Carceri: qualcosa cambia di Valter Vecellio lindro.it, 27 gennaio 2016 39 i detenuti che nel 2015 si sono tolti la vita, il dato più basso dal 1992; 1.619 ergastolani perpetui. In attesa di conoscere lo stato della Giustizia in Italia dall’angolazione del Procuratore Generale della Corte di Cassazione (la cui relazione, in apertura dell’anno giudiziario 2016 è fissata per giovedì prossimo), da integrare con le relazioni delle varie Corti d’Appello (sabato), un assaggio viene da quanto rende noto il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria; con l’avvertenza che ci si riferisce alla sola situazione carceraria. Per quel che riguarda processi, arretrati nel penale e nel civile e quant’altro, c’è da attendere i dati ufficiali. Si può cominciare con i suicidi. Ufficialmente 39 i detenuti che nel 2015 si sono tolti la vita. Il dato più basso dal 1992, si ha cura di sottolineare. Buona notizie, dunque. Accompagnata dal fatto che in occasione delle trascorse feste natalizie, periodo che in carcere gli esperti dicono essere caratterizzato da "grande fragilità emotiva", non sembra se ne siano verificati. A cosa attribuire questo dato positivo? Al miglioramento delle condizioni di vita: i detenuti sono passati da 68mila a 52mila; e poi, in orribile burocratese: "all’implementazione di progetti di reinserimento sociale e lavorativo", più di 12mila lo scorso anno. Lasciamo parlare chi opera sul campo, cioè dentro le celle. "È ovvio che numeri più contenuti portino ad una migliore vivibilità", rileva don Virgilio Balducchi, capo dell’Ispettorato generale dei cappellani nelle carceri italiane, che però invita a tener presente un aspetto che spesso scivola in secondo piano: "Sarebbe importante paragonare il numero dei suicidi ai tentati suicidi, comprendendo quindi anche il lavoro degli agenti che li hanno sventati". E ancora: bisognerebbe "analizzare il vissuto dei detenuti, quando e perché hanno scelto di togliersi la vita, così da poter intervenire con azioni mirate perché possano ulteriormente diminuire". Di certo il miglior deterrente è quello di far passare il detenuto meno tempo possibile tra le sbarre, e impegnarlo in attività socialmente utili, attraverso le cosiddette misure alternative o nelle comunità. "La detenzione non è l’unica moneta con cui pagare il reato, anzi deve essere la residuale", sostiene Luisa Prodi, Presidente del Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziari. In questo senso "passi avanti sono stati fatti, c’è un mondo di sofferenza oltre il suicidio che non va dimenticato: autolesionismo, morti in carcere per droga, per rissa". Un’altra spia del malessere che perdura nelle carceri italiane è il fatto che negli ultimi dieci anni quasi cento agenti di Polizia penitenziaria si sono tolti la vita. Suicidi a parte, il dato inquietante che emerge dall’ultimo dossier "Morire di carcere" elaborato dal Centro Studi di Ristretti Orizzonti, è il numero dei tentati suicidi: 933 nel 2014, quando i suicidi erano stati 44. Inoltre le morti nel 2015 si concentrano soprattutto nelle strutture più grandi (quelle più sovraffollate): Roma Rebibbia e Regina Coeli; Palermo Pagliarelli; Firenze Sollicciano. Il regista. La sua morte ha colpito e commosso tanti; e tanti hanno sottolineato il suo impegno civile, il suo rigore professionale, la qualità, oltre che la quantità del suo lavoro: di artigiano della telecamera che proprio per questo sapeva regalare straordinari guizzi di grande artista. Si parla di Ettore Scola, recentemente scomparso. Un aspetto rivelatore e significativo di questo grande regista viene rammentato da Arrigo Cavallina. Su Ristretti Orizzonti ricorda che nel biennio 1986-87 Scola frequenta, con un altro grande regista, Luigi Magni, il carcere di Rebibbia, per incontrare un gruppo di detenuti. Con loro, i due registi costituiscono la cooperativa 5 e novanta, per svolgere attività culturali che procurassero reddito e prospettive di inserimento lavorativo. "Una prima iniziativa", racconta Cavallina, "riguardava la realizzazione di un film. Scola non poteva essere il regista, ma si è adoperato per trovare una segretaria di produzione, una sceneggiatrice che poi si sarebbe incaricata anche della regia (Armenia Balducci) e qualche fonte di finanziamento. La trama si era sviluppata con i racconti degli stessi detenuti, una cinquantina dei quali avrebbero poi lavorato con mansioni tecniche o artistiche". Progetto naufragato per l’insufficienza dei contributi. Un altro progetto, racconta Cavallina, va in porto: "La costituzione di un gruppo teatrale che, con i detenuti in permesso, rappresenta al teatro Vittoria di Roma l’opera "Roma sparita"; regista Pierpaolo Andriani, autori del testo i detenuti". Il libro. Il titolo è "Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo". Lo hanno scritto un ergastolano, Carmelo Musumeci; e un giurista docente all’università di Ferrara, da sempre attento alle problematiche del carcere, Andrea Pugiotto; la prefazione è di Gaetano Silvestri; l’appendice di Davide Galliani (Editoriale Scientifica, Napoli, pp. XIII-216, euro 16,50). Di cosa tratta il libro: in sostanza che nel discorso pubblico si ripete, monotona, la convinzione che in Italia l’ergastolo non esiste e che i condannati al carcere a vita, prima o poi, escono tutti di galera. La realtà rivela, invece, un dato esattamente capovolto: attualmente sono 1.619 i condannati alla pena perpetua e, di questi, 1.174 (pari al 72,5 per cento del totale) sono ergastolani ostativi, ai sensi dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario. Sconosciuto ai più, l’ergastolo ostativo è una pena destinata a coincidere, nella sua durata, con l’intera vita del condannato e, nelle sue modalità, con una detenzione integralmente intramuraria. Una pena perpetua e immutabile cui è possibile sottrarsi solo collaborando utilmente con la giustizia. Il volume, nella sua prima parte (scritta da Carmelo Musumeci) narra la giornata sempre uguale di un ergastolano senza scampo, scandita nei suoi ritmi esteriori e interiori - alba, mattino, pomeriggio, sera, notte - costringendo il lettore a immaginare l’inimmaginabile. Nella seconda parte (scritta da Andrea Pugiotto), ripercorre criticamente la trama normativa dell’ergastolo ostativo, argomentandone i tanti profili di illegittimità costituzionale e convenzionale, in serrata dialettica con la giurisprudenza delle Corti, costituzionale e di Cassazione, ad oggi persuase del contrario. Nella prefazione Gaetano Silvestri, Presidente emerito della Corte costituzionale, rilegge il regime dell’art. 4-bis o.p. alla luce del principio supremo di dignità della persona. L’Appendice, curata da Davide Galliani, illustra i risultati di un’inedita ricerca empirica condotta tra circa 250 ergastolani, finalizzata a rilevare le materiali condizioni di salute, fisica e psichica, derivanti da un regime detentivo perpetuo, esclusivamente intramurario, frequentemente declinato nelle forme del cosiddetto carcere duro (ex art. 41-bis). Prima di finire, uno sguardo oltre i confini nazionali: l’Iran. In occasione della visita in Italia del Presidente iraniano Hassan Rouhani, l’Associazione Nessuno tocchi Caino ha diffuso un inquietante rapporto sulle esecuzioni e altri abusi dei diritti umani intitolato "Il volto sorridente dei Mullah". "L’elezione di Rouhani nel giugno 2013", si legge nel rapporto, "è stata salutata da (quasi) tutti come una svolta e, da allora, il nuovo Presidente della Repubblica Islamica è stato definito di volta in volta come il riformatore, il moderato, il volto buono e sorridente del regime dei Mullah. L’allarmante uso della pena di morte, applicata anche nei confronti di imputati minorenni, in aperta violazione di patti e convenzioni internazionali che l’Iran ha ratificato, la discriminazione delle minoranze religiose, con particolare riferimento a Bahài e cristiani, la discriminazione legale nei confronti della donna e la persecuzione delle minoranze sessuali, la distruzione dello Stato di Israele e il negazionismo della Shoah, promossi soprattutto dalla Guida Suprema Khamenei e tuttora persistenti nelle intenzioni, continuano a connotare il regime dei Mullah anche sotto la Presidenza del moderato e sorridente Rouhani. Nel nome della pace e della sicurezza internazionali - contro la minaccia di guerra nucleare e l’emergenza di stampo terroristico - si accredita come stabilizzatore dell’area mediorientale e non solo, e si affida il Governo dell’emergenza a un regime che ha provocato l’emergenza stessa e minato le basi della pace e della sicurezza internazionali. Si ritiene debba essere parte decisiva della soluzione del problema chi è stato parte primaria responsabile del problema. Ma quel che è più grave è che si legittima internazionalmente un regime che al proprio interno conduce una guerra di lunga durata e una quotidiana campagna di terrore e insicurezza nei confronti del proprio stesso popolo. Questo Rapporto valga da promemoria". Con questo dossier, spiega il segretario di Nessuno tocchi Caino, Sergio D’Elia, "abbiamo rivelato il vero volto del Presidente Rouhani, che non è quello sorridente che esibisce negli incontri internazionali, ma quello terrificante delle almeno 2.277 esecuzioni compiute sotto la sua presidenza. Su questo dato bisogna riflettere nell’accreditare il regime iraniano come stabilizzatore del Medioriente e non solo, affidando il governo dell’emergenza proprio a chi l’emergenza l’ha provocata". Nel 2015 sono state effettuate almeno 980 esecuzioni, un 22,5 per cento in più rispetto alle 800 del 2014 e il 42,6 per cento in più rispetto alle 687 del 2013. È il numero di esecuzioni tra i più alti nella storia recente dell’Iran, che lo classifica come il primo "Paese-boia" del mondo in rapporto al numero di abitanti. I reati che hanno motivato le condanne a morte sono così suddivisi in termini di frequenza: traffico di droga (632 esecuzioni); omicidio (201esecuzioni); stupro (56 esecuzioni); reati di natura politica (16 esecuzioni); moharebeh (fare guerra a Dio), rapina, estorsione e "corruzione in terra" (22 esecuzioni). In almeno 53 altri casi, non sono stati specificati i reati per i quali i detenuti sono stati trovati colpevoli. Jihadisti a caccia di reclute tra i musulmani in carcere di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 27 gennaio 2016 Sono 160 i foreign fighters in Italia. Il Dap: è un rischio. Sono 160, e tutti considerati pericolosi in quanto classificati come "terroristi internazionali". La cifra che indica il numero dei detenuti di religione musulmana che sono reclusi nelle carceri italiane per reati gravissimi legati al fenomeno eversivo dei foreign fighters non può non preoccupare il governo e l’Italia. Ed è allarme rosso per quel che riguarda il rischio fidelizzazione che rischia di rendere ancor più esplosivo il già convulso sistema carcerario nel nostro Pese. Fino a qualche mese fa era un tabù. Un argomento che restava relegato tra le pieghe dei carteggi riservati interni al ministero della Giustizia e, al massimo, di qualche dettagliata informativa di polizia giudiziaria. In molti sapevano ma nessuno ne parlava apertamente. Dopo le stragi di Parigi del 13 novembre tutto è cambiato, e oggi è lo stesso ministro Andrea Orlando a non sottacere il rischio: tra le mura delle carceri italiane si annida il rischio del proselitismo più nero e lugubre targato Isis. "Un fenomeno che ci preoccupa - ammette il Guardasigilli parlando alla platea del sesto congresso nazionale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, che si è da poco concluso a Napoli perché sappiamo bene che nei nostri istituti di pena c’è un consistente numero di reclusi di fede musulmana, 167 per l’esattezza, che sono ufficialmente classificati come terroristi internazionali". Il carcere, dunque, come il più fertile terreno dell’integralismo islamico. La notizia coincide con l’arresto a Cosenza di un presunto "foreign fighter" di nazionalità marocchina accusato di ordire trame oscure in Italia. Il nemico in casa e l’Isis come una minaccia concreta anche per noi. Ma torniamo alle carceri. E a un documento finora rimasto inedito. È il 16 novembre quando il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo prende carta e penna per scrivere al Capo di Gabinetto del ministro della Giustizia Gianni Melillo. L’oggetto della missiva è chiarissimo e indica in epigrafe: "Contrasto alla radicalizzazione durante l’esecuzione della pena. Misure di implementazione". È un documento di cinque pagine nel quale il numero uno del Dap informa dei rischi concreti che esistono al di là delle mura carcerarie in materia di terrorismo di matrice religiosa islamica. Consolo - che acclude una dettagliata specifica sulla presenza dei detenuti di fede musulmana - espone cioè il rischio legato alla radicalizzazione e al potenziale proselitismo che si può concretizzare all’interno dei sovraffollati istituti penitenziari italiani. Per avere il polso della situazione e comprendere di cosa si parla ecco le cifre: rispetto agli oltre 52.400 presenti alla data dell’ottobre 2015, ben 17.342 sono stranieri, più di 13.500 gli extracomunitari, 10mila dei quali provenienti dai Paesi del Maghreb e dell’Africa, e dunque di religione musulmana. Ma il dato più inquietante è quella cifra a tre numeri: 160 reclusi sono classificati come "terroristi internazionali". Il numero lo conferma lo stesso Orlando, parlando a Napoli al congresso del Sappe. Le condizioni del regime carcerario non aiutano certo a stemperare il livore dell’ odio verso un Occidente già nel mirino. E infatti il Guardasigilli aggiunge : "È un rischio, quello legato alla fidelizzazione in carcere di soggetti detenuti di religione musulmana, che non sottovalutiamo anche alla luce dei fatti ancor precedenti alla strage del Bataclan nel novembre scorso: l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo (consumatesi nel gennaio 2015, ndr) avvenne per mano dei fratelli Kouachi, che proprio in un carcere