettili e mobilio nelle celle. Dicono di investire sulla giustizia e sulla preparazione dei magistrati ma due giorni fa il Csm ha dedicato un’intera seduta allo scandalo delle toghe fuori ruolo che sono oltre 1.600 rispetto alle 8 mila che fanno i magistrati e non i consulenti ministeriali. Quasi un quinto del totale, quindi. Questo è il metodo che gli esperti del dicastero di Andrea Orlando stanno usando per dare la possibilità al ministro di bissare sabato la passerella auto elogiativa che alcuni giorni fa ha fatto in Parlamento. Rita Bernardini, radicale e esperta del settore, vorrebbe rovinare la festa e per Fintanto in ripetuti interventi a Radio radicale parla esplicitamente di "gioco delle tre carte". Poi snocciola anche dati e circostanze che, alla faccia della trasparenza, è dovuta andarsi a riperticare con fatica, incrociando le statistiche di vari soggetti istituzionali e prendendo a piene mani, soprattutto per quanto riguarda la giustizia civile, dal censimento e dalla relazione del magistrato Mario Barbuto sulla giustizia e il suo stato in generale. Qui è venuta anche la prima sorpresa sui procedimenti penali contro ignoti. Barbuto scrive che "la scelta di omettere tali conteggi è dettata da motivi di opportunità e semplificazione ed è conforme alle prassi di gran parte dei Paesi del Consiglio d’Europa". Da notare che meno di un anno fa i procedimenti con autori ignoti li aveva quantificati proprio lui nel numero di 925.000. Che aggiunti ai 3.500.000 con autori noti, fanno arrivare il contenzioso penale pendente a quasi a 4,5 milioni. Ma nella relazione al parlamento (e verosimilmente accadrà la stessa cosa in quella che sarà letta sabato in Cassazione) le cifre erano state scorporate. I procedimenti contro ignoti non sono una cosa trascurabile. Proprio Barbuto ammette infatti che "si tratta di una mole consistente di procedimenti, che è pari alla metà circa di quelli comunque iscritti nei registri delle Procure, che pure comportano incombenze di segreteria e, spesso, indagini investigative di una certa complessità: si pensi agli omicidi volontari ad opera di ignoti, agli attentati terroristici, ad alcune stragi mafiose, agli incidenti stradali mortali provocati dai pirati della strada, agli atti di vandalismo collettivo, solo per citare i casi più significativi?". Tutto ciò però tocca andarselo a cercare nelle centinaia di pagine di questo censimento del marzo 2015, come ha fatto la Bernardini. La quale sottolinea anche come i metodi di rilevazione dei dati siano "assolutamente non omogenei per i singoli distretti di corte di appello". Questi dunque sono solo alcuni dei metodi di imbellettamento dei dati da parte di via Arenula. Nel civile si sono ridotte le pendenze rendendo difficilissimo fare causa, e quindi non rendendo un servizio ai cittadini. Con le carceri si gioca sui metri quadri con o senza suppellettili della cella, quali letti, tavoli e tavolini vari. E per quanto riguarda la giustizia penale si fa finta che non esistano oltre un milione di procedimenti contro ignoti. Il metodo usato è più o meno lo stesso con cui si risolse il problema ecologico dell’atrazina nelle falde idriche un po’ di tempo fa: dichiarare potabile l’acqua che non lo era secondo nuovi standard burocratici. Il primo presidente della Cassazione Canzio "il reato di clandestinità è dannoso" Avvenire, 28 gennaio 2016 Il reato di immigrazione clandestina e l’istituto della prescrizione sono "due esempi di attualità" per i quali il primo presidente della Cassazione auspica un intervento del legislatore. "Per il primo - spiega Giovanni Canzio nella suo relazione - non vi è dubbio che la risposta sul terreno del procedimento penale si è rivelata inutile, inefficace e per alcuni profili dannosa, mentre la sostituzione del reato con un illecito e con sanzioni di tipo amministrativo, sino al più rigoroso provvedimento di espulsione, darebbe risultati concreti". "Quanto alla prescrizione - rileva ancora Canzio - si è più volte ribadito che essa irragionevolmente, continua a proiettare la sua efficacia pure nel corso del processo, dopo l’avvenuto esercizio dell’azione penale o addirittura dopo che è stata pronunciata la sentenza di condanna di primo grado, mentre sarebbe logico, almeno in questo caso che il legislatore ne prevedesse il depotenziamento degli effetti". La Cassazione versa "in uno stato di profonda e visibile crisi di funzionamento e di identità", i dati di fine anno "segnano l’insuccesso di una strategia mirata alla deflazione delle pendenze e del pesante arretrato mediante il mero aumento della produttività, fino al limite dell’esaurimento delle energie dei magistrati e del personale". Lo sottolinea Canzio levando l’ennesimo grido d’allarme. Ormai è a rischio "la qualità della giurisdizione di legittimità", sommersa da una mole di ricorsi (105mila le cause civili pendenti da oltre tre anni, quelle tributarie sono il 32,7% quelle di lavoro il 14,3%) che ha "proporzioni mostruose" rispetto a quelle, molto esigue, di altre Corti. La lotta a "ogni forma di criminalità organizzata o terroristica, anche quella internazionale di matrice jihadista", deve essere condotta "nel rispetto delle regole stabilite dalla Costituzione e dalle leggi dello Stato". È l’appello rivolto dal primo presidente della Cassazione nella sua relazione. "Diversamente tradiremmo la memoria" dei magistrati "caduti in difesa dei più alti valori democratici", come Emilio Alessandrini, "e non faremmo onore al giuramento di fedeltà che abbiamo prestato". Carceri, direttori pronti alle dimissioni di massa: "il ministero vuole tagliarci" di Anna Dichiarante L’Espresso, 28 gennaio 2016 Dopo la bozza di decreto che dispone la riduzione dei dirigenti penitenziari e l’accorpamento di alcuni istituti, parla il segretario del secondo sindacato di categoria. Che denuncia le condizioni frustranti di lavoro e annuncia forme eclatanti di protesta. "Dal 2006 siamo senza contratto". Da anni si sentono lasciati allo sbaraglio e costretti a lavorare in condizioni d’incertezza, ma sono una categoria numericamente esigua e faticano a far sentire la loro voce. Adesso, però, la misura è colma. I direttori delle carceri italiane si preparano ad alzare i toni della protesta, minacciando di spingersi fino alle dimissioni di massa. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la bozza di decreto ministeriale che il capo di Gabinetto del ministero della Giustizia, Giovanni Melillo, ha trasmesso alle organizzazioni sindacali di categoria lo scorso 24 dicembre. Lì sono scritte le norme in base alle quali dovrebbe essere riorganizzato l’organico dei dirigenti penitenziari: la spending review, infatti, tocca anche loro e un decreto del presidente del Consiglio del giugno 2015 aveva già imposto una riduzione del numero dei posti di funzione dirigenziali. Da 500, quindi, si dovrà scendere a 300. E per ottenere questo risultato a via Arenula s’è deciso pure di accorpare una quarantina di istituti penitenziari in tutta Italia, trasformando le strutture accorpate in sezioni distaccate delle sedi principali. Non è la previsione dei tagli, comunque, ad aver fatto alzare le barricate ai direttori delle carceri. A sconcertarli, semmai, è l’illogicità dei criteri secondo cui questi tagli dovrebbero essere effettuati e l’assenza di dialogo tra ministero e diretti interessati alla riforma. "Abbiamo ricevuto la bozza di testo alla vigilia di Natale e la scadenza per la presentazione delle nostre osservazioni era il 9 gennaio. Nonostante i tempi stretti, abbiamo fatto pervenire al ministro un documento con i nostri rilievi, ma non abbiamo ancora avuto risposta", dice Mario Antonio Galati, segretario nazionale della "Dirigenza penitenziaria sindacalizzata", che aggiunge: "I parametri che si vogliono seguire per procedere all’accorpamento degli istituti sono assurdi, non si tiene conto nemmeno delle distanze geografiche o dei diversi circuiti penitenziari". Per capire basta guardare a quanto potrebbe succedere, per esempio, in Lombardia. Il carcere di Sondrio verrebbe accorpato a quello di Bergamo, anche se in mezzo ci sono le Prealpi; quello di Como ingloberebbe il penitenziario di Varese, anziché quello ben più vicino di Busto Arsizio; mentre il carcere milanese di San Vittore si unirebbe a quello di Lodi, nonostante si tratti di due realtà imparagonabili per problematiche e dimensioni. Altrettanto azzardati sarebbero gli accorpamenti tra istituti maschili e femminili oppure tra istituti ad alta sicurezza e altri a media o bassa sicurezza, visti i pericoli e i malfunzionamenti che ne deriverebbero. La bozza ministeriale, in pratica, disegna un nuovo assetto tenendo conto soltanto della presenza numerica di detenuti nell’istituto a una certa data presa a campione. Inoltre, i direttori che perderanno la carica a seguito degli accorpamenti sembrano destinati ad assumere la veste di vicedirettori o di "direttori aggiunti" rispetto al collega, definito coordinatore, dell’istituto accorpante. Una soluzione che qualcuno definisce un demansionamento camuffato, mentre Galati spiega: "Se diminuiscono i posti, non servirà immettere in ruolo nuovi direttori e, perciò, non ci sarà bisogno di indire concorsi. Questo sarà il risparmio reale. Tuttavia, se si considera che l’ultima immissione in ruolo risale al 1997, si comprende come la categoria rischi d’invecchiare e d’impoverirsi". Il segretario, inoltre, è preoccupato per i problemi che il direttore-coordinatore si troverà ad affrontare: "Ogni decisione in materia di spesa, di sicurezza, di igiene e di trattamento, dai provvedimenti disciplinari al rilascio dei colloqui, fino all’autorizzazione delle uscite e dei ricoveri urgenti, spetta al direttore. L’eccessivo accumulo di responsabilità e l’impossibilità di essere fisicamente presente nella sezione distaccata del carcere, quindi, lo costringeranno a delegare molte competenze. E una delega obbligata è un modo per spogliarlo delle sue funzioni. Senza dimenticare che spesso il direttore non può scegliere la persona a cui delegare, nonostante continui a rispondere anche penalmente degli atti delegati". Tutto ciò, quindi, sembra contrastare con quel modello di esecuzione penale aperto, attento alla persona detenuta, innovativo ed europeo, proposto dai cosiddetti "stati generali", cioè quei tavoli di studio istituiti dal ministero per approntare una riforma dell’ordinamento penitenziario. Il decreto ministeriale appare anacronistico, perché paventa una gestione securitaria delle carceri e rischia sostanzialmente di azzerare i risultati di un lavoro organizzativo che lo staff penitenziario, con in testa il direttore, ha tentato di raggiungere in ogni singolo istituto. "D’altra parte, questo decreto è solo l’ultima spia di quanto a livello politico la figura del direttore sia considerata inutile. Siamo usati come un parafulmine su cui scaricare le responsabilità nei momenti di tempesta, senza alcun riconoscimento della nostra professionalità", aggiunge amareggiato Galati. I direttori, infatti, non hanno un contratto di categoria da un decennio: il decreto legislativo 63 del 2006 ha disciplinato le funzioni dei dirigenti dell’amministrazione penitenziaria, ma è rimasto in gran parte inattuato. Così, a loro si applica nel frattempo la disciplina prevista per i dirigenti della Polizia di Stato. "Non esiste una regolamentazione delle nostre competenze, non ci sono criteri per fissare i livelli salariali né sono previste indennità di funzione e di obiettivo. Capita così che un vicedirettore guadagni più del suo superiore o che il direttore di un istituto con 30 detenuti percepisca lo stesso stipendio del collega posto a capo di una struttura che ne ospita mille. In molte regioni, poi, ai direttori non viene assegnato un budget di spesa, con la conseguenza che è impossibile programmare gli investimenti", prosegue Galati. Che sottolinea come il vuoto contrattuale incida pure sulle nomine: "Si procede per chiamata diretta. Spesso è il dirigente generale del personale a nominare i direttori, senza che siano pubblicate richieste di disponibilità o che vengano considerate eventuali graduatorie preesistenti". Parità di trattamento, trasparenza, meritocrazia e autonomia: questi, insomma, sono i principi in base ai quali i direttori delle carcere vorrebbero essere selezionati, nominati, valutati nel loro lavoro e, quindi, sanzionati o gratificati in relazione ai risultati conseguiti. Perciò pretendono che finalmente siano fissate regole certe per lo svolgimento delle loro funzioni. E chiedono che, prima di effettuare tagli secondo criteri che definiscono "sconclusionati", si proceda a una redistribuzione e a una razionalizzazione delle risorse. "È necessario studiare un nuovo ed efficace modello organizzativo per l’amministrazione penitenziaria. Il ministero non ha fatto il minimo sforzo per cercare alternative, mentre dovrebbe ascoltare le proposte che arrivano dai sindacati, dai tavoli di studio e dagli operatori del settore", conclude Galati, auspicando che la protesta coinvolga la categoria intera: "Non è una difesa di corporazione. Stavolta intendiamo prendere iniziative forti e vogliamo coinvolgere l’opinione pubblica. Stiamo discutendo sull’opportunità di indire uno sciopero, di ricorrere alla Corte