Depenalizzazione, norme retroattive di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 26 gennaio 2016 Sanzione amministrativa retroattiva: si applica anche ai reati depenalizzati dal decreto legislativo approvato dal governo il 15 gennaio 2016 e non ancora giudicati. La norma transitoria del decreto legislativo di depenalizzazione (dlgs 15 gennaio 2016, n. 8, pubblicato in G.U. n. 17 del 22 gennaio 2016 insieme con il dlgs 15 gennaio 2016, n. 7 in materia di abrogazione di reati) prevede, infatti, l’applicabilità delle sanzioni amministrative alle violazioni anteriormente commesse. E se il fatto è stato punito con sentenza penale, questa viene revocata e ne cessano gli effetti. Per i procedimenti pendenti, quindi, si assisterà a un passaggio di fascicoli dalle procure e dai tribunali alle autorità amministrative competenti a irrogare la sanzione. Ma vediamo il dettaglio dell’operazione. Si prenda un reato depenalizzato commesso anteriormente alla (futura) data di entrata in vigore del decreto in commento (per esempio, una guida senza patente o un omesso versamento di ritenute da parte del datore di lavoro o un’omessa verifica della clientela ai fini antiriciclaggio). Ci si chiede che sorte abbia questo reato. Può capitare che non sia pendente nessun procedimento penale oppure che lo stesso sia pendente oppure che sempre il medesimo procedimento penale sia già stato definito con una sentenza irrevocabile. Prima ipotesi: nessun procedimento pendente. In questo caso il fatto verrà accertato e sanzionato dall’autorità amministrativa con l’applicazione della sanzione amministrativa. La norma transitoria del decreto legislativo, infatti, prevede che le disposizioni che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applichino anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto stesso. Lo stesso vale l’altro decreto legislativo di trasformazione di reati in illeciti civili (per esempio, l’ingiuria) approvato dal governo insieme al decreto in commento. Attenzione, senza la norma transitoria sarebbe stato un completo colpo di spugna. Senza la norma transitoria a un reato depenalizzato non si potrebbe più applicare la sanzione penale (abolita) e non si potrebbe applicare retroattivamente la sanzione amministrativa. Va notato che la legge delega 67/2014 non indicava espressamente la previsione di una norma transitoria. Il governo l’ha inserita per evitare vuoti di tutela oltre che una vistosa disparità di trattamento tra chi ha commesso il fatto durante la vigenza della norma penale (e destinato, senza nessuna norma transitoria, a non avere nessuna sanzione) e chi ha commesso il fatto dopo la depenalizzazione (e destinatario di una sanzione amministrativa). Seconda ipotesi: procedimento pendente già definito, prima dell’entrata in vigore della depenalizzazione, con sentenza di condanna o decreto irrevocabili. In questo caso, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti. Cioè il giudice dell’esecuzione revoca la condanna e vengono meno gli effetti penali della stessa. La condanna per un reato depenalizzato, quindi, non conta più, per esempio, per una eventuale recidiva, per la sospensione condizionale, per la concessione di benefici di legge, non è causa ostativa per eventuali concorsi pubblici, autorizzazioni o licenze ecc. Terza ipotesi: procedimento pendente presso l’autorità giudiziaria e non ancora definito. In questo caso i fascicoli dovranno essere trasmessi (dalle procure o dai tribunali, a seconda dello stato del procedimenti) all’autorità amministrativa competente entro 90 giorni. A meno che non sia già decorso il termine di prescrizione del reato. A quel punto l’autorità amministrativa (prefettura, comune, ministeri a seconda della singola normativa) inizia il procedimento per applicare la sanzione pecuniaria amministrativa. C’è, infine, una norma di chiusura sulla quantificazione della sanzione. Ai fatti commessi prima della data di entrata in vigore del decreto legislativo (6 febbraio 2016) non può essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato. Si prenda la guida senza patente, che verrà punita con la sanzione amministrativa fino a 30 mila euro, ma per i fatti anteriori non si potrà andare oltre i 9.032 euro (attuale articolo 116, comma 15, codice della strada). Inoltre ai fatti anteriori non si applicano le sanzioni amministrative accessorie introdotte dal presente decreto, salvo che le stesse sostituiscano corrispondenti pene accessorie. Niente più carcere per questi 41 reati di Luca Rocca Il Tempo, 26 gennaio 2016 Ingiuria, atti osceni, aborto clandestino, guida senza patente e tanti altri Dal 6 febbraio maxi depenalizzazione: restano solo sanzioni amministrative. Dalla ingiuria alla guida senza patente; dagli atti osceni alla coltivazione di stupefacenti; dalle omesse ritenute al falso in scrittura privata; dall’aborto al contrabbando. Dal prossimo 6 febbraio, quindici giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dei due decreti legislativi approvati il 15 gennaio scorso, ben 41 reati, fra questi alcuni di cui nessuno aveva più memoria, verranno depenalizzati o abrogati. I decreti numero 7 e 8 del 2016, infatti, prevedono la cancellazione dal codice penale e da una dozzina di "leggi speciali", di una serie di fattispecie di reati che verranno sottratti alle procure e destinati alla giustizia civile o amministrativa. Nel dettaglio. La "falsità in scrittura privata", ad esempio, non prevede più la reclusione da 6 mesi a 3 anni ma una sanzione civile da 200 a 12mila euro. Lo stesso dicasi per la "falsità in foglio firmato in bianco". Per gli "atti osceni", invece, si passa dalla reclusione da 3 mesi a 3 anni alla sanzione amministrativa da 5mila a 3 mila euro. Niente più carcere da 3 mesi a 3 anni anche per "pubblicazioni e spettacoli osceni", ma una sanzione che oscilla tra i 10 mila e i 50mila euro. Depenalizzata pure l’ingiuria: non più la reclusione da 6 mesi a un anno ma una sanzione da 100 a 12mila euro. Quanto alla "sottrazione di cose comuni", si passa dalla reclusione fino a 2 anni a una sanzione compresa fra 100 e 8mila euro. Stesso pagamento per il "danneggiamento semplice" a fronte del carcere fino a 1 anno. E ancora, da 100 a 8mila euro per "appropriazione di cose smarrite" e "avute per errore" invece del carcere fino a 1 anno. Anche il "rifiuto di prestare la propria opera in occasione di un tumulto" non sarà più sanzionato con l’arresto da 3 mesi a 1 anno e sei mesi, ma con una multa da 5mila fino a 18mila euro. Per l’"abuso della credulità popolare" si passa dall’arresto fino a 3 mesi a una sanzione fino a 15mila euro. Le "rappresentazioni teatrali o cinematografiche abusive" saranno punite con una sanzione identica al posto del carcere fino a 6 mesi. Quanto agli "atti contrari alla pubblica decenza", si passa da un’ammenda compresa fra 258 e 2.582 euro a una sanzione amministrativa, che cancella il reato penale, che va da 5mila a 10mila euro. Il "mancato rispetto dell’autorizzazione alla coltivazione di stupefacenti per uso terapeutico", reato penale finora punito con un’ammenda da 516 a 5.164, dal 6 febbraio prevede una sanzione amministrativa da 5mila a 30mila euro. Novità anche per "omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali", che contempla la reclusione fino a 3 anni e una multa fino a 1.032 euro. Resta identica nel caso in cui l’importo omesso è superiore a 10mila euro annui, ma si trasforma in una sanzione amministrativa da 10mila a 50mila euro in caso di importo inferiore a 10mila euro. La "guida senza patente" (patente mai avuta, non scordata a casa) non è più punita penalmente con un’ammenda da 2.257 a 9.032 euro ma con una sanzione amministrativa che va da 5mila a 30mila euro. Alla voce "riciclaggio" le cose cambiano per l’"omessa identificazione" e l’"omessa registrazione", per le quali si passa da una multa fra 2.600 e 13mila euro a una sanzione amministrativa, e non più penale, da 5mila a 30mila euro. Quanto ai reati relativi al diritto societario, per l’"impedito controllo ai revisori" niente più ammenda fino a 75mila euro ma una sanzione amministrativa da 10mila a 50mila euro. Novità anche per l’"omessa trasmissione dell’elenco dei protesti cambiari da parte del pubblico ufficiale", punita non più penalmente con una multa da 258 euro ma con una sanzione amministrativa da 5mila a 10mila euro. La pena pecuniaria da 5 a 51 euro per l’"emissione di assegno da parte dell’Istituto non autorizzato" viene sostituita da una sanzione amministrativa da 5mila a 10mila euro. Novità anche sull’aborto. La "interruzione volontaria di gravidanza senza l’osservanza della legge" non è più punita penalmente con una multa fino a 51 euro ma con una sanzione amministrativa da 5mila a 10mila. Anche la "violazione delle norme per l’impianto e l’uso di apparecchi radioelettrici privati", oggi sanzionata con l’arresto fino a 2 anni, dal 6 febbraio verrà sostituita da una "punizione amministrativa" da 10mila a 50mila euro. Per il diritto d’autore, l’"abusiva concessione in noleggio" non stabilisce più l’arresto fino a 1 anno ma solo una sanzione da 5mila a 30mila euro. Quanto ai reati in materia di guerra, "alterazione del contrassegno di macchine" non prevede più l’arresto fino a 3 mesi ma un pagamento da 5mila a 15mila euro. C’è poi l’"installazione o esercizio di impianti": niente più carcere da 2 mesi a 2 anni ma una sanzione da 10mila a 50mila euro. Infine la lunga sfilza dei reati in materia di contrabbando e violazioni doganali, per le quali si passa a un pagamento da 5mila ai 50mila euro a fronte della multa non minore di 2 e non maggiore di 10 volte i diritti di confine. Orlando all’Ue: urgente scambio di informazioni su radicalizzazione in carcere giustizia.it, 26 gennaio 2016 "Un fenomeno che stiamo seguendo con preoccupazione nel nostro Paese è quello della radicalizzazione che ha come focolaio gli istituti penitenziari. Costruire subito le condizioni di uno scambio delle informazioni acquisite dalle autorità nazionali negli istituti penitenziari, al pari di ciò che avviene per lo scambio di altre informazioni, è una risposta utile e necessaria. Sappiamo che ci sono perplessità, approfondimenti di carattere tecnico, ma non vorremmo che una scelta come questa, che riteniamo come assolutamente urgente, arrivi dopo l’ennesimo episodio di terrorismo e la constatazione che alcuni fenomeni si potevano prevenire e non lo si è fatto per l’assenza di uno scambio di informazioni. Questo, fra tutti i provvedimenti di cui stiamo discutendo, è il più urgente, perché le nostre carceri, come quelle di altri Paesi europei, sono in questo momento il principale osservatorio del fenomeno di radicalizzazione: non scambiare informazioni su questo rischia di privarci di uno strumento molto importante". Così il ministro della Giustizia Andrea Orlando ad Amsterdam - dove si trova per partecipare alla riunione informale dei ministri della Giustizia Ue - in uno dei passaggi principali dell’incontro di oggi pomeriggio con il Commissario europeo per la giustizia, la tutela dei consumatori e l’uguaglianza di genere, Vera Jourovà. Nel corso del lungo e cordiale colloquio, il Guardasigilli ha ribadito la volontà del Governo italiano di sollecitare un approccio più ambizioso nell’ambito dei negoziati per la costruzione di una Procura europea forte, indipendente e con efficaci poteri d’indagine: "La cooperazione, la tempestività nello scambio di informazioni e la convergenza dell’attività di indagine dei pubblici ministeri sono stati gli elementi determinanti per sconfiggere la criminalità organizzata". Per questo, Orlando ha proposto, nell’ottica di un riequilibrio dell’intero progetto Eppo, di ragionare sulla scelta dei mezzi di cui dotare la Procura europea: non solo con l’obiettivo della repressione penale delle frodi al bilancio dell’Unione, ma "per trasformarla nello strumento fondamentale che immaginiamo possa diventare, in prospettiva, nel contrasto al terrorismo e al crimine organizzato". Anche perché - ha concluso Orlando - "un’Europa timida nel costruire strumenti giurisdizionali comuni è un segnale che è in piena contraddizione con quello che sta avvenendo nel mondo e nel territorio dell’Unione". In conclusione il guardasigilli ha fatto presente come, a fronte di una ipotesi di "cooperazione rafforzata", strumento cui i Trattati riconoscono la capacità di superare l’empasse di una mancata unanimità, l’Italia voglia rilanciare a tutti gli Stati che fin dall’inizio avevano creduto nel progetto, la proposta iniziale, ambiziosa ma all’altezza delle sfide che il nostro tempo ci mette di fronte: la creazione di un vero e proprio organismo sovranazionale; non un guscio vuoto ma una Procura europea che, nello spazio assegnatole, sia dotata di mezzi, poteri e competenze effettive e non simboliche. Stefano Dambruoso: "le carceri incubatrici di islamisti" intervista a cura di Francesco Grignetti La Stampa, 26 gennaio 2016 Stefano Dambruoso, per lunghi anni alla procura di Milano con delega alle indagini sul terrorismo, da parlamentare lei ha presentato un ddl di finanziamento per programmi di contrasto cultural-religioso al proselitismo islamista. Di che si tratta? "L’esperienza internazionale insegna che vi sono