francese erano stati fidelizzati dall’integralismo di matrice islamica". Orlando spiega anche come "il fenomeno venga attentamente monitorato" e come siano giustificate, in tal senso, le richieste avanzate dallo stesso sindacato di polizia penitenziaria per ciò che riguarda l’implementazione di mediatori culturali e potenziamento del personale carcerario. Ad alimentare il brodo di coltura del terrorismo al di là delle sbarre ci sono non pochi elementi: a cominciare dalla mancanza di luoghi di culto per i musulmani, per non parlare delle condizioni generali di detenzione, che spesso e volentieri non aiutano la rieducazione ed anzi esasperano gli animi dei detenuti. Non a caso in quel documento riservato spedito da Consolo a Melillo si fa riferimento a un punto: per fronteggiare l’ultima minaccia che parte dal reclutamento in carcere di potenziali terroristi occorre l’assunzione straordinaria di almeno 800 unità "nella qualifica di agenti ed assistenti del Corpo di Polizia Penitenziaria". Parole, quelle di Consolo, cadute nel vuoto. La relazione del capo del Dap era infatti finalizzata ad essere inserita nel documento della Legge di Stabilità del 2016 per ciò che attiene le voci di spesa del ministero della Giustizia. Ma, a quanto pare, quelle assunzioni non arriveranno, almeno per quest’anno. Direttiva del Parlamento europeo: l’Italia dovrà recepire la "presunzione di innocenza" Il Velino, 27 gennaio 2016 "È la prima volta che le istituzioni europee deliberano sulla presunzione di innocenza, che è già nella nostra Costituzione e nei nostri codici ma non sempre viene rispettata. Esiste nell’ordinamento italiano il favor rei ma il principio viene costantemente violato. Pensiamo, ad esempio, alla polemica sulle manette ai detenuti durante i trasporti o il processo, o ad altre forme di violenze e mancato rispetto del detenuto o dell’imputato". Lo ha detto Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera, in una conferenza stampa tenuta a Montecitorio dal partito azzurro per illustrare la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali. "È la prima volta che si danno indicazioni precise, attraverso questa direttiva, sulla presunzione di innocenza e si chiamano in causa quelli che sono i protagonisti più esposti: le autorità giudiziarie e i pm, io aggiungerei anche i mass media. Entro due anni il sistema italiano si dovrà adeguare mettendo in atto le norme previste, ovvero sarà impedito all’autorità giudiziaria di rappresentare in ogni fase del processo, fino all’ultimo grado di giudizio, l’indagato come colpevole, fino a quando la sua colpevolezza non sarà legalmente provata in via definitiva. Quindi, limitazione delle dichiarazioni pubbliche dell’autorità giudiziarie, diritto al silenzio da parte dell’imputato, no alle gogne mediatiche dei processi in tv, no all’anticipazione delle sentenze fino al terzo grado di giudizio e diritto al risarcimento". "Sono tutte cose acquisite dalla nostra cultura giuridica salvo che come spesso succede nel nostro Paese non praticate. La direttiva europea ben venga, ben venda il giudice, nel nostro caso, a Bruxelles, ben venga ricordarci i principi di uno Stato di diritto", ha aggiunto Brunetta. Il contrabbando non è più reato di Alessandro Fruscione e Benedetto Santacroce Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2016 Con l’approvazione nella seduta del Consiglio dei ministri del 15 gennaio scorso, ha ottenuto il via libera definitivo il decreto legislativo recante un’ampia depenalizzazione di reati, tra i quali molti di quelli previsti dal Dpr n. 43/1973, recante il Testo unico delle leggi doganali (Tuld). L’obiettivo della riforma, che attua la delega conferita con l’articolo 2 della legge n. 67/2014, è quello di trasformare in illeciti amministrativi numerose fattispecie aventi, finora, rilevanza penale, nell’ottica di una scelta di politica criminale da tempo sollecitata sia nell’ottica di deflazionare il sistema penale, sia di garantire l’applicazione di una sanzione adeguata ed effettiva. Il meccanismo utilizzato dal governo si basa su due diversi criteri: il primo, contenuto nella lettera a), comma 2, dell’articolo 2, è costituito da una clausola generale in forza della quale vengono depenalizzati tutti i reati per i quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda; il secondo, contenuto nelle lettere b), c) e d) del comma 2 e nella lettera b) del comma 3 del medesimo articolo, indica invece specificamente le fattispecie su cui interviene la depenalizzazione. In ossequio al primo criterio, gli illeciti penali previsti dal Tuld agli articoli da 282 a 292 (che concernono il contrabbando a forma vincolata e quello a forma libera) e all’articolo 294 (contrabbando in caso di mancato o incompleto accertamento dell’oggetto del reato) saranno d’ora in avanti puniti esclusivamente con la sanzione amministrativa da € 5.000 ad € 50.000, laddove era prevista la multa non minore di due e non maggiore di dieci volte i diritti doganali evasi. Si tratta di una differenza notevole rispetto al passato, che comporta - oltre il non assoggettamento al processo penale - anche una probabile, generalizzata, riduzione della misura punitiva, ora determinata in misura fissa, specie se si considera che spesso i diritti doganali che costituivano la base per il calcolo della multa erano di ammontare particolarmente elevato. Il decreto delegato non incide su alcune fattispecie aggravate di cui all’articolo 295 Tuld, che continueranno a costituire reato: in particolare, quando gli illeciti ora depenalizzati siano commessi da persona sorpreso a mano armata o da tre o più persone insieme riunite e in condizioni tali da frapporre ostacolo agli organi di polizia; quando il fatto sia connesso con altro delitto contro la fede pubblica o contro la Pa; quando il colpevole sia un associato per commettere delitti di contrabbando e l’illecito commesso sia tra quelli per cui l’associazione è stata costituita. Deve invece ritenersi depenalizzata anche la fattispecie aggravata di cui all’articolo 295, comma 1, Tuld (contrabbando commesso adoperando mezzi di trasporto appartenenti a persona estranea al reato), per la quale era finora prevista la sola pena della multa, almeno fino al limite di € 49.993,03 di diritti doganali evasi, oltre il quale alla multa è aggiunta la reclusione (articolo 295, ultimo comma, Tuld), con conseguente impossibilità di depenalizzazione. Occorrerà valutare nel tempo l’impatto delle nuove misure, specie quelle concernenti il contrabbando di tabacchi lavorati esteri nella misura lieve (articolo 291 bis, comma 2), ossia fino a 10 kg, per i quali appare destinata ad applicarsi la sola sanzione amministrativa, che - a parità di quantità illecitamente introdotte nel territorio dello Stato - potrebbe essere più blanda della multa precedentemente prevista (pari a 5 euro per ogni grammo convenzionale di prodotto), circostanza che potrebbe costituire una incentivazione al contrabbando di scarsa entità. Il decreto prevede inoltre che le sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data della sua entrata in vigore, sempre che il procedimento penale non sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili. Corruzione percepita: l’Italia scala 8 posizioni, ma in Europa è penultima di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 27 gennaio 2016 Il rapporto 2016 di Transparency International: il nostro Paese è al 61° posto, un anno fa eravamo al 69°. Sul podio Danimarca, Finlandia e Svezia. Anche nel 2015 l’Italia resta al penultimo posto nella classifica europea dei Paesi con il più basso grado di corruzione percepita. Oppure, leggendo la graduatoria al contrario, è seconda per inquinamento del malaffare nel settore pubblico. Sempre percepito, giacché il dato reale non è calcolabile. Peggio di noi sta solo la Bulgaria, mentre lo scorso anno era la Romania. È ciò che emerge dal rapporto 2016 stilato da Transparency international, presentato oggi a Roma dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, dal presidente di Unioncamere Ivan Lo Bello e da Virginio Carnevali, responsabile della sezione italiana di Transparency, associazione non governativa per la prevenzione e il contrasto della corruzione nel mondo. La classifica - Nella classifica mondiale, invece, l’Italia guadagna qualche posizione, sebbene il dato sia rimasto lo stesso; ma mentre nel 2014 eravamo al 69° posto, nel 2015 siamo saliti al 61°, grazie allo slittamento verso il basso di altre nazioni, come il Brasile L’indice di percezione è calcolato sulla base dei pareri raccolti ed elaborati (a livello internazionale) attraverso una media delle indicazioni fornite da 11 diverse istituzioni che "catturano" ciò che uomini d’affari ed esperti nazionali pensano, in base alla loro esperienza diretta, rispetto all’incidenza del malaffare nell’economia e nella gestione della cosa pubblica nei rispettivi Paesi. La percezione avvertita da chi "se ne intende" è l’unico indice utilizzabile e paragonabile fra Stati, perché la corruzione è di per sé un fenomeno occulto e le legislazioni per la prevenzione e la repressione sono diverse da un paese all’altro. Se si guardassero soltanto le inchieste e i processi, inoltre, resterebbe fuori tutto ciò che investigatori e inquirenti non sono riusciti a dimostrare (il che non significa che non esiste) e quello che non emerge, solitamente la gran parte del fenomeno. La scala con la quale si misurano i dati va da 0 a 100, dove 0 corrisponde al più alto grado di corruzione percepita e 100 il più basso. Nella graduatoria 2015 il Paese meno inquinato si conferma la Danimarca (indice 91), seguita nell’ordine da Finlandia (90), Svezia (89) e Nuova Zelanda (88). La Germania è al decimo posto con indice 81 (qui, ad esempio, lo scandalo Volkswagen non viene preso in considerazione perché non riguarda il settore pubblico ma una multinazionale privata), alla pari di Gran Bretagna e Lussemburgo. L’Italia è sessantunesima con 44 punti (ben al di sotto della media europea attestata su 67, soprattutto per via dell’alto punteggio accumulato dai Paesi del Nord), preceduta da quasi tutto il Vecchio continente ma anche da Stati come Capo Verde (indice 55), Ruanda (54), Namibia (53) o Cuba e Ghana (47). All’ultimo posto della classifica mondiale ci sono a pari merito Somalia e Corea del Nord (indice 8) preceduti dall’Afghanistan (11) e dal Sudan (12). L’allarme di Confindustria - Che l’Italia non sia messa bene in tema di corruzione è confermato da altri indicatori o sondaggi ripresi da Transparency. Secondo L’eurobarometro curato dalla Commissione europea, il 97 per cento dei cittadini considera il fenomeno molto diffuso (58 per cento) o abbastanza diffuso (39 per cento). Anche il sondaggio effettuato dall’Ipsos nel 2010, e utilizzato per un rapporto di Confindustria del 2014, conferma l’allarme sul fronte di imprenditori o aziende che non investono in Italia; tra questi, "l’11 per cento ha espresso un giudizio molto negativo sullo stato della corruzione nel nostro Paese e il 51 per cento negativo". Totale, 62 per cento, quasi due terzi. Video jihadisti nel computer, carcere per una ricercatrice dell’Università di Palermo di Riccardo Arena La Stampa, 27 gennaio 2016 Tutto tranne che opinioni: il tribunale del riesame di Palermo è meno garantista del Gip e ordina di arrestare Khadiga Shabbi, la ricercatrice libica accusata di atti di istigazione al terrorismo internazionale. La Procura l’aveva fermata, prima di Natale, ma nel giro di 72 ore era tornata in libertà, con un semplice obbligo di dimora nel capoluogo siciliano: ora è stato accolto l’appello del procuratore aggiunto Leonardo Agueci e dei pm Gery Ferrara e Emanuele Ravaglioli contro quella decisione, ritenuta troppo blanda, ma la Shabbi non tornerà subito in cella, perché può fare ricorso in Cassazione. Insomma, rimarrà libera per un tempo che non può essere quantificato. La Shabbi, che ha 45 anni e da tre vive nell’Isola, con una borsa di studio nella facoltà di Economia dell’Università di Palermo, è stata al centro di un braccio di ferro senza precedenti tra il pool antiterrorismo della Procura e l’ufficio Gip, i cui vertici, il presidente Cesare Vincenti e l’aggiunto Gioacchino Scaduto, hanno fatto quadrato attorno al giudice Fernando Sestito, sostenendo che il reato della Shabbi era di opinione e comunque una misura cautelare era stata pur sempre data. Una spiegazione che non ha soddisfatto il pool antiterrorismo dell’ufficio diretto da Franco Lo Voi, che in tribunale ha presentato una serie di elementi da cui si desumerebbe che la Shabbi avrebbe diffuso la propaganda di attività collegate ai terroristi di Al Qaeda, sostenendo i foreign fighters e organizzazioni che l’Onu considera terroristiche come Ansar Al Sharia Lybia. Sono stati pure depositati i risultati di una perizia sul computer della ricercatrice, in cui sono state trovate una serie di foto, arrivate alla Shabbi via Facebook o con whatsapp. Ci sono le immagini di un bambino, un piccolo kamikaze, col volto coperto da un cappuccio e una cintura esplosiva, e una donna velata che gli sta accanto sembra voler sistemargliela. Anche le altre foto sono eloquenti: ci sono tracce di sangue su un pavimento dopo un combattimento; un uomo armato di kalashnikov, in un fermo immagine di un video, mitraglia persone distese sul ventre in una fossa comune, con le mani dietro la schiena. C’è un cacciatore di droni piazzato su una postazione antiaerea. Insomma, tutto meno che opinioni, hanno sostenuto i pm, nel mostrare pure le foto tessera affiancate alle immagini dei miliziani martiri, orribilmente sfigurati dopo essere stati uccisi. Offendere una persona per il colore della pelle non sempre configura discriminazione di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2016 Tribunale di Firenze - Sezione I penale - Sentenza 23 luglio 2015 n. 1976. Dare del "negro" ad una persona di colore, nell’ambito di una condotta ingiuriosa e minacciosa nei suoi confronti, non sempre