europea dei Diritti dell’uomo e di arrivare, se del caso, alla rinuncia all’incarico da parte di tutti i direttori". E senza di loro, le carceri potranno continuare a funzionare? Carceri, nel 2015 meno suicidi ma la guardia va tenuta alta di Angela Ganci Quotidiano di Sicilia, 28 gennaio 2016 In Sicilia, negli ultimi anni, il maggior numero di decessi si è registrato a Palermo e Siracusa. Centro studi Ristretti Orizzonti: lo scorso anno 42 detenuti si sono tolti la vita. Suicidi in carcere: un problema sempre attuale che rappresenta una vera e propria piaga nel sistema penitenziario nazionale. E sebbene l’anno sia iniziato da appena un mese già si conta un denuto impiccato in una cella di Marassi, a Genova. Secondo i dati del Centro studi di Ristretti Orizzonti, nel solo 2014 sono stati 44 i detenuti a togliersi la vita (7,7% su 10.000 detenuti, contro una media europea del 5,4%) e se ne contavano già 9 nei primi mesi del 2015, come rileva l’osservatorio dell’associazione Antigone, autorizzata dal Ministero della giustizia a monitorare la situazione delle carceri italiane. Come riporta il Dossier "Morire di Carcere" elaborato da Ristretti Orizzonti, nell’ultimo aggiornamento del 26 gennaio scorso, nel periodo 2000-2016 le morti per suicidio si attestano a poco meno del 36% del totale dei decessi (887 contro 2.497): una percentuale rimasta pressoché invariata rispetto al 30 luglio 2015 (870 contro 2.438). Nota positiva è il decremento costante dei casi di suicidio dopo il picco del 2009 (72): il 2015 infatti si è contraddistinto come l’anno con il numero più basso di morti per suicidio dal 2000 (42). Secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), però, le morti per suicidio sarebbero state leggermente meno, cioé 39 (il dato più basso dal 1992). Analizzando la situazione nelle nove province siciliane (come mostrato in tabella), nel periodo 2002-2016 il maggior numero di decessi (suicidi, malattia o morte da accertare) si registra nelle province di Palermo (26), con circa il 60% di suicidi (15), due casi in più rispetto al 30 luglio scorso. A pari merito in quanto a numero di suicidi si pone Siracusa, con una percentuale di oltre il 70% (15 su 21 morti), seguono Messina (10 su 16), con un decesso in più rispetto al 30 Luglio, non imputabile a suicidio, e Catania (65% di suicidi). La situazione sia a Caltanissetta che ad Agrigento vede invece un suicidio in più rispetto a luglio, mentre Ragusa (con l’unico caso di omicidio), Trapani ed Enna fanno registrare il numero più esiguo di decessi, che, a Enna e Trapani, sono interamente imputabili a suicidio. Secondo l’Associazione Antigone i dati ora esposti configurano una situazione allarmante, sintomo di una specifica incapacità del sistema penitenziario di cogliere i segnali di disperazione di chi vive in reclusione, unita alla scarsa attenzione ai programmi di prevenzione del rischio. Monitoraggio e formazione sarebbero quindi le parole chiave per ridurre un fenomeno che non accenna ad arrestarsi e che già nel 2007 aveva attirato l’attenzione della World Health Organization (l’Autorità di direzione e coordinamento della salute all’interno del sistema delle Nazioni Unite). Secondo tale organismo autorevole bisogna agire in ogni fase del percorso detentivo attraverso l’addestramento degli operatori al fine di rilevare i principali fattori di rischio suicidario: da qui la necessità di uno screening istituzionale dei nuovi giunti, dato che i suicidi in carcere avvengono prevalentemente nelle prime ore successive all’arresto. L’attenzione ai fattori critici in grado di esitare in esiti infausti deve proseguire in concomitanza di eventi destabilizzanti, sia personali (morte di un familiare) che collegati alla situazione detentiva (sovraffollamento, senso di inutilità del tempo speso in carcere), in grado di infondere sentimenti di disperazione e desideri di annullamento del sé che richiedono supporto sociale e professionale per essere adeguatamente fronteggiati. La firma del Papa è la prima posta su una bandiera che farà il giro delle carceri italiane Ansa, 28 gennaio 2016 La firma del Papa è la prima posta su una bandiera che farà il giro delle carceri italiane per raccogliere le firme dei detenuti. La stessa bandiera sarà riconsegnata a Francesco il 6 novembre, in occasione del Giubileo delle carceri. È quanto accaduto questa mattina - riferisce l’Osservatore Romano - al termine dell’udienza generale di Papa Francesco. Per simboleggiare l’obiettivo di una nuova pastorale carceraria al Papa è stata consegnata una bandiera con le firme dei detenuti dei carceri di Venezia, Torino e Pontremoli. E anche un cd registrato dal coro delle detenute nel penitenziario veneto. Promotore dell’iniziativa è Juri Nervo, protagonista del rilancio dell’"eremo del silenzio", a Torino, proprio dove c’era una prigione tristemente famosa. "Le celle di detenzione sono divenute celle di preghiera", ha spiegato. Supportato anche da tanti ragazzi, incontrati nelle scuole e negli oratori, con le suore domenicane di Betania, Nervo ha consegnato a Francesco una bandiera con le firme dei detenuti che ha incontrato. E il Papa ha messo la sua firma su una nuova bandiera che ora sarà portata in altri penitenziari italiani, per poi riconsegnarla, carica di firme dei detenuti, a Francesco il 6 novembre, in occasione del Giubileo delle carceri. Intervista al collaboratore di giustizia Gaetano Vassallo "la pena più dura è la vergogna" di Antonio Maria Mira Avvenire, 28 gennaio 2016 Nella lunga intervista Gaetano Vassallo ci ha fatto tanti nomi. Politici nazionali e locali, imprenditori suoi "soci" o comunque del settore, e anche magistrati. Nomi molto noti e sconosciuti. Tutti, secondo lui, parte di quel "sistema" nel quale ha operato impunemente per più di trenta anni. Noi abbiamo deciso di non scriverli secondo una linea che il giornale ha sempre seguito. Come ci ha detto lo stesso Vassallo, e questo lo abbiamo riferito, quei nomi lui li ha fatti ai magistrati e agli investigatori coi quali sta collaborando dal 2008. Alcuni non sono mai stati toccati da inchieste e continuano tranquillamente ad operare. Toccherà agli inquirenti approfondire le denunce dell’imprenditore oggi collaboratore di giustizia, ritenuto molto affidabile e prezioso. L’unico per ora ad aver rivelato questo "sistema". Noi abbiamo preferito raccontare, attraverso le sue parole, il grande e drammatico affare dei rifiuti in Campania. Ma anche chi ci sia dietro al "re delle ecomafie": l’uomo, il padre, il marito. Per aiutare a capire come sia stato possibile uno dei più grandi disastri ambientali e umani del Paese. Non è qualche nome in più o in meno a cambiare la storia. "Oggi do più valore a tutto. Ora faccio la raccolta differenziata che prima non facevo. Tutta la famiglia è molto attenta". Continua così il racconto di Gaetano Vassallo, imprenditore dei rifiuti, "re delle ecomafie", legato al clan camorrista dei "casalesi" e oggi collaboratore di giustizia. Tanti processi in vista ma la condanna più pesante è suo figlio che si vergogna di lui. "Una volta a scuola gli insegnanti hanno annunciato che si sarebbe parlato della "Terra dei fuochi". E che lo avrebbero fatto soprattutto sulla base delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Mio figlio moriva dalla vergogna. Poi per fortuna non se n’è più discusso. Ma lui tornato a casa mi ha detto: "Papà mi sono sentito mancare la terra sotto i piedi". E io ascoltando le sue parole mi sono sentito veramente male". Le pesa che suo figlio si vergogni di lei? Si vergogna e mi ha cancellato dal suo profilo facebook. Guardi che è proprio brutto. Mi ha detto: "Papà se qualche mio amico vede la tua foto...". Ma non è che mi ha abbandonato (si commuove). È stata proprio la mia famiglia ad aiutarmi a fare la scelta della collaborazione. Prima di partire ho spiegato: "Setola può venire a uccidermi davanti ai vostri occhi e non so che cosa fare". Mio figlio mi ha detto: "Papà tu farai la cosa giusta, denuncia tutto e partiamo". Loro non si rendevano tanto conto di quello che avevo combinato, qua si sono resi conto e si vergognano, non tanto di me ma di quello che avevo combinato. E non ne vogliono più parlare. Anche io dal 2008 non parlo più, non rilascio interviste. Ho trovato il coraggio di scrivere un libro ma non sono orgoglioso di quello che ho scritto. Ma non poteva accorgersene prima? Quando facevo sta roba non mi rendevo conto. Il sistema andava così. Noi facevamo una buca, una discarica per i comuni. Quando ha cominciato mio padre, venivano coi trattori e i camioncini a scaricare nelle nostre cave. Poi mano a mano ci siamo trovati a gestire una cosa più grande di noi. Ma con l’ingordigia del denaro, con l’immunità, con l’ingresso degli "amici" della camorra eravamo diventati onnipotenti, nessuno ci poteva controllare. E abbiamo fatto di tutto. Chi c’è dietro un avvelenatore? C’è un "povero Cristo" che ha gestito una cosa più grande di lui. Quando ero bambino non avevamo niente, non tenevamo neanche i soldi per mangiare. Ci siamo trovati a gestire una vecchia cava di pozzolana dove abbiamo cominciato a scaricare. I rifiuti so’ soldi. E chi li aveva mai visti tutti quei soldi? Ma lei sapeva cosa scaricava. Certo che lo sapevo. Anche se chi ci seguiva tecnicamente ci diceva: "Non vi preoccupate, non ci sono problemi per la falda, non mettiamo i teli, però nel sottofondo c’è una lava vulcanica dura". Ma lo sapevo, per carità, che scaricavo fusti... E cosa c’era dentro? Ora qualcuno parla di rifiuti radioattivi. Io non lo so se effettivamente abbiamo scaricato rifiuti radioattivi perché in quei fusti non sapevamo cosa ci fosse. Mica li aprivamo. Quando li schiacciavamo uscivano dei fanghi, ma non ci rendevamo conto di quello che era. Ci rendevamo invece conto dei soldi che incassavamo a fine mese. Il nostro problema non era quello di smaltire ma di creare fatture false per far sparire l’utile dalle società perché il 99% del fatturato era tutto utile. Lei sa che tanta gente nella sua terra è morta e sta morendo di tumore. Vuole chiedere scusa ai familiari? Anche mio padre e mia madre sono morti di tumore. Mi auguro che non succeda a me, però l’ho preventivato. Chiedere scusa adesso che senso ha a distanza di anni? E dopo aver seminato morte? L’unica cosa che ho potuto fare è lasciare tutto quello che avevo. Quando ho deciso di collaborare sono partito in mutande, dico la verità, senza niente, per cercare di rifarmi una vita, ma senza dimenticarmi quello che ho combinato per poter poi dare una mano. Se potessi fare volontariato lo farei, se potessi venire giù ad accompagnarvi per farvi vedere dove stanno i rifiuti lo farei volentieri, ma purtroppo non mi è consentito. In alcuni di quei posti ci siamo stati. La discarica Novambiente la conosciamo bene. Ogni tanto qualcuno la incendia. Ho visto in tv i bambini rom che ci girano con le bici. Ma il comune di Giugliano perché ha messo quelle famiglie là in mezzo. Devono morire? Quanto deve a sua moglie? Le devo tutto. A lei e ai figli. Io ne ho viste tante di persone abbandonate in carcere, quel poco che ci sono stato, soprattutto i collaboratori di giustizia perché hanno perso tutto. Io invece devo ringraziare moltissimo mia moglie perché non mi ha mai lasciato. È stata sempre con me facendo sacrifici, sradicata dalla sua famiglia che è rimasta tutta giù. Però adesso ci sentiamo bene. Come vede ora il suo futuro? Manterrò i miei impegni, non torno indietro e continuerò fino a che riterranno che io possa essere utile. Quando avrò finito e mi chiederanno di uscire dal programma di protezione me ne uscirò. I miei figli studiano e io mi inserirò con loro. So che devo pagare il mio conto con la giustizia. Se riandrò in carcere e potrò così risolvere il problema che ho creato, ci andrò volentieri, però purtroppo non credo che così lo risolverò. Poi spero solo di poter continuare quello che sto facendo, quel poco di lavoro, per finire dignitosamente i giorni della mia vita. Vuole essere dimenticato? Sì, preferirei essere dimenticato. Ma molti non la dimenticheranno... Lo so. Quelli che ho rovinato non mi dimenticheranno mai ed è giusto che sia così. Ma anche molti di quelli che ho accusato non mi dimenticheranno mai. Questo l’aveva messo in conto quando ha deciso di collaborare. Sono già stato fortunato, miracolato. Vuol dire che il Signore così ha voluto. Mi auguro veramente che se mi ascolta aiuti questa povera gente e che si possa sistemare quello che ho combinato. Non l’ho combinato solo io, ma non mi interessa, io parlo del mio. Sono una noce nel sacco ma non fa niente, mi assumo la mia responsabilità. Lei ha citato il Signore. Ci parla mai? Prego solo che possa risolvere qualche problema giù. Io devo pagare la mia pena. Se morendo io si potessero salvare gli altri sono a disposizione, ma non comando io, comanda il Signore. Ma se potessi ancora dare una mano lo farei. Pensa che potrebbe essere perdonato per quello che ha fatto? Dalla gente no, ma forse dal Signore. Si fida di Lui? Io sì. Auto-riciclaggio con portata ampia di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2016 Corte di Cassazione - Sezione seconda penale - Sentenza 27 gennaio 2016 n. 3691. L’auto-riciclaggio scatta anche quando il reato presupposto è stato commesso in data anteriore a quella di entrata in vigore del nuovo articolo 648 ter 1 del Codice penale. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 3691 della Seconda sezione penale depositata ieri che rappresenta il primo intervento di rilievo dei giudici di legittimità sulla nuova fattispecie di contrasto alla criminalità economica introdotta all’inizio del 2015 dalla legge 186/14. La sentenza conferma così l’ordinanza con la quale il Tribunale del riesame di Como aveva confermato il parziale sequestro dei beni di un uomo, già in precedenza indagato per riciclaggio e al quale era già stata sequestrata una notevole somma di denaro, che, lo scorso 8 luglio, dopo avere oltrepassato dalla Svizzera il valico di confine di ponte Chiasso, veniva pedinato sino a Milano da una pattuglia della polizia giudiziaria. Qui l’uomo veniva bloccato e, all’esito dell’ispezione sulla borsa che aveva prelevato dalla vettura(all’interno della quale veniva individuato anche un doppio fondo dietro le bocche di aerazione del cruscotto), venivano trovati 3 pacchetti con banconote per complessivi 240mila euro, oltre a 870 sempre in contanti nel portafogli. Nella residenza dell’indagato, in un paese del comasco, venivano poi sequestrati altri beni e somme di denaro in contanti. La polizia giudiziaria rilevava così l’incoerenza tra l’ingente denaro sequestrato e i modesti redditi dichiarati e le rischiose modalità di trasferimento del denaro dalla Svizzera all’Italia ed eseguiva il sequestro ipotizzando la commissione del reato di auto-riciclaggio. La difesa, nei motivi di ricorso in Cassazione, dopo che il tribunale del riesame aveva in parte confermato la misura cautelare, metteva tra l’altro in evidenza, facendo leva sul principio di irretroattività della legge penale, come non si può contestare l’auto-riciclaggio quando il reato presupposto risulta commesso in una data antecedente a quella di entrata in vigore della legge 186/14 e cioè il 1°gennaio 2015. La Corte di cassazione non è però di quest’avviso e boccia il motivo come manifestamente infondato. Nella sua lettura è irrilevante il fatto che il reato presupposto, in ipotesi quello disciplinato dall’articolo 4 del decreto legislativo n. 74 del 2000 (dichiarazione infedele), sia stato realizzato prima del 2015. "Va premesso - sottolinea la sentenza - che impropriamente viene invocato il principio di irretroattività della legge penale di cui all’articolo 2 del Codice penale in relazione ad un reato, quale quello di auto-riciclaggio, nel quale soltanto il reato presupposto si assume commesso in una epoca antecedente la data di entrata in vigore della legge n. 186 del 2014, ma quando comunque lo stesso reato era già previsto come tale dalla legge". Tanto più poi quando, come nel caso esaminato, quando l’elemento materiale dell’auto-riciclaggio risulta essere stato concretizzato nel luglio 2015, molto dopo quindi il 1°gennaio. La linea della Cassazione sembra aprire quindi a una possibilità di contestazione anche quando il reato presupposto è di molto risalente nel tempo, rendendo a questo punto possibile un’ultima considerazione: che, nel caso in questione, l’indagato se la sarebbe cavata se avesse utilizzato lo scudo della voluntary discolsure che specificamente scherma da imputazioni di auto-riciclaggio con reato presupposto coincidente con l’articolo 4 del decreto 74 del 2000. Giudizio abbreviato, provvedimento revocato solo se imputato non pienamente consapevole di Antonino Porracciolo Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2016 Tribunale di Catania - Ordinanza 11 dicembre 2015. Sì alla revoca del provvedimento che ammette il giudizio abbreviato, ma solo se l’imputato non ha avuto piena consapevolezza del significato dell’istanza con cui ha chiesto di accedere a tale rito. È quanto emerge da un’ordinanza del Tribunale di Catania (giudice Giancarlo Cascino) dello scorso 11 dicembre. Con decreto del giugno 2015, il giudice per le indagini preliminari aveva disposto, nei confronti di tre cittadini del nord Africa, il giudizio immediato; il giudizio, cioè, che "salta" l’udienza preliminare quando il pubblico ministero ritiene che la prova sia evidente. Successivamente gli imputati avevano chiesto, in base all’articolo 458 del Codice di procedura penale, di essere ammessi al giudizio abbreviato: rito che prevede la definizione del processo allo stato degli atti, con la diminuzione di un terzo della pena in caso di condanna. All’udienza così fissata gli imputati hanno, però, dichiarato di revocare la richiesta di accesso all’abbreviato. Nell’accogliere l’istanza, il giudice osserva innanzitutto che - secondo la giurisprudenza della Cassazione - è abnorme, se pronunciata fuori dei casi previsti dall’articolo 441-bis del Codice di procedura penale (relativo alle nuove contestazioni del pubblico ministero), l’ordinanza di revoca del provvedimento di ammissione dell’imputato al rito abbreviato. E l’irrevocabilità riguarda - prosegue il Tribunale, citando la sentenza 21568/2015 della Corte suprema - non solo l’ordinanza pronunciata, "nel caso "normale" dell’articolo 438 del Codice di procedura penale, (…) all’interno dell’udienza preliminare", ma anche quella emessa dopo la fissazione dell’udienza per il giudizio immediato. Peraltro, l’articolo 441-bis del Codice di rito contiene, secondo il giudice etneo, un principio generale: quello che ammette la regressione della procedura in presenza di comprovata esigenza difensiva, "insorta, senza profili di colpa per l’agente, successivamente alla prima scelta". Sul punto, l’ordinanza ricorda che la Corte costituzionale ha chiarito che la decisione "di valersi del giudizio abbreviato è certamente una delle più delicate, fra quelle tramite le quali si esplicano le facoltà" difensive. E la Corte Edu, a sua volta, richiede che le scelte relative alla condizione processuale dell’imputato siano sempre consapevolmente assunte e a lui "congruamente partecipate". Il giudice rileva quindi che gli imputati "non comprendono, né parlano o scrivono, la lingua italiana" e inoltre che, attraverso l’interprete, avevano dichiarato di non aver "ricevuto congrue spiegazioni circa le implicazioni del rito abbreviato, da un lato premiali, dall’altro comportanti rinuncia al contraddittorio", da loro "invece ritenuto indispensabile per l’esame dei testi a carico". Di conseguenza - aggiunge il Tribunale -, la scelta di definizione del processo nelle forme del giudizio abbreviato è "in origine viziata", in quanto assunta non consapevolmente. Ciò legittima quindi la revoca del provvedimento che aveva ammesso il rito abbreviato. Così gli imputati sono stati nuovamente citati innanzi alla Corte d’assise nelle forme previste dal giudizio immediato; al contempo, il giudice ha disposto una seconda notifica del decreto del giugno 2015, ordinandone la traduzione in una lingua nota ai tre uomini. Guida sotto l’effetto di droghe, per la condanna va dimostrato lo stato di alterazione di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2016 Corte di Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 27 gennaio 2016 n. 3623. Occorrono sempre una visita medica o una manovra particolarmente pericolosa per arrivare a una condanna per guida sotto l’effetto di droghe. Anche quando le analisi del sangue rilevano che nel corpo del conducente ci sono vari stupefacenti, oltre a una quantità di alcol doppia rispetto al consentito. E non ha importanza il fatto che l’interessato, guidando in queste condizioni, abbia provocato un incidente, se il comportamento alla base del sinistro è tale da poter essere ricondotto anche a semplice distrazione e non necessariamente a uno stato di alterazione psicofisica. Possono apparire controcorrente queste conclusioni, cui porta la sentenza 3623, depositata ieri dalla Quarta sezione penale della Cassazione, su uno di quei tipici incidenti che suscitano allarme sociale: una collisione avvenuta in una notte del weekend per colpa di un guidatore ebbro e drogato. Una situazione che, se ci fossero state vittime e si fosse verificata tra qualche mese e non nel 2011, sarebbe rientrata nell’ambito del nuovo reato di omicidio stradale, che sta per essere approvato definitivamente dal Senato. In realtà, la Corte parte da un presupposto incontestabile: per poter configurare la guida sotto effetto di droghe, l’articolo 187 del Codice della strada richiede non solo che si trovi traccia di stupefacenti, ma anche che si dimostri l’alterazione psicofisica. Una norma più garantista di quelle in vigore in altri Paesi e di quella italiana sull’alcol, basate sulla semplice presenza di determinate quantità di sostanza. Ma c’è un fondamento scientifico: le droghe restano nel corpo anche per mesi ma fanno effetto per molto meno tempo, per cui non è detto che chi ha le ha assunte sia necessariamente alterato. Normalmente, quando si fanno test su guidatori, li si accompagna con visite mediche per certificare lo stato di alterazione. In mancanza, si può ricorrere ad altri elementi. Nel caso esaminato dalla Cassazione, non c’erano riscontri medici e l’elemento che aveva portato alla condanna nei due precedenti gradi di giudizio era il fatto di aver causato un incidente. Ma la Quarta sezione argomenta che questo di per sé non dimostra lo stato di alterazione: occorre approfondire le modalità di guida e del sinistro. In questo caso, si trattava di uno stop non rispettato alle cinque del mattino. Una situazione che, secondo la Corte, potrebbe essere anche giustificata dalla fiducia che dall’incrocio non passassero altri veicoli, data l’ora. E in ogni caso può denotare anche trascuratezza nella guida, scarso rispetto delle norme o semplice distrazione. Quindi non ci sono segni inequivocabili di alterazione. Per meglio chiarire, i giudici fanno qualche esempio di comportamento di guida che possa essere segno di alterazione: imboccare contromano un’autostrada o una strada a scorrimento veloce, tenere velocità elevatissime, effettuare inversioni di marcia e sorpassi particolarmente rischiosi. Nulla di tutto ciò, nel caso esaminato. Di qui il rinvio in Corte d’appello, per la parte relativa alla droga. Confermata solo la condanna per guida in stato di ebbrezza. Cassazione, la bancarotta non assorbe l’evasione di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2016 Corte di Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 27 gennaio 2016 n. 3539. La sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte concorre con la bancarotta per distrazione in quanto i due delitti presentano differenze strutturali e tutelano diversi interessi: il delitto tributario è preposto a garantire l’interesse fiscale attraverso la riscossione coattiva e si configura come reato di pericolo, l’altro invece tutela gli interessi dei creditori e rappresenta un reato di danno. A fornire questa rigorosa interpretazione è la Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza 3539 depositata ieri. Un imprenditore dichiarato fallito è stato imputato di bancarotta fraudolenta per distrazione e sottoposto a procedimento penale. Successivamente - a dibattimento in corso - il Pm ha ottenuto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente per il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. Secondo l’ipotesi accusatoria il reato tributario concorreva con la più grave violazione fallimentare e non ne era assorbita. Il sequestro è stato confermato dal Tribunale del riesame, la cui decisione è stata impugnata in Cassazione. La difesa dell’imprenditore ha evidenziato la correttezza dell’interpretazione secondo cui la fattispecie penale fallimentare, punita anche più gravemente, era assorbente del delitto tributario di sottrazione fraudolenta, con la conseguenza che non era ipotizzabile alcun concorso tra i due illeciti. La fondatezza di questa interpretazione era ancora più resa evidente dalla circostanza che, prima delle modifiche introdotte dal Dl 78/2010, il reato di sottrazione fraudolenta si caratterizzava proprio dalla formula "salvo che il fatto non costituisca più grave reato", proprio per escludere il concorso con la bancarotta. Poiché nel caso specifico la contestata sottrazione fraudolenta era avvenuta nel 2009, prima delle modifiche, anche la lettera della norma non dava adito a dubbi sull’esclusione del concorso. Si ricorda che la bancarotta fraudolenta per distrazione (articolo 216 della legge fallimentare) punisce con la reclusione da tre a dieci anni, se dichiarato fallito, l’imprenditore che ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni oppure, per recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti. La sottrazione fraudolenta (articolo 11 del Dlgs 74/2000) sanziona invece con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque (con aumento di pena se l’ammontare delle imposte supera i 200mila euro), per sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o Iva, oppure di interessi o sanzioni amministrative relativi a queste imposte di ammontare complessivo superiore a 50mila euro, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. I giudici di legittimità hanno ritenuto di non investire della questione le Sezioni Unite, aderendo alla tesi più rigorosa di sussistenza del concorso tra i due delitti, configurandosi nella specie