alcune realtà particolari dove si fa proselitismo. Nelle carceri, ad esempio, è facile che un immigrato arrabbiato con il mondo possa incontrare in cella qualcuno più arrabbiato di lui, qualche sedicente imam che gli dia il martirio come unica prospettiva alla sua vita. Ecco, è importante che vi sia un’attenzione al pericolo della radicalizzazione. In Italia già accade, non siamo all’anno zero. Con la mia legge, però, pensiamo di investire molti soldi per avere nelle carceri un congruo numero di mediatori culturali e religiosi, penso a imam moderati, che possano contrastare un messaggio distorto. Altra realtà dove investire è la scuola". Dove questi programmi ci sono, in Francia o Gran Bretagna, hanno però un numero spaventoso di "foreign fighters". "Guardi, questi sono programmi che vanno valutati sul medio-lungo periodo. E poi è vero che in Francia hanno almeno 2000 "foreign fighters" o in Gran Bretagna ne sarebbero almeno 800, ma in questi stessi Paesi gli immigrati islamici che si sono integrati si contano a centinaia di migliaia". Lei dice che in Italia abbiamo fatto moltissimo sul versante penale. È davvero così? "Eccome. Con l’ultimo decreto antiterrorismo, abbiamo anticipato la soglia di punibilità al limite massimo, oltre il quale si esce da uno Stato di diritto e si finisce nello Stato di polizia. Mi spiego: con la nuova legge, diventa un reato guardare sul web i siti islamisti. La legge stabilisce che l’auto-addestramento è reato, vedi l’arresto in Calabria di quell’immigrato che stava preparandosi a partire per il Califfato. Un giurista tradizionale ci avrebbe detto: ma dov’è il fatto materiale? Siccome però la minaccia di questo terrorismo, dal proselitismo all’addestramento, fino alla preparazione del viaggio verso l’area di guerra, passa per vie immateriali, anche la frequentazione di siti è divenuto un reato. Più di questo, ci sono soltanto leggi emergenziali, tipo quelle sostenute da alcuni populisti che vorrebbero mettere tutti i soggetti pericolosi in carcere senza processo e senza termine. Gli americani l’hanno fatto con Guantanámo e s’è visto come è finita". L’ex Sottosegretario Cosentino: "in carcere sono stato trattato peggio di un boss" Il Tempo, 26 gennaio 2016 "Sono stato per un anno chiuso 23 ore su 24 in una cella 3x3 in condizioni che nemmeno un boss della malavita, anzi loro so che hanno avuto anche qualche agevolazione che a me non è stata concessa". Così l’ex sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino parla di questi due anni e mezzo di carcerazione preventiva, la prima dal marzo al novembre del 2013, la seconda dall’aprile 2014 nel carcere di Secondigliano per poi essere trasferito nell’aprile 2015 nel carcere di Terni, dove si trova tutt’ora, a seguito del ritrovamento nella sua cella di un iPod. L’ex deputato ha ripercorso questo periodo durante l’esame al processo Eco4, in corso al tribunale di Santa Maria Capua Vetere, dove è imputato per concorso esterno in associazione camorristica. "Non potevo andare in biblioteca, non potevo fare nulla - racconta Cosentino - e, soprattutto, nei primi periodi, ho vissuto giorni tremendi con i detenuti che vociferavano contro perché in quel periodo erano contro i provvedimenti che Berlusconi e Alfano stavano prendendo per le misure carcerarie, provvedimenti che io pure approvavo. Ero rinchiuso insieme a ergastolani". Una situazione di ostilità nei suoi confronti che l’ex sottosegretario racconta di aver superato grazie a un giovane che lo aiutò, "un certo Lo Bue, che dopo seppi essere parente di Provenzano". Cosentino ha spiegato anche della difficoltà che ha ora al carcere di Terni dove non ha la possibilità di leggere gli atti che riguardano i suoi processi in corso tramite un computer: "Ho avuto un dischetto ma non posso visionarlo perché i computer sono obsoleti e non leggono quel tipo di file". Cosentino, poi, rispondendo alla domande sul movimento politico Forza Campania che venne attribuito a lui, ricostruisce: "Quando nel 2013 uscii dal carcere dopo la prima detenzione, fui contattato da alcuni consiglieri regionali che stavano portando avanti una battaglia che non era certo in contrapposizione con Forza Italia a livello nazionale, era solo un fatto regionale. Ma io partecipai solo in segno di solidarietà così come loro avevano mostrato vicinanza a me durante la carcerazione. Non andai a quella convention con l’idea di ritornare a fare politica perché sapevo che se non avessi risolto i problemi giudiziari sarei stato bersaglio facile per le forze politiche avversarie. Sarebbe stato stupido". L’ex deputato ha poi puntualizzato che quando tornò in carcere la seconda volta chiese espressamente di non avere contatti con altri detenuti perché era rimasto sconvolto dalla notizia che un detenuto rinchiuso nel carcere di Secondigliano, poi deceduto, era malato di Aids e aveva paura di contrarre malattie. La prossima udienza si terrà il 28 gennaio. L’intermediario tra ladro e vittima del furto non commette estorsione di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2016 Corte d’Appello di Palermo - Sezione IV penale - Sentenza 19 giugno 2015 n. 2570. Non risponde del reato di estorsione colui che per incarico della vittima di un furto, nell’interesse esclusivo di quest’ultima, si mette in contatto con gli autori del reato per ottenere la restituzione della cosa sottratta, senza conseguire alcuna parte del prezzo. Questo principio è stato ribadito ed applicato dalla Corte d’appello di Palermo nella sentenza 2570/2015. I fatti - La vicenda trae origine dal furto di un ciclomotore, avvenuto in un comune siciliano, subito da un adolescente, il quale due giorni dopo l’accaduto, aveva contattato alcuni giovani che frequentavano la zona dove era avvenuto il furto, chiedendo se potessero aiutarlo a recuperare il suo motorino. Uno di loro si era mostrato disponibile ad attivarsi per rintracciare il motociclo rubato e poco tempo dopo aveva contattato il ragazzo dandogli appuntamento per quella stessa sera e chiedendogli la somma di 550 euro, volta a "compensare la persona che aveva il possesso del mezzo". Il padre della vittima del furto, però, informato dell’accaduto aveva deciso di sporgere denunzia ai Carabinieri, i quali si appostavano nel luogo dell’incontro per catturare il presunto autore della richiesta estorsiva. Questi accortosi della presenza delle Forze dell’Ordine non si presentava all’incontro, ma veniva ugualmente tratto a giudizio dopo la sua identificazione tramite riconoscimento fotografico e condannato per il reato di cui all’articolo 629 del Cp. In appello la difesa dell’imputato chiede ai giudici di riconsiderare l’accaduto, in quanto dall’istruttoria dibattimentale non erano emersi gli elementi costitutivi del reato, la violenza e minaccia. Anzi, era la stessa vittima del furto che aveva cercato l’aiuto dell’imputato e le conversazioni tra i due erano avvenute in maniera tranquilla e pacata. In sostanza, il ragazzo "si era semplicemente limitato a svolgere la funzione di intermediario tra chi possedeva il veicolo e la vittima, non chiedendo denaro per la sua attività ma solo ed esclusivamente per compensare l’autore del furto". Le motivazioni - La Corte d’appello accoglie l’impugnazione e ribalta il verdetto. Per i giudici, infatti, il ragazzo va assolto per non aver commesso il reato. Nella specie, potrebbe configurarsi la cosiddetta minaccia implicita, contestuale alla stessa richiesta di pagamento, essendo la vittima del furto consapevole che il versamento della somma richiesta è l’unico modo per non perdere definitivamente il bene sottrattogli. Tuttavia, i giudici ritengono che l’imputato non possa rispondere del delitto di estorsione proprio perché costui si è messo in contatto con gli autori del furto solo per incarico della vittima e nel suo esclusivo interesse, senza conseguire alcuna parte del prezzo. Difatti, il ragazzo è stato sollecitato ad intervenire su richiesta della stessa persona offesa, non ha posto in essere una trattativa sul prezzo ed è parso essere un "mero nuncius di chi aveva la disponibilità della refurtiva". Pare insostenibile poi - aggiunge la Corte bacchettando il giudice di primo grado -fondare una condanna sulla mera circostanza che la vittima del furto e l’imputato non si conoscevano, non essendo stato nemmeno dimostrato che questi avesse la materiale disponibilità del veicolo rubato. Competenza per l’apertura della tutela del detenuto interdetto Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2016 Competenza civile - Per territorio - Tutela del detenuto interdetto - Giudice competente - Individuazione - Criteri. La competenza per l’apertura della tutela dell’interdetto, ove questi si trovi in stato di detenzione in esecuzione di sentenza definitiva, deve essere attribuita al giudice tutelare del luogo della sua ultima dimora abituale prima dell’inizio dello stato detentivo, non trovando applicazione il criterio legale della sede principale degli affari e degli interessi dell’interdetto, che presuppone l’elemento soggettivo del volontario stabilimento. • Corte cassazione, sezione VI - 1, ordinanza 12 ottobre 2015 n. 20471. Regolamento di competenza - Interdizione legale - Apertura della tutela - Incompetenza territoriale - Conflitto negativo - Regolamento di competenza d’ufficio ex articolo 45 cod. proc. civ. In materia di tutela, ai sensi dell’articolo 343 cod. civ. richiamato dall’articolo 424 c.c., comma 1, la tutela legale si apre, di norma, presso il Tribunale del circondario ove l’interdetto ha la sede principale dei suoi affari ed interessi che, in virtù dell’articolo 43 cod. civ., comma 1, consiste nel domicilio, salvo che l’interdetto sia sottoposto a stato di detenzione: nel qual caso il giudice competente per l’apertura della tutela è da individuarsi in quello del luogo di abituale dimora nel cui circondario si trova la struttura di detenzione dove lo stesso è ristretto. • Corte cassazione, sezione VI, ordinanza 3 agosto 2015 n. 16292. Competenza civile - Competenza per territorio - Interdizione legale - Apertura della tutela - Giudice competente - Criterio di individuazione - Luogo di detenzione al momento dell’irrevocabilità della sentenza di condanna. Il giudice competente per l’apertura della tutela dell’interdetto legale deve essere individuato in quello del luogo in cui la persona interessata ha la sede principale degli affari od interessi, che coincide, ove l’interessato sia detenuto al momento in cui la sentenza di condanna è divenuta irrevocabile, con quello di abituale dimora nel cui circondario si trova la struttura di detenzione nella quale l’interdetto è ristretto, dovendosi ritenere inapplicabile il criterio del domicilio che presuppone l’elemento soggettivo del volontario stabilimento. Risulta irrilevante la circostanza che successivamente all’apertura della tutela e prima della nomina del tutore, l’interessato sia stato trasferito ad altra casa circondariale. • Corte cassazione, sezione VI - 1, ordinanza 3 maggio 2013 n. 10373. Competenza civile - Competenza per territorio - Interdizione legale - Apertura della tutela - Giudice competente - Criterio - Domicilio del condannato - Irreperibilità - Irrilevanza dell’avvio della procedura di cancellazione dai registri anagrafici - Irrilevanza. Il giudice competente per l’apertura della tutela in caso di interdizione legale deve essere individuato, ai sensi del combinato disposto degli articoli 662 cod. proc. pen. e 343 cod. civ., con riferimento al domicilio del condannato, da presumersi ex articolo 44 cod. civ. coincidente con la residenza anagrafica senza che assuma rilievi che a seguito della sopravvenuta irreperibilità dell’interdetto sia pendente la procedura di cancellazione dai registri anagrafici, considerato che l’interdizione legale non è caducata dalla latitanza ovvero dall’irreperibilità del condannato. • Corte cassazione, sezione VI - 1, ordinanza 11 aprile 2013 n. 8875. Capacità di agire - Amministrazione di sostegno - Giudice tutelare territorialmente competente alla nomina dell’amministratore di sostegno - Criterio - Luogo del domicilio dell’interessato - Stato di detenzione. In tema di nomina dell’amministratore di sostegno ai sensi dell’articolo 404 cod. civ. la competenza per territorio spetta al giudice tutelare del luogo in cui la persona interessata abbia la residenza o il domicilio; stante l’alternatività di detto criterio lo stato di detenzione in manicomio giudiziario non implica in via automatica mutamento di domicilio che, ex articolo 43 cod. civ., si presume ancora fissato, in assenza di manifestazione di volontà dell’interessato, nel luogo dove il predetto aveva abituale dimora prima dell’inizio dello stato di detenzione. • Corte cassazione, sezione I, ordinanza 14 gennaio 2008 n. 588. Assoluzione piena, ma l’illecito fiscale resta di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2016 Corte di Cassazione, sezione III penale, sentenza n. 3098. Se il reato tributario viene meno per innalzamento della soglia di punibilità l’imputato deve essere assolto con formula piena in quanto il fatto "non sussiste" e non perché "non è previsto dalla legge come reato". Tale assoluzione, però, non ha rilevanza dal lato tributario. Infatti, la