configura la circostanza aggravante della discriminazione razziale e di odio etnico. È necessario analizzare infatti il contesto in cui tale offesa è maturata e la condotta deve essere tale da suscitare in altri il sentimento di odio etnico, non potendo la discriminazione razziale identificarsi con un qualsiasi comportamento contrastante un ideale di perfetta integrazione. Questo è quanto affermato dal Tribunale di Firenze nella sentenza 1976/2015. La vicenda - L’episodio si è verificato nella piazza del mercato cittadino di un comune toscano ed ha visto come protagonisti due venditori ambulanti, padre e figlio, ed un uomo di colore, titolare di un altro posto vendita. Il primo diverbio era avvenuto al termine della giornata lavorativa, quando il padre, non potendo transitare con il suo furgone per via della presenza della bancarella del venditore straniero, cominciava ad offendere quest’ultimo con frasi del tipo "non ho tempo da perdere, accidenti a chi vi ha mandato, negro, torna a casa tua". Dopo qualche ora il figlio, informato dal padre dell’accaduto, raggiungeva il posto vendita dell’ambulante di colore, il quale veniva offeso con frasi del tipo "ha ragione mio padre che sei uno sporco negro" e, altresì, ferito sul labbro da un pugno sferrato da una persona rimasta ignota che accompagnava l’ambulante italiano. In seguito padre e figlio venivano tratti a giudizio per rispondere dei reati di ingiuria, minaccia e lesioni personali, con l’aggravante di aver commesso i fatti con finalità di discriminazione razziale e di odio etnico, prevista dal Dl 122/1993, convertito in Legge 205/1993. Le motivazioni - La vicenda si è risolta in un nulla di fatto perché il Tribunale non ha riconosciuto l’esistenza dell’aggravante dell’odio razziale e, rimessa la querela, ha pronunciato una sentenza di non doversi procedere. Interessante è però la motivazione che ha portato il giudice ad escludere la configurabilità dell’aggravante prevista dalla cd. Legge Mancino. Per il Tribunale, infatti, deve essere considerato il contesto nel quale sono state poste in essere le condotte, ovvero al termine del mercato cittadino "durante le operazioni di chiusura del punto vendita e di trasporto della merce verso i depositi, quando ovvero esiste parecchia confusione", ragion per cui i reati non possono essere ritenuti commessi per far valere il disprezzo razziale nei confronti della persona offesa. L’aggravante in questione - afferma il giudice - "sussiste solo laddove l’autore voglia perseguire la finalità del disprezzo razziale e a prescindere dal movente che ha innescato la condotta", quando cioè è evidente che il reato sia stato "oggettivamente strumentalizzato all’odio o alla discriminazione razziale". E nella specie, le frasi rivolte al venditore di colore e l’aggressione effettuata nei suoi confronti, per il giudice, non sono connotate da un orientamento razziale, né tantomeno sono idonee a suscitare in altri il sentimento di odio etnico o a dar luogo al pericolo di immediati o futuri comportamenti discriminatori. L’odio - conclude il Tribunale - deve essere "tale da implicare una forte avversione per il soggetto destinatario, non potendo identificarsi la discriminazione razziale con qualsivoglia condotta contrastante con un ideale di assoluta e perfetta integrazione". Concussione per il funzionario che chiede soldi per correggere l’errore sulla cittadinanza di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2016 Corte d’Appello di Napoli - Sezione 7 - Sentenza 12 giugno 2015 n. 483. Scatta il reato di concussione per il pubblico ufficiale impiegato presso l’ufficio servizi demografici del comune che chieda denaro per procedere alla correzione di un errore di trascrizione nel decreto di concessione della cittadinanza. Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Napoli, con la sentenza 12 giugno 2015 n. 483, chiarendo, sulla scorta della giurisprudenza di Cassazione, che il reato previsto dall’articolo 317 Cp, come novellato dalla legge n. 190 del 2012 "è designato dall’abuso costrittivo del pubblico ufficiale, attuato mediante violenza o - più di frequente - mediante minaccia, esplicita o implicita, di un danno contra ius, da cui deriva una grave limitazione, senza tuttavia annullarla del tutto, della libertà di autodeterminazione del destinatario". Il quale, dunque, "senza alcun vantaggio indebito per sé, è posto di fronte all’alternativa secca di subire il male prospettato o di evitarlo con la dazione o la promessa dell’indebito". Secondo il giudice di secondo grado, infatti, non vi è dubbio circa la prova della colpevolezza, in ordine alla imputazione di tentata concussione, del pubblico ufficiale addetto alle pratiche concernenti la concessione della cittadinanza presso il comune di Castellammare di Stabia, che "mediante implicita minaccia di un danno contra ius - consistita nel prospettare al richiedente che se non gli avesse versato la somma di 100/200 Euro (pretestuosamente imputata all’attività di correzione di un errore materiale emerso nel decreto ministeriale attributivo della cittadinanza) sarebbe incorsa in futuro in problematiche comunque connesse al conferimento della cittadinanza italiana - determinava una grave limitazione della libertà di autodeterminazione della donna, la quale, in assenza di qualsivoglia prospettiva di vantaggio indebito per sé, veniva posta di fronte all’alternativa secca di subire il male minacciato o di evitarlo con la dazione dell’indebito". Diversamente, spiega ancora la sentenza, il reato di induzione indebita, articolo 319-quater Cp, introdotto sempre dalla legge 190 del 2012, "è designato dall’abuso induttivo del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, vale a dire da una condotta di persuasione, di suggestione, di inganno (purché quest’ultimo non si risolva in induzione in errore sulla doverosità della dazione), di pressione morale, con più tenue valore condizionante la libertà di autodeterminazione del destinatario, il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, purché motivato dalla prospettiva di conseguire un indebito tornaconto personale, il che lo pone in una posizione di complicità col pubblico agente e lo rende meritevole di sanzione". Per quanto riguarda poi i "casi ambigui", quelli cioè collocabili ai confini tra i due istituti, conclude la Corte, i criteri del "danno antigiuridico e del vantaggio indebito", vanno considerati all’interno della vicenda concreta, e cioè "all’esito di un’approfondita ed equilibrata valutazione complessiva del fatto". Sanremo, confermati gli arresti domiciliari per gli assenteisti di Gianni Trovati Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2016 Cassazione, sentenza 3289/2016. Quando l’assenteismo diventa una "prassi consolidata", portata avanti "in modo sistematico", può giustificare le misure cautelari a carico dei dipendenti, perché suggerisce il rischio concreto di ripetizione del reato. Su queste basi la Cassazione, nella sentenza 3289/2016 depositata ieri, mette il bollino sugli arresti domiciliari e sull’obbligo di firma decisi dal giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Imperia nei confronti di 25 dipendenti del Comune di Sanremo, fra cui il vigile della celebre timbratura in slip diventato suo malgrado l’icona della vicenda. Le contestazioni del Tribunale puntano alla "falsa attestazione" della presenza in servizio, cioè il reato specifico per l’assenteismo nel pubblico impiego introdotto a suo tempo dalla riforma Brunetta (articolo 69, comma 1 del Dlgs 150/2009), a cui si affiancano la truffa aggravata, il falso ideologico e l’interruzione di pubblico servizio. Per il gruppo dei 25 che si è rivolto alla Suprema corte (all’interno dei 35 arrestati nell’inchiesta Stakanov che in tutto coinvolge 195 persone), il pm ha chiesto e il gip ha disposto due ordini di misure cautelari:?l’arresto domiciliare per i casi più gravi e l’obbligo di firma per gli altri. A motivarli, accanto al rischio di allungare la lista dei reati, c’è il pericolo di inquinamento delle prove, tanto più che le indagini sono ancora in corso:?in questo quadro, si affaccerebbe anche "l’agevole possibilità" di concordare versioni di comodo per respingere le obiezioni dei magistrati. Nel tentativo di contrastare le decisioni del Gip, in realtà, il ricorso in Cassazione ha puntato più sulla procedura che sul merito, accusando di fatto il giudice di aver "copiato e incollato" le informazioni del pubblico ministero aderendo in modo acritico alla sua descrizione. Così facendo, mancherebbe quindi la "valutazione autonoma" dei gravi indizi di colpevolezza, che la riforma del Codice di procedura penale (articolo 8, comma 1 della legge 47/2015)?impone per convalidare le misure cautelari. Nella ricostruzione della Cassazione, però, il lavoro svolto dal giudice appare parecchio più "originale":?è vero, spiega la sentenza, che il Gip ha rimandato a un "corposissimo numero di elementi investigativi" del pubblico ministero (pedinamenti, fotografie, video, timbrature eccetera), ma poi ne ha tratto valutazioni autonome, come dimostra il fatto che alcuni arresti domiciliari sono stati trasformati nell’obbligo di firma. Nuovo reato a carico del medesimo indagato. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2016 Azione penale - Notizie di reato - Iscrizione nel registro degli indagati - Nuovo reato a carico del medesimo indagato - Decorrenza del termine per le indagini preliminari. Qualora il P.M. acquisisca nel corso delle indagini preliminari elementi in ordine ad ulteriori fatti costituenti reato nei confronti della stessa persona già iscritta nel registro di cui all’articolo 335 cod. proc. pen., deve procedere a nuova iscrizione ed il termine per le indagini preliminari, previsto dall’articolo 405 cod. proc. pen., decorre in modo autonomo per ciascuna successiva iscrizione nell’apposito registro, senza che possa essere posto alcun limite all’utilizzazione di elementi emersi prima della detta iscrizione nel corso di accertamenti relativi ad altri fatti. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 28 luglio 2015 n. 32998. Azione penale - Notizie di reato - Iscrizione nel registro degli indagati - Nuovo reato a carico del medesimo indagato - Decorrenza del termine per le indagini preliminari - Computo - Criteri. Qualora il P.M. acquisisca nel corso delle indagini preliminari elementi in ordine ad ulteriori fatti costituenti reato nei confronti della stessa persona già iscritta nel registro di cui all’articolo 335 cod. proc. pen., deve procedere a nuova iscrizione ed il termine per le indagini preliminari, previsto dall’articolo 405 cod. proc. pen., decorre in modo autonomo per ciascuna successiva iscrizione nell’apposito registro. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 9 luglio 2013 n. 29143. Azione penale - Notizie di reato - Iscrizione nel registro degli indagati - Nuovo reato a carico del medesimo indagato - Decorrenza del termine per le indagini preliminari - Atti di indagine compiuti prima della nuova iscrizione. Ai fini del computo della durata massima delle indagini preliminari, l’iscrizione per un nuovo reato a carico del medesimo indagato, individua il "dies a quo" da cui decorre il termine, ferma restando l’utilizzabilità degli elementi emersi prima della nuova iscrizione nel corso di accertamenti relativi ad altri fatti, attesa l’assenza di preclusioni derivanti dall’articolo 407 cod. proc. pen. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 4 gennaio 2013 n. 150. Azione penale - Notizie di reato - Iscrizione nel registro degli indagati - Nuovo reato a carico del medesimo indagato - Decorrenza del termine per le indagini preliminari - Computo - Criteri. Nel corso delle indagini preliminari il P.M. - salvi i casi di mutamento della qualificazione giuridica del fatto o dell’accertamento di circostanze aggravanti - deve procedere a nuova iscrizione nel registro delle notizie di reato previsto dall’articolo 335 cod. proc. pen., quando acquisisce elementi in ordine ad ulteriori fatti costituenti reato nei confronti della stessa persona. Il termine per le indagini preliminari decorre in modo autonomo da ciascuna successiva iscrizione nel registro degli indagati. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 25 marzo 2010 n. 11472. Interesse del Pm ad impugnare. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2016 Impugnazioni penali - Interesse ad impugnare ex articolo 568 cod. proc. pen. - Ricorso del Pm - Idoneità dell’impugnazione a conseguire un risultato pratico favorevole - Necessità. Quando il PM propone ricorso per cassazione per ottenere l’esatta applicazione della legge, sussiste l’interesse richiesto dall’articolo 568, comma quarto, cod. proc. pen. se con l’impugnazione possa raggiungersi un risultato non solo teoricamente corretto ma anche praticamente favorevole e tale condizione non sussiste quando la vicenda oggetto della pronuncia sia ormai esaurita, a nulla rilevando l’affermazione in astratto di un principio di diritto da applicare nel futuro. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 29 luglio 2015 n. 33573. Impugnazioni penali - Interesse ad impugnare - Ricorso del Pm - Idoneità dell’impugnazione a conseguire una decisione più favorevole - Necessità. Non sussiste l’interesse richiesto dall’articolo 568. comma quarto, cod. proc. pen. nel ricorso del PM volto ad ottenere l’esatta applicazione della legge che non indichi come da tale rettificazione possa derivare per l’impugnante un risultato praticamente e concretamente favorevole. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 11 dicembre 2013 n. 49879. Impugnazioni penali - Ricorso per cassazione proposto dal PM avverso sentenza di non luogo a procedere per estinzione del reato determinata dalla prescrizione - Idoneità del gravame a conseguire una decisione più favorevole - Necessità. È inammissibile per difetto di interesse il ricorso per cassazione proposto dal pubblico ministero avverso la sentenza di non luogo a procedere per estinzione del reato determinata dalla prescrizione se, indipendentemente dalla correttezza di tale decisione, la prescrizione sia comunque da ritenersi maturata in riferimento al successivo sviluppo avuto dal processo. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 17 novembre 2009 n. 43983. Impugnazioni penali - Interesse ad impugnare - Impugnazione del PM che denunci violazione di legge - Idoneità del gravame a produrre un risultato praticamente utile - Necessità. L’interesse richiesto dall’articolo 568, comma quarto, cod. proc. pen. quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione dev’essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste solo se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione di quel provvedimento, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante. Pertanto, qualora il PM denunci, al fine di ottenere l’esatta applicazione della legge, la violazione di una norma di diritto sostanziale o processuale, in tanto può riconoscersi la sussistenza di un interesse concreto che renda ammissibile la doglianza, in quanto nell’eventuale giudizio di rinvio possa raggiungersi un risultato non solo teoricamente corretto ma anche praticamente favorevole. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 11 novembre 2003 n. 47496. Toscana: presidente Rossi "intesa col ministero per migliorare le condizioni dei detenuti" controradio.it, 27 gennaio 2016 Sulla situazione carceraria "ho avuto un colloquio stamani col ministro Orlando, ci troveremo presto a firmare un protocollo di carattere generale che comprende un po’ tutti gli aspetti, sia l’intervento che deve svolgere il ministero, sia l’intervento che sta svolgendo o dovrà svolgere la Regione. Senza dimenticarci che abbiamo bisogno di carceri che abbiano rispondenza all’obiettivo che gli attribuisce la nostra Costituzione, quello di rieducazione e di formazione". Lo ha annunciato, in un briefing coi giornalisti, il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi. "Penso che nel prossimo mese potremo fare il punto della situazione - ha aggiunto - e sottoscrivere impegni precisi col ministro. Per Sollicciano, ma non solo - ha precisato, perché abbiamo aperta la questione Pianosa, abbiamo il problema dell’agricoltura che interviene in questo settore, abbiamo il problema della formazione, di alcuni interventi di carattere ambientale eppoi soprattutto ridefinire le coordinate dell’intervento di carattere sanitario, che è di competenza delle Regioni". Intanto, ha fatto sapere, "nel colloquio che ho avuto col ministro c’è la disponibilità a trovarci intorno a un tavolo e definire un programma pluriennale anche per non essere ogni volta tirati per la giacca a seconda dell’episodio". Rossi ha incontrato, come annunciato nei giorni scorsi, anche il provveditore dell’amministrazione penitenziaria in Toscana Carmelo Cantone, per fare il punto sui problemi emersi con forza, in particolare, nel carcere fiorentino di Sollicciano. L’incontro ha permesso anche di fare il punto della situazione nei penitenziari toscani e di concordare un percorso finalizzato proprio al protocollo d’intesa fra Regione e ministero della Giustizia, per riprendere e potenziare quanto già in parte avviato grazie ad un accordo già siglato con il ministero. Per quanto riguarda, in particolare, la tutela della salute dei detenuti la Regione potrebbe già rendere disponibili risorse per realizzare alcuni progetti. Anche nel recente passato, ha ricordato Rossi, la Regione è intervenuta con proprie risorse sostituendo i materassi nelle celle nel carcere di Sollicciano, mentre è allo studio, sempre per il carcere fiorentino, un progetto di efficientamento energetico. Toscana: il Garante Corleone "Opg di Montelupo ancora aperto in modo illegittimo" di Benedetta Bernocchi parlamento.toscana.it, 27 gennaio 2016 Il Garante dei detenuti della Toscana all’ospedale psichiatrico giudiziario. Ancora 53 i presenti dei quali 42 internati e 10 detenuti, 23 sono i toscani. Sono ancora 53 gli ospiti dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo, visitato questa mattina dal garante dei detenuti della Toscana Franco Corleone, accompagnato dalla direttrice Antonella Tuoni. Delle 53 presenze, 42 sono gli internati e 10 i detenuti. Tra gli internati 23 sono i toscani di cui la Regione, al momento della chiusura definitiva della struttura, dovrà farsi carico e ricollocare nella Rems (residenza sanitaria per l’esecuzione della misura di sicurezza) o nelle strutture intermedie secondo la valutazione della magistratura di sorveglianza. Corleone ha visitato la sala colloqui con giardino esterno, l’officina con gli attrezzi, gli spazi per le attività ricreative e di socializzazione, le celle ampie, alcune appena imbiancate e tutte con i servizi. La direttrice Tuoni ha lamentato che "per il trasferimento degli internati alla Rems di Volterra, invece di prendere in considerazione le motivazioni psicopatologiche, si è partiti da chi aveva fatto ricorso". "Adesso - ha detto Tuoni - è in programma a breve il trasferimento di quattro internati toscani a Volterra". Corleone ha evidenziato la necessità che Montelupo chiuda al più presto "per evitare il rischio - ha detto - del commissariamento della Regione. È ancora aperto in modo illegittimo. Al 1 aprile 2016 (giorno in cui nel 2015 è entrata in vigore la legge 81 che ne stabilisce la chiusura) si registra un anno di ritardo nella chiusura dell’Opg". Corleone ha proposto di "portare a capienza la Rems di Volterra, cioè a 20 internati (adesso sono 10) e poi di individuarne un’altra analoga che ospiti chi ha già una misura definitiva ma che sia su un territorio diverso". Dall’incontro sono emerse diverse idee sul futuro dell’Opg: " Potrebbe ospitare - ha aggiunto Corleone - una sezione di custodia attenuata dove far lavorare 153 detenuti al restauro della villa medicea in attesa di una nuova destinazione. La villa potrebbe diventare un museo, un centro studi o congressi". "Si tratta di uno spazio - ha detto Tuoni - da restituire al territorio. Avere un carcere a basso impatto sarebbe di estrema utilità. La struttura deve essere visitabile e aperta". All’incontro hanno partecipato anche alcuni rappresentanti della polizia penitenziaria che hanno espresso preoccupazione ed incertezza sul loro futuro "lavoriamo- hanno detto - in un luogo dichiarato chiuso e illegittimo. Auspichiamo una tempistica rapida e notizie certe". Umbria: sanità e formazione nelle carceri, sì unanime a risoluzione in Consiglio regionale umbria24.it, 27 gennaio 2016 In Terza commissione ok a documento che impegna la giunta a raccogliere le istanze sollevate da garante dei detenuti e polizia penitenziaria. Verificare l’efficienza dell’assistenza sanitaria dentro i penitenziari, istituzione di un centro clinico riservato ai detenuti dentro il carcere di Perugia o, in alternativa, all’interno dell’ospedale, potenziamento della formazione delle persone sottoposte a restrizione della libertà. E poi ancora, maggiore attenzione per i detenuti sottoposti a un regime di alta sicurezza e mantenimento a Perugia di una struttura di carattere operativo, a fronte della soppressione del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria dell’Umbria e il suo accorpamento a quello della Toscana. Dopo le audizioni del garante dei detenuti e dei rappresentanti della polizia penitenziaria che si sono tenute in queste settimane, martedì la Terza commissione del consiglio regionale ha approvato all’unanimità una risoluzione che impegna la giunta a raccogliere proprio le istante sottolineate nel corso delle audizioni. Con il documento si chiede all’esecutivo regionale anche un maggior impegno per potenziare la formazione culturale e professionale dei detenuti attraverso corsi specifici e ad attivare un coordinamento delle associazioni di volontariato che operano nelle strutture, oltre a un potenziamento del trasporto pubblico proprio verso le carceri della regione. La risoluzione si occupa anche di un altro aspetto, ovvero della necessità di rispettare la riservatezza nel corso dei colloqui tra il garante e i detenuti. Quanto ai problemi della penitenziaria, con il documento si chiede anche un rafforzamento del personale in termini numerici, mentre l’idea per quanto riguarda i detenuti sottoposti a regime di alta sicurezza, è quella di concentrarli in una sola struttura. Il presidente della commissione, il democratico Attilio Solinas, si dice soddisfatto per l’approvazione all’unanimità della risoluzione e spiega che a breve verrà informata l’aula. Un’assemblea regionale chiamata a breve anche a eleggere il nuovo garante dei detenuti, dato che il mandato del professor Carlo Fiorio è scaduto con la fine della precedente legislatura. Fiorio era stato eletto appena un anno prima dopo ben otto anni di inadempienza da parte del consiglio regionale, che aveva istituito la figura del garante attraverso una legge approvata del 2006. Cinque le persone che hanno deciso di presentare il proprio curriculum: si tratta di Simona Materia, Stefano Anastasia, Fabiana Massarella, Alessia Nataloni e Ludovica Khraisat. Abruzzo: nuovo rinvio per la nomina del Garante dei diritti dei detenuti notiziedabruzzo.it, 27 gennaio 2016 "La nomina del garante per i detenuti è sempre più una patetica pantomima che evidenzia per l’ennesima volta i limiti di questa maggioranza". È quanto dichiarano il presidente della Commissione di Vigilanza, Mauro Febbo e il Capogruppo di Forza Italia, Lorenzo Sospiri a margine dei lavori odierni del Consiglio regionale. "Anche oggi - evidenziano Febbo e Sospiri - si è registrato l’ennesimo rinvio del punto all’ordine del giorno prevedeva ancora una volta l’elezione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Ancora un nulla di fatto, un’altra occasione persa: rinviata chissà a quando l’investitura per Rita Bernardini che certifica la frattura all’interno del centrosinistra che non riesce a trovare la quadra. D’Alfonso non ha i numeri e così la candidatura resta di facciata con la Regione che dice ma non fa". Savona: il cappellano don Lupino "carcere chiuso, una situazione assurda" di Antonio Amodio rsvn.it, 27 gennaio 2016 "Il carcere attuale è indifendibile, ma non è possibile che non ce ne sia uno nuovo". "Una città grande come Savona con un tribunale che segue migliaia di procedimenti senza un carcere è un vero disastro e un disagio non solo per i detenuti ma anche per le loro famiglie che possono impiegare giornate intere per andare a far visita ai loro congiunti nei carceri piemontesi e nelle altre case circondariali della Liguria. Eppure di costruire un nuovo carcere a Savona se ne parla da trent’anni e più ma di concreto poco o nulla si è visto". Questa in sintesi la riflessione del cappellano del Sant’Agostino e parroco di Lavagnola don Giovanni Lupino in merito alla decisione del ministero della Giustizia di chiudere il vecchio e tanto criticato reclusorio savonese, ospitato da un antico convento dei padri agostiniani e poi caserma sotto Napoleone. "Certamente - prosegue don Lupino - il carcere savonese è del tutto indifendibile per la fatiscenza e la vetustà delle sue strutture, ma bisognerebbe applicare la costituzione che sancisce il diritto per i detenuti di scontare le pene il più possibile vicino a casa. Penso anche alle difficoltà della magistratura impegnata nei processi e nella applicazione delle misure alternative. Diventa più difficile il compito anche per loro". E sul suo ruolo da cappellano don Lupino aggiunge: "Personalmente non mi tange più di tanto questa chiusura, farò sicuramente dell’altro. Ma devo dire che è stata gratificante più sul piano umano rispetto a quello propriamente amministrativo o economico. Se uno deve ragionare in termini di privilegi o di vantaggi. Ne ha di più un professore o un cappellano militare, piuttosto che un cappellano di un carcere, ma ciò che si può apprendere da un’esperienza diretta con i detenuti e le loro vicende umane credo che non abbia eguali e che debba essere sottolineato con forza". Don Lupino prosegue: "Possibile che in tanti anni di discussioni, di sopralluoghi, di governi che si sono succeduti, e di siti che si sono valutati non si sia mai trovato il modo di realizzare questa nuova struttura? È possibile che non ci si renda conto che può portare anche vantaggi economici ad una città delle dimensioni di Savona? Ed è possibile che non si valutino anche le difficoltà grandi in cui si trovano ad operare gli agenti e tutto il personale che vi lavora spesso in condizioni al limite della decenza? Un tempo si è parlato sui media di cifre intorno ai 70 milioni disponibili per la costruzione del nuovo penitenziario. Ma se fossero stati davvero spesi forse un carcere lo si poteva fare con le maniglie di ingresso d’oro… e invece. Forse degli ultimi che vivono dietro le sbarre, forse di coloro che per legge dovrebbero redimersi dalla loro condizione pagando per ciò che hanno fatto ma con la speranza di essere un giorno reinseriti nella società, non importa davvero nulla a nessuno". Giovanni Lupino conclude: "Ora si parla di Cairo come di possibile sede. In mancanza d’altro può anche andare bene, ma si poteva fare anche all’uscita dell’autostrada ad esempio e non mancano altri spazi dove potrebbe sorgere. L’importante è che ci sia la volontà vera di affrontare e risolvere questo annoso problema che non è solo di chi vive in cattività e di chi ha sbagliato e paga per le sue responsabilità, ma è di tutta una comunità e soprattutto di chi vive la sua vita tranquilla fuori da quel mondo". Milano: nel carcere di Bollate il nuovo centro servizi di Energetic Source di Valerio Alba Italia Oggi, 27 gennaio 2016 Ha preso il via il 4 novembre il nuovo "centro servizi" di Energetic Source all’interno di Bollate, la seconda casa di reclusione di Milano. Un progetto dalla forte valenza sociale, che l’azienda, colosso del trading energetico, ha realizzato in collaborazione con la