un’ipotesi di specialità bilaterale. Secondo la sentenza non si può affermare che le due fattispecie regolino la stessa materia e quindi il bene giuridico protetto è differente. Il reato tributario infatti sanziona condotte che pregiudicano l’interesse fiscale al buon esito della riscossione coattiva, mentre la violazione fallimentare tutela l’interesse dei creditori. Da qui l’impossibilità che la fattispecie penale fallimentare possa assorbire anche quella tributaria con la conseguente configurabilità del concorso tra i due delitti. Il rischio di questa interpretazione è, ovviamente, di commettere in molte ipotesi di bancarotta, quasi in modo automatico, anche il reato fiscale. Niente sequestro per la srl di comodo se serve a continuare l’attività di impresa di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2016 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 27 gennaio 2016 n. 3563. Il sequestro preventivo non può essere applicato alla società di comodo attraverso la quale il fallito continui a svolgere la propria attività imprenditoriale. Questo il principio sancito dalla quinta sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 3563/2016. Alla base della vicenda un decreto di sequestro preventivo emesso dal gip del tribunale di Latina per il fallimento di una società (a causa di bancarotta fraudolenta per distrazione). La misura ablatoria, tuttavia, andava a colpire le quote societarie (97%) detenute da altro soggetto estraneo al fallimento e facenti capo ad altra società detenuta sempre - nella veste di amministratore di fatto - dal soggetto che aveva procurato il fallimento della prima azienda. Prosecuzione dell’attività da parte del fallito - La Corte in materia ha puntualizzato che la società di comodo "in quanto costituisca lo strumento attraverso il quale il fallito continui a svolgere la propria attività imprenditoriale, non può in sé e per sé costituire oggetto di sequestro preventivo", perché nulla vieta che il fallito possa proseguire fuori dal fallimento una precedente attività o addirittura intraprenderne una nuova, fatte salve ovviamente le ragioni dei creditori concorsuali. In linea di principio - si legge nella sentenza - è legittimo il sequestro preventivo delle quote di una società, pur se appartenenti a persona estranea al reato, qualora la misura sia destinata a impedire la protrazione dell’ipotizzata attività criminosa, poiché ciò che rileva in questi casi non è la titolarità del patrimonio sociale, ma la sua gestione, supposta illecita e "si può, d’altra parte, riguardare il sequestro preventivo come idoneo a impedire la commissione di ulteriori reati, pur se in maniera mediata e indiretta, dal momento che esso priva i soci dei diritti relativi alle quote sequestrate". Conclusioni - Nel caso di specie, tuttavia, non è stato dimostrato dai giudici di merito che la società neo costituita potesse avere la funzione di contenitore ove far confluire beni appartenenti alla società dichiarata fallita. Del tutto ininfluente poi la circostanza che la società di comodo avesse come amministratore di fatto lo stesso soggetto che amministrava la società "decaduta". Firenze: l’Opg aperto ancora per un anno, ecco l’ultimo rischio per i pazienti di Elena Marmugi La Nazione, 28 gennaio 2016 La Regione fa ricorso: così si allungano i tempi del trasloco. Un anno non è bastato. Forse ne servirà un altro. I pazienti restano di fatto detenuti nell’Opg di Montelupo Fiorentino. Un disastro umano oltreché una grave colpa politica. La Regione ha impugnato l’ordinanza emanata dal Tribunale di sorveglianza, con la quale a novembre era stata condannata a chiudere l’ospedale psichiatrico entro tre mesi. A dicembre, entro i tempi previsti dalle legge, la Regione stessa ha presentato un reclamo con il quale si dovrà passare dai tre gradi di giudizio, fino alla sentenza della Cassazione, prima di conoscere le sorti dei pazienti. La criticità della situazione - si scopre oggi - sta nel fatto che quel reclamo blocca la possibilità dell’ordinanza di essere definitiva e bisognerà per questo aspettare il giudizio della Cassazione per arrivare all’effettività del rimedio giurisdizionale. Così il ricorso preventivo per la violazione dei diritti dei detenuti, firmato l’estate scorsa dai 47 pazienti su 85, è di fatto inattuabile. Oggi - come non manca di ricordare il garante dei detenuti Franco Corleone - la gabbia di Montelupo sarebbe dovuta essere un lontano ricordo. Peccato che non sia così. Tutto da rifare, ancora una volta. Dal primo aprile 2015, infatti, per legge, l’Opg non è più il luogo deputato ad accogliere le persone che hanno commesso un reato e sono state considerate incapaci di intendere e volere. Tuttavia i pazienti sono ancora internati, invece di essere affidati alle "Rems" (residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza) dove personale sanitario specializzato dovrà occuparsi della cura e non della custodia degli ospiti, senza polizia penitenziaria all’interno e senza un direttore appartenente all’amministrazione penitenziaria. La rems di Volterra, che occupa gli spazi dell’ex manicomio, non è ancora pronta. Attualmente esiste un centro intermedio dove sono disponibili 12 posti, di cui 11 già occupati, mentre la Rems provvisoria sarebbe dovuta essere fruibile da mesi per 10 pazienti, e da altri 12 ospiti nel corso del 2016. E questo è un problema al quale si aggiunge il reclamo presentato dalla Regione che di fatto rende inefficace i ricorsi firmati dai pazienti grazie all’aiuto dell’associazione "L’altro diritto" presieduta dal professor Emilio Santoro. Tra i pazienti sono 23 quelli toscani; è vero sì che i ricorsi firmati da coloro che non sono residenti in Toscana non dovrebbero riguardare la nostra regione, ma è anche vero che tutti sono detenuti in modo illegittimo. Sempre durante la visita del garante, la direttrice Antonella Tuoni, che martedì ha accompagnato Corleone nella struttura in viale Umberto I, ha assicurato che a breve altri quattro pazienti verranno trasferiti nella Rems di Volterra. E gli altri? "Ordinare all’amministrazione penitenziaria di portare fuori la polizia penitenziaria lasciando così un presidio sanitario avrebbe garantito la non violazione dell’articolo 13". La proposta che Santoro fece a novembre potrebbe essere l’unica via verso la legalità. Parma: alla trasmissione "Le Iene" le registrazioni dei presunti pestaggi in carcere parmatoday.it, 28 gennaio 2016 Andrea Bertani, consigliere M5S chiede alla Giunta regionale "se il Garante regionale dei detenuti si sia interessato al caso e se nel corso della sua attività di vigilanza sulle condizioni di vita e di salute delle persone detenute" abbia avuti riscontri di situazioni simili a quella di Parma". Il consigliere chiede se Garante regionale dei detenuti si è occupato del caso e se sia a conoscenza di altre situazioni di analoga gravità Un servizio televisivo sulla situazione delle carceri italiane andato in onda nella trasmissione televisiva "Le Iene", riportando alcune registrazioni effettuate da un detenuto nel carcere di Parma in merito a colloqui intercorsi fra agenti di polizia penitenziaria, è oggetto di un’interrogazione presentata da Andrea Bertani (M5S). Le registrazioni, effettuate di nascosto da un condannato per violenza sessuale, che dichiara di essere stato ripetutamente picchiato durante la detenzione, farebbero emergere, secondo il consigliere, "una situazione nel carcere di Parma di intimidazioni, minacce e omertà su presunti episodi di violenza perpetrati dagli agenti di polizia penitenziaria che avrebbero perfino indotto il ministro della Giustizia a inviare degli ispettori". Bertani, pertanto, chiede alla Giunta regionale "se il Garante regionale dei detenuti si sia interessato al caso e se nel corso della sua attività di vigilanza sulle condizioni di vita e di salute delle persone detenute" abbia avuti riscontri di situazioni simili a quella di Parma. Alessandria: il Consiglio comunale andrà in carcere? di Marco Madonia alessandrianews.it, 28 gennaio 2016 Doppia audizione nella seduta della Commissione Politiche sociali e sanitarie del garante per i detenuti regionale, Bruno Mellano, e di quello comunale, Davide Petrini, per fare il punto sullo stato di salute dei due carceri di Alessandria. Fabbio: "organizziamo un Consiglio comunale all’interno dell’istituto di San Michele per discutere del suo possibile ampliamento e del trasferimento del Catiello Gaeta" Martedì 26 gennaio la Commissione Politiche sociali e sanitarie si è ritrovata a Palazzo Rosso per una doppia audizione sullo stato di salute dei due carceri cittadini, la Casa circondariale "Catiello Gaeta" (ex Don Soria) e quella di Reclusione con sede a San Michele. Per rendicontare sull’attività svolta sono stati ascoltati Bruno Mellano, Garante regionale per i diritti dei detenuti e Davide Petrini, referente cittadino. All’incontro, molto partecipato, hanno contribuito anche i due direttori dei carceri alessandrini, Valentini e Lombardi Vallauri e numerosi operatori e volontari. "In Piemonte ci sono 13 strutture detentive - spiega Mellano - distribuite su 12 città. Alessandria è l’unica ad averne due. Dal 2014, quando sono stato nominato, ho avuto tantissime richieste d’incontro, anche perché in Italia c’è ancora molto da fare. Il punto è lavorare con il territorio per migliorare la qualità della vita in carcere: ad oggi abbiamo il sistema più costoso e con il più alto tasso di recidiva d’Europa". Il prof. Petrini racconta: "in città la situazione è particolare, con due istituti diversissimi fra loro, il Catiello Gaeta caratterizzato da una popolazione carceraria con una percentuale di stranieri fra la più alta in Italia e permanenza bassa e San Michele con una media di pene molto lunga (15-20 anni) e con esigenze peculiari, anche tenuto conto che ospita un polo universitario interno e una sezione dedicata ai collaboratori di giustizia, che non possono avere contatti con gli altri detenuti". Fra i dati che più colpiscono, forniti durante l’audizione, c’è quello relativo al tasso di suicidi, secondo in Piemonte solamente a quello di Torino. "Tre sono gli aspetti fondamentali su cui lavorare con la massima urgenza - sottolinea Petrini - L’interazione con la città, che deve vivere il carcere come fosse un suo quartiere (come evidenziato dall’assessore Mauro Cattaneo), la centralità del ruolo che la Polizia penitenziaria ha in fase di intelligence e non solamente di custodia, contribuendo attivamente a monitorare lo stato di salute dei detenuti, e la capacità di mettere in campo progetti intelligenti e creativi per ridurre il tasso di recidività di chi esce, restituendo al carcere la sua funzione rieducativa e non solamente quella punitiva". Studi dimostrano infatti come il tasso di recidiva possa oscillare fra il 70 e il 5%, a seconda che siano o meno presenti spazi all’interno del carcere per coltivare la parte più affettiva nella vita dei detenuti (ad esempio con strutture dedicate dove poter trascorrere del tempo con i familiari, come avviene in Svizzera) e da percorsi accompagnati di reinserimento graduale in società, per esempio con progetti lavorativi. Durante il dibattito in aula l’ex sindaco Fabbio ha ricordato il percorso già sondato in passato, e ha rilanciato una proposta concreta per consentire di innovare le strutture in città: "già durante il mio mandato si era sondata la possibilità di concentrare tutti i detenuti nel carcere di San Michele, dopo averlo ampliato, con il contributo del Ministero e di privati, che potrebbero in cambio riscattare la struttura del Catiello Gaeta per darle nuova vita. Sarebbe bello tornare a discutere di questa possibilità direttamente in carcere, svolgendo lì un Consiglio comunale ad hoc sul tema, insieme ai detenuti. Sarebbe un bel gesto per coinvolgerli e renderli parte attiva della città". Resta molto da fare - come è emerso dagli interventi di diversi operatori e volontari - sul fronte sanitario (la percentuale di detenuti con dipendenze e che assume farmaci è altissima, e non sempre le cure riescono a essere efficaci) e su quello delle attività proposte e dei percorsi lavorativi, sia all’interno che all’esterno della struttura detentiva, passaggio davvero fondamentale per un reinserimento efficace e duratura in società. Velletri (Rm): detenuto si impicca in cella, ma un agente lo salva appena in tempo ilmamilio.it, 28 gennaio 2016 È accaduto ieri mattina. Ciro Borrelli: "Non è la prima volta che un uomo della polizia penitenziaria salva una vita. Però questa struttura è ormai al limite del collasso". Voleva farla finita, impiccandosi alle sbarre della finestra della cella nella quale è detenuto. Solo il pronto intervento di un agente gli ha salvato la vita. È accaduto ieri mattina nel carcere di Velletri quando un detenuto quarantenne, di origine straniera che stava scontando una pena di 4 anni per rapina-furto, ha tentato di suicidarsi impiccandosi alle sbarre della finestra con una corda artigianale creata con strisce di lenzuola attorcigliate. È stato solo grazie al tempestivo intervento dell’agente di sezione che, accortosi del corpo agonizzante appeso alla finestra apriva la cella con l’aiuto di un detenuto che in quel momento era impiegato come lavorante per la pulizia