violazione integra comunque un illecito amministrativo. A fornire questa interessante interpretazione è la Corte di Cassazione, sezione III penale, con la sentenza n. 3098, depositata ieri. L’amministratore di una società, che aveva omesso di versare 51.000 euro di Iva per il 2010, era assolto "perché il fatto non è previsto dalla legge come reato" in quanto, nelle more della decisione, era intervenuta la sentenza della Corte costituzionale (n. 80 del 2014) che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale del delitto in questione per i fatti commessi sino al 17/9/2011, ove l’omesso versamento Iva non fosse superiore a 103.291,38 euro. Avverso tale sentenza l’imputato ricorreva per Cassazione, affinché l’assoluzione avvenisse con la più ampia formula "il fatto non sussiste". La Suprema corte ha accolto il ricorso fornendo interessanti principi sulle differenti formule assolutorie. Innanzitutto viene evidenziato che la sentenza di assoluzione con formula "perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato" potrebbe avere conseguenze sfavorevoli sia in sede civile, sia in sede amministrativa con pregiudizio delle situazioni giuridiche soggettive facenti capo all’imputato. Differente invece l’assoluzione piena, con formula "perché il fatto non sussiste" (o anche "per non aver commesso il fatto"), da considerarsi totalmente liberatoria. Per poter ottenere tuttavia un’assoluzione "perché il fatto non sussiste" deve, però, mancare un elemento costitutivo del reato, nella specie tale elemento viene individuato nella soglia di punibilità. Infatti, secondo i giudici di legittimità, il superamento della soglia aumenta il disvalore di una condotta che, altrimenti, costituirebbe, comunque, una violazione amministrativa. Questa formula assolutoria non ha rilevanza dal lato tributario: il mancato versamento dell’Iva in misura inferiore alla soglia continua ad integrare un illecito tributario sanzionabile dall’Agenzia delle entrate. La precisazione della Suprema corte è interessante. Non vi è dubbio infatti che se l’assoluzione - secondo la formula che il fatto non sussiste - riguarda un reato tributario soggetto a soglia di punibilità, il mancato superamento, come nella specie, integra comunque la violazione amministrativa. Tuttavia in presenza di altri delitti tributari, si pensi a una dichiarazione fraudolenta con utilizzo di fatture false, tale formula assolutoria ha una certa rilevanza anche nel processo tributario, nonostante l’autonomia dei due procedimenti. Del resto se "il fatto non sussiste" ai fini penali e il medesimo fatto è alla base anche della violazione tributaria risulterebbe difficile operare un distinguo tra le due fattispecie ancorché una penale e l’altra amministrativa. Confisca per la società schermo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 3099/2016. Via libera al sequestro finalizzato alla confisca per equivalente dei beni della società-schermo. La Corte di cassazione, con la sentenza 3099 depositata ieri, ricorda la possibilità di disporre il provvedimento cautelare reale nei confronti della persona giuridica, di fatto non operativa ma costituita al solo scopo di "occultare attività" illecite. Nel caso esaminato i reati contestati erano la dichiarazione infedele (articolo 4 Dl 74/2000) e il riciclaggio (648-bis del codice penale). La natura di "comodo" della società, finita nel mirino dei giudici, era stata desunta da una serie di indizi, primo fra tutti l’utilizzo della Srl per movimentare le quote di proprietà di un albergo di Lugano, acquistato con ingenti somme frutto di una contestata truffa e riciclaggio ai danni di alcune società di un gruppo bancario. A questa circostanza si univa quella dell’amministratore "fittizio": "testa di legno" della società non operativa era la nuora dell’autore dei reati contestati, anche lei destinataria di un provvedimento cautelare e, per sua stessa ammissione "strumento" del suocero. Per finire l’esistenza di un testamento con il quale l’imputato per riciclaggio e dichiarazione infedele blindava la compagine familiare lasciando il 99% delle quote della società di comodo al figlio e nominando amministratrice la nuora. Secondo la Suprema corte, correttamente il Tribunale del riesame ha chiarito che per il reato di riciclaggio la confisca è obbligatoria, in base all’articolo 648-quater, anche nel caso in cui riguardi una persona interposta. La norma prevede, infatti, la possibilità per il giudice di ordinare la "confisca della somme di denaro, dei beni o delle altre utilità della quali il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona, per un valore equivalente al prodotto, profitto o prezzo del reato". Senza successo nel ricorso si lamenta l’omessa motivazione in riferimento alle norme che regolano il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente. Secondo la difesa, infatti, nell’ordinanza impugnata non c’era alcuna spiegazione relativa alla persona fisica che avrebbe avuto la disponibilità delle somme sequestrate, visto che la rosa dei possibili si giocava tra l’autore del reato la moglie e la nuora. Per la difesa un intreccio familiare che rendeva impossibile determinare l’importo massimo sequestrabile per equivalente. La Cassazione considera però risolto correttamente il problema del "possessore mediato" sia dal Gip che ha disposto la misura cautelare, sia dal Tribunale del riesame. Entrambi, infatti, hanno correttamente applicato gli articoli 648-quater del Codice penale e 321 del codice di rito sul sequestro preventivo, qualificando la società ricorrente come "interposta persona" e, attribuendo la qualità di detentore effettivo delle somme sequestrate all’autore dei reati contesati o al suo nucleo familiare in parte coindagate o comunque a loro volta interposte. Un ricordo di Ettore Scola di Arrigo Cavallina Ristretti Orizzonti, 26 gennaio 2016 Vorrei aggiungere un ricordo di Ettore Scola che mi pare sfuggito nei tanti racconti di questi giorni. Negli anni 1986-87 Scola ha frequentato, con Luigi Magni, la Casa di reclusione di Rebibbia, incontrandosi regolarmente con un gruppo di detenuti per reati comuni e di violenza politica. Si era costituita la cooperativa "5 e novanta", per svolgere attività culturali che procurassero reddito e prospettive di inserimento lavorativo. Una prima iniziativa riguardava la realizzazione di un film. Scola non poteva essere il regista, ma si è adoperato per trovare una segretaria di produzione, una sceneggiatrice che poi si sarebbe incaricata anche della regia (Armenia Balducci) e qualche fonte di finanziamento. La trama si era sviluppata con i racconti degli stessi detenuti, una cinquantina dei quali avrebbero poi lavorato con mansioni tecniche o artistiche. Ma il film non si è fatto, credo per l’insufficienza dei contributi. Si è pienamente realizzata invece una seconda iniziativa, sempre con il sostegno e l’incoraggiamento di Scola: la costituzione di un gruppo teatrale che, con i detenuti in permesso, ha rappresentato al teatro Vittoria di Roma l’opera "Roma sparita"; regista Pierpaolo Andriani ma autori del testo gli stessi detenuti. Su questo spettacolo, sulle iniziative della cooperativa "5 e novanta" e sul ruolo importante di Ettore Scola allego gli articoli di Repubblica dell’11 settembre 1987 (incontro di presentazione) e quello successivo del Corriere del 15 settembre. Al ricordo di Ettore Scola diamo un motivo in più per essergli riconoscenti. Marche: la vicepresidente Malaigia in visita al carcere di Ascoli Piceno vivereascoli.it, 26 gennaio 2016 "Nel corso della visita ho potuto constatare l’efficienza degli addetti ai lavori, un’ottima organizzazione ed un buono stato a livello strutturale dell’intera casa circondariale". Questo il commento della Vicepresidente Malaigia dopo aver trascorso la mattinata odierna nella Casa Circondariale di Ascoli Piceno assieme al Garante per i detenuti della Regione Marche e ad altri rappresentati istituzionali nell’ambito del progetto proposto dall’Ombdusman Marche di visita agli Istituti di pena del nostro territorio. "Nonostante le carenze croniche del sistema carcerario italiano, mi sento di definire quello ascolano, un buon Istituto; ho trovato all’interno una situazione dignitosa per quanto riguarda la sistemazione dei detenuti,sia per quanto riguarda gli spazi e sia dal punto di vista igienico sanitario". Il carcere, oltre alle celle comuni e singole dei detenuti, si compone di locali adibiti alle cure sanitarie, di quelli destinati ai colloqui, di aule didattiche e laboratori professionali e di spazi per attività sportive, tra cui un campo di calcio. "Ho notato con piacere l’impegno lavorativo e produttivo dei reclusi grazie alla capacità degli operatori e degli Agenti di Polizia Penitenziaria di sostenere e incentivare i percorsi di formazione e inserimento lavorativo che però trovano purtroppo ostacoli per la carenza di fondi, e per i quali la Regione, mi auguro, provvederà quanto prima con il rifinanziamento della legge di settore. Il carcere, infatti, può rappresentare semplicemente un luogo dove scontare la pena oppure divenire un’opportunità di rieducazione e inserimento sociale al fine di dare piena attuazione al principio di rieducazione previsto dall’articolo 27 della nostra Costituzione e per cercare di abbassare il tasso di recidiva che in Italia è ancora notevolmente alto. Attraverso la realizzazione di attività di controllo, verifica ed iniziativa politica che ci vedono impegnati in prima linea - conclude la Vicepresidente Maligia- ci adopereremo affinché anche le condizioni di vita dei detenuti avvengono nel rispetto dei diritti sanciti dalla nostra carta costituzionale". Sicilia: De Gesù nuovo Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria trapanioggi.it, 26 gennaio 2016 Cambio al vertice del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Sicilia dove Gianfranco De Gesù ha preso il posto di Maurizio Veneziano che andrà ad occupare analoga posizione presso il Provveditorato della Sardegna. Alla cerimonia di passaggio delle consegne era presente il capo Capo del Dipartimento Santi Consolo. Sull’avvicendamento si registra il commento del Coordinatore regionale della Uil-pa Penitenziari Gioacchino Veneziano: "Abbiamo conosciuto il nuovo provveditore De Gesù sia nelle vesti di direttore di carcere sia di provveditore, ma pure come direttore generale dei Beni e Servizi del DAP a Roma, è un uomo di indiscusso valore professionale e umano". "Abbiamo apprezzato - prosegue il sindacalista della Uil-pa - anche le parole del capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo che ha promesso più attenzione verso la Sicilia e siamo certi che ciò accadrà". In un colloquio a margine della cerimonia Veneziano ha posto l’accento sulla necessità di rimpinguare gli organici della Polizia Penitenziaria, di prestare maggiore attenzione alle situazioni di stress da lavoro del personale e di ammodernare i mezzi in dotazione al Corpo. Consolo ha annunciato l’incremento delle attività di lavoro per i detenuti anche per beni di pertinenza del Dap. Firenze: Rossi (Pd) "subito interventi per migliorare le condizioni di vita dei detenuti" gonews.it, 26 gennaio 2016 "Il tema dei diritti umani è qualcosa di eterno e sempre attuale, qualcosa di essenziale per una società progressista e civile. Smettere di pensarci è come smettere di pensare all’aria che stiamo respirando. Impossibile e impensabile. La dignità, la sensibilità, il rispetto sono sentimenti che separano l’uomo dalle barbarie. Il carcere di Sollicciano versa in una situazione inaccettabile ormai da molto tempo. E ancora di più si capisce dalle parole spese dalle detenute nel comunicato. Un grido disperato, arrivato negli ultimi giorni dell’anno, che ha riportato alla luce la tragica questione: "viviamo peggio degli animali, celle piene di muffa dove piove dentro, infestate dai topi, tanto che la mattina alcune detenute si sono trovare morse dai topi, ci hanno tolto la dignità". Sebbene Sollicciano non sia di competenza comunale, è nostro dovere prenderci cura dei cittadini, anche quelli che stanno scontando una pena detentiva: il problema non è più rinviabile. È urgente adottare misure concrete per migliorare le condizioni di vita nelle carceri, avendo a mente la finalità rieducativa della detenzione e valutando la possibilità di inserire nelle legislazioni nazionali una revisione delle pene, partendo dalla depenalizzazione dei reati legati al possesso di cannabis. Non possiamo più voltarci dall’altra parte, pensando che sia un problema che non ci riguarda. Il grado di civiltà dei paesi democratici si misura anche da come sono trattati i loro detenuti. Dobbiamo assolutamente trovare soluzione a questa emergenza, a questa mancanza di civiltà". Frs: Sollicciano in condizioni disastrose "Raffica di ordini del giorno del gruppo consiliare di sinistra a Palazzo Vecchio perché si affrontino di petto i mille problemi di Sollicciano" Oggi in consiglio comunale, in seguito alla relazione del garante dei diritti dei detenuti (peraltro da noi espressamente richiesta) abbiamo presentato 8 ordini del giorno, 8 proposte concrete per far sì che la nostra Città si prenda cura del proprio carcere, Sollicciano, che versa in pessime