cooperativa sociale Bee4, già presente all’interno del carcere con un laboratorio dedicato al controllo qualità. E così 12 detenuti e 3 ex detenuti gestiscono attività di data entry, validazione documentale, fornitura di informazioni al cliente e inserimento delle autoletture. Seduti davanti al loro pc, senza navigazione esterna, per sei ore al giorno con una retribuzione mensile di circa novecento euro valutata sulla base degli obiettivi raggiunti possono essere considerati a tutti gli effetti dipendenti Energetic Source. E sono stati proprio i loro colleghi ad affiancarli durante il periodo di formazione, che ha permesso loro di acquisire tutte le competenze necessarie per svolgere questo tipo di mansioni, che richiedono non solo capacità intellettuali, ma anche serietà e senso del dovere. "Progetti come questo si sono sempre rivelati positivi", ha commentato Carlo Bagnasco, ceo di Energetic Source, "perché attribuiscono un ruolo di responsabilità al detenuto che si sente persona e non numero. Siamo certi che quest’esperienza favorirà nuove opportunità lavorative per coloro che lasceranno il carcere, grazie a un bagaglio di formazione e competenze in più". Sicuramente ha giocato un ruolo importante anche la casa di reclusione di Milano-Bollate, conosciuta per la sua politica penitenziaria volta a valorizzare l’aspetto rieducativo della pena, che ha rappresentato il contesto perfetto per la realizzazione di questo progetto. "L’iniziativa di Energetic Source e di Bee4 s’inserisce perfettamente nella progettualità dell’Istituto fondato sulla responsabilizzazione dei detenuti esteso alla loro inclusione sociale", ha dichiarato Massimo Parisi, direttore della struttura, nel corso della conferenza stampa. Nel centro servizi di Energetic Source lavorano uomini e donne con un’età media molto bassa: "I ragazzi hanno in media quarant’anni", ha sottolineato Roberto Minerdo, direttore relazioni istituzionali, comunicazione e marketing di Energetic Source "per poter lavorare qui hanno dovuto superare una selezione e studiare, perché devono svolgere compiti, che richiedono un’applicazione intellettuale e di concetto". Il centro servizi ha ricevuto anche il plauso di Cosimo Maria Ferri, sottosegretario alla giustizia, che ha particolarmente apprezzato l’iniziativa, sottolineandone l’importanza per il cammino di reinserimento e rieducazione dei detenuti. E, a sottolineare l’importanza dell’attività professionale all’interno del carcere, sono i numeri. Nei centri di reclusione italiani la media di recidiva, ovvero di tornare a delinquere una volta usciti è del 70% a Bollate tale percentuale scende al 25%. "Attraverso il lavoro si dà l’opportunità concreta alle persone detenute di avere la giusta dignità, di sostenere le proprie famiglie, soprattutto, di acquisire competenze utili per il loro futuro", ha sottolineato Parisi. "Al contempo si possono creare le giuste condizioni per evitare la recidiva nei reati e migliorare la sicurezza sociale". L’avvio del centro servizi nel carcere di Bollate è soltanto uno dei progetti di Corporate Social Responsibility che vede protagonista Energetic Source. Da tempo il gruppo è impegnato in iniziative concrete a sostegno dello sport, con il progetto #noisiamoenergia, del patrimonio artistico italiano e della salvaguardia ambientale. Parma: comunicato del Dap "in carcere vari progetti con enti pubblici e privati" Ansa, 27 gennaio 2016 L’Amministrazione Penitenziaria sta seguendo con attenzione i progressi in atto presso l’Istituto penitenziario di Parma rivolti al coinvolgimento di enti pubblici e privati presenti sul territorio, con i quali la direzione ha avviato e consolidato una rete di interventi per implementare la formazione e l’inserimento lavorativo dei detenuti, per migliorare le condizioni detentive e per avviare nuove attività culturali. Tra questi, con i fondi della Cassa delle Ammende, l’attività per il recupero di ampi spazi inutilizzati del carcere che ospiteranno nuove lavorazioni. Da febbraio, infatti, partirà una chiamata di interesse alle aziende profit e alle cooperative sociali per la presentazione di progetti di occupazione e lavoro interni al carcere. Una commissione formata dalla direzione del carcere, dalla Fondazione Cariparma e dal Garante dei detenuti del Comune valuterà i migliori progetti che saranno finanziati con il contributo dalla Fondazione bancaria. Finanziati anche 4 percorsi di formazione professionale per operatore di panificio e pastificio, operatore agroalimentare, operatore del verde e tirocini per professionalizzare un gruppo di detenuti nel ruolo di assistenti a detenuti non autosufficienti. In totale sono coinvolti 40 detenuti. Con l’ente "Forma Futuro" si è anche partecipato alla rete regionale del progetto Acero Bis che prevede il finanziamento di 4 tirocini presso aziende esterne. Altri progetti sono in corso con la collaborazione della Regione, del Comune, della Fondazione Teatro Regio, con l’Ente Parchi Emilia Occidentale, con l’Università degli studi. Shoah, perché riflettere è ancora necessario di Donatella Di Cesare Corriere della Sera, 27 gennaio 2016 Ecco, dunque, il 27 gennaio, il "Giorno della memoria". Di nuovo celebrazioni, cerimonie, discorsi di circostanza, dove si ripetono luoghi comuni, mostre stantie, dove anche le immagini, un tempo vivide, sono condannate a divenire icone sbiadite. E tutto per un genocidio che risale a un passato ormai lontano, uno fra i tanti. Sì, perché le pagine della storia sono piene di tragedie analoghe - prima e, persino, dopo la Shoah. Come dimenticare il genocidio armeno, la bomba su Hiroshima, l’eccidio in Ruanda, i massacri in Bosnia? E perché non affrontare l’immane tragedia dei profughi? "Basta con questi ebrei che hanno preteso per anni di avere il monopolio del dolore!". "Basta con questi ebrei che hanno fatto di Auschwitz l’emblema del male assoluto!". "Basta con questi ebrei, il sedicente popolo "eletto" che rivendica una eccezionalità perfino dello sterminio". Come se "unico e incomparabile" fosse il crimine che hanno subìto. "Basta con questi ebrei che dall’Olocausto hanno tratto un redditizio business e ogni anno tornano a presentare il conto". "Basta con questi ebrei che vogliono essere le vittime per eccellenza, come se ci potesse essere una gerarchia, come se le morti non fossero sempre e ovunque uguali per tutti!". Da anni infuria la polemica sul Giorno della memoria. Si stigmatizzano i cosiddetti "abusi". Si chiede di voltare pagina. Come se il passato non fosse indispensabile per guardare al futuro. È indubbio che la sindrome del "dovere della memoria" ha sortito effetti perversi. Così come è indubbio che, nei Paesi europei, implicati nello sterminio, la cultura, la politica e l’informazione hanno enormi responsabilità. I progetti didattici, che si limitano spesso ai "viaggi della memoria", mostrano tutti i loro limiti. Tra la ragionieristica del lager e l’emozione del momento non c’è spazio per la riflessione critica. Come spiegare altrimenti lo sconcertante aumento dell’odio verso gli ebrei? In Germania le cifre sono ormai da record. La maggior parte dei tedeschi vuole lasciarsi alla spalle Auschwitz e puntare liberamente l’indice contro Israele. L’Italia non è da meno. Ecco perché la polemica sul Giorno della memoria ha il sapore greve dell’antisemitismo, il gusto acre della cattiva coscienza. Non è difficile trovare ciò nel web, dove diffusa è anche la macabra competizione tra i genocidi. A che cosa dovrebbe servire questa gara? A meno che lo scopo recondito non sia gettare discredito sugli ebrei. Ricordare è pensare. E della Shoah resta ancora molto su cui riflettere. Si deve parlare delle camere a gas, delle officine hitleriane, perché le morti sono tutte uguali - ma non lo sono i modi di morire. Non vogliamo che si ripeta né la fabbricazione dei cadaveri né, tanto meno, quell’esperimento del non-uomo, mai compiuto prima, in cui l’umanità stessa è stata messa in questione. Sebbene sia insopportabile, occorre ricordare quel che è accaduto, perché viviamo all’ombra di Auschwitz e, senza conoscere, si rischia di non ri-conoscere: l’odio per l’altro, il cripto-nazismo, l’antisemitismo. L’Europa non può sottrarsi. Tutto allora iniziò con le frontiere sbarrate ai profughi ebrei, chiuse a un intero popolo, che fu consegnato all’annientamento. Memoria perduta. L’Europa del genocidio oggi respinge i profughi di Alessandro Portelli Il Manifesto, 27 gennaio 2016 A undici anni dalla sua istituzione, la Giornata della Memoria suscita valutazioni e commenti ambivalenti. Non sono poche, né poco autorevoli, le voci che lamentano un rischio, senz’altro reale, di saturazione, di ritualità burocratica e ripetitiva, un ricordo di un giorno per non pensarci più per tutto l’anno. D’altra parte, quando da fonti autorevoli sentiamo dire che l’idea della Shoah è stata suggerita a Hitler dai palestinesi, mentre l’Iran continua a non prendere le distanze dal negazionismo e neonazisti e affini di tutta Europa scelgono l’Italia per i loro raduni, ci rendiamo conto di quanto pervasivi possano essere il razzismo, il revisionismo opportunista e il negazionismo strumentale. Il problema, come sempre, non è tanto se ricordare o no, ma che cosa ricordare e come. Dovremmo cominciare col distinguere la memoria in senso lato di conoscenza storica del passato, dalla memoria in senso proprio di consapevolezza critica delle esperienze sociali e personali vissute. La giornata della memoria acquisterebbe una dimensione ulteriore di senso se, insieme agli eventi ricordati, aprisse anche una riflessione sulla presenza, il ruolo, la crisi della memoria stessa. Altrimenti, la necessarissima conoscenza storica e sentita commemorazione della Shoah, della Resistenza (e anche delle foibe e del gulag) non compensa la smemoratezza intenzionale di una società in cui politici e media possono dire una settimana il contrario di quello che avevano detto la settimana prima senza che nessuno se lo ricordi e glielo ricordi. Più ancora della conoscenza storica, la memoria impone una relazione vissuta fra il passato ricordato e il presente che ricorda. La commemorazione smette di essere un rituale e diventa memoria vissuta se quello che ci raccontiamo del passato serve a orientare il nostro agire nel presente. Il ricordo della Shoah rischia di restare relegato a un passato autoconcluso se non insegna niente a un’Europa che oggi rischia di andare in pezzi per l’incapacità di accogliere migranti e profughi. Una giornata della memoria dovrebbe servire anche a farci ricordare che l’Europa che oggi respinge i migranti è la stessa Europa che ha inventato e messo in pratica il genocidio organizzato. Non è stata la nostra barbarie, è stata la nostra cultura che ha prodotto e produce tutto questo. Proprio perché la Shoah è un crimine specificamente europeo, non possiamo fare del suo ricordo una memoria etnocentrica. E invece, fra le tante memorie che giustamente vengono evocate in giornate come questa, non trova posto la memoria del colonialismo, specialmente del colonialismo italiano e dei suoi crimini. Di che memoria sono portatori gli abitanti della Libia, ex colonia italiana, dove ci prepariamo di nuovo a "intervenire" (dopo il 1912 e il 2012), che memoria arriva in Italia con i migranti che giungono (quando ci riescono) dall’ex colonia italiana dell’Eritrea? Che cosa ricordiamo dei trent’anni di resistenza libica all’occupazione, della resistenza etiope all’aggressione italiana, nel paese che erige sacrari alla memoria di un massacratore di libici e di etiopi come Rodolfo Graziani? Possiamo parlarne, o no, nella cosiddetta giornata della memoria? Con tanti problemi e domande, però vorrei aggiungere un esempio positivo. Il 23 gennaio, nel liceo che porta il suo nome, si è svolta un’emozionante "notte di Primo Levi". È stata emozionante per il modo in cui Edith Bruck, Sami Modiano, Giacoma Limentani - testimoni diretti degli eventi - hanno fatto capire a una vasta aula magna stracolma di studenti e famiglie fino a che punto le tragedie di allora sono ferite ancora aperte nell’anima di persone che ci sono vicine; farli vivere a una vasta aula magna stracolma di studenti e famiglie; per come tutto è stato reso più profondo e coinvolgente dalla musica dei MishMash e del coro Musica Nova, e dagli spettacoli e letture creati dagli studenti stessi; per la creazione di un senso di comunità e condivisione attorno alle tavole cariche di buone cose portate dai ragazzi e dai genitori stessi; per la consapevolezza diffusa che, come in tutte le grandi culture tradizionali, fare festa è un modo serio di ricordare. Ma è stato bellissimo soprattutto perché gli studenti e le loro famiglie non hanno partecipato come destinatari più o meno coinvolti di discorsi calati dall’alto, ma hanno retto tutto l’evento con il lavoro, le voci e le idee loro e dei loro insegnanti. Questo è un modo non solo di prendere coscienza del passato, ma di costruire memoria per il futuro: perché imparando da narratori come Edith, Sami, Giacometta i ragazzi di oggi si rendono conto che la memoria futura del nostro tempo dipende dalla loro partecipazione attiva in esso: se non ricordiamo, non saremo ricordati. Per una volta, insomma, si è vista in azione la vera e autentica "buona scuola". Schengen. Il coraggio che serve all’Europa che scivola di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 27 gennaio 2016 L’accordo per la libera circolazione delle persone è figlio di un mondo diverso dall’attuale e di un’epoca in cui l’ottimismo era giustificato. Un’altra epoca, un’altra storia. La cosiddetta area Schengen, che sancisce la libera circolazione delle persone, è figlia di un mondo diverso dall’attuale. L’accordo venne firmato da cinque Stati (i tre del Benelux, Francia, Germania) nel 1985. Via via, vi aderirono altri Paesi (l’Italia nel 1990). Divenne operativo, gradualmente, durante la nostra seconda Belle Époque: gli anni Novanta. Era un’epoca in cui l’ottimismo era giustificato: l’Europa era dinamica e in crescita, non c’erano minacce militari da parte di Stati o organizzazioni terroristiche transnazionali, i flussi migratori verso l’Europa erano minimi. Schengen, forse più della moneta unica, diventò il simbolo di un’Europa che si era lasciata alle spalle (o così sembrava) rivalità e diffidenze, per non parlare delle guerre che l’avevano dilaniata per un millennio e mezzo (dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente). Un’Europa che poteva finalmente fare a meno delle frontiere interne. L’accordo di Schengen (incorporato poi nel trattato di Amsterdam) prevedeva anche un graduale rafforzamento dei controlli sulle frontiere esterne del Vecchio Continente ma questo, in tempi di pace, non era un tema prioritario. Naturalmente non era vero che le diffidenze fossero finite. La storia pesa sempre. Il segnale arrivò forte e chiaro con il referendum francese del 2005 sul trattato costituzionale europeo: le polemiche sul (leggendario) "idraulico polacco" pronto a calare in Francia per togliere posti di lavoro ai francesi, segnalarono che una cosa era la retorica europeista e un’altra ciò che passava per la testa degli europei. In ogni caso, il mondo in cui è sorto Schengen non esiste più. La domanda dovrebbe essere: come si fa a non gettare via il bambino insieme all’acqua sporca, a salvare il salvabile di Schengen, come andrebbe fatto per ragioni economiche ma anche simboliche (ristabilire le frontiere interne significherebbe la fine dell’integrazione europea) adattandolo però ai tempi? Le notizie in arrivo dall’incontro informale di Amsterdam fra i ministri dell’interno dell’Unione sono cattive. Per i pessimisti Schengen è già morto, per gli ottimisti è solo sull’orlo del baratro anche se occorre che qualcuno, in fretta, tiri fuori un coniglio dal cilindro. Se resterà solo la proroga a due anni delle sospensioni di Schengen decise dai Paesi nordici tutto sarà finito. L’Unione si dissolverà con un crescendo di accuse incrociate, insulti e rancori. Il "coniglio" potrebbe essere rappresentato dalla decisione di imporre immediati controlli europei ai "varchi", greci o italiani non importa. La proposta di un corpo di polizia europea di frontiera è la più sensata fra quelle in agenda. Si sacrificherebbe un aspetto più simbolico che effettivo della sovranità nazionale ma con un sicuro vantaggio collettivo. I controlli sulle frontiere esterne sono un "bene pubblico" europeo e tocca all’Unione, non ai singoli Stati, occuparsene. E in fretta, non essendo pensabile che Italia e Grecia possano fare da sole. Occorrerebbe anche rassicurare i cittadini sul fatto che, Schengen vigente, il coordinamento europeo per il controllo sugli spostamenti degli individui considerati pericolosi diventerà molto più efficace. Da approfondire è infine la proposta di un piano di investimenti in Medio Oriente e Africa per bloccare i flussi migratori: è grande il rischio di fallire, di arricchire involontariamente mafie locali e terroristi senza benefici per le popolazioni. Tutto ciò richiederebbe comunque forti investimenti, possibili solo se le opinioni pubbliche dei Paesi che oggi giocano a scaricabarile si convincessero dei danni (economici e non solo) che la fine di Schengen comporterebbe per tutti. Se non vogliamo fare dello sterile moralismo, dobbiamo però renderci conto delle difficoltà. La prima ha a che fare con il funzionamento della democrazia. Possiamo chiamarla la legge del "danno sfasato": non paga mai chi rompe il vaso e i cocci restano sempre a qualcun altro. Una classe politica di governo può benissimo rendersi conto del danno che un certo evento (come, per l’appunto, la fine di Schengen) arrecherebbe nel medio termine al proprio Paese. Ma resta il fatto che oggi quell’evento genera consenso e quindi il politico pensa di doverlo perseguire. Quando arriveranno i danni, probabilmente, al governo ci sarà già qualcun altro. In altre parole, chi governa al momento (qualunque momento) è soprattutto impegnato a mettere pezze per rimediare a danni emersi oggi, ma provocati dalle decisioni di chi governava ieri. A sua volta, quel mettere pezze sul momento, per lo più, prepara i danni che sarà chiamato a fronteggiare chi governerà in futuro. Mentre gli antieuropeisti più accesi si agitano di fronte a opinioni pubbliche (comprensibilmente) spaventate dagli eventi, servirebbero agli uomini di governo coraggio e carisma per convincere gli europei che se saltasse l’Unione staremmo tutti peggio, che praticare lo scaricabarile è controproducente, così come lo è restare immobili fingendo che il mondo sia lo stesso di prima. C’è poi l’errore di quelli che credono che "tutto si aggiusterà" comunque, perché gli interessi economici in gioco sono così forti da imporre ragionevolezza e compromessi. Chi la pensa così ricorda coloro che, alla vigilia della Prima guerra mondiale, credevano che i Paesi europei avessero troppo da perdere e che, per questa ragione, il conflitto non sarebbe mai scoppiato. Le paure collettive, il senso diffuso di insicurezza a fronte di minacce e pericoli incombenti, sono altrettanto importanti degli interessi economici nel determinare gli esiti politici. Per bloccare un’Europa che da tempo scivola lungo un piano inclinato, occorrerebbe un’alleanza fra politici europei disposti a cambiare tanto e a giocarsi tutto, senza reti sotto. Basta enunciare il problema per capire quanto sia difficile risolverlo. Migranti, la Ue accusa la Grecia: ingressi illegali. Da oggi i controlli di Valentina Errante Il Messaggero, 27 gennaio 2016 Più del 60 per cento dei richiedenti asilo arrivati in Europa a dicembre non era in fuga da guerre e non aveva titolo per richiedere lo status di rifugiato. Sono i dati Frontex non ancora diffusi, ma già in possesso della Commissione Ue che si è detta d’accordo sulla richiesta di alcuni paesi di sospendere Schengen. Una misura estrema per ovviare agli ingressi illegali: 1,83 milioni nel 2015. E mentre la Commissione sta già stabilendo se la difficoltà della Grecia nell’identificazione dei migranti costituiscano quelle "gravi carenze persistenti" sulla frontiera esterna dell’Ue, che giustificherebbero la chiusura dell’area comune, la Danimarca ha approvato ieri la legge che dispone la confisca dei beni ai rifugiati. In un contesto di totale spaccatura, prevalenza dei nazionalismi e fallimento delle politiche comuni dell’accoglienza, l’Italia spera ancora in una mediazione: lo scenario che si aprirebbe per il nostro Paese, con la sospensione di Schengen, sarebbe drammatico. Le cifre fornite dall’Agenzia europea per la gestione delle Frontiere esterne mettono ancora sotto accusa la Grecia. Frontex ha rilevato che più del 60% degli arrivi registrati a dicembre riguarda migranti economici, marocchini e tunisini che, secondo l’ Ue, non hanno diritto all’asilo e dovrebbero essere riammessi nei paesi d’origine. I dati ufficiali raccontano nel 2015 di 1,83 milioni attraversamenti illegali delle frontiere esterne all’Ue, una cifra record rispetto ai 283.500 del 2014. Nell’area dei Balcani, a dicembre, i passaggi illegali di frontiera sono scesi a 97mila, rispetto ai 156mila del mese precedente, ma - rileva Frontex, la cifra "è ancora di 16 volte superiore rispetto a dicembre 2014". E L’Agenzia, stigmatizza: "Il percorso dei Balcani occidentali continua a risentire del flusso senza precedenti di immigrati che vengono in Grecia prima di continuare il loro viaggio attraverso il suo confine settentrionale. la maggior parte dei migranti in arrivo alle frontiere dei Balcani occidentali è stata precedentemente individuata in Grecia". L’analisi sugli arrivi nell’ultimo mese dell’anno è tutt’altro che confortante: "Migliaia di migranti continuano ad arrivare in Grecia e in Italia nel mese di dicembre, nonostante condizioni meteo difficili, portando il numero totale di rilevamenti nei due paesi a 1,04milioni in tutto il 2015. Si tratta di quasi cinque volte la cifra dell’anno precedente". L’Italia spera ancora per le trattative che possano scongiurare il peggio i margini sono minimi. Oggi tutte le carenze delle frontiere greche saranno al vaglio dei commissari Ue che, con il visto alla valutazione preparata dagli esperti, darebbero il via al primo dei quattro passaggi dell’iter per una possibile attivazione dell’articolo 26 del codice Schengen: controlli alle frontiere fino a due anni. "Stiamo salvando Schengen attraverso la sua applicazione", sottolinea il portavoce della Commissione Margaritis Schinas. Intanto il ministro degli Interni polacco, Mariusz Blaszczak, avverte che porrà il veto a qualsiasi nuovo piano che obblighi gli Stati membri ad accogliere quote di richiedenti asilo. Sembra un messaggio alla Commissione che ha annunciato, entro marzo, iniziative per rivedere il Trattato di Dublino. Un progetto al quale punta l’Italia, che da tempo si batte per un sistema di distribuzione più equo. Nei giorni scorsi David Cameron, impegnato nei negoziati per cercare di scongiurare il pericolo della Brexit, si è schierato contro qualsiasi modifica dell’attuale regolamento che prevede, per il paese di primo ingresso, l’onere dei richiedenti asilo. Nelle prossime settimane si vedrà se Francia e Germania manterranno il loro appoggio ai progetti di Bruxelles, con Francois Hollande sottoposto a una forte pressione politica interna per l’allarme terrorismo e Angela Merkel in difficoltà per la crisi dei migranti. Intanto il parlamento danese ha approvato con 81 voti favorevoli e 27 contrari le controverse norme sui richiedenti asilo, compresa la proposta di confisca di denaro e oggetti di valore oltre 1.300 euro "per contribuire alle spese di mantenimento e alloggio". La legge, che ha scatenato polemiche al livello internazionale, porta anche a tre anni il tempo necessario prima di poter procedere ai ricongiungimenti familiari. Un provvedimento che ha suscitato la reazione dell’Onu. In Danimarca è legge la confisca dei beni ai profughi di Andrea Tarquini La Repubblica, 27 gennaio 2016 In Danimarca, il Parlamento approva la riforma al diritto d’asilo: i socialdemocratici votano insieme a governo di destra e xenofobi Sequestri oltre i 1.300 euro per coprire le spese di accoglienza. Le proteste: "Violata la convenzione sui diritti umani". Confisca dei beni a chi chiede asilo: "Devono pagare almeno parte di quello che ricevono". È accaduto in Danimarca, "il paese più felice del mondo" secondo le statistiche Onu. Il provvedimento è stato votato da quasi tutti: i socialdemocratici insieme al governo di destra sostenuto dai populisti xenofobi. È un duplice colpo al cuore, al modello scandinavo e all’anima dell’Europa intera, quello inferto con il voto di ieri del Folketing, il parlamento reale di Copenhagen. Il fine giustifica i mezzi, dice in sostanza l’esecutivo guidato dal premier conservatore Lars Lokke Rasmussen: bisogna scoraggiarli a venire da noi. Il dibattito andava avanti da mesi. L’Onu aveva ammonito i politici danesi: "Trattate con rispetto e dignità chi ha sofferto e rischiato la vita per fuggire dalle guerre". Si sono schierati contro la decisione anche i grandi intellettuali, a cominciare da Jussi Adler Olsen in una recente intervista rilasciata a Repubblica. Hanno protestato le ong di tutto il mondo, paragonando la legge agli espropri attuati dai nazisti sugli ebrei, cittadini del Reich o dei paesi occupati. Invano. Il voto ha registrato una maggioranza schiacciante: 81 voti a favore su 109. Compresi, appunto, anche i socialdemocratici. Coerenti in fondo, come osserva un diplomatico europeo: negli ultimi mesi al potere e nella campagna elettorale combattuta e persa contro Rasmussen, l’allora premier di sinistra Helle Thorning-Schmidt aveva gareggiato con i partiti della destra nel chiedere tolleranza zero. La legge colpirà i migranti in ogni aspetto della vita quotidiana se riusciranno ad arrivare, nonostante i controlli al confine, nel territorio danese. Ogni patrimonio al di sopra di diecimila corone (equivalente di 1.340 euro) verrà infatti loro confiscato. Soltanto su un punto l’ispiratrice degli espropri, oltre che del blocco alle frontiere, la ministra dell’Integrazione Inger Stojberg, ha ceduto: chiedeva infatti di sequestrare anche le fedi nuziali o i preziosi di valore affettivo o familiare. Ma il linguaggio usato resta ugualmente pesante: "Con questa legge vogliamo colpire i migranti che arrivano da noi in Danimarca con le valigie piene di diamanti", ha dichiarato il ministro della Giustizia Soren Pind. "Si registra un solo caso del genere nell’ultimo secolo", ribattono i pochi contestatori. Invano. E non è finita qui. I sussidi ai migranti verranno ridotti del 10 per cento. E la polizia potrà aprire i loro bagagli in qualsiasi momento per perquisirli. Chi arriva da solo e chiede il ricongiungimento con la famiglia dovrà invece attendere tre anni, non più uno soltanto come avveniva finora. "Si tratta di un’evidente violazione della convenzione dell’Onu", denunciano a Copenhagen gli avvocati che assistono volontariamente i profughi. Ma anche il soggiorno dei perseguitati per ragioni etniche, religiose o politiche, finora garantito per 5 anni, viene ridotto a due. E chi chiede un soggiorno permanente dovrà pagare 500 euro dimostrando di avere un lavoro stabile e parlare perfettamente danese. Solo la Svizzera del populista Blocher lavora a norme simili. In Germania sussidi e aiuti sono concessi a qualunque profugo dimostri di essere nullatenente, se poi lavora riceve meno. Ma Copenhagen ha scelto la linea dura. Il ministro Alfano "rimpatri o sarà caos, le quote una delusione" di Cristiana Mangani Il Messaggero, 27 gennaio 2016 Parla il ministro dell’Interno: "La libera circolazione per adesso è salva ma è sotto attacco. Corpi di guardia di frontiera europei per fronteggiare il rischio terrorismo". Ministro Alfano, se salta Schengen che succederà? "Per ora il trattato è salvo, ma il diritto di libera circolazione rimane fortemente sotto attacco. Se da qui alle prossime settimane non diminuiranno i flussi migratori, soprattutto quelli provenienti dalla rotta balcanica, c’è il rischio che salti tutto". Per l’Italia questo potrebbe voler dire conseguenze disastrose. Che soluzioni abbiamo? "Dobbiamo stringere patti importanti con la Turchia proprio per tentare di far diminuire il flusso dei profughi che partono da lì e seguono la rotta balcanica. Al tempo stesso bisogna sostenere la Grecia nel presidiare quella frontiera". Nei giorni scorsi il premier Renzi sembrava aver manifestato qualche dubbio riguardo alla nostra parte di stanziamento per il governo di Ankara. "No, nessun dubbio. Abbiamo sempre detto di sì al contributo alla Turchia. Qui però si tratta di prenderli dal bilancio comunitario. Oppure, qualora li debbano versare pro quota gli stati membri, è necessario che tali investimenti o spese rimangano fuori dal patto di stabilità. Il punto è questo: l’accordo con la Turchia è una priorità". C’è poi la volontà di rivedere il regolamento di Dublino. L’Italia non rischia anche questa volta di rimanere sola? "La nostra idea è che vada rivisto, perché non si può caricare tutto al paese di primo ingresso. Va costruito un meccanismo automatico di redistribuzione dei profughi nei 28 paesi europei. Per questo - ribadisco - nell’emergenza occorre fare l’accordo con la Turchia. Dopo di che bisogna rimettere in campo varie situazioni: la prima è applicare le decisioni già assunte, perché è insostenibile che i governi non abbiano rispettato l’impegno riguardo alla decisione presa ad aprile scorso di fare hotspot, ricollocamenti e rimpatri. Stanno procedendo solo gli hotspot, tutto il resto non ha proprio funzionato". I dati effettivamente sono sconfortanti: solo 331 ricollocamenti sui 160 mila che dovevano essere trasferiti dall’Italia e dalla Grecia. "Numeri da condominio, qualcosa di veramente deludente. L’idea della redistribuzione era giusta, ma non ha funzionato. Noi contiamo, in Europa. Sono stato al centro di numerosi accordi bilaterali importanti. Dobbiamo essere di buonsenso, in ogni caso, e metterci nei panni dei tedeschi, che non vuol dire giustificare la chiusura di Schengen, ma organizzare un sistema differente. La nostra proposta è di aiutare i paesi che hanno avuto maggiore peso dalla rotta balcanica e far sì che i flussi diminuiscano. Intanto stiamo andando avanti con gli hotspot per non dare pretesti a chi li cerca. Hanno prevalso e stanno prevalendo egoismi nazionali rispetto a una esigenza che, invece, è quella di fronteggiare insieme con spirito solidale la questione, sapendo che questa solidarietà si sposa con la responsabilità di prendere le impronte digitali e di costruire gli hotspot. Il problema è che non si può chiedere responsabilità senza offrire solidarietà". Note dolenti anche sui rimpatri, forse la principale emergenza per il nostro paese. "La questione dei rimpatri può far saltare tutto. Per noi sono indispensabili. Lo abbiamo già detto varie volte che il sistema salterà se non funzioneranno, perché, siccome i soggetti da rimpatriare secondo l’indicazione europea devono stare nei centri chiusi, quindi in un circuito da cui non possano uscire, se non funzionano si accumuleranno anno dopo anno i soggetti da rimpatriare e da trattenere nei centri. Si rischiano numeri grossi". Urge quindi la ricerca di una soluzione per Dublino. Ma se non siamo riusciti a ottenere un impegno concreto sui ricollocamenti, non si rischia un nuovo flop nel tentare l’accordo per una revisione del patto? "È importante dire che sta emergendo un aspetto nuovo di interessi su Dublino. Mi riferisco alla Germania e a tutti quei paesi che possono aver necessità di modifiche, tipo l’Austria e la Svezia. Questo significherebbe un sostegno importante, ed è proprio la cosa che ho lanciato al Gai di Amsterdam, ovvero l’idea di costruire un’alleanza di stati che sostenga la revisione di Dublino. Ma una revisione che sia radicale". La criticità della situazione ripropone il problema degli eventuali respingimenti. L’Italia si è sempre detta contraria. C’è il rischio che cambi qualcosa? "Noi abbiamo un tema rispetto a Schengen che è di buonsenso e che vorrei sottoporre agli occhi di tutti, ed è che siamo una penisola e non possiamo certo edificare muri o porre fili spinati sul mare. Il tema di porre una frontiera a Nord non faciliterebbe la gestione degli ingressi e delle uscite. E comunque, senza voler fare questo ragionamento, basti pensare all’enorme danno che potremmo subire con il blocco di Schengen, sia sul piano turistico che sulla circolazione delle merci, oltre che delle persone". Potrebbe avere qualche utilità aprire degli hotspot nel Nord del paese? "Gli hotspot servono per prendere le impronte digitali dei migranti, per distinguere quelli che sono richiedenti asilo o profughi, e quelli che invece sono migranti irregolari. Dunque la questione non è dove farlo per una decisione del governo, sono i flussi migratori che guidano. Mi spiego: se è previsto un flusso da Nordnon si può immaginare che le impronte digitali vengano prese a Taranto o a Lampedusa o a Trapani. Bisogna prenderle dove arrivano. I luoghi sono quelli che le circostanze reali ci indicano come i più vicini ai posti dove si verificano gli ingressi". Quanto pesa la minaccia terroristica sulla chiusura delle frontiere? "La circolazione deve essere libera e deve essere anche sicura, e il modo per conciliare queste due cose è un rafforzamento dei controlli alla frontiera esterna, perché solo così possiamo salvare Schengen. Se si controlla bene la frontiera esterna, quella che descrive i confini dell’Unione europea, anche con corpi di guardia di frontiera europei, potremmo continuare a realizzare il principio della circolazione libera. Ma per realizzarlo servono iniziative". A questo proposito, che fine ha fatto la direttiva sul Passenger name recorder, l’archivio con i dati personali di chi viaggia in aereo? "La direttiva sul Pnr è stata approvata a livello del Parlamento europeo ed è sicuro che entrerà in vigore. Alla riunione in Olanda c’era anche il presidente della Commissione che è preposto a questo scopo e, mi sembra, che ci siano tutte le condizioni affinché diventi operativa". Un ultima domanda, ministro: parteciperemo alla missione militare in Libia? "Non c’è alcuna decisione presa e tenuta nascosta. Qualora dovesse esserci, anche se finora non è in campo, avverrebbe nel massimo della trasparenza, di fronte al Parlamento e al paese". Rouhani e le statue coperte: la libertà non si contratta di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 27 gennaio 2016 Era il presidente iraniano che avrebbe dovuto adattarsi. Speriamo che quelle statue vengano svestite al più presto. Restituite alla loro nudità. Che poi significa restituite alla loro libertà. Averle ricoperte per non offendere l’ospite, il presidente iraniano Rouhani, è stato un segno di cedimento culturale. Una macchia. Non abbiamo nulla di cui vergognarci. Non dobbiamo pensare che la nudità dell’arte sia qualcosa di spregevole o di vergognoso. Consideriamo giustamente ridicoli i braghettoni con cui in passato il bigottismo cercava di coprire il nudo delle statue. E quel nudo ci racconta che nel nostro "stile di vita" la libertà artistica è parte integrante e imprescindibile della libertà tout court. Chi chiede che le nostre stature siano coperte manifesta un’arroganza culturale che dovremmo respingere, una pretesa di superiorità morale che possiamo spedire tranquillamente al mittente. Invece ci mettiamo sempre in difesa. Ammettiamo che, certo, quei nudi possono rappresentare qualcosa di sconveniente. Che dovremmo nasconderli per non dare all’ar-cigno ospite una brutta impressione. Non vogliamo capire che la libertà d’espressione non è una cosa da maneggiare come fosse cosa impura. Non vogliamo capire che una battaglia culturale non è un atto bellicoso, ma un atto d’amore nei confronti di ciò che siamo e che siamo diventati pagando prezzi immensi. La libertà di vestirsi e di svestirsi, la libertà di comportarsi senza seguire i precetti e i dogmi, la libertà di separare politica e religione. Era lui, il presidente Rouhani, che avrebbe dovuto adattarsi per non offenderci, e non il contrario. E non dovrebbe essere un contratto in più, o una mossa diplomatica, a farci rinnegare, tra l’altro con modalità che sfiorano il ridicolo, quello che siamo, anche in manifestazioni estetiche apparentemente innocue. Senza sfregiare, sia pur simbolicamente, i monumenti di cui andiamo orgogliosi. Marijuana a fini ricreativi, il Canada verso la legalizzazione? di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 27 gennaio 2016 La recente inattesa vittoria elettorale del Partito Liberale in Canada, e l’elezione del suo giovane leader Justin Trudeau a Primo Ministro, ha riportato in primo piano anche nel paese nordamericano il tema della legalizzazione della marijuana a fini ricreativi. Sono passati 14 anni dall’ottimo lavoro svolto nel 2002 dal Rapporto della Commissione presieduta dal Senatore Pierre Claude Nolin (cfr. Fuoriluogo, settembre 2002) che aveva caldeggiato la decriminalizzazione della canapa. Il Partito Liberale è un partito tradizionalmente di centro che però ha puntato per la sua rinascita a una forte attenzione ai diritti civili e ai temi sociali. Durante la recente campagna elettorale non sono mancati gli attacchi, in particolare dal Partito Conservatore al neo Primo Ministro, accusato addirittura in alcuni spot di voler vendere la marijuana ai bambini. Trudeau ha risposto senza scomporsi denunciando come fosse proprio l’approccio governativo a rendere "troppo facile l’accesso alla marijuana per i nostri bambini finanziando allo stesso tempo la criminalità di strada, le bande organizzate ed il commercio di armi". Nel programma con cui ha vinto le elezioni Trudeau è stato molto chiaro: rimuovere il consumo ed il possesso di marijuana dal Codice Penale, creando un sistema di regolamentazione rigido per vendita e distribuzione di cannabis con l’applicazione di accise sia federali che locali. Allo stesso tempo punire più severamente chi vende ai minori, chi guida sotto l’effetto di cannabis e chi vende al di fuori del sistema regolato. Il nuovo sistema andrà costruito insieme ai territori e agli esperti di salute pubblica e con le forze dell’ordine. All’inizio di gennaio è stata resa pubblica la decisione del Governo di affidare a Bill Blair, ex capo della Polizia di Toronto e ora deputato, il fascicolo relativo alla legalizzazione della marijuana. Blair ha dichiarato che è stato molto influenzato dalla posizione del Centre for Addictions and Mental Health (Camh) che nel corso del 2014 ha esplicitato la propria posizione a favore di una regolamentazione legale della marijuana per meglio garantire la salute pubblica. Il modello proposto dal Camh prevede il monopolio della vendita, un’età minima per l’acquisto, dei limiti di densità dei luoghi di vendita e di orario, una politica dei prezzi impostata in modo tale da ridurre la domanda, scoraggiare il ricorso al mercato clandestino ed allo stesso tempo orientare verso prodotti a minor rischio, limitando l’accesso ai prodotti più potenti. E previsto ovviamente il divieto di pubblicità, una etichettatura trasparente ed infine l’investimento di risorse nella prevenzione, sia per quel che riguarda la riduzione dei rischi che per quel che riguarda la guida in stato alterato. Nel frattempo l’industria della marijuana canadese si sta attrezzando. I produttori autorizzati a produrre cannabis per uso terapeutico, legale sin dal 2001, attualmente sono 26 ma ci sarebbero state oltre 1000 richieste, mentre 20 nuove compagnie fanno richiesta di licenza ogni mese. Del resto l’attuale mercato si rivolge a circa 60.000 pazienti, ma se il progetto di regolamentazione legale dovesse andare in porto si aprirebbe un mercato di milioni di persone. Non è un caso che alcune di queste aziende siano approdate anche alla Borsa di Toronto. Per quanto riguarda il rapporto con le Convenzione internazionali sulle droghe in Canada probabilmente non si faranno troppi problemi. Nel 2013 il Canada si è ritirato dalla Convenzione Onu per la lotta alla desertificazione, nel 2011 dagli impegni del Protocollo di Kyoto e nel 1981 dalla Convenzione per la regolazione della caccia alle balene. Guinea Equatoriale: il Governo "massima attenzione vicenda italiani detenuti" Il Velino, 27 gennaio 2016 La risposta all’interrogazione Anzaldi (Pd): azione anche a livello europeo. Il Governo ha seguito e continuerà a seguire con la massima attenzione l’evolversi della vicenda dei nostri connazionali Fabio e Filippo Galassi, attualmente detenuti in Guinea. Lo ha assicurato il sottosegretario agli Esteri Benedetto della Vedova rispondendo oggi in commissione Esteri della Camera ad una interrogazione del deputato Pd, Michele Anzaldi in cui si esprimevano forti preoccupazioni per le condizioni durissime della carcerazione dei nostri connazionali che ormai si protrae dal marzo scorso. Fabio Galassi, esperto informatico, si era trasferito in Guinea Equatoriale insieme a suo figlio Filippo, per curare un progetto di informatizzazione della Tesoreria di quel paese. Nel corso di cinque anni ha scalato le posizioni all’interno della società General Work fino a diventarne CEO. Il 21 marzo 2015 Fabio Galassi è stato arrestato insieme al figlio con l’accusa di voler lasciare il paese portando con sé i fondi della General Work. Insieme a loro è stato arrestato anche un altro italiano, Daniel Candio, di 24 anni. La posizione di quest’ultimo - ha spigato il sottosegretario Della Vedova, anche grazie all’intervento della Farnesina, è stata chiarita e ha potuto fare rientro in Italia dopo essere stato scarcerato l’ottobre scorso. Molto più complicata la situazione di Fabio e Filippo Galassi, formalmente accusati di appropriazione indebita, truffa, riciclaggio e falsificazione di documenti, per i quali il pubblico ministero ha chiesto rispettivamente la condanna a 15 e 10 anni di reclusione. Il Governo sta seguendo la vicenda processuale attraverso l’ambasciatore italiano a Yaoundè che è intervenuto presso le autorità locali "ai più alti livelli" perché fossero rispettati i diritti dei nostri connazionali. "Beneficiano di condizioni detentive migliori rispetto a quelle di altri detenuti - ha assicurato Della Vedova - e per loro è stata inoltre richiesta la possibilità di comunicare telefonicamente con i familiari in Italia". Sono state anche effettuate numerose visiti in carcere per monitorare il loro stato di salute. "Oltre all’azione portata avanti dalla nostra ambasciata in loco - ha spiegato il sottosegretario agli Esteri - sono stati compiuti passi ufficiali anche sull’Ambasciatore della Guinea Equatoriale in Italia per segnalare la delicatezza della situazione e la necessità di una rapida conclusione del processo". L’azione del Governo, ha infine sottolineato Della Vedova, si è "sviluppata anche in ambito Ue al fine di assicurare che le pressioni e sensibilizzazioni sul governo equatoguineano fossero effettuate anche a livello europeo". Stati Uniti: decreto di Obama, un carcere "giusto" per i minori di Elena Molinari Avvenire, 27 gennaio 2016 Un altro decreto firmato, e Barack Obama può fare un’altra crocetta sulla lista degli obiettivi da raggiungere prima della fine del suo mandato. Il presidente americano ieri ha vietato, almeno nelle prigioni federali, di mettere in isolamento detenuti minorenni. La misura fa parte di una riforma dell’utilizzo della segregazione punitiva nei penitenziari, introdotta dal governo al termine di una revisione affidata dal presidente al dipartimento di Giustizia. L’analisi delle pratiche carcerarie, durata sei mesi, era partita per impedire casi come quello di Kalief Browder, un ragazzo di 16 anni del Bronx accusato nel 2010 di aver rubato uno zaino. Rinchiuso nel carcere di Rikers Island e tenuto in isolamento per quasi due anni, era stato rilasciato nel 2013 senza un processo. Si è tolto la vita meno di due anni dopo. In un editoriale sul Washington Post, Obama ha spiegato i motivi dell’ordine esecutivo, che vuole arginare una punizione "utilizzata più del necessario" e "con conseguenze psicologiche devastanti". Il decreto introduce anche il divieto di mettere in isolamento un detenuto che ha commesso "reati minori" e la riduzione del tempo massimo che un condannato può trascorrere confinato da solo in una cella, da 365 giorni a 60. Obama ha chiuso il suo articolo citando papa Francesco: "La società può solo beneficiare dalla riabilitazione dei detenuti". La Casa Bianca ha anche stabilito che i prigionieri con problemi mentali siano trasferiti ad "altre forme di incarcerazione", evitando l’isolamento, e ha promesso 24 milioni di dollari per finanziare questo obiettivo. La riforma riguarderà fino a 10.000 detenuti nelle carceri federali, circa un decimo di quelli tenuti attualmente in isolamento negli Stati Uniti, ma il capo di Stato si è detto certo che la novità servirà da apripista. La decisione di Obama segue in effetti azioni già intraprese in California, Colorado e New Mexico, dove i governatori hanno rivisto l’uso dell’isolamento. E giunge all’indomani della decisione della Corte suprema Usa di applicare retroattivamente una sentenza del 2012 che vieta, perché incostituzionale, il carcere a vita per i minori. Il massimo tribunale statunitense ha infatti accolto lunedì il ricorso di un detenuto che aveva 17 anni quando uccise un vice sceriffo in Lousiana e ha già passato più di mezzo secolo in prigione. La decisione apre una speranza a numerosi prigionieri condannati all’ergastolo prima del 2012 per un crimine commesso quando non avevano ancora la maggiore età. Una riforma complessiva della giustizia penale che comporti pene più lievi per i reati minori e per i cittadini più vulnerabili - minori, disabili, malati mentali - e riduca la popolazione carceraria è una meta verso la quale Obama sta lavorando da mesi con il Congresso e che ha più probabilità di successo di altre sue iniziative, come il controllo della vendita delle armi e un’agevolazione della legalizzazione degli immigrati senza permessi di soggiorno. Ieri invece la Corte suprema ha respinto un ricorso del Dakota del nord che mirava a proibire alle donne di abortire dal momento in cui sono udibili i battiti cardiaci del feto, ossia dopo la sesta settimana, riportando l’interruzione di gravidanza al centro del dibattito elettorale. Inoltre un gran giurì di Houston ha stabilito che la rete di consultori per la pianificazione familiare Planned Parenthood non ha praticato la vendita di parti di feti abortiti. Il giurì ha invece incriminato due membri del "Centro per il progresso medico", il gruppo pro-vita che aveva registrato segretamente dirigenti del Planned Parenthood mentre discutevano della vendita di feti per la ricerca. Russia: il castigo dopo il delitto, la vita dei detenuti nell’Aquila Nera di Fiodor Telkov e Denis Tarasov rbth.com, 27 gennaio 2016 La colonia penale N.56, chiamata anche Aquila Nera, è uno dei carceri di massima sicurezza per i condannati all’ergastolo. Per un quarto di secolo i detenuti non hanno mai messo piede fuori da questo luogo. E alcuni di loro si preparano a uscire nei prossimi anni. Qui scontano la propria pena 260 assassini. Durante il periodo sovietico, era l’unica colonia penale per i prigionieri condannati all’ergastolo. Nel 1993 venne introdotta una moratoria sulla pena di morte. Attualmente i detenuti della colonia penale Aquila Nera sono divisi in due gruppi: quelli cui la pena di morte è stata convertita a 25 anni di carcere e coloro che trascorreranno lì dentro il resto della propria vita. I primi detenuti che godranno dell’indulto saranno liberati nel 2017. Negli ultimi 25 anni non hanno mai messo piede fuori dal carcere. E le uniche informazioni che in questo quarto di secolo hanno ricevuto dal mondo esterno, le hanno ottenute dalla televisione o dai giornali. Cosa faranno? Cosa pensano? "Certamente è interessante! La vita è cambiata radicalmente - confessa Viktor Lushov, classe 1952 -. Qui guardo molto la televisione. Ho una buona famiglia che non mi lascerà mai solo. Cercherò di vivere come un uomo normale e di fare qualcosa di buono alla fine della mia vita. Educherò i miei nipoti". "Ho trascorso cinque anni nel corridoio della morte. Quando la mia pena è stata ridotta a 25 anni, ho capito che avrei dovuto fare ritorno a casa - dice Aleksej Pechuhin, classe 1971. Vengo da un piccolo villaggio, lavoravo il legno: potrei realizzare mobili, fare qualsiasi cosa legata al mio vecchio lavoro". "Qui impariamo a fare diverse cose - racconta Aleksej Isupov, classe 1973. Sono in grado di utilizzare i macchinari per la lavorazione del legno. Ho degli amici che si occupano di queste cose e credo che inizierò a lavorare nella loro impresa". "C’è gente che finisce in carcere a 20 anni. Io, invece, quando sono arrivato avevo 41 anni. Ciò fa molta differenza. Senza dubbio viviamo in un mondo terribile. Ora ci sono gli smartphone... dovrò imparare a usarne uno. Purtroppo qui non organizzano corsi di informatica", dice Viktor Zaporozhkij, classe 1954. La colonia penale si trova negli Urali, a 615 chilometri da Ekaterinburg, nel villaggio di Lozvinskij, un luogo sperduto nella taiga. In Russia sono quattro le colonie penali per i condannati all’ergastolo. Questa è considerata la migliore per le condizioni in cui vengono detenuti i prigionieri. I condannati vivono in celle doppie o singole di sei metri per quattro. Trascorrono lì dentro 23 ore al giorno, e hanno diritto a trascorrere un’ora fuori dalla propria cella, all’interno di una sala scoperta, senza tetto. Dormono con la luce accesa e durante il giorno è proibito restare a letto. Possono leggere o scrivere. La doccia è consentita una volta alla settimana Ogni mattina le guardie leggono a voce alta il crimine per il quale sono stati condannati. La sentenza è appesa alle porte delle celle. Il capo della colonia penale, Subshan Dadashov, ricopre quest’incarico da 30 anni. Parla con franchezza e dice di conoscere uno a uno i detenuti, i quali possono comunicare con la propria famiglia, ricevere pacchi e lavorare nella fattoria del carcere. Iran: Amnesty; decine di condannati a morte per reati commessi da minorenni Adnkronos, 27 gennaio 2016 Decine di persone sono detenute nel braccio della morte in Iran per reati che hanno commesso prima di aver compiuto i 18 anni. Lo denuncia Amnesty International, affermando che tra il 2005 e il 2015 in Iran sono stati giustiziati almeno 73 condannati a morte arrestati in giovane età. In un rapporto di 110 pagine, l’organizzazione per la difesa dei diritti umani fa pressione sull’Iran mentre Teheran è impegnata a ricucire i rapporti con l’Occidente dopo l’accordo raggiunto a dicembre sul suo programma nucleare e la successiva revoca delle sanzioni internazionali. Il presidente iraniano Hassan Rohani è impegnato in una visita a Roma e al Vaticano, alla quale seguirà domani una missione in Francia con l’obiettivo di firmare una serie di accordi commerciali. In tema di pena di morte, l’Iran è secondo solo alla Cina, ricorda Amnesty, che sottolinea che la maggior parte delle esecuzioni riguarda condannati per reati legati al traffico di droga. Attualmente i ricercatori di Amnesty hanno identificato 49 condannati a morte arrestati quando erano minorenni, ma il numero potrebbe essere più alto, considerando anche il rapporto Onu del 2014 che parlava di oltre 160 detenuti destinati alla pena capitale e arrestati da under 18. La maggior parte dei 49 identificati da Amnesty sono condannati a morte perché riconosciuti colpevoli di omicidio, mentre altri per stupro, reati legati alla droga e offese alla sicurezza nazionale. Russia: possibile estradizione per cittadini russi detenuti in Ucraina Il Velino, 27 gennaio 2016 I cittadini russi Yevgeny Yerofeyev e Alexander Alexandrov, detenuti dal maggio 2015 a Kiev in Ucraina orientale, possono essere estradati in Russia per scontare la pena in caso di condanna da parte del giudice ucraino. Lo ha detto il procuratore capo militare di Kiev, Anatolii Matios. "Secondo strumenti giuridici internazionali che sono stati ratificati da molti Stati, tra cui la Russia, i cittadini di altri paesi condannati possono scontare la pena nel territorio del proprio Stato", ha detto Matios sulla televisione ucraina. Nel maggio 2015, Alexandrov e Yerofeyev furono fatti prigionieri vicino a una città in prima linea nella regione di Luhansk in Ucraina orientale. Le autorità di Kiev avevano sostenuto trattarsi di militari dell’esercito russo in servizio attivo. Il ministero della Difesa russo ha sempre respinto le affermazioni, riconoscendo che Alexandrov e Yerofeyev avevano ricevuto addestramento militare nelle Forze armate russe in passato, ma non erano in servizio attivo al momento del loro arresto. Venezuela: detenuti sparano dal tetto della prigione in onore al boss voce.com.ve, 27 gennaio 2016 Un gruppo di carcerati della prigione di San Antonio, sull’isola Margarita sono saliti sul tetto dell’edificio e hanno sparato in aria con pistole e fucili automatici, in omaggio a un boss criminale ucciso domenica scorsa. Teofilo Rodriguez, alias El Conejo (il Coniglio) è stato assassinato mentre usciva da una discoteca di Porlamar, la principale città dell’isola, probabilmente a causa di un regolamento di conti fra bande rivali. Pochi mesi fa era uscito dal carcere di San Antonio, dove era considerato un "pran", ossia il boss della rete criminale che controlla la prigione. Gli uomini del Conejo sono riusciti a fare portare la sua salma in carcere, per un ultimo omaggio dei prigionieri. E così i detenuti sono saliti sul tetto e - a viso scoperto e mentre altri compagni li riprendevano con i loro smart-phone - hanno sparato decine di spari e raffiche, terrorizzando i passanti. Intanto si apprende che, secondo un rapporto della ong messicana Consiglio cittadino per la pubblica sicurezza e la giustizia penale, la capitale del Venezuela, Caracas, è considerata la città più pericolosa del pianeta. Brasile: maxi-evasione di detenuti: in 100 fanno saltare l’ingresso del corpo di guardia di Ida Artiaco Il Gazzettino, 27 gennaio 2016 Una forte esplosione e poi la fuga. I detenuti del carcere di Recife, città del Brasile nord orientale, hanno fatto saltare uno degli ingressi del corpo di guardia per poter evadere dalla struttura. Le immagini sono state riprese dalle telecamere di sorveglianza e hanno immediatamente fatto il giro del web. Un centinaio di prigionieri si sono riversati in strada, cercando di rifugiarsi nelle abitazioni vicine. Uno di loro ha anche preso in ostaggio una donna con un machete ed è poi stato colpito a morte con un colpo d’arma da fuoco dalla polizia. In pochi minuti il panico si è diffuso in tutto il Paese. Le forze dell’ordine sono riuscite a recuperare circa 40 uomini, mentre è cominciata una caccia serrata agli altri che sono riusciti a fuggire. In tutto, secondo un bilancio ancora provvisorio, si segnalano una decina di feriti e due morti. È successo tutto domenica sera: secondo la stampa locale al momento dell’esplosione che ha causato la fuga pare fossero in servizio solo 10 guardie per duemila detenuti all’interno della prigione che fa parte del Complesso Curado. Solo tre giorni prima altre 53 persone erano riuscite ad evadere dal centro detentivo di Barreto Campelo, sempre in Brasile, con l’aiuto di complici che hanno aperto il fuoco sugli agenti di sicurezza all’ingresso del penitenziario. Proprio nel Paese sudamericano, denunciano gli attivi di Human Rights Watch, le condizioni di vita dei condannati sono sovraumane. Una situazione peggiorata dall’assenteismo delle autorità. Per far fronte ai crescenti disordini gli agenti penitenziari hanno scelto in molti casi di delegare la sicurezza delle strutture ad alcuni detenuti, consegnando loro le chiavi delle celle. In cambio, lasciano passare attività illecite portate avanti dai criminali.