della sezione detentiva, si è potuto evitare che accadesse il peggio. Il 40enne, immediatamente soccorso, è stato sottoposto a tutti gli accertamenti clinici che fortunatamente che hanno escluso conseguenze per la salute dell’uomo. "Non è la prima volta che gli Agenti di Polizia Penitenziaria salvano una vita umana", dice il dirigente sindacale del Si.P.Pe. (Sindacato Polizia Penitenziaria) affiliato UGL P.P. Ciro Borrelli. "L’autocontrollo e la fermezza sono la prova evidente che gli agenti lavorano con grande professionalità, dimostrando ogni giorno coraggio e senso del dovere. La struttura penitenziaria di Velletri - conclude Borrelli - arriva ad ospitare 530 detenuti e soffre di una forte carenza di Agenti, per questo motivo le Autorità competenti devono prendere atto della problematica e dare una risposta concreta e immediata". Cremona: detenuto in attesa di giudizio provoca un incendio nella sua cella di Giulia Morici pontilenews.it, 28 gennaio 2016 L’uomo, in attesa di giudizio, ha bruciato degli oggetti: l’intenso fumo ha reso necessaria l’evacuazione dei detenuti. Due agenti intossicati. Degli oggetti bruciati nella cella di reclusione, un intenso fumo, e due agenti della polizia penitenziaria intossicati: è accaduto nella serata di ieri, 26 gennaio, nel carcere di Cremona. Il protagonista dell’episodio è un detenuto nordafricano, il quale, in attesa di giudizio, ha deciso di compiere il gesto: dare fuoco a degli oggetti presenti nella sua cella. Dall’incendio si è generato un intenso fumo: necessaria l’evacuazione dei detenuti ospiti nella sezione dove è situata la cella dell’uomo nordafricano. Da quanto si apprende sull’accaduto, due agenti della polizia penitenziaria, intenti a contenere le fiamme divampate, sarebbero rimasti intossicati: i due, soccorsi e trasportati presso un nosocomio, non hanno riportato conseguenze gravi, dopo i dovuti accertamenti sono stati dimessi. La notizia dell’incendio è stata resa pubblica da Donato Capece, segretario del Sappe, il Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria. Il detenuto è stato ricoverato in ospedale, dove è stato sottoposto a osservazione psichiatrica. Non si conoscono le motivazioni che hanno indotto il detenuto a compiere quest’azione, ma altre informazioni sono pervenute circa il suo profilo. L’uomo era recluso presso il carcere di Cremona, prima di essere trasferito presso una Rems, la Residenza per l’Esecuzione di Misure di Sicurezza: quest’ultima ha definitivamente sostituito nel 2015 gli Opg, gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Dunque l’azione dell’uomo potrebbe essere ricondotta al suo profilo psicologico, probabilmente poco stabile. Era il marzo del 2015 quando, in Italia, gli ex manicomi criminali venivano definitivamente chiusi. Al loro posto sorgevano le Rems: venti posti letto e sistemi per prevenire l’evasione, una soluzione che ha portato con sé delle problematiche. Alla data di chiusura degli Opg, il numero dei posti letto delle Rems non si dimostrò sufficiente a ospitare tutti i detenuti. Una criticità dovuta al ritardo di alcune regioni nell’attivazione delle Residenze per l’Esecuzione di Misure di Sicurezza. Chieti: un corso di Pedagogia per i detenuti, progetto promosso dalla direttrice Ruggero Il Centro, 28 gennaio 2016 Analizzare la propria condizione prendendo coscienza degli errori commessi e iniziare un cammino di speranza che conduca i detenuti fuori dal carcere con la consapevolezza di essere diventati migliori. Lunedì scorso nella casa circondariale di Chieti, Madonna del Freddo, si è tenuto il primo di una serie di incontri che puntano sulla crescita dei detenuti attraverso l ‘analisi della propria condizione. Il progetto, "Corso di pedagogia introspettiva", si è aperto con la presentazione di un libro che racconta la storia amara di persone finite in carcere "per reati che rasentano il ridicolo" e delle loro famiglie che scontano, a loro modo, un altro tipo di condanna, ma fuori dal carcere. "Lontano dal sole", del teatino Paolo Miscia, edito da Tabula Fati, è riuscito a tenere incollati alle sedie dell’auditorium gli ospiti della casa circondariale. Sono state soprattutto le detenute a mostrare maggiore interesse per la figura di Gianna, la co-protagonista del romanzo che esalta i sentimenti della "prigionia senza detenzione" di "moglie abbandonata, madre allo sbaraglio e amante delusa". Il progetto è stato voluto dalla direttrice del carcere Giuseppina Ruggero "la direttrice più anziana d’Abruzzo", ha tenuto a specificare lei stessa, coadiuvata dalla educatrice, la dottoressa Annamaria Raciti coordinatrice del progetto. Lunedì pomeriggio in sala erano presenti l’autore del libro, la professoressa Luana Di Profio, esperta in Pedagogia introspettiva e ricercatrice universitaria. In sala anche il comandante in congedo della casa circondariale Valentino Di Bartolomeo e l’attrice ed esperta di teatro Anna Di Lena che ha letto vari brani del libro. All’incontro hanno partecipato anche il comandante Alessandra Costantini che ha accolto gli intervenuti e ancora Francesco Lo Piccolo, direttore della rivista "Voci di dentro". Tra gli spettatori anche numerose tirocinanti nelle materie di Sociologia, Criminologia e Psicologia. I detenuti hanno interagito con l’autore e gli intervenuti, dando luogo ad un interessante dibattito con variegati spunti di riflessione centrando in pieno l’obiettivo del progetto. Teatro, carcere e filosofia di Giancarlo Capozzoli (Regista teatrale e scrittore) huffingtonpost.it, 28 gennaio 2016 "Una società magnanima e altera si riconosce nei suoi (di Shakespeare) personaggi idealizzati. La condizione umana scopre se stessa nelle sue possibilità e nei suoi pericoli, nella sua grandezza e nella sua nullità, nella sua innocenza e nel suo satanismo, nella sua nobiltà e nella sua bassezza, nella sua gioia di vivere e nel suo orrore dinanzi all’incomprensibile spettacolo della caduta e della distruzione, nel suo amore, nella sua dedizione, nella sua generosità assoluta, nel suo odio, nella sua grettezza e nella sua cecità... e insomma, nella insolubilità della sua missione, nel fallimento estremo delle sue speranze, sullo sfondo di un ordine perenne e dell’antitesi - sentita come infallibile istinto - tra il bene e il male". Leggendo queste poche righe tratte da "Del tragico", di Karl Jaspers, si può subito avere anche solo la intuizione della necessità e della urgenza della pratica teatrale, nel senso e nel momento in cui questa mette in questione l’uomo in quanto uomo. Non è certo Jaspers, il primo e l’unico a sottolineare la decisiva importanza del teatro anche rispetto alla società contemporanea. Penso a Nietzsche e ai suoi studi sul teatro antico, greco, che mette in evidenza quelli che sono per lui i temi chiave e in qualche modo pre-filosofici, posti in essere dalle opere dei grandi drammaturghi. A partire da queste osservazioni si inserisce il teatro nel contesto drammatico e reale del carcere. Si inserisce, si potrebbe dire, su un doppio binario. Da una parte c’è l’aspetto pratico, concreto, immediato dell’agire e della azione scenica, relativamente a corpi e all’uso di corpi disabituati ad agire, perché reclusi. Già solo in questi pochi concetti, risiedono concetti fondamentali al fine di una effettiva sorveglianza sull’essere-detenuto e sul prendersi-cura del suo essere psichico e fisico. (La esclusione da un punto di vista affettivo e sessuale mina seriamente la stabilità emotiva di una persona reclusa). Poche parole, pochi concetti che fanno emergere quello che è uno degli aspetti più immediati e più drammatici della reclusione: la pauperizzazione dei sensi. Tanta letteratura e tante ricerche si sono mosse in questo senso, e hanno affrontato il teatro come tentativo di un risveglio di sensi altrimenti perduti. Letteralmente si perdono i sensi. La vista che per minuti giorni mesi anni segue sempre la traccia ristretta delle mura del penitenziario, riconosce sempre gli stessi visi, gli occhi che si fanno sempre un po’più spenti e i sorrisi sempre più rari, e gli stessi colori opachi, le stesse sbarre, gli stessi cancelli. Il tatto che accarezza superfici sempre uguali di muri sporchi e scrostati, o la ruggine fredda delle sbarre, o le lenzuola rigide d’ordinanza. L’udito sente rumori sordi e monotoni, chiavi che chiudono, cancelli che sbattono e urla pianti o preghiere recitate a bassa voce. Anche il gusto si abitua al sapore ostile del cibo della mensa, ostile a prescindere o anche perché non si ha la possibilità concreta di comprare cibo dall’esterno. L’odore dell’olfatto si abitua presto all’odore dei compagni di celle sempre sovraffollate, o delle latrine sistemate proprio affianco ai fornelli a gas o alle brande, l’odore della muffa e dell’umido e della polvere di pareti grigie. In questo senso il teatro deve essere inteso come risveglio dei sensi, e a partire da ciò si pone anche allo stesso tempo una riflessione filosofica necessaria e centrata sull’accadere teatrale stesso e sul luogo, il carcere. Si è detto, risveglio dei sensi a partire dall’agire teatrale di corpi reclusi. Già a partire dalla parola reclusi, reclusione, assenza di libertà non si può prescindere da un domandare che è già filosofico. Che cosa è la libertà? Che cosa è la identità? L’idea, l’intenzione è di ricercare uno svolgimento di queste tematiche fondamentali in relazione al carcere. Altre anche: lo spazio e il tempo. Il carcere è assenza di spazio e di tempo. Si ponga a confronto con l’idea del nostro essere-spazio-tempo e si veda già la contraddittorietà di questa affermazione. Voglio dire, se l’essere dell’uomo è in relazione con il tempo (e lo è per forza di cose, in quanto essere finito), che uomo è un uomo che non ha a disposizione il proprio tempo? Che cosa è il tempo per un detenuto? Che cosa è il tempo per l’uomo? Le questioni sono questioni filosofiche che hanno a che fare con l’idea che abbiamo dell’uomo e degli uomini nella società in cui viviamo. Questioni contemporanee e attuali che ci riguardano nella pratica quotidiana, e che giungono dal confronto (anche teatrale) con i detenuti. Ciò che è in questione, voglio dire, è il domandare sull’uomo-recluso e i suoi diritti fondamentali e del rispetto di questi diritti, ma non solo. Il fine è anche quello di riflettere ulteriormente e approfonditamente su un modo di intendere i diritti nella società contemporanea, a partire dal luogo dove i diritti sono tenuti in poca considerazione. Il diritto alla salute, il diritto alla istruzione tanto per fare un esempio. Scrivere di carcere può essere uno strumento per focalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica su queste tematiche in vista di una maggiore conoscenza di aspetti della società e di diritti che, come detto, riguardano tutti noi, da vicino. Il teatro è solo il punto di partenza necessario per affrontare queste questioni, che hanno a che fare con l’uomo in sé, con l’uomo in quanto uomo. Ed inoltre il teatro ha l’occasione in carcere di porre tali fondamentali questioni a chi non ha mai avuto l’occasione di confrontarsi per mancanza di studi, di capacità anche, di mezzi, o a causa di contesti sociali difficili (la difficoltà di tali contesti consiste anche nelle risposte semplici e ovvie che si danno, nella inconsapevolezza di una qualche forma di riflessione). Il teatro in carcere (tutto il sistema intendo, amministrazione-assistenti-detenuti-esterni) è l’occasione ulteriore, ma anche la scelta e la decisione (che è già filosofia e filosofia politica) di porre questi temi, si è visto in che termini fondamentali, propri di alcuni testi teatrali, a persone che non hanno finora avuto modo di conoscerli finora e confrontarsi con essi. Il fine è quello di giungere ad una maggiore consapevolezza del proprio sapere, anche a partire dalla propria esperienza di vita vissuta. Voglio dire che alcune idee come ostilità, dignità, onore, vendetta, attesa, orgoglio, rispetto, amore, religione, relazioni, famiglia, cultura, magia, paura, rivolta, ribellione, morte, sentirsi a casa, prendersi cura, corpo, spazio, tempo, uomo possono avere una declinazione diversa, da parte di chi vive la sua vita, oggi, all’interno del carcere e si confronta per la prima volta con la lettura di un testo (teatrale). Può anche accadere che questa lettura stimoli una riflessione e ridimensioni la propria visione, imparando un altro punto di vista. I risvolti pratici sociali e politici mi paiono evidenti. Dunque questi pensieri mirano ad un doppio scopo. Da una parte c’è il tentativo di comprendere, e raccontare un mondo escluso e dimenticato quale è il carcere. Da un altro lato il fine è quello di tentare di aprire questo luogo alle persone esterne, alle persone libere, anche solo con l’intenzione di sollecitare un punto di vista diverso, altro, alternativo. Carcere e detenuti sono paradigmi vuoti se non li si riempie di significato. Il fucilino finto e il fucilone vero di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 28 gennaio 2016 "Col fucile finto tra i binari. Un’ora di paura": suonavano come rimprovero i titoli dei giornaloni e giornalini in questi giorni, rivolto al malcapitato padre ciociaro presunto "terrorista". Giacché alla stazione Termini, cuore pulsante della capitale d’Italia, se ci si deve proprio andare bisogna portarsi almeno un fucile vero. Se non altro per giustificare l’apparato di presidi armati che ha militarizzato la scena delle nostre città. Apparato che, di fronte alla minaccia cresciuta d’intensità in Italia per fortuna solo per la brutta bestia della psicosi collettiva dopo gli attentati di Parigi, si è subito pericolosamente schierato in armi. E contro cittadini inermi che prendevano un treno o tornavano da un viaggio. Pancia a terra, mani in alto, perquisizioni, armi da guerra sfoderate dai militari. Subito in campo per l’avvistamento in un monitor di un uomo armato di fucile e per una voce su "spari". Senonché alla fine l’arma si è rivelata finta. Resta vero il terrore vissuto da chi si è trovato le armi spianate davanti. E restano altrettanti interrogativi. Se l’arma fosse stata vera e poteva tranquillamente esserlo, a che serve quel dispositivo di guerra in atto con sentinelle armate fino ai denti e ovunque che ci troviamo davanti ogni giorno? Siamo sicuri che alpini e marò con armi automatiche in mano nei metrò e nelle stazioni ferroviarie siano davvero un presidio preventivo o non piuttosto una occasione in più di pericolo? Visto il semplice fatto che ogni volta che passiamo loro davanti siamo frapposti, cioè stiamo in mezzo, al bersaglio di una vera o presunta sparatoria contro veri o presunti terroristi: vale a dire che siamo da subito morti predestinati. Dobbiamo abituarci allo stato di guerra, a quell’emergenza che vede i profughi come nemici e che ormai non convince più nemmeno la ministra della giustizia francese Christiane Taubira che per questo ha deciso di lasciare la compagine governativa di Hollande. Ora, naturalmente, bisogna trovare il colpevole per quei minuti di scene di guerra nel cuore di Roma. È il "terrorista ciociaro", dato "in fuga" ad Anagni che, inconsapevole, rischia ora di essere accusato di procurato allarme. Eppure la sua unica colpa è quella di avere perseverato nella pessima abitudine di regalare armi giocattolo al "figlio maschio" (articoli del resto in vendita in tutti i negozi d’Italia). Tant’è. La brutta bestia della psicosi collettiva accredita attentati, pericoli e paura ad ogni angolo. Grazie anche ai media mainstream che, dimenticando il ruolo delle nostre guerre in Iraq, Libia e Siria che hanno prodotto il terrorismo che oggi ci torna in casa, alimentano ogni giorno questo clima scaldando i motori delle nuove guerre che si annunciano in calendario, a partire dal re-intervento in Libia. Una crisi ossessiva, tardo-coloniale, per la quale l’Italia ha auspicato un governo "unitario" solo per fare la guerra, per augurarsi poi che non ci sia per farla subito alle dipendenze degli Usa che, anche loro, già riscaldano i motori cancellando i disastri che lì hanno provocato. Mai che cresca una sana psicosi e un tonico odio contro le guerre. Così il finto fucilino di plastica genera allarme e paura, mentre regna un silenzio "disarmante" sui dati internazionali del Sipri che dicono che l’Italia spende 80 milioni di euro al giorno per le spese militari vere; o per le vagonate di armi altrettanto reali che ogni giorno inviamo dai nostri aeroporti - come in questi giorni da Cagliari - all’alleata Arabia Saudita che ha inventato lo Stato islamico. Che il falso sia una forma che interpreta e svela il vero? Scuola, reinserimento, contro-informazione web: il terrorismo si ferma con la prevenzione di Paolo Fantauzzi L’Espresso, 28 gennaio 2016 A Copenaghen ai foreign fighters danno un lavoro. A Londra si fa leva sui video in rete. A Parigi c’è un numero verde per chi ha bisogno di sostegno. In Italia si risponde solo col codice penale. Un progetto di legge propone di giocare d’anticipo anziché limitarsi alla repressione. Per dare una risposta concreta a chi è tentato dalle sirene del radicalismo islamico. In Danimarca ai foreign fighters che vogliono tornare a casa, al posto del carcere, viene offerto un lavoro e cure psicologiche. In Francia le famiglie che temono che i loro figli siano caduti nella rete dell’Islam radicale possono rivolgersi a un numero verde. In Inghilterra sono i più rispettati imam musulmani a smontare in rete le bugie della propaganda del Califfato. In Italia le misure che dovrebbero servire a sventare la minaccia terroristica sono affidate unicamente al codice penale. Sul fronte della prevenzione nel senso più ampio del termine non c’è praticamente nulla. Al massimo ci si può imbattere nell’idea di " mandare tutti all’Asinara ", come ha proposto la Lega. "E invece è l’unica soluzione possibile nel medio e lungo periodo: non è buonismo, non possiamo pensare che affidarsi unicamente all’aspetto repressivo possa bastare" afferma il deputato-questore della Camera Stefano Dambruoso (Scelta civica), che col democratico Stefano Manciulli ha appena depositato una proposta di legge per contrastare la radicalizzazione jihadista, soprattutto fra i più giovani. Da magistrato, quando era alla Procura di Milano, Dambruoso è stato uno dei primi a occuparsi di terrorismo islamico, prima ancora dell’11 settembre 2001. Un’esperienza poi arricchita dalla collaborazione internazionale in Eurojust e - in ambito Onu - con l’Unicri, l’organismo che si occupa di condividere le informazioni sulla prevenzione del crimine. Ed è proprio sulla scorta dell’esperienza maturata e di quanto avviene all’estero che il parlamentare mette in guardia sull’arretratezza italiana: "Il decreto Antiterrorismo ha raggiunto il massimo che si possa fare sul fronte penale senza abbandonare lo stato di diritto. Adesso però occorre lavorare sul recupero e la riabilitazione, per limitare il senso di esclusione di individui e gruppi già marginalizzati. È un investimento necessario". Anche il Consiglio di sicurezza dell’Onu, in una risoluzione approvata all’unanimità nel settembre 2014, ha battuto sulla necessità di puntare sulla prevenzione tramite la società civile e le comunità straniere di riferimento. In Italia, tuttavia, ancora nulla sembra muoversi in questa direzione. Il progetto di legge prevede un ampio spettro di interventi, finanziabili attraverso i 26 milioni che la Ue mette a disposizione tramite il progetto Ran ( Radicalisation awareness network ). A cominciare dal carcere, con un grande Piano nazionale per rieducare chi è già stato condannato ma anche chi, da dietro le sbarre per altre ragioni, potrebbe essere attratto dalle sirene del terrore. Senza dimenticare il ruolo fondamentale delle forze di polizia, per le quali prevedere appositi corsi di formazione che permettano di riconoscere i primi segnali di radicalizzazione e intervenire di conseguenza. Altro obiettivo: realizzare un Sistema informativo in cui far confluire tutte le informazioni sulle situazioni da tenere sotto controllo e soggetti a rischio, promuovendo per i potenziali terroristi percorsi mirati di inserimento lavorativo che possano sottrarli al richiamo jihadista. Quanto all’educazione fra i banchi, l’idea è di spingere le scuole a fare altrettanto con l’aiuto di esperti e psicologi, monitorando le iniziative intraprese per mettere a fattor comune le più riuscite. Ma è soprattuto sul web che va combattuta la battaglia. Adoperando le stesse armi dei reclutatori: diffondendo una narrazione alternativa alla fascinosa mistica romantica che l’Isis mostra di sapere maneggiare con grande capacità nei suoi video. E mostrando i combattenti del Califfato per quello che sono: spietati assassini. Proprio come già avviene all’estero. La contro-informazione corre sul web - È il caso della Francia, dove un anno fa (subito dopo la strage alla redazione di Charlie Hebdo) il governo ha lanciato il sito Stop Djihadisme e istituito un numero verde per raccogliere segnalazioni e richieste di aiuto. Usato anche per smontare coi video caricati in rete gli argomenti classici della propaganda islamista e smascherare le tecniche di manipolazione, il portale pubblica anche un vademecum per riconoscere i primi segnali della radicalizzazione dei ragazzi, dalla modifica delle abitudini e dello stile di vita (abbigliamento, sport, abbandono scolastico) alla rottura dei legami familiari. Nel Regno Unito, invece, è stata la comunità islamica a lanciare la campagna Fightback start here, ovvero "La risposta (ma anche il contrattacco, ndr) parte da qui", che coinvolge un centinaio di soggetti fra associazioni caritatevoli, gruppi di attivisti e anche rappresentanti di altre fedi religiose (ebrei, cristiani, hindu e sikh). Anche in questo caso, un’azione che si sviluppa soprattutto su internet, dove la Federazione delle organizzazioni mussulmane ha aperto un canale youtube per veicolare i suoi messaggi di tolleranza, rispetto e condanna degli attentati. E per demistificare la retorica jihadista. Altro network, sempre nel Regno Unito, è la Radical middle way, attivo da anni e in cui sono gli studiosi dell’Islam moderato, riconosciuti all’interno della comunità, a mettere in discussione l’interpretazione radicale del Corano. Ricetta danese - Sul fronte del recupero, tuttavia, la strategia più coraggiosa è quella che viene dalla Danimarca, la nazione col più alto tasso di foreign fighter pro capite dopo la fucina belga. Già dal 2014 il Paese scandinavo ha elaborato il cosiddetto "modello Aarhus", dal nome della città da cui sono partiti gran parte del centinaio di combattenti che si sono arruolati con l’Isis, tutti under 30. Idea di fondo: i "returnees" non vanno trattati come criminali o potenziali terroristi, ma come ribelli che hanno abbandonato il Califfato e meritano una seconda opportunità. Un programma nato nel 2007 per gli hooligan neonazisti della squadra di calcio cittadina e basato su reinserimento scolastico, affiancamento con operatori specializzati, avviamento al lavoro e perfino sostegno psicologico. Perché per molti, al di là della retorica, la disillusione è cocente. Ed è un’opportunità da non lasciar cadere: se certo non può bastare la buon volontà, è un fatto che solo una minima parte ad Aarhus ha finora rifiutato una qualche forma di aiuto. E una volta che si è spezzato il legame con la galassia jihadista, sono proprio i ragazzi fuggiti dalla guerra a diventare i migliori testimonial degli orrori del Califfato: un messaggio che gli altri ragazzi a rischio non vedono calare dall’alto, ma trasmettere da pari e pari, da "uno di noi". Del resto una soluzione univoca non c’è. Né si può pensare che lavorare sulla prevenzione basti di per sé a mettere al riparo da attacchi, come mostrano proprio i casi francese e danese. Ma si tratta di progetti ai quali va comunque riconosciuto il pregio di battersi a monte per contrastare il radicalismo, con un’operazione che è sociale e culturale al tempo stesso. Provando a prosciugare l’acqua in cui nuota il terrorismo prima che sia troppo tardi. "Io, italiana, aggredita per il velo" di Francesca Sironi L’Espresso, 28 gennaio 2016 L’hanno insultata. Denigrata. Le hanno urlato: "Beduini, tornatevene a casa". Ma lei è a casa. Perché è una donna siciliana. Musulmana. Che porta il niqab. Di fianco sua figlia aveva solo il foulard che copre i capelli. Ha osato rispondere. Ed è stata presa a schiaffi. Mentre intorno nessuno si è fermato ad aiutare. Il racconto Miriam è una ragazza alta, alta quasi un metro e 80; ha gli occhi castani, una laurea in lingue, un fidanzato di cui tiene la foto sullo sfondo del cellulare. A 28 anni è senza lavoro, come troppi suoi coetanei, a parte le ore come baby-sitter, in nero, per tre famiglie di vicini. Abita, con i genitori e la sorella, vicino a via Palmanova, a Milano. È bella, e spaventata. Perché mercoledì scorso, mentre andava a fare la spesa con sua madre, è stata aggredita. Insultata e presa a schiaffi da un uomo in mezzo al marciapiede. In pieno giorno, vicino ad altra gente, a due passi da una piazza trafficata. Senza che nessuno si fermasse ad aiutarla. Miriam è musulmana. Indossa il velo che copre i capelli. Sua madre invece porta il niqab, bianco, nel suo caso: quando è in strada di lei si vedono soltanto gli occhi. Il 20 gennaio, alle quattro e mezza del pomeriggio, stavano andando insieme a fare la spesa, quando un ragazzo di 30 anni, capelli castani e giubbotto arancione, ha iniziato a insultarle. Le inseguiva, diceva alla donna: "Ma lo sa che non può portare il velo per legge?". Insisteva. "Camminavamo, cercavamo di non farci caso", racconta Miriam, ora, dal divano della minuscola cucina: "Rispondevo sì, sì va bene, abbiamo fatto finta di niente, com’era già successo in passato". Ma lui non demordeva: "Non potete andare in giro vestite così!", le urlava. Dopo pochi minuti al giovane si sono aggiunti un altro ragazzo e una signora di circa 50 anni. Insistevano. Gridavano alla madre: "Beduina, devi tornare al tuo paese!". "Mi sono stancata, durava da troppo tempo questa scena. Quindi mi sono girata e gli detto, infastidita: "Basta, allontanatevi!". E uno dei due, il secondo arrivato, alto quanto lei e con dei capelli biondi pettinati a cresta, l’ha guardata, e le ha dato uno schiaffo. Uno schiaffo abbastanza forte da lasciarle sulla guancia, a distanza di una settimana, i segni, ancora, dell’ematoma. "Intorno a noi c’erano diverse altre persone. Nessuno si è fermato ad aiutare. Anzi, alcuni rallentavano, dicevano: "Andate via", "Tornate al vostro paese"", racconta Angela, la madre. Il fatto che il suo paese è l’Italia. Le gridano per strada "Beduina vattene nel tuo paese", ma la sua nazione è questa. Perché Angela è una donna italiana, di Catania, una mamma ben piantata, due figlie cresciute forti, pantofole rosa in casa, cucina saporita, che 33 anni fa è diventata musulmana e ha sposato Ibrahim, egiziano; l’uomo, seduto al tavolo, la barba lunga, trattiene a stento la collera: "Dovete chiamare la polizia subito, dovete chiamare la polizia sempre!", insiste. Le due donne l’hanno chiamata la polizia, dopo, e hanno denunciato l’accaduto alla questura di Milano. "Sono stati molto corretti con noi", racconta Angela: "Non mi hanno chiesto di togliere il velo, hanno ascoltato la nostra denuncia con attenzione". Dei due uomini e della donna che li ha aggrediti non restano foto. "Io vorrei soltanto che pagassero per quello che hanno fatto. Si sentono forti, e sono contro tutte le donne. Vorrei che riuscissero ad arrestare chi ha preso a schiaffi mia figlia", lamenta il marito. È un signore magro, provato da una lunga malattia che lo costringe a casa per la maggior parte del giorno: "In ospedale mi conoscono da anni ormai, eppure ancora ci sono infermiere che quando mi vedono, per via della barba, iniziano con battute tipo: "hai portato la cintura?", "vatti a far curare nel tuo paese, che qui ci portate le bombe". Io mi infurio, e faccio relazione. Per fortuna il primario e i dottori mi hanno difeso sempre. E redarguito le irresponsabili che continuano con queste offese. Certo i messaggi politici contano, e quello che si dice alla tv... Il clima è sempre più difficile". Angela era già stata aggredita, nel 2007, mentre tornava a casa da sola dopo aver accompagnato la figlia piccola a scuola. "Un uomo era venuto di fronte a me, apposta, dall’altra parte della strada, e mi aveva tirato il velo, come per strapparmelo. Ho resistito, e lui mi ha tirato uno schiaffo e dato un calcio. In quell’occasione tutte le donne vicine mi son venute ad aiutare, perché ero caduta. Ma lui nel frattempo era scappato", racconta Angela. La figlia di 21 anni, Khadigia, tiene il gatto Fiocco fra le braccia, commenta: "Da quella volta non è praticamente più uscita da sola". Lei ci pensa: "Non è vero: dopo un po’ ho ricominciato", dice: "Con in tasca il pepper-spray". Miriam tace. Parla poco e a voce bassa. "Era la prima volta", racconta: "Insulti sì, ma solo quando siamo in giro con la mamma, perché da sola mai". È il niqab a creare un muro, a provocare reazioni: "Sì", risponde. Anche lei ha avuto problemi di salute. È grande e fragile. "Si è spaventata. Teme di rivederlo. Che succeda di nuovo", interviene la sorella. Per fortuna, ricorda, non è tutto così: "I miei amici, ah, i miei amici non si toccano!", ride la ventunenne, che vorrebbe fare la maestra d’asilo e ha portato curriculum in tutti i nidi del comune. Anche Miriam si illumina quando mostra le fotografie sul telefono di lei e del ragazzo, un italiano, musulmano da tre anni, sul lago d’Iseo e con la famiglia di lui. E poi iniziano a raccontare dei vicini, della signora così simpatica, di quell’amica. "Le persone possono essere buone o cattive. Quello, era un aggressore razzista. E basta", dice Angela. Medici Senza Frontiere: "Pozzallo è invivibile per i migranti, ecco perché ce ne andiamo" di Luciana Grosso L’Espresso, 28 gennaio 2016 Bagni senza porte. Nessuna area per il trattamento di malattie specifiche. Infestazioni di blatte. Le condizioni del centro di primo soccorso, diventato hot spot per il riconoscimento dei nuovi arrivati, sono critiche. I sanitari di MSF spiegano perché tra qualche giorno lo lasceranno: "Così il nostro lavoro è vano". La data fissata è quella del 31 gennaio: sarà quello il giorno in cui i sanitari di Medici Senza Frontiere lasceranno il loro presidio di Pozzallo, dove dal febbraio 2015 hanno lavorato al fianco dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Ragusa. Lì, nel centro di primo soccorso e accoglienza, che da ieri ospita anche il terzo hotspot italiano per il riconoscimento dei nuovi arrivati, il compito dei MSF era quella di aiutare i medici dell’Asl nelle prime attività di screening sanitario per chi sbarcava e di fornire, nei Centri di Accoglienza Straordinaria della Provincia di Ragusa, supporto psicologico e assistenza a vittime di eventi traumatici. Un servizio che, tra pochi giorni, i Medici Senza Frontiere smetteranno di offrire e che tornerà completamente alla Asl, alla quale MSF forniva supporto esterno. Da febbraio scorso ha garantito circa 3000 consultazioni mediche e 800 consulti psicologici, su 15 mila arrivi. Sulle ragioni di questa fuga, che da MSF dicono di non volere e, anzi, di aver fatto di tutto per evitare, non ci sono dubbi: "Sono mesi" dicono dall’associazione "che diciamo che le condizioni del CPSA sono insostenibili, e che le condizioni in cui vengono trattati i migranti rendono difficoltoso, ove non addirittura vano, il nostro operato". Nel lungo elenco delle ‘condizioni impossibili’ dell’ex dogana di Pozzallo dove ha sede il Centro di accoglienza straordinaria, compaiono sia la precaria situazione strutturale dell’edificio, che quelle del trattamento concreto dei migranti. "Partiamo dal concreto: i bagni sono senza porte, cosa che oltre che poco igienica è poco dignitosa; lo scorso luglio c’è stata, forse per il caldo un’infestazione di blatte negli ambulatori; l’acqua calda non c’è o quasi, fatta eccezione per le primissime ore del mattino; abbiamo chiesto più volte che il centro si dotasse di un’area predisposta per il trattamento della scabbia visto che è la malattia più diffusa tra chi arriva qui e il cui trattamento prevede che il paziente sia completamente nudo: ma ancora una volta, niente e fino ad ora ci siamo arrangiati a usare i bagni, con una procedura antiigienica, poco dignitosa e persino pericolosa, visto che poi il pavimento rimane scivoloso per ore". Tutte lamentele che sono state scritte nero su bianco su un rapporto consegnato alle Commissione di inchiesta sul sistema di accoglienza, identificazione e trattenimento dei migranti delle Camere lo scorso novembre ma che, salvo qualche lavoretto di manutenzione e la disinfestazione dagli insetti sono rimasti per lo più lettera morta. "Faremmo molto volentieri a meno di andarcene- dice Claudia Lodesani, coordinatore medico del gruppo- e se da qui a dieci giorni, per miracolo, le condizioni di lavoro per noi e di permanenza per gli ospiti migliorassero, saremmo solo felici di restare". I problemi, a Pozzallo, non riguardano solo i muri, le porte e gli insetti, ma anche il modo in cui ci si sta chiusi dentro. "Chi arriva nel centro di Pozzallo- continua Lodesani-, benché non sia in nessun modo detenuto, spesso rimane lì per settimane, senza poter nemmeno uscire a prendere una boccata d’aria. Una condizione di claustrofobia che è pessima per chi, come è spesso il caso dei migranti, arriva da situazioni già traumatizzanti. L’unica porta del centro spesso rimane chiusa rendendo impraticabile anche l’unica cabina telefonica, che è all’esterno". Dunque un centro di assistenza che somiglia, benché non lo sia, a un centro di detenzione. Anzi no: forse è persino un po’ peggio. "A Pozzallo non esiste modo di separare gli uomini dalle donne, che devono convivere promiscuamente negli stessi locali, il che, in molti casi è culturalmente e psicologicamente problematico. La struttura del centro non permette una suddivisione degli ospiti accolti né per genere, né per età, né per vulnerabilità; manca poi un’ala specifica protetta dedicata all’accoglienza dei minori non accompagnati che condividono gli stessi spazi, inclusi i servizi igienici, degli adulti". Nel report consegnato alle camere a novembre MSF ha denunciato come le condizioni del centro abbiamo probabilmente generato "episodi di agitazione e sintomi di ansia di origine psicosomatica alcuni dei quali sfociati in atteggiamenti autolesionisti". "In queste condizioni, la nostra capacità di offrire una risposta efficace ai bisogni medici e psicologici delle persone vulnerabili - come le donne gravide, i minori e le vittime di tortura - accolte nel centro di Pozzallo e nei centri di accoglienza di Ragusa è estremamente limitata e anzi - continua Lodesani - ora che ha aperto il nuovo hotspot temiamo che le cose possano solo peggiorare". Migranti in calo da inizio 2016, scomparsi siriani ed eritrei ilgiornaledellaprotezionecivile.it, 28 gennaio 2016 908 migranti in meno, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, sono sbarcati sulle coste italiane da inizio 2016: il dato è stato comunicato ieri dal sottosegretario all’Interno, Domenico Manzione. Da inizio anno nessun arrivo da Siria ed Eritrea Nel 2016 fino ad oggi si è registrato lo sbarco di 2.620 migranti sulle coste italiane, in calo rispetto ai 3.528 dello stesso periodo dello scorso anno. Lo ha detto il sottosegretario all’Interno, Domenico Manzione, nella sua audizione alla commissione Diritti umani del Senato. I dati sulla nazionalità degli arrivi, rileva Manzione, indicano la totale scomparsa di siriani ed eritrei: i più numerosi provengono da Guinea (281), Marocco (239), Gambia (239), Senegal (219) e Mali (201). Quello tracciato ieri da Manzione, è il quadro attuale nel nostro Paese in merito agli sbarchi e al sistema d’accoglienza: 908 migranti in meno nel solo mese di gennaio 2016 rispetto a quelli approdati via mare nello stesso periodo del 2015. Già l’anno scorso, rispetto al 2014, si è registrata una diminuzione complessiva del 10 per cento con 153.842 arrivi. Il flusso migratorio dall’Africa è cambiato: si è assistito a una netta diminuzione nel 2015 del numero di persone di nazionalità siriana (7.000 sulle quasi 154.000 totali) e nel mese di gennaio 2016 nessun eritreo è arrivato in Italia mentre nel 2015 sono stati la comunità più grande di stranieri in arrivo (38.612). Quanto al sistema d’accoglienza, attualmente sono 105.000 i richiedenti asilo e rifugiati sono ospitati nei diversi circuiti: circa 20.000 nel Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), il resto nel Centri di accoglienza straordinaria (Cas) e nei Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) su tutto il territorio nazionale. L’obiettivo del Ministero dell’interno è di aumentare la capienza nel circuito Sprar, considerato il modello migliore possibile in quanto basato su un’accoglienza diffusa e finalizzata all’integrazione. Lo Sprar, tuttavia, si basa sull’adesione volontaria dei singoli comuni e questo fattore influisce sull’aumento dei posti. Dai dati più recenti risulta che negli ultimi due anni l’Italia è passata ad essere non più un paese di transito ma un paese di destinazione per i profughi. Il numero di richieste d’asilo nel 2015 è aumentato del 30 per cento rispetto all’anno precedente. Quanto all’approccio hotspot (strutture allestite per identificare rapidamente, registrare, foto-segnalare e raccogliere le impronte digitali dei migranti), l’Italia ha implementato le nuove procedure previste a livello europeo in merito all’identificazione e alla registrazione dei migranti. Questo passaggio è determinante ai fini della sicurezza ma anche per poter disporre di cifre certe sul numero degli arrivi e sulla consistenza dei flussi e riuscire così a programmare interventi efficaci in termini di accoglienza e più in generale di politiche dell’immigrazione a livello nazionale ed europeo. Negli ultimi mesi il tasso di persone identificate e registrate dopo essere sbarcate sulle coste italiane è aumentato fino a toccare l’80 per cento e sembra probabile che la procedura d’infrazione contro l’Italia aperta dalla Commissione europea lo scorso dicembre non comporterà debiti formali. Rimangono però alcune criticità difficili da superare con gli strumenti attuali. Molte persone rifiutano di farsi identificare col rilevamento delle impronte e vengono attualmente trattenute nei centri di primo soccorso senza che ci sia una normativa che regoli il trattenimento per periodi di tempo prolungati. È quanto accaduto a Lampedusa a decine di eritrei nelle scorse settimane. Occorre definire formalmente la natura dei centri dove è attuato l’approccio hotspot: a oggi sono attivi quelli di Lampedusa e Trapani a fronte dei cinque previsti dalla Roadmap del Ministero dell’interno del settembre scorso (Pozzallo, Augusta, Taranto). Non è previsto al momento nessun hotspot ai confini nordorientali, ma c’è molta preoccupazione su quanto potrà accadere in seguito alla chiusura delle frontiere dei paesi balcanici e della Slovenia in particolare. Esiste poi il rischio che si vada sviluppando una rotta adriatica che comporterebbe l’arrivo di ingenti flussi di persone in Puglia. La procedura di Relocation stenta invece a decollare. A oggi solo 276 richiedenti asilo hanno potuto lasciare l’Italia per un altro Stato membro, ma finché resteranno in vigore le rigidità del regolamento di Dublino e finché gli altri Stati non cambieranno i requisiti della scelta delle persone ricollocabili, risulta difficile immaginare esiti migliori. Inoltre, la procedura è rivolta a richiedenti asilo di nazionalità siriana, eritrea ed irachena e la diminuzione pressoché totale del numero di siriani ed eritrei sbarcati in Italia - a fronte di un aumento del flusso di migranti subsahariani - rende difficile immaginare risultati migliori nei mesi a venire. Riguardo ai Centri di identificazione ed espulsione, i numeri attuali non sono diversi da quelli registrati negli ultimi anni e il governo ha recepito la richiesta del Parlamento di portare a 90 giorni la durata massima del trattenimento, condividendo il senso della proposta. Quell’intervento legislativo va ancora completato implementando la possibilità di procedere all’espulsione dei detenuti stranieri irregolari senza passare dai Cie, direttamente dal carcere, ma il lavoro comune col ministero delle giustizia non ha ancora dato risultati concreti. Non uccidiamo la speranza del popolo siriano di Emma Bonino Corriere della Sera, 28 gennaio 2016 Le scene strazianti che ci sono arrivate nei giorni scorsi da Madaya, la tristemente nota città siriana, sono state l’ennesimo promemoria delle terribili condizioni in cui versano milioni di persone intrappolate in Siria. Non deve essere una sorpresa che in molti cerchino di scappare; in 4.6 milioni (l’intera popolazione dell’Emilia Romagna) lo hanno già fatto. Tuttavia, chi scappa ha di fronte a sé una scelta difficile: rimanere bloccato in un campo profughi con pochissimi servizi e quasi nessuna speranza per il futuro oppure tentare il viaggio disperato verso l’Europa. Nei campi profughi, più della metà dei bambini rifugiati siriani non va a scuola: una generazione intera sta rischiando di perdere così il proprio futuro. Questa è la generazione che sarà un giorno chiamata a ricostruire la propria società, ma come potranno farlo senza le conoscenze necessarie? Per chi sceglie di cercare una vita migliore in Europa, non vi sono dubbi sul loro diritto a farlo e che tale diritto debba essere rispettato senza condizioni. L’Europa ha i mezzi per accogliere un milione di richiedenti d’asilo, nonché un imperativo morale a farlo. Una risposta coordinata e non egoistica di tutti i Paesi membri è necessaria, se non obbligatoria. Tuttavia, una imprescindibile politica di accoglienza da parte dei Paesi europei deve necessariamente essere accompagnata da un progetto di soluzione diplomatica della crisi, quale soluzione a lungo termine delle condizioni che obbligano queste persone a scappare dalle proprie case. La risposta dei Paesi europei, e dell’Italia, non può dunque fermarsi ai propri confini ma deve andare oltre. Mentre il quinto anniversario di questa guerra feroce si avvicina, la conferenza dei donatori che si svolgerà a Londra questo febbraio deve essere vista come l’apripista di un anno di attività internazionale di gestione della crisi siriana, che avrà luogo a Ginevra, Vienna, Riad come in altri luoghi. Londra servirà a stabilire il passo di questa attività: sarà l’occasione in cui il nostro governo, insieme ad altri, fisseranno le proprie ambizioni. Quanto in là siamo disposti ad andare per risolvere la crisi siriana e assicurare la sopravvivenza ai suoi abitanti? Una soluzione diplomatica e politica deve essere vista come il punto di partenza di ogni sforzo per risolvere la crisi siriana, e di questo sarà necessario parlare anche a Londra. Allo stesso tempo è necessario trovare nuovi modi per rispondere alle necessità di quei 4.6 rifugiati fuori dalla Siria e, allo stesso tempo, correre in aiuto dei Paesi confinanti che stanno terminando le risorse a loro disposizione per far fronte all’emergenza. C’è bisogno di un piano che permetta ai siriani di ricostruire la propria vita e che possa donare loro la speranza di avere ancora un futuro nella loro regione e nel loro Paese, di avere ancora qualcosa a cui fare ritorno. C’è bisogno di un piano che incoraggi una ripresa economica e sociale per prevenire ulteriore instabilità nella regione e che metta i rifugiati siriani nella condizione di avere un futuro. Investire nuovi fondi umanitari è necessario, e serve a salvare vite umane, ma senza un progetto di lungo periodo non può essere abbastanza. C’è bisogno di un approccio coordinato, di un piano che rinnovi e riformuli le modalità con cui finora si è cercato di arginare una crisi che sta inghiottendo l’intera regione. Il nostro governo prenderà parte alla conferenza di Londra e deve cogliere quest’occasione per continuare ad assistere il popolo siriano e aiutarlo a muovere i primi passi verso la ripresa. L’Italia deve lavorare in cooperazione con gli altri Paesi presenti a Londra per sviluppare e mettere in atto un sistema di aiuti e risorse per la regione, in modo da costruire le fondamenta per un piano di sviluppo e ripresa per la Siria e i suoi vicini. Bisogna rimanere impegnati, anche nel lungo periodo, nel processo diplomatico volto a trovare una soluzione politica al conflitto. Se la soluzione politica appare lontana nel tempo, ci sono altri modi per arginare le conseguenze nefaste di questa guerra. Non possiamo obbligare il popolo siriano ad aspettare una soluzione politica prima di poter riprendere in mano il loro destino: ovunque essi siano, dobbiamo impegnarci ad abbattere le barriere che non permettono loro di lavorare, studiare e accedere ai servizi di base nei Paesi che li stanno ospitando. Dobbiamo fare la nostra parte e partecipare alla stesura di un progetto dettagliato che preveda investimenti per l’assistenza e la ricostruzione nel lungo periodo. Bisogna assicurarsi che questi fondi siano regolari e affidabili e che aprano la strada alla ricostruzione della Siria una volta che la guerra sarà finita. La risposta globale alla crisi siriana non sta funzionando. Per quasi cinque anni ormai, altro non abbiamo fatto che tamponare una ferita aperta con della carta velina. La ferita sta peggiorando, con il rischio di rovinare il futuro di intere generazioni e dare inizio a decenni d’instabilità. Il popolo siriano ha bisogno di una risposta tempestiva e coerente, e ne ha bisogno adesso. La conferenza di Londra dovrà parlare di soluzione politica, e trovare vie diplomatiche alla soluzione della crisi. Ma bisognerà anche ideare una strategia, che sia comprensiva e urgente, per mettere fine alla sofferenza umana e per cominciare, davvero, a ricostruire la Siria e i siriani. Turchia: ergastolo a Dündar e Gül per aver fatto il proprio mestiere di giornalisti di Chiara Cruciati Il Manifesto, 28 gennaio 2016 Questa la pena chiesta dal procuratore di Istanbul contro i due giornalisti. Accusa: spionaggio e tentato golpe. In Siria kurdi estromessi dal negoziato dopo il diktat di Erdogan, mentre le opposizioni prendono tempo. Quanto temuto potrebbe diventare realtà: il procuratore del tribunale di Istanbul ha presentato ieri l’incriminazione per i giornalisti turchi Can Dündar e Erdem Gül. Raccolta di documenti segreti per fini di spionaggio militare e politico, tentativo di rovesciare il governo e deliberato sostegno al terrorismo: queste le accuse che pesano sui due reporter. Rischiano il carcere a vita, tanto ha chiesto il procuratore turco, insieme all’isolamento per 23 al giorno, per sempre. Rispettivamente direttore del quotidiano Cumhuriyet e caporedattore dell’ufficio di Ankara, la "colpa" di Dündar e Gül è aver fatto il proprio mestiere. A maggio pubblicarono un articolo, corredato di relative prove, nel quale mostravano il tentativo di scambio intercorso tra i servizi segreti turchi e presunti membri dello Stato Islamico. Un camion che sarebbe dovuto passare dalle mani dell’intelligence di Ankara a quelle degli islamisti era stato fermato e perquisito dalla gendarmeria turca a sud del paese all’inizio del 2014 ed era apparentemente pieno di armi. A denunciare i due giornalisti è stato lo stesso presidente Erdogan: "Chi ha scritto la storia pagherà un prezzo alto". Quel prezzo è stato consegnato ieri, dal secondo braccio del sistema repressivo turco, la magistratura, ai due giornalisti in prigione da fine novembre. A poco serviranno le proteste delle organizzazioni per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch che ieri ha criticato aspramente la decisione del tribunale. Serviranno a poco perché manca la denuncia degli alleati della Turchia, i governi occidentali, che si nascondono dietro deboli condanne per poi stendere tappeti rossi ai piedi di Erdogan. Tappeti foderati con tre miliardi di euro (quelli promessi da Bruxelles ad Ankara perché si tenga i rifugiati siriani) e con l’accettazione a testa bassa dei diktat turchi sul negoziato siriano. Lo si è visto chiaramente martedì quando l’Onu ha recapitato gli inviti al tavolo previsto per domani a Ginevra: fuori il Pyd, il Partito dell’Unione Democratica rappresentante dei kurdi di Rojava. Ankara aveva minacciato di boicottare il dialogo se i delegati kurdi fossero stati presenti. Poco dopo, arrivava la denuncia di Saleh Muslim, co-presidente del Pyd: "Non abbiamo ricevuto nessun invito". Ieri in mattinata è giunta la conferma per bocca del ministro degli Esteri francese Fabius: "Il Pyd causava i problemi maggiori e de Mistura mi ha detto di non averli invitati", il laconico commento di Fabius alla radio France Culture. Immediata la reazione kurda: non riconosceremo i risultati del negoziato se non ne saremo parte, ha detto Abd Salam Ali, rappresentante del Pyd in Russia. Benzina sul fuoco la getta un diplomatico francese rimasto anonimo: i kurdi - ha detto - non sono considerati opposizione ad Assad. Eppure sono la più valida opposizione allo Stato Islamico, relegato in un angolo del negoziato come non fosse una delle ragioni che dovrebbero spingere la Siria alla pacificazione. A monte sta il rinnovato potere turco, derivante dall’emergenza rifugiati, spauracchio della fortezza-Europa, e dall’uso in chiave anti-Mosca che di Ankara sta facendo la Nato. Suona così ancora più ridicolo il tentativo in calcio d’angolo dell’Onu di spegnere le tensioni: ieri Khawla Mattar, portavoce dell’inviato Onu per la Siria de Mistura, ha detto che solo siriani si siederanno al tavolo, escludendo quindi l’eventuale partecipazione di una delegazione turca come paventato dal ministro degli Esteri di Ankara Cavusoglu. La Turchia ci sarà comunque, dietro le quinte, come ci sarà l’Arabia saudita impegnata in questi giorni a indebolire il negoziato usando a spada tratta le opposizioni al presidente Assad. L’Hnc, l’Alto Comitato per i Negoziati, ombrello delle opposizioni nato a Riyadh a dicembre, dopo giorni trascorsi a minacciare un boicottaggio del dialogo, ieri ha affondato il colpo: voleremo a Ginevra, hanno detto, solo se saranno rispettate determinate precondizioni. La fine degli assedi governativi e lo stop dei raid russi, che però secondo Mosca hanno come target l’Isis. Diversa l’opinione del fronte anti-Assad che li ritiene diretti ai ribelli. Per questo, in una lettera a de Mistura e al segretario generale Onu Ban Ki-moon, l’Hnc chiede rassicurazioni in merito alla fine dei bombardamenti prima di sciogliere la riserva. Ginevra traballa ancora. Se anche si arrivasse al dialogo, è difficile immaginare il raggiungimento di un risultato positivo. Damasco, accettato l’invito in Svizzera, non parla finendo per apparire come l’unica interessata alla pace. La Birmania libera i detenuti comuni, ma arresta i dissidenti politici di Fabio Polese Il Giornale, 28 gennaio 2016 Il vecchio governo aveva promesso di liberare tutti i prigionieri politici entro la fine del 2013. Ma così non è stato. Ancora una settantina di dissidenti sono in carcere e oltre 400 sono in attesa di giudizio. Le autorità birmane hanno recentemente liberato 101 prigionieri che erano incarcerati nelle galere del Paese. Di questi, 52 sono prigionieri politici. Ovvero dissidenti della sanguinosa giunta militare al potere negli ultimi decenni. Il vecchio governo, guidato dall’ex generale Thein Sein, aveva promesso di liberare tutti i prigionieri politici entro la fine del 2013. Ma così non è stato. Secondo l’Assistance Association for Political Prisoners (Aapp) - fondata da Tate Naing, il leader della rivolta studentesca del 1988 -, una delle più importanti associazioni che dalla vicina Thailandia controlla le condizioni dei detenuti di coscienza in Birmania, infatti, sarebbero ancora più di settanta i dissidenti incarcerati e oltre 400 in attesa di un regolare processo. L’associazione spiega che nelle varie amnistie concesse dalle autorità birmane dal 2011 ad oggi - cioè da quando il governo ha iniziato una serie di riforme "democratiche" - sono stati liberate circa 1300 persone, ma sottolinea che "molti sono criminali comuni e non dissidenti politici". L’organizzazione per i diritti umani Burma Campaign UK, non solo conferma i numeri riportati dall’Aapp, ma denuncia nuovi arresti. Il 19 gennaio scorso, riferisce l’associazione, è stato arrestato per reati di opinione U Gambira, un ex leader della rivolta per la democrazia avvenuta nel 2007. "Questo arresto dimostra che la situazione in Birmania non ha fatto nessun cambiamento reale e le persone continuano ad essere incarcerate per le loro convinzioni politiche". La speranza per la popolazione è che le elezioni dell’8 novembre scorso vinte dalla Lega nazionale per la democrazia, il partito guidato dal premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, possano portare ad un vero cambiamento. Ma di questo passo, la strada per la democrazia è davvero lunga.