condizioni, delle detenute e dei detenuti ivi reclusi, e anche di chi ci lavora, poliziotti, educatori. Le proposte vanno da quel che può direttamente fare il comune (contribuire con la propria esperienza e i propri uffici per presentare assieme al carcere progetti che attirino fondi europei o regionali, realizzare percorsi di reinserimento sociale, terminare la struttura per l’accoglienza di detenute madri con i propri piccoli), a quel che deve fare il ministero (ad esempio la messa in sicurezza del camminamento delle guardie che è crollato), a quel che può fare la cittadinanza (una campagna di raccolta di indumenti sportivi e materiale per lo sport) a quello che possono fare le istituzioni locali e nazionali (mettere in piedi una cabina di regia fra Società della Salute, carcere di Sollicciano e Comune di Firenze per le attività da svolgere congiuntamente, maggior collaborazione con l’ASL, interventi strutturali sul carcere). È inaccettabile, e lesivo della dignità umana, che uomini e donne, indipendentemente dai reati per i quali siano stati dichiarati colpevoli, si trovino costretti a vivere in condizioni di grave carenza igienica, di degrado, di profondo disagio e di abbandono. Troviamo questo ancor più stridente considerando che parliamo del carcere della città di Firenze, la città del Bello, dell’Arte, di cui andiamo fieri. Il carcere è luogo di pena, ma secondo il nostro ordinamento deve essere conforme da umanità e tendere al reinserimento sociale: Sollicciano, e il carcere in Italia in generale, semplicemente peggiora chiunque vi entri, nell’animo, nel corpo e nella mente. Riteniamo sia un dovere morale per il Comune di Firenze, e più in generale per la città, adoperarsi per verificare e migliorare le condizioni di Sollicciano, e di intensificare i rapporti fra la città e il suo carcere, anche con l’ottica di un futuro reinserimento sociale. Invitiamo tutti, cittadini, politici e giornalisti, a visitare il carcere di Sollicciano per rendersi conto di persona di quel che soffrono detenute e detenuti. Armentano (Pd): "con attenzione e cura possiamo buttare le basi per futuro migliore" Dalla situazione d’emergenza in carcere - sottolinea il consigliere PD Nicola Armentano - dobbiamo uscirne pensando di non trovarsi costantemente in questa situazione. Occorre maggior attenzione alla cura della persona: punto fondamentale per non sentirsi abbandonati per riappropriarsi di autostima, elemento per poter credere in un futuro diverso. Credo - aggiunge il consigliere Armentano - sia necessario aumentare la sinergia tra assistenza sanitaria e carceri. Occorre informare su buone pratiche e corretti stili di vita; rischi di malattie sessuali e non solo. Il sovraffollamento provoca l’aumento di suicidi e atti di autolesionismo, per questo sono necessari investimenti strutturali per evitare il rischio di altre sanzioni da parte della Corte europea. È una sfida da non poter perdere. Esistono progetti unici di inclusione e reinserimento che non possono essere dispersi e dobbiamo lavorare per progettare altro, per aiutare chi è detenuto ad affrontare un percorso che gli servirà dopo aver scontato la giusta pena. Bello quanto fatto dalla Figc Lombardia che permetterà di far giocare detenuti dentro le case circondariali ma anche fuori. Una scelta di grande coraggio che comporta grossi rischi ma anche una grande opportunità per sentirsi, attraverso lo sport, per poche ore, non diversi! La detenzione deve avere, come fine, il reinserimento ed il mantenimento del valore giusto proprio di ogni persona per continuare a pensare, a sperare di potersi riappropriare di una stima persa nei propri confronti. Solo prevedendo strumenti efficaci e minuziosi per garantire un’integrità salutistica, ossia condizioni umane in linea come si fa con qualsiasi altro cittadino si può generare fiducia per un futuro diverso e decorso. Bisogna creare presupposti essenziali per determinare che la detenzione diventi luogo di riabilitazione efficace e poter buttare le basi e possano ricrearsi quelle condizioni perse per facilitare una fiducia in loro per riappropriarsi di valori persi dobbiamo preoccuparci di credere che come persone sono ancora da considerare e non possono essere umiliate e private della dignità della persona. Occorre garantire la salubrità struttura e conseguentemente la loro salute. Solo così avremmo forse fatto un pezzo di strada per evitare che questi detenuti non ricadano, domani, negli stessi errori. Favorire realtà culturali e sportive dentro il luogo di detenzione: rugby e sport o altro per poter offrire loro una buona acquisizione attraverso lo sport di valori etici utili per un loro recupero inclusivo una volta scontata la pena. Una sorta di educazione attraverso lo sport - continua Armentano - grazie all’impegno di realtà e associazioni sportive che mettono al loro servizio e a disposizione dei detenuti i loro profili tecnici e non solo, riuscendo a portare dentro il carcere simboli di sport di alto livello. Coordinamento con una cabina regia fatta da istituzioni e associazioni per un continuo monitoraggio delle condizioni interne. Attenzione anche per i tanti operatori e dipendenti che transitano dentro la struttura per salvaguardare la loro integrità è quella dei cittadini delle loro rispettive comunità di afferenza. Attenzione alla cura della persona per buttare le basi per un futuro migliore. E lo sport potrà essere un grande strumento. Xekalos (M5S): "vergognosa la comunicazione a cui abbiamo dovuto assistere" Oggi in Consiglio Comunale abbiamo dovuto ascoltare la comunicazione del Garante dei diritti dei detenuti a Firenze, Eros Cruccolini. Siamo rimaste per capire quali fossero i problemi di cui voleva metterci al corrente, purtroppo però invece di parlare delle cose realmente importanti si è limitato ad accennare alcuni problemi minori, a darci i numeri dei presenti nei Carceri dividendoli tra femmine/maschi italiani/stranieri, e ad elogiare persone come Giampaolo Meucci, nella funzione di Presidente del Tribunale dei Minori, colui che ricordiamo affidava minori al Forteto. Siamo rimaste alquanto deluse dalla sua comunicazione. Una comunicazione superficiale, incentrata davvero poco sul problema del sovraffollamento e sui problemi denunciati recentemente dalla Asl. Non dimentichiamoci che mentre i detenuti vivono condizioni assurde ed inumane, le valutazioni negative dell’UE e le sue sanzioni continuano Vibo Valentia: carcere di Mileto, l’eterna incompiuta zoom24.it, 26 gennaio 2016 L’amministrazione guidata da Vincenzo Varone aveva proposto di dare una destinazione all’area in questione e di evitare che un’opera costata ai contribuenti diversi miliardi fosse persa per sempre. Gli appelli sulla struttura carceraria mai completata di località "Zimbarda" si susseguono, ma nulla, succede. L’edificio, spoglio di ogni cosa, comprese porte e finestre, di cui si sono impossessati i soliti ignoti, nonostante le denunce e le inchieste giornalistiche, continua infatti a rappresentare uno dei simboli dell’Italia sprecona che negli anni delle vacche grasse ha speso i soldi dei contribuenti in opere puntualmente mai completate. La storia. La struttura era nata sulla scorta del piano carceri che prevedeva negli anni Settanta la nascita delle case mandamentali nei luoghi in cui avevano la propria sede le preture. La casa mandamentale di Mileto era destinata, secondo gli intendimenti, a dare vitalità all’economia locale e a contribuire ad alleviare il sovraffollamento delle carceri. Propositi davvero positivi che avevano accesso più di una speranza ma che poi non si sono mai concretizzati. Nel nuovo edificio che è costato diversi miliardi delle vecchie lire, avrebbero dovuto trovare ospitalità circa 80 detenuti. Era stato anche previsto l’anno della sua inaugurazione: il 1991. Ma non il resto, ovvero gli ostacoli della burocrazia, i contenziosi, le normative, l’assenza di una seria programmazione. Lavori mai conclusi. Tra le cause che hanno determinato il mancato completamento della casa mandamentale di Mileto figurano l’abolizione delle sedi delle preture, di cui hanno preso il posto nei primi anni Novanta, gli Uffici del Giudice di Pace a sua volta poi cancellati in diverse realtà, tra cui Mileto, nonché il contenzioso durato diversi anni tra la ditta esecutrice dei lavori della struttura penitenziaria e il direttore della stessa impresa. Uno scontro, tra le parti, al vetriolo che solo negli anni duemila è stata finalmente appianato dalle amministrazioni comunali che si sono succedute. La grande incompiuta. Tempo fa si era pensato di adibire la struttura per una serie di progetti incentrati sopratutto nei campi del sociale e dell’istruzione. L’ultimo atto ufficiale, di cui si è a conoscenza, è quello di oltre un anno fa del consiglio comunale che ha deliberato di acquisire al patrimonio dell’ente l’immobile di località Zimbarda definito "la grande incompiuta di Mileto". L’istanza per ottenere i locali dell’ex carcere era stata prodotta prodotta nel 2010 dall’amministrazione Varone e nell’estate del 2014 era giunto, finalmente, il parere positivo al trasferimento dell’immobile da parte del demanio. Era, quindi, seguita la decisione del civico consesso di acquisire l’immobile al patrimonio comunale, con l’idea di avviare qualche progetto, nell’area in questione, utile alla comunità. All’amministrazione Crupi il compito quindi di dare una destinazione all’area in questione e di evitare, quindi, che un’opera costata ai contribuenti diversi miliardi delle vecchie lire venga persa per sempre. Savona; il Sappe sulla chiusura del carcere "indifferenza nei confronti della sicurezza" ivg.it, 26 gennaio 2016 E da ponente lanciano l’allarme sovraffollamento: "A pagare le conseguenze sono Sanremo e Imperia". "Abbiamo atteso fin troppo, ora siamo arrivati al culmine. L’indifferenza verso il sistema carcere di Savona e nei confronti della sicurezza ha determinato la soppressione dell’istituto penitenziario, senza nessuna previsione per il futuro, senza nessuna certezza per la costruzione del nuovo penitenziario". Così in una nota il Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria a proposito del futuro del carcere savonese di Sant’Agostino, che (secondo quanto previsto dal decreto del ministro della giustizia Andrae Orlando dello scorso 28 dicembre) presto dovrebbe essere soppresso. Un’eventualità che il Sappe e gran parte delle istituzioni del territorio respingono con forza. La scorsa settimana gli stessi detenuti della casa circondariale avevano manifestato contro l’ipotesi promuovendo uno sciopero della fame. Ora a opporsi concretamente sono gli agenti della polizia penitenziaria e i loro delegati sindacali, che domani mattina si riuniranno in piazza Sisto a Savona per un sit-in di protesta. La protesta avverrà davanti al municipio di Savona non per caso: "Ciò che ci meraviglia è il silenzio del sindaco di Savona sulle aree per il nuovo carcere - osservano intanto dal Sappe - Un silenzio che oggi è rotto dalle nostre urla che rivendicano i nostri diritti. I soldi ci sono, allora cosa aspettano gli amministratori locali? Savona è l’unico capoluogo di provincia d’Italia a non aver un carcere. Non è un primato che Savona si merita: una città valorosa e con un glorioso passato". "La sicurezza è un bene comune, gli aspetti negativi della soppressione del carcere sono innumerevoli. Tra questi: la forza di polizia che effettua un arresto dovrà accompagnare l’arrestato o a Genova o a Imperia, quindi maggiore impegno in termini di tempo e spese connesse; questo determinerebbe un ulteriore carico su questi istituti che sono già penalizzati per l’elevata presenza di detenuti e movimenti connessi; l’attività giudiziaria potrebbe subire un rallentamento, in quanto per le convalide o interrogatori bisogna recarsi fuori comune con aggravio di tempi e costi". Siena: il Garante "carcere con problemi strutturali da risolvere, ma la vivibilità migliora" ilcittadinoonline.it, 26 gennaio 2016 Il garante regionale dei detenuti Franco Corleone ha visitato ieri mattina la casa circondariale senese. Un carcere dove gli sforzi della direzione, del personale e degli educatori, per migliorare la qualità della vita dei detenuti, è evidente. Ma dove permangono alcuni problemi strutturali da risolvere. È questo il giudizio dato dal garante regionale dei detenuti, Franco Corleone, sull’istituto circondariale di Siena, dove il garante ha effettuato un sopralluogo questa mattina. Nel carcere sono presenti 65 detenuti su una capienza massima dichiarata di 81, dunque non c’è sovraffollamento. "Ma le celle non sono molto vivibili, soprattutto presentano dei servizi igienici microscopici, che andrebbero ricostruiti ex novo" ha spiegato Corleone al termine della visita. Per il resto, il garante ha rilevato come rispetto alle sue visite precedenti sia avvertibile un netto miglioramento, sia dell’ambiente che della qualità della vita: è stato inaugurato, grazie a una donazione Uisp, un piccolo campo sportivo, sono stati impiantati orti in seguito a un accordo con il locale istituto agrario, sono state inaugurate docce nuove nella sezione e non mancano le attività educative e i corsi scolastici. Un problema è invece rappresentato dalla presenza di alcuni detenuti per i quali, per le loro condizioni, sarebbe estremamente opportuno trovare misure alternative alla detenzione. Cagliari: Sdr "improcrastinabile stabilizzare infermieri e medici del carcere di Uta" Ristretti Orizzonti, 26 gennaio 2016 "Sono circa un centinaio gli infermieri che prestano servizio nella Casa Circondariale di Cagliari. Un numero spropositato che, a causa della parcellizzazione delle ore, non è in grado tuttavia di garantire la continuità terapeutica. Nel Centro Clinico sono inoltre del tutto assenti gli operatori socio assistenziali, indispensabili per le caratteristiche dei pazienti ricoverati. La situazione insomma è non solo insoddisfacente ma per certi versi caotica con un andirivieni di persone molte delle quali non sono nelle condizioni di svolgere il compito loro assegnato non conoscendo appieno le dinamiche interne alla struttura detentiva". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", facendo osservare "l’improcrastinabilità di promuovere un programma di stabilizzazione degli infermieri e dei medici per garantire ai cittadini privati della libertà referenti costanti e pieno diritto alla salute". "Sempre più spesso detenuti e familiari lamentano con i volontari - sottolinea Caligaris - la difficoltà di rapportarsi all’infermiere o al medico con il quale hanno avviato un rapporto di fiducia. Riferiscono che incontrano sempre persone diverse e ogni volta sono costretti a ricostruire una relazione. In qualche caso, benché sporadico, devono rammentare all’interlocutore l’interruzione o l’avvio di una terapia che un altro al suo posto ha individuato per lenire un disturbo o sospeso. La pletora di presenze e il continuo cambio di referenti incidono negativamente sul rapporto confidenziale e fiduciario tra medico-infermiere e paziente-detenuto rendendo talvolta difficile anche la riabilitazione". "Ad aggravare la situazione si aggiunge - osserva ancora la presidente di SDR - la totale assenza di operatori socio-assistenziali che hanno il delicato compito di assistere chi è ricoverato nel Centro Clinico per qualche intervento o non è autosufficiente perché disabile. Quando la sanità era in carico del Ministero della Giustizia svolgevano il ruolo degli OSS i "piantoni" cioè detenuti con mansioni di cura ai quali veniva riconosciuto anche un piccolo compenso. Attualmente invece a farsi carico dei compagni più deboli sono carcerati volontari che operano gratuitamente. Se è assurdo che un detenuto malato e con problemi di autosufficienza possa restare in un Istituto penitenziario e non sia possibile collocarlo in una struttura alternativa, appare del tutto paradossale che in un Centro Clinico non ci siano gli operatori socio-assistenziali. C’è infine - ma non è un particolare secondario - la questione della cartella clinica digitalizzata, indispensabile in un presidio altamente dispersivo, ancora inesistente nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta". "È evidente che continuare a trascurare questi aspetti così importanti non giova al sistema detentivo, ma soprattutto non garantisce la parità di trattamento dei cittadini limitando gravemente i livelli minimi di assistenza ai detenuti. Sarebbe opportuno un intervento dell’assessorato regionale della Sanità per ridistribuire i carichi di lavoro secondo logiche di efficienza ed efficacia. A Cagliari-Uta sono recluse 570 persone per le quali sarebbero sufficienti una trentina di infermieri stabili. Mandarne 100 equivale quasi a non averne neppure uno. Così come appare illogico e fonte di spreco preparare con appositi corsi operatori socio-assistenziali e poi non impiegarli dove sono indispensabili. Nel Centro Clinico di Uta - conclude Caligaris - ne basterebbero 5/8 e molti problemi sarebbero risolti. Purtroppo non sempre il buon senso e la logica prevalgono. E se si tratta di risparmiare forse è meglio agire su altri fronti perché chi ha perso la libertà non ha rinunciato agli altri diritti fondamentali". Como: con la meningite in visita al carcere del Bassone, profilassi per detenuti e personale di Paola Pioppi Il Giorno, 26 gennaio 2016 Il caso di una donna malata in visita a un parente. Due detenuti sono stati isolati e trasferiti. La donna non è in pericolo di vita. Una diagnosi tempestiva, il ricovero all’ospedale Valduce e le cure immediate, a cui nelle ultime ore la donna, una sessantottenne comasca, pare aver reagito bene. Tuttavia quella meningite da meningococco, la forma più grave di questa malattia a trasmissione batterica, ha fatto scattare l’allarme e la profilassi in tutti i luoghi in cui era passata nei giorni precedenti. A partire dal carcere Bassone, dove ha un parente detenuto, dal quale era stata in visita nei giorni precedenti. La direzione del carcere, assieme alla Asl, ha subito attivato la profilassi, individuando i detenuti e il personale che negli ultimi giorni era stato in contatto con il parente della paziente affetta dall’infezione, che tecnicamente è stato valutato come fonte. Sia lui che il compagno di cella, sono stati isolati e trasferiti, per tutelare gli altri detenuti della sezione e il personale penitenziario. In via cautelativa, dove una valutazione svolta in sinergia tra direzione carceraria e azienda sanitaria, sono stati individuati due livelli di intervento preventivo: una vera e propria prevenzione, attuata attraverso la somministrazione di farmaci, con chi era stato a diretto contatto con le potenziali fonti di rischio di contagio. A questo si è aggiunta un’osservazione, e quindi una sorveglianza sanitaria, di chi ha invece frequentato gli stessi luoghi, senza aver avuto contatti diretti. Un protocollo abituale in questi casi, che è stato organizzato poche ore dopo il ricovero della donna, e la diagnosi che accertava la forma virale della meningite da cui era affetta. Fino a ieri sera, non si era registrato nessun sintomo: dopo un comprensibile allarme iniziale, le preoccupazioni sono progressivamente rientrate. Tuttavia nei giorni scorsi la polizia penitenziaria e la direzione, hanno dovuto fare i conti anche con problemi di altro genere: non solo la tentata evasione sventata dagli agenti domenica mattina, ma anche due aggressioni da parte di altrettanti detenuti. Nel primo caso, un italiano ha sferrato un pugno in un occhio a un agente, nel secondo un albanese ha scagliato un bidone dei rifiuti, ed è stato immobilizzato e portato in cella da altri detenuti oltre che dal personale di polizia. Trento: malattie infettive al carcere di Spini di Gardolo, Polizia penitenziaria in allarme trentotoday.it, 26 gennaio 2016 Il Sappe, sindacato autonomo di polizia, chiede al servizio sanitario locale che siano comunicate le informazioni sullo stato di salute dei detenuti. A Spini ci sarebbe un caso di Tbc ancora in corso. Malattie infettive nel carcere di Spini: la denuncia viene dal Sappe, il sindacato autonomo di polizia, che lamenta difficoltà di comunicazione con il servizio sanitario nella casa circondariale. Un’omissione di informazioni, giustificata dal fatto che si tratta di dati sensibili, che può essere molto pericolosa per gli agenti di polizia penitenziaria. "Il servizio sanitario locale si dichiara non autorizzato a comunicare le informazioni inerenti lo stato di salute dei detenuti - scrive il segretario del Sappe Donato Capece in una nota, ripresa dall’Ansa - in questi anni si sono registrati diversi casi di epatite C, Hiv, scabbia, Tbc (uno dei quali è ancora in atto) e a Polizia penitenziaria non è stata adeguatamente informata sulla necessità di dotarsi di guanti e mascherine, né tantomeno è stato disposto un rigido isolamento sanitario". Parma: il caso Rachid Assarag, "Le Iene" e la vita dietro le sbarre Gazzetta di Parma, 26 gennaio 2016 Si torna a parlare del carcere di Parma, di Rachid e delle sue registrazioni. Rachid Assarag, 40 anni, ora detenuto a Firenze, è l’autore delle registrazioni diffuse a settembre sui media in cui ci sono le voci di agenti penitenziari del carcere di Parma, in cui all’epoca era detenuto, che parlano di aggressioni e botte ai detenuti. Ad "entrare" nel carcere di Parma, per parlare di questa vicenda sono le Iene, il programma di Italia 1, nello specifico Matteo Viviani in un servizio dal titolo "Lezioni di vita carceraria" in cui si ascoltano le registrazioni in questione ma anche vengono intervistati alcuni protagonisti diretti e indiretti della vicenda: il legale di Rachid, Fabio Anselmo: "Queste registrazioni sono un reality sulla vita carceraria". Una vicenda che lui definisce "allucinante". Tre mesi di registrazioni choc nel carcere di Parma ma anche di Prato. Viviani ripercorre la vicenda e i retroscena: Ad esempio, la moglie di Rachid, Emanuela, racconta dei registratori fatti entrare in carcere, spiega come il marito si presentasse agli incontri con il braccio rotto o le dita rotte. Lo stesso Rachid, in un audio ripete di "avere paura per la propria vita: alcuni detenuti sono confidenti delle guardie". Nel servizio interviene anche Roberto Cavalieri, garante dei diritti dei detenuti di Parma. Viviani intervista anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando: "Sono cose molto gravi su cui prenderemo provvedimenti. Ma una registrazione o un video, a seconda di come vengono mostrati, hanno un significato piuttosto che un altro". Viene intervistato anche uno dei medici del carcere di Parma, tirato in ballo nelle registrazioni, che però davanti ai microfoni delle Iene preferisce non parlare. La moglie di Rachid parla di un vero e proprio "muro di omertà", di "botte e sistema". Il ministro conferma di avere inviato gli ispettori nel carcere di Parma. Viviani aggiunge che ci sono molti testimoni (tra cui lo stesso medico) che però non sono mai stati ascoltati. Chiude la moglie di Rachid con uno sfogo: "Non credo più al carcere come istituto correttivo". Milano: progetto "Jail’s bond", al carcere di Bollate 11 detenuti diplomati come dog sitter milanopost.info, 26 gennaio 2016 Sono stati undici i detenuti del carcere milanese di Bollate che hanno ricevuto dall’Università Statale di Milano l’attestato di "operatore di canile" e dog sitter. È il progetto "Jail’s bond", che nasce dalla volontà dell’Università di creare strategie innovative di intervento sociale in ambito urbano, incentrate sulla relazione uomo-animale e finalizzate alla formazione professionale e al reinserimento lavorativo delle persone in carcere. Gli studenti, provenienti da alcuni reparti della sezione maschile del carcere insieme al diploma hanno ricevuto il tesserino tecnico Csen. Sono i primi diplomati di questa categoria professionale in Italia. In due ricerche effettuate dall’Università Statale su un campione nazionale complessivo di 3.000 proprietari di cani è emerso che a Milano il 45% dei proprietari utilizza abitualmente questi servizi e il settore lavorativo del pet care è ancora molto poco proposto all’interno delle carceri. bollate Lo scorso giugno Antonella Mariotti, inviata de La Zampa.it (La Stampa), ha pubblicato un servizio in cui intervistava proprio i protagonisti di questo interessante esperimento, servizio che vi proponiamo: "Ho perso qualcosa che non ho mai avuto". Vito Catorre ha 51 anni e nel carcere di Bollate è entrato già da un po’. Ricorda: "Fuori avevo dimestichezza con gli animali. Lo sai che addestravo le oche? A me gli animali piacciono e un giorno, fuori di qui, vivrò in campagna con tanti animali". Ore 13,05: inizia un po’ in ritardo la lezione del corso da dog sitter che fa parte del progetto "Cani dentro e fuori". Bible, con i suoi bigodini che tengono in ordine il pelo, entra deciso e allegro insieme con Rosie. Lui è un barboncino bianco di sei anni, abituato ai comandi e a rispondere a un addestratore. Lei è un levriero Greyhound, "salvata" dalle corse inglesi, usata più come fattrice per cuccioli che come corridore. È timida e si guarda intorno spaurita. Mentre si attraversa il corridoio verso la sala predisposta per le lezioni, un detenuto si ferma per accarezzare Bible: "Sai che sono 10 anni che non tocco un cane?". Si piega, quasi si inginocchia e Bible risponde come fa sempre con tutti. Fa le feste e si "cappotta" a pancia all’aria. Pet therapy - Quanta pet therapy può servire per rimettere insieme una vita in frantumi? A Bollate ci sono stati anche i corsi per gli animali che curano. E alcuni studenti, che ogni giovedì incontrano veterinari, istruttori ed educatori per diventare dog sitter diplomati, hanno seguito anche quel tipo di lezioni. Bible quasi scompare tra le sue braccia: "Io, in Ghana, avevo tanti animali. Due cani, un gatto, le capre. Ora sono contento di avere di nuovo degli animali intorno. Cosa penso di fare dopo? Magari posso imparare così bene il dog sitting che potrò insegnarlo". Intanto Francesca Pirrone (veterinaria all’Università di Milano) e Moreno Sartori (educatore cinofilo) hanno fatto alcune riprese nel giardino della casa di reclusione: faranno parte, insieme con i video delle lezioni, di una ricerca universitaria. Ora, nel quarto reparto della sezione maschile, l’aula è pronta per i 18 studenti. Rosie si accomoda sul cuscino e con Bible, Celestino Marini, istruttore, mostra alla classe come si insegna il "seduto". Trovare un lavoro - Bible è abituato. Risponde ai comandi e poi gira tra le sedie e i banchi a ringraziare. L’attenzione si concentra quindi su Rosie, che sembra triste. La veterinaria spiega: "Ha sempre vissuto in una gabbia a fare cuccioli, tanto che ha problemi alle zampe". Cala subito un silenzio irreale. La lezione continua. Sono previste quattro ore ogni giovedì, due ore di pratica e due di teoria, fino a novembre. L’obiettivo è il primo "Diploma da dog sitter" d’Italia approvato dallo Csen, il Centro sportivo educativo nazionale del Coni. "Io ce li avevo i cani a casa, ma erano cani diversi, a volte ero a disagio con loro…": quando parla, a Fabrizio Fadda, 29 anni, vengono in mente animali che fanno paura. E aggiunge: "Non pensavo mi avrebbero preso. Ho fatto domanda - sorride - e ora sono qui. Sono contento. Sono sposato, ho un figlio e magari, fuori, con quel diploma troverò un lavoro". Durante la lezione entra in classe Claudio, lo stalliere di Bollate, perché in questo carcere si può anche imparare ad avere cura dei cavalli. "Qui non si capisce mai chi aiuta chi", sorride Nicolò Vergagni, etologo e biologo, con una faccia che sembra uscita da un seminario e non da una cella: "Questi animali - dice -, una volta alla settimana, riescono a togliere la sofferenza che c’è qui dentro". "Senza adulti", di Gustavo Zagrebelsky. Né diritti né futuro, vita ai tempi degli immortali di Ezio Mauro La Repubblica, 26 gennaio 2016 Nel nuovo saggio Gustavo Zagrebelsky analizza come medicina, genetica e stili di vita ci regalino l’illusione di un’esistenza eterna. Rompendo il patto con le generazioni che verranno. Il saggio di Zagrebelsky sul nostro rifiuto di diventare adulti. Vivendo come fossimo immortali noi modifichiamo la vita stessa, il significato e il profilo del suo corso, trasformando per la prima volta nella storia dell’umanità la curva dell’esistenza - com’è stata chiamata sempre - in una lunghissima linea retta che non siamo mai stati abituati a risalire: e che crolla di colpo quando cede l’inganno dell’eterna fittizia gioventù, precipitando nella vecchiaia improvvisa. Non è un autoinganno, perché tutto quel che ci siamo creati per dominare la vita ci autorizza a pretendere l’immortalità. La medicina naturalmente, la genetica e la biologia con i loro progressi al servizio dell’uomo. Ma anche il maquillage sociale e culturale al servizio delle mode, dei trattamenti, degli stili di vita, con la promessa di ingannare la realtà, camuffandone l’estetica. Se la tecnica, con la sua autorità che la rende signora dell’epoca, dice che si può fare, allora si deve: e infatti padri e madri lo fanno, mimando i consumi e la cultura dei figli, cercando di uniformarsi dentro l’età dominante, dunque senza più fine. Così non viviamo la nostra vita, o almeno non nel suo naturale percorso, che è ciò che la rende appunto "vita" con un suo inizio, un culmine e una fine, e non soltanto esperienza di una fase illusoriamente fissata per sempre. Al suo posto viviamo un’esperienza mimetica, spostata abusivamente nel territorio dell’età altrui, alterando il senso dell’una e dell’altra. Ciò che si indebolisce è il fluire del tempo, il passaggio delle fasi e il loro trascorrere, la fine di una stagione e la sua mutazione nell’inizio di un’altra, con i diversi colori, i toni e i modi propri di ogni epoca. Quel che si disimpara è la preparazione alla vecchiaia, il modo di accoglierla dai primi segnali fino alle prove evidenti e la sua accettazione. Scegliamo di rimanere uguali a quel che ci immaginiamo di essere. Pur di non declinare, decidiamo di non evolvere, imprigionandoci nell’oggi. Ma il vero risultato di tutto questo è la scomparsa dell’età di mezzo, la fase di transizione, il passaggio di maturità, l’età adulta. "Senza adulti". È il titolo del saggio di Gustavo Zagrebelsky pubblicato da Einaudi, che indaga la mutazione inquietante del sentimento delle generazioni, legandolo alla de-generazione e alla ri-generazione in quanto l’esistenza in sé non è vita, perché la vita è tensione al mutamento, in un perpetuo divenire. Esiste chiara, tuttavia, la distinzione tra giovani e vecchi che spacca la vita in due. Agli anziani gli antichi attribuivano autorità, governo e custodia del gregge, ma era la cautela di una società conservatrice, da Platone a Cicerone, che temeva i giovani "impetuosi" e "feroci" come li chiama Machiavelli assegnando però loro il compito di afferrare la "fortuna". Oggi poi questa riserva di credito dei "saggi" è messa a dura prova dalla nuova scienza tecnologica e informatica che fornendo ogni possibile risposta rende superflue le domande e svaluta i vecchi saperi, con una vera e propria inversione di conoscenza tra le generazioni: rompendo così il vincolo di convenienza e di riguardo che derivava naturalmente dalla trasmissione di un’esperienza necessaria e rispettata, perché utile. Poiché la società, come l’umanità, non è più capace di considerare e apprezzare una sua propria maturità nel senso di una pienezza stabilmente acquisita, e dunque tra crescita e recessione non c’è via di mezzo, la produttività diventa il nuovo criterio distintivo tra i giovani e i vecchi. Con la spesa sociale che serve prevalentemente agli anziani ma grava pesantemente sui loro nipoti, e un modello sociale che entra in crisi nel momento in cui l’autonomia della politica è risucchiata dall’ultima metafisica, quella dello stato di necessità, figlio della crisi quindi di nessuno, tecnicamente irresponsabile quanto indiscutibile. Si spezza sotto i nostri occhi un altro vincolo societario, quello tra i vincenti e i perdenti della globalizzazione, perché oggi i forti possono fare a meno dei deboli fino ad accettare non la disuguaglianza che c’è sempre stata, ma l’esclusione. Con una bizzarria evidente: ci viene detto che la giovinezza dura a lungo, anzi è eterna, quando siamo consumatori, mentre scopriamo che dura meno dell’anagrafe e si restringe quando siamo produttori. Zagrebelsky porta alle estreme conseguenze questo allarme. Cita l’esempio dell’isola di Pasqua con migliaia di abitanti all’inizio del Settecento, ridotti a 111 individui un secolo dopo perché la deforestazione aveva fatto venir meno gli uccelli da cacciare, il legno per le canoe della pesca e per gli argini degli orti. La voracità della generazione vivente aveva letteralmente mangiato il territorio alle generazioni future, restavano le teste giganti di pietra, una pietra nuda, totem di volontà di potenza che si autodistrugge. Anche oggi la generazione dominante si comporta come fosse l’ultima, nell’egoismo del consumo illimitato delle risorse naturali e delle fonti energetiche e nel consumo distorto delle risorse genetiche manipolate, delle risorse finanziarie che scaricano l’indebitamento di oggi sui cittadini di domani. Quando Thomas Jefferson annunciò che "la Terra appartiene alla generazione vivente" intendeva affermare la piena sovranità e la piena libertà dei viventi rispetto al passato, anche davanti ai legami normativi e costituzionali, che possono essere modificati. Oggi l’uso proprietario delle risorse naturali rovescia quell’intenzione: la Terra sembra appartenere ai viventi per sempre, nel senso che non si sentono responsabili davanti al futuro. È come se le generazioni di oggi fossero disinteressate alla loro successione, cieche di domani. E infatti, si domanda Zagrebelsky, il calo demografico non è forse un rifiuto di ogni responsabilità per il futuro, una chiusura esclusiva nell’oggi, un rimpicciolimento dell’orizzonte? Torniamo agli immortali: il disimpegno dalla discendenza trasforma il ciclo in un punto, ferma la storia. C’è un rapporto psicologico, morale, addirittura politico tra la negazione della morte e il rifiuto della procreazione, perché per l’immortale l’attività generativa esce dall’eterno presente, addirittura lo mette in discussione fino a rivelarne l’inganno, dunque è un contro-senso. D’altra parte - Zagrebelsky ricorda Canetti - quante persone scoprirebbero che non vale la pena di vivere una volta che non dovessimo più morire? L’esorcismo tecnico della morte sconta questa conseguenza, l’affievolimento della vita, il disinteresse a crearla per limitarsi a consumarla. L’ultimo nesso che si rompe, tra giovani e vecchi, è dunque tra padri e figli, il più sacro, quello che trasforma in generazioni le classi di età che si succedono. Siamo davanti all’inedito. E qui, lo Zagrebelsky giurista non può non porre il tema più audace e ormai indispensabile, quello dei diritti delle generazioni future. All’egoismo storico dei viventi, bisogna opporre il diritto di coloro che verranno, il diritto di succedere a noi. Siamo evidentemente davanti alla prefigurazione di diritti pre-civili e pre-politici: semplicemente umani, anzi dovremmo dire pre-umani, perché riguardano i futuri abitanti della Terra. Il diritto di esistere, prima ancora del diritto del vivente. Il punto zero del diritto. Zagrebelsky sa che in realtà le generazioni future non hanno alcun diritto soggettivo, quando vivranno non potranno chiedere i danni ai loro predecessori, tutt’al più potranno maledirli. Ma sa anche che la società non può reggere a lungo questo rovesciamento del debito storico: come se i figli avessero pagato definitivamente ciò che dovevano ai padri, e i padri non fossero in grado di regolare davvero i conti dei loro obblighi con la discendenza. Ci salva solo, dice l’autore, la categoria del dovere, senza un diritto giuridico corrispondente. Il dovere da solo. Aggiungo che si chiama responsabilità. Il contrario della moderna fuga nell’illusione di una vita infinita, sempre uguale a se stessa, dunque tecnicamente irresponsabile. Gli immortali si fermino in tempo, riportino gli adulti nel mondo per tenerlo insieme, come diceva Eliot: "Non sei né giovane né vecchio / ma è come se dormissi dopo pranzo / sognando di entrambe queste età". Schengen, la verità nei colloqui bilaterali: "sospeso fino a settembre" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 26 gennaio 2016 Nei colloqui della delegazione italiana con tedeschi e austriaci massima disponibilità per non far fallire il Trattato, ma è prevalsa la necessità di sospenderlo e continuare i controlli "fino a quando i numeri dei migranti non si ridurranno in maniera concreta". Sono bastati due incontri bilaterali per comprendere che il clima non era affatto favorevole. Perché nel corso dei colloqui della delegazione italiana con i tedeschi e gli austriaci - oltre ad Alfano ci sono il sottosegretario Domenico Manzione e i funzionari che gestiscono il dossier - tutti hanno mostrato massima disponibilità per non far fallire il Trattato di Schengen, ma subito dopo hanno sottolineato la necessità di sospenderlo e continuare i controlli "fino a quando i numeri dei migranti non si ridurranno in maniera concreta". E così è apparso chiaro che almeno fino a settembre, visto che le proroghe vengono accordate ogni sei mesi, il nostro Paese dovrà fare i conti senza la collaborazione dei partner della Ue. Le previsioni dicono che almeno per tutto il 2016 non ci sarà alcun calo, anzi. Quanto avvenuto nelle ultime ore con migliaia di persone che premono per entrare negli Stati europei, dimostra che la tendenza è quella di un’intensificazione degli arrivi. E dunque appare chiaro quale sia il rischio per l’Italia: gestire gli sbarchi che inevitabilmente saranno più massicci. Anche perché è fin troppo facile prevedere, di fronte alla chiusura della rotta terrestre, l’apertura della nuova strada che passa dall’Albania e dal Montenegro per attraversare l’Adriatico e arrivare direttamente in Puglia. E allora ha gioco facile chi ritiene che non servirà fare un centro di smistamento, un "hotspot", al Brennero o nel Nordest come ha detto il ministro Angelino Alfano, visto che sarà necessario "gestire gli arrivi a Bari o a Foggia". Il vertice si apre con il Belgio che chiede di "estromettere la Grecia da Schengen" e continua con i ministri dei vari Stati che mettono sul tavolo le proprie difficoltà. A parole sono tutti d’accordo sulla necessità di non far fallire Schengen, ma nei fatti ogni Stato ha una giustificazione per sostenere la necessità di sospenderlo "temporaneamente". È questo il termine utilizzato da tutti per sostenere che poi si tornerà alla normalità. Ma la realtà dei fatti non cambia. La Francia chiude le frontiere perché deve "blindarsi" contro i terroristi, la Germania per fronteggiare uno scontro politico interno che coinvolge anche il partito della cancelliera Angela Merkel, la Svezia ha il maggior numero di immigrati rispetto alla popolazione e deve riorganizzarsi, l’Austria non ha i mezzi sufficienti per garantire l’accoglienza. Fanno blocco unico anche i Paesi dell’Est che hanno già alzato muri o comunque non sono mai stati disponibili ad accogliere gli stranieri. Tutte le misure proposte dalla Commissione guidata da Jean-Claude Juncker, come la creazione di una polizia di frontiera Ue e una cooperazione tra le polizie, passano in secondo piano di fronte al vero imminente rischio: il fallimento dell’accordo che ha finora garantito la libera circolazione. Nelle prossime settimane si continuerà a trattare. L’Italia ha dato disponibilità ad aprire subito i cinque "hotspot" per ottenere maggiore cooperazione nel trasferimento dei richiedenti asilo. La possibilità di intervenire con aiuti alla Turchia per fronteggiare i flussi è ritenuta una strada da percorrere. Consapevoli, però, che la politica comune in tema di immigrazione è sospesa, ed è a un passo per essere definitivamente archiviata. Schengen in pericolo "allungare a due anni i controlli alle frontiere" di Andrea Bonanni La Repubblica, 26 gennaio 2016 Richiesta al summit dei ministri Ue. Atene sotto tiro Alfano: patto per ora salvo. Austria: ma sta per saltare. Schengen è più che mai in bilico. Sulla questione dei migranti dall’Europa parte un ultimatum alla Grecia, e indirettamente anche all’Italia. I ministri dell’Interno della Ue, riuniti ieri ad Amsterdam, hanno chiesto infatti alla Commissione di attivare le procedure dell’articolo 26 del Trattato, che prevede l’autorizzazione ad uno stato membro di estendere i controlli temporanei alle proprie frontiere fino ad un massimo di due anni. Finora i controlli sono stati introdotti da Francia, Germania, Austria, Danimarca e Svezia. Ma a maggio scade il termine oltre il quale Vienna e Berlino non possono più chiudere le frontiere, a meno appunto di una autorizzazione speciale. Ancora più esplicita, è stata la richiesta di far intervenire Frontex, l’agenzia europea per la sorveglianza delle frontiere, sul confine tra la Grecia e la Macedonia, che rappresenta il "buco" attraverso cui centinaia di migliaia di migranti irregolari sono passati e continuano a passare per raggiungere il Nord Europa. "I ministri hanno dato un segnale chiaro in questo senso alla Commissione", ha spiegato il ministro dell’Interno olandese Klaas Dijkhoff, presidente di turno della riunione. È chiaro che se l’Europa intervenisse per sigillare la frontiera tra Grecia e Macedonia, Atene si troverebbe sommersa da una marea di migranti bloccati nel loro viaggio verso il Nord. Il ministro greco Iannis Mouzalas si è difeso, accusando i partner europei di non aver fornito gli aiuti promessi e di aver ricollocato solo 94 rifugiati sui 66 mila previsti. "Non si può accettare che una crisi europea diventi una crisi umanitaria per migliaia di migranti intrappolati in Grecia", ha detto Mouzalas. Formalmente, tutti i governi hanno detto di voler salvare gli accordi di Schengen. Ma nei fatti le minacce alla Grecia sono state molto dirette. "È un mito che il confine tra Grecia e Turchia non possa essere controllato - ha detto la ministra austriaca Johanna Mickl-Leitner - Se la Grecia non agisce, la frontiera esterna dell’Unione si sposterà verso l’Europa centrale". E lo svedese Anders Ygeman ha ricordato che Italia e Grecia sono tenute a fermare e identificare i migranti: "Se un Paese non rispetta i propri obblighi, alla fine dovremo restringere la sua connessione con l’area Schengen". "Schengen è salva per ora. Abbiamo poche settimane per evitare che si dissolva tra gli egoismi nazionali" ha detto il ministro Alfano, ricordando che l’Italia sta mettendo in opera gli hot-spot previsti e che potrebbe anche aprirne uno nel Nord-Est. Ma già i nostri principali vicini a Nord delle Alpi, Francia, Germania e Austria, hanno reintrodotto forme di controllo alle frontiere, che potrebbero essere ulteriormente prorogate. Sulla questione è intervenuto anche il presidente del Consiglio Matteo Renzi: "Abbiamo lottato per decenni per abbattere i muri: pensare oggi di ricostruirli significa tradire noi stessi". La sospensione di Schengen, una scelta ingiusta che mette in difficoltà noi e la Grecia di Franco Venturini Corriere della Sera, 26 gennaio 2016 È lontanissimo il corpicino senza vita di Aylan Kurdi trovato in settembre sulla spiaggia turca di Bodrum. Si è dissolta l’ondata emotiva che quel sacrificio simbolico provocò in Europa, ed è stata infilata sotto il tappeto anche la generosa apertura di Angela Merkel a un numero illimitato di rifugiati siriani. Oggi, benché nell’Egeo i bimbi migranti muoiano a decine, la cancelliera ha dovuto cambiare registro. E l’Europa di Schengen è con le spalle al muro, o più precisamente ai muri che la deturpano nel tentativo di fermare quella che viene percepita come una insostenibile invasione. I dati disponibili dicono che ogni giorno, in pieno inverno, entrano nell’Unione duemila migranti. Quanti ne entreranno in primavera, in estate? Stupisce davvero che l’Europa si sia spaccata, che il nazionalismo identitario dei soci dell’Est abbia alzato barriere invalicabili infischiandosene del piano redistributivo della Commissione, che Austria, Germania, Svezia, Danimarca, Francia e Norvegia abbiano reintrodotto i controlli ai confini? Attenzione, hanno avvertito molti, abbandonare Schengen significa colpire il mercato unico, provocare danni economici gravi e mettere a rischio l’euro, cioè l’Europa stessa. Questa spada di Damocle ha pesato ieri ad Amsterdam sul vertice dei ministri dell’Interno confrontati al dilemma potenzialmente più distruttivo di tutta la storia europea: come salvare l’Unione da una devastante reazione a catena, accogliere i migranti, e contemporaneamente limitare il loro numero per frenare reazioni sociali e politiche destinate a scaricarsi nelle urne? Perché dietro la parola Schengen non si può non vedere un populismo che galoppa e che ora si nutre anche della paura del terrorismo, non si può non scorgere il profilo di Marine Le Pen, non si può non pensare all’instabilità spagnola o al pericolo dell’uscita britannica dalla Ue. Così, da Amsterdam è uscita una indicazione che promette di rivelarsi lacerante: la libera circolazione di Schengen potrà essere sospesa da chi lo vorrà per un massimo di due anni con verifiche ogni sei mesi. Se la Commissione preparerà una base giuridica e il Consiglio europeo di febbraio approverà, torneranno controlli alle frontiere verosimilmente più numerosi di quelli già esistenti, ci saranno danni economici (si pensi alla circolazione dei Tir, dei lavoratori e dei viaggiatori in genere), ma in cambio i flussi migratori potranno essere, almeno nelle intenzioni, meglio controllati. Il problema è che le intenzioni, questa volta, somigliano fortemente a una foglia di fico. I Paesi che si avvarranno della clausola dei due anni saranno almeno sei, guidati dalla Germania. Altri si uniranno a loro. All’Est si preferirebbe la revoca, non soltanto la sospensione formale di Schengen. E i flussi migratori, a giudicare da quanto accade in queste ore in Siria e in Libia, non sono destinati a diminuire né tra uno né tra due anni. Il pericolo è dunque che Schengen, messo in naftalina senza ucciderlo, non trovi più le condizioni per risorgere e muoia sotto i colpi della geopolitica e della minaccia terroristica (proprio ieri Europol ha lanciato un nuovo allarme). È vero che le alternative, di volta in volta smentite ma tutte caldeggiate da questa o quella capitale, erano ancora peggiori. Una mini-Schengen carolingia avrebbe prefigurato un nocciolo duro europeo e sconvolto gli attuali assetti della Ue (quelli che ancora resistono). Un muro in Macedonia avrebbe in pratica espulso la Grecia dall’Europa e creato un disastro umanitario. E tuttavia anche la via che è stata scelta, oltre a somigliare molto a una condanna definitiva di Schengen, appare ingiusta verso l’Italia e verso la Grecia. La Germania o l’Austria, se lo vogliono, possono ristabilire i controlli alle loro frontiere terrestri. Ma l’Italia e la Grecia cosa dovrebbero fare, davanti a un barcone mezzo affondato e stracarico di umanità che tenta di raggiungere le loro coste? Dare l’altolà perché altrove Schengen è sospeso e lasciare che affoghino tutti? Se sarà circondata da frontiere con i controlli riattivati, l’Italia si troverà ad ospitare migranti bloccati sul suo territorio senza più varchi per andare altrove. Il che si traduce in una disparità di trattamento che l’Europa dovrà affrontare e che il governo di Roma dovrà denunciare, reclamando le necessarie correzioni che non si esauriscono con la moltiplicazione dei centri di identificazione (gli hotspots). È un caso tipico, questo, nel quale l’Italia ha ragione da vendere nei confronti di Bruxelles e di Berlino. Ma è difficile non pensare che si tratti anche di un insegnamento da applicare a polemiche recenti troppo mediatiche e non sostenute da un metodo negoziale adeguato alla realtà europea. Per quanto esso sollevi molti dubbi etici e politici, è tempo di togliere la nostra riserva sull’accordo con la Turchia che dovrebbe contenere la marea dei migranti. Occorre capire che una Merkel indebolita non aiuta l’Italia, e che una Merkel caduta sarebbe un grave danno per l’Italia. E poi, beninteso, occorre anche presentare con fermezza la nostra protesta sul futuro di Schengen, o su altri legittimi interessi nazionali. Può essere una fortuna che Matteo Renzi stia già facendo le valigie per andare a Berlino. Quel varco tra Macedonia e Grecia dove inizia la speranza dei profughi di Ettore Livini La Repubblica, 26 gennaio 2016 Idomeni è un imbuto, a rischio chiusura, lungo la rotta balcanica, qui nel 2015 sono transitati quasi 800 mila migranti in viaggio verso il nord del continente, soprattutto Austria e Germania. Ancora uno sforzo e Yasser Al-Mahmoud, con il suo saccone blu caricato sulle spalle, ce l’ha fatta. "Non sa da quanto tempo sognavo di passare da quella porta" dice sorridendo nel gelo del crepuscolo. Davanti a lui e ad Aisha, la figlia di sei anni, c’è il cancello metallico di due metri per due soffocato in un groviglio di filo spinato che ha visto mille volte su Facebook, nei post di altri rifugiati siriani come loro. È l’unico varco nel muro di rete metallica lungo che sigilla il confine tra Grecia e Macedonia a Idomeni. Un passo verso la speranza per Yasser ("Vado da mio fratello ad Hannover"). La frontiera da blindare ermeticamente per quel pezzo d’Europa che vuole cancellare Schengen fino a quando Atene "non avrà fatto i compiti a casa", parola del ministro degli interni tedesco Thomas de Maiziere. "Un po’ ce lo aspettavamo", ammette Yannis, poliziotto di 32 anni di Salonicco, da tre mesi in servizio al controllo documenti in un container a fianco dei binari della ferrovia. Idomeni è il collo di bottiglia lungo la rotta balcanica dei rifugiati. Qui sono transitati nel 2015 quasi 800mila rifugiati in marcia verso il Nord del continente. E questo imbuto a rischio chiusura è la fotografia plastica delle incomprensioni che fanno volare gli stracci in queste ore tra il Partenone e Bruxelles. "Fino all’estate scorsa, è vero, da queste parti funzionava il liberi tutti - ammette Johanna Friedman, 34enne volontaria di Medici senza frontiere che ha montato qui un campo d’emergenza per mille persone -. Chi arrivava, procedeva per la Serbia senza filtri. Ora le cose sono cambiate". "Facciamo passare solo siriani, afgani e iraniani. E solo quelli che vanno in Austria o Germania", spiega Yannis. All’Europa non basta. E la lista dei compiti a casa non fatti da Atene è lunga. Primo: gli hotspots, i centri di identificazione di migranti sulle isole, sono in ritardo. Il governo aveva promesso di aprirne cinque entro gennaio, invece oggi funziona solo quello di Lesbos. Leros e Chios arriveranno (se va bene) tra un mese. Samos a marzo, Kos è addirittura in stand-by. Secondo: Tsipras si era impegnato a garantire 50mila alloggi per i rifugiati. Invece niente. "Ogni giorno partono da Idomeni per Atene pullman carichi di marocchini, iracheni, palestinesi e pakistani respinti alla frontiera. I più fortunati vengono ospitati nel palazzetto olimpico di Taekwondo. Gli altri sono abbandonati al loro destino senza un tetto sulla testa". Ultimo segno blu sulla pagella ellenica: i ritardi nell’identificazione dei profughi. Sulle isole funzionano 70 macchine per rilevare impronte digitali. Ma lavorano male. Su 105mila persone sbarcate a dicembre, solo a 61mila sono state rilevate le impronte, una voragine che preoccupa le intelligence continentali visto che tre degli attentatori di Parigi sono arrivati nel continente mischiandosi ai migranti sbarcati a Leros. "Criticare è facile da Berlino. Qui abbiamo fatto miracoli - dice il poliziotto Yannis -. Siamo in crisi da cinque anni. Non abbiamo i soldi per curarci noi. Ma guardi cosa succede a Idomeni: la notte ci sono dieci gradi sotto zero. E decine di ragazzi, magari disoccupati, sono qui per far da mangiare e assistere i profughi. Gratis". Mouzalas, ministro dell’immigrazione, la pensa come lui: "Ci accusano ingiustamente. Se c’è qualcuno che non rispetta gli impegni è l’Europa". Prendiamo il "ricollocamento" dei migranti. La Ue si era impegnata ad accoglierne 160mila. Ad oggi dalla Grecia ne sono stati accettati 78. Atene, è vero, ha ricevuto 508 milioni di aiuti. "Ma sono briciole rispetto ai 3 miliardi girati alla Turchia che continua a mandare i barconi verso le nostre coste", protesta a Idomeni Heleni Papakonstantinou della Ong Praksis. Quando arriva qualche pretesa in più, poi, a Bruxelles fanno orecchie da mercante. Frontex non ha voluto farsi carico di spese e straordinari per i 1.535 poliziotti trasferiti sulle isole per l’accoglienza. "E ha garantito solo la metà delle persone che servono per pattugliare le coste" accusa Mouzalas. L’Europa litiga. Qui, nell’attesa di scoprire il colpevole, si muore. Nella notte tra domenica e lunedì c’è scappata una vittima dopo una rissa tra rifugiati esasperati a Euzoni, quattro chilometri dal confine con la Macedonia. Ben 149 persone sono affogate nell’Egeo da inizio anno. Yasser e Aisha, per fortuna, alle sei di ieri (pagato un biglietto da 25 euro a testa), erano su un treno. Direzione Belgrado e un futuro lontano dalla guerra. Caporalato: l’odissea dei bulgari schiavi nei campi calabresi per un euro all’ora di Giuliano Foschini La Repubblica, 26 gennaio 2016 Lavoravano dalla mattina alla sera senza mangiare. Uno di loro ha avuto il coraggio di raccontare tutto alla Finanza. La prima volta che hanno visto Lamerica è stata nell’angolo di questo stanzone della Guardia di finanza di Sibari. Una macchinetta con le luci accese. "L’ho riempita di monetine, tutte quelle che avevo in tasca. Hanno preso acqua, succhi di frutta e cioccolato. Ho dovuto convincerli che era soltanto un regalo, che per la prima volta avevano conosciuto un italiano che non chiedeva loro nulla in cambio. Mi hanno sorriso e hanno conservato tutto nella borsa. Poi, quando li abbiamo convinti a parlare, ho capito perché". A raccontare, mentre gioca nervosamente con le mani, torturando la fede, è un esperto militare del Comando. È stato lui, insieme ai suoi colleghi, a salvare la vita a tre ragazzi bulgari arrivati in Italia convinti di trovare fortuna. E invece hanno conosciuto questa cosa qui: "Ho 24 anni, sono bulgaro, mi chiamo D.N.", e le iniziali qui sono un genere di sopravvivenza. "Sono arrivato grazie a un mio connazionale che viveva a Corigliano e mi aveva detto che potevo trovare lavoro. Conoscevo già l’Italia e anche qualche parola della vostra lingua, perché ci vive mia madre". Corigliano, Cassano: la piana di Sibari è la più grande cassetta di clementini di Italia. "Ero venuto per raccogliere agrumi - continua - Avevamo pattuito, verbalmente, una paga da 25 euro al giorno che mi doveva essere corrisposta ogni settimana. Erano bei soldi". Settecento euro al mese per questi ragazzi sono molto più che Lamerica anche quando sono il corrispettivo di dieci ore di lavoro al giorno. Senza soste. Senza cibo. In realtà da quello stipendio vanno detratte una serie di spese: 80 euro per il viaggio dalla Bulgaria all’Italia, 100 euro per l’iscrizione nell’elenco dei lavoratori con tanto di rilascio del codice fiscale, 100 euro per l’alloggio, 100 per il vitto e 100 per il trasporto. Si parte con un debito di 500 euro almeno. E non fa niente che l’alloggio è una stalla, che l’acqua è fogna, il mangiare rifiuto, perché questi uomini vengono trattati molto peggio degli animali. "In questa maniera - spiegano gli uomini del tenente colonnello Sergio Rocco che hanno in piedi le indagini - i braccianti vengono messi nell’impossibilità di scappare". E infatti: "Ho lavorato per un mese - ha raccontato sempre D. - senza essere pagato. Mi dicevano che dovevo io dei soldi a loro. Ma non potevo mangiare. Ho chiesto quello che mi spettava. Mi hanno minacciato di morte, hanno sempre i bastoni per le mani. Poi mi hanno dato 20 euro per due giorni, ordinandomi di stare zitto e tornare a lavorare". Venti euro per venti ore di lavoro. Fa un euro all’ora. Poi è arrivata la Finanza. E, incredibilmente, D. non è scappato. E soprattutto non è stato zitto. Grazie al suo racconto, ieri, i suoi aguzzini sono stati denunciati: il bulgaro che gli ha trovato il lavoro ma anche i due italiani che lo hanno sfruttato e minacciato. Uno ha un precedente con la criminalità organizzata. Sostanzialmente, è uno ‘ndranghetista, non a caso i controlli rientravano proprio in un piano della Prefettura contro la criminalità organizzata. Dunque: schiavo straniero. Schiavista: italiano, mafioso. "Non è una cosa che ci sconvolge" ammette Giuseppe De Lorenzo, il responsabile della Camera del lavoro di Corigliano. "I rapporti tra i caporali e la criminalità organizzata sono strettissimi. Per questo, oggi, per noi è una giornata bellissima". Prego? "Finalmente qualcuno ha detto che il caporale è uno sfruttatore e commette un reato. Anche qui nella piana di Sibari dove invece questo fenomeno non è tollerato ma considerato assolutamente normale". I numeri sono incredibili: "Il 90% della forza lavoro lavora con i caporali. Parliamo di più di 20mila persone. Si guadagna 1 euro a cassa, 25 euro a giornata, da cui vanno sottratti i 5 per il trasporto. E se la legge dice che ne servono almeno il doppio, chissenefrega. Anzi". Anzi: a chi non lavora vengono versati contributi fittizi, in modo tale che possano poi usufruire dell’indennità di disoccupazione. Chi lavora, invece, riceve il pagamento in nero. Oppure comunque per metà del compito effettivamente svolto. "In questi anni denunciano, denunciamo, ma siamo sempre soli" continua De Lorenzo. In realtà una voce forte è quella della Chiesa. Quella del vescovo, don Ciccio Savino, che viene dalla Puglia e non ha mai paura delle parole. Da poco arrivato chiarì subito qual era il suo pensiero sul punto: "L’accoglienza non è mai un problema. Ma una risorsa. Ed è sull’accoglienza che si gioca la democrazia. Quando un fratello immigrato muore in un cantiere o perché è vittima di caporalato io non vedo che le voci si alzano per difendere chi è stato schiavizzato. Allora non al buonismo, non all’ingenuità". "Sente questo rumore?" dice un finanziere. È sera da un pezzo, i trattori hanno smesso di trafficare, la piana è affascinante. "C’è molto silenzio". Francia: dallo Stato di diritto al security State di Antonella Soldo Il Manifesto, 26 gennaio 2016 Hollande da un’emergenza all’altra. Il rischio, nemmeno tanto celato, è che le leggi d’eccezione modifichino irrimediabilmente, il volto della democrazia francese. "Quando lo stato d’eccezione diventa la regola tutto diventa possibile", sosteneva Walter Benjamin. Se questo è vero, non è affatto rassicurante la risposta che la Francia sta dando, sul fronte interno, agli attentati di Parigi - non dimentichiamo che il primo provvedimento è stato proprio la chiusura di Schengen. Com’è noto, dopo l’immediata dichiarazione di stato d’emergenza - che una norma dell’ordinamento francese permette di dichiarare per un tempo massimo di 12 giorni - lo scorso 19 novembre l’Assemblea nazionale ha approvato, con soli 6 voti contrari e un’astensione, una legge che ha prolungato per tre mesi questo istituto. E a fine febbraio, come preannunciato dal presidente Hollande, verrà richiesta un’ulteriore proroga di tre mesi. Intanto si sta cercando di rendere permanenti le disposizioni più significative, con il loro inserimento nel codice penale. Infatti, è al vaglio del Consiglio di Stato un progetto di legge che prevede un forte spostamento di poteri dal controllo giudiziario verso la polizia e le procure. In particolare, i pubblici ministeri potrebbero disporre di perquisizioni domiciliari, telecamere cimici e software senza l’autorizzazione di alcun giudice; le regole di ingaggio della polizia diventerebbero meno rigide (così come più semplice l’uso di armi da parte loro); la custodia cautelare senza avvocato sarebbe consentita fino a quattro ore; e, ancora - uno dei punti più controversi - la cittadinanza francese potrebbe venire revocata a cittadini con doppio passaporto condannati per terrorismo. Il rischio, nemmeno tanto celato, che questi provvedimenti portano con sé è quello di modificare, fino a compromettere irrimediabilmente, il volto della democrazia francese. E forse in un contesto segnato da un bisogno crescente e diffuso di sicurezza, rilevarlo, questo rischio, può apparire davvero un vezzo libertario, degno di qualche battaglia radicale (e non è un caso che sia proprio il Partito Radicale in Italia a richiamare il tema). Se non fosse che derogando a valori come le libertà fondamentali e le garanzie del diritto la Francia e l’Europa - come già gli Stati uniti del Patrioct act del 2001- non fanno che scivolare in una trappola letale. Lo ha spiegato bene il filosofo italiano, Giorgio Agamben che, in vari interventi sulla stampa francese, ha ricordato: la struttura che portò ai totalitarismi era una struttura di stato d’eccezione permanente. E tracciando così le linee di un confronto, quello tra i regimi totalitari e i provvedimenti di oggi, che può apparire retorico e persino usurato, ma che rivela tutta la sua efficacia se si guarda esclusivamente, come Agamben suggerisce, alla struttura giuridico-politica dello stato. In Germania i campi di sterminio sono stati possibili proprio grazie allo smantellamento dello stato di diritto: ben prima dell’ascesa di Hitler, dal 1919 al 1924, i governi di Weimar fecero ripetutamente ricorso alla dichiarazione dello stato d’eccezione, che conferiva ampi poteri al presidente del Reich e sospendeva gli articoli della costituzione concernenti garanzie fondamentali. Ovvero quelli sulla privazione della libertà personale, sull’inviolabilità del domicilio e della corrispondenza privata, sulla custodia preventiva, sulla libertà d’espressione e di stampa, su quella di manifestare e di associarsi e sul diritto alla proprietà privata. Ma che cosa prevede lo stato d’emergenza oggi in Francia? Dei provvedimenti che sembrano corrispondere puntualmente a quelli appena elencati: dichiarare il coprifuoco, interrompere la libera circolazione, impedire qualsiasi forma di manifestazione pubblica e chiudere locali. Consentire il controllo dei mezzi d’informazione e permette alle forze dell’ordine perquisizioni a domicilio senza autorizzazioni del giudice. Inoltre, con la proroga votata dall’Assemblea nazionale, si è stabilito di poter ricorrere al "domicilio coatto extragiudiziale" nei casi di persone giudicate pericolose ma senza elementi sufficienti per incriminarle; e di poter imporre il braccialetto elettronico. Sul trasferimento di poteri alla polizia e sulla custodia cautelare da rendere permanenti, si è già detto all’inizio. Ma va aggiunto che anche queste disposizioni richiamano altre norme della giurisprudenza eccezionale nazionalsocialista: quelle in base alle quali la gestione dei campi di sterminio veniva affidata a un corpo di polizia, le SS; e quelle per cui i campi stessi erano inseriti nel regime della Schutzhaft (letteralmente: custodia protettiva). Un istituto giuridico, quest’ultimo, classificato come misura di polizia preventiva che permetteva di prendere in custodia degli individui indipendentemente dalla rilevanza penale della loro condotta. L’ultima nota, la più estrema, va fatta sui provvedimenti che interessano la revoca della cittadinanza. Tutti gli ebrei sterminati nei campi erano stati prima privati di questo diritto. Oggi in Francia si discute di rendere permanente la perdita della cittadinanza francese per i cittadini con doppio passaporto condannati per terrorismo. Così, a parità di crimine, i francesi conserveranno la nazionalità i "binazionali" (musulmani) no. L’analogia, questa volta, si assottiglia quanto alle implicazioni, ma non si può nascondere che il nodo sia comune: quello della revoca della porta di ogni diritto. Spogliato di ogni forma di protezione, un cittadino resta null’altro che un corpo inerme. Esposto, nella sua nudità, a un potere poliziesco di vita e di morte. In definitiva, solo se si comprende questa particolare struttura giuridico-politica l’incredibile che nei campi è avvenuto diventa intelligibile e spiegabile. Ma proprio alla luce di queste considerazioni ci si dovrebbe interrogare in modo più drastico sugli accadimenti, le decisioni e i progetti politici dei giorni nostri. Rispondere a un’emergenza impoverendo e disattivando libertà fondamentali vuol dire imboccare una via senza ritorno. Ammesso che l’Europa vinca questa "guerra" - proprio così l’ha chiamata il presidente Hollande - i suoi stati non ne usciranno liberi e democratici come sono stati, nonostante tutto, finora. Essi saranno diventati, piuttosto, come dicono alcuni studiosi americani, dei security state: completamente incentrati su una diversa gestione degli effetti e un diverso esercizio del potere sugli uomini e sui corpi, ma assolutamente incapaci di incidere sulle cause. Ma un security state non è più uno stato di diritto. Libia: no di Tobruk al governo, frenata sul piano Onu e voli-spia sulle basi dell’Is di Vincenzo Nigro La Repubblica, 26 gennaio 2016 Bocciata la lista dei ministri: "Troppo lunga". Fronda dei fedelissimi di Haftar Un Boeing E-8 Usa da giorni in missione da Genova sul paese nordafricano. LA LIBIA entra in un nuovo girone del suo infinito caos politico. Ieri il Parlamento di Tobruk, l’assemblea di una delle due metà in cui è diviso il paese, ha approvato l’accordo politico proposto dall’Onu il 19 dicembre, ma poi ha clamorosamente bocciato il governo proposto dal premier Fayez Serraj. La lista dei ministri era stata proposta da Serraj dopo che il suo nome era stato accettato dai deputati di Tobruk volati in Marocco. Ma adesso che il governo è pronto, quegli stessi deputati di Tobruk hanno rifiutato di approvarlo. Chiedono a Serraj di presentare un governo più snello, massimo 20 ministri, perché anche in Libia dicono di volere una "spending review" e maggiore sobrietà. La verità è che quello di Tobruk è un vero colpo politico al governo di unità voluto dall’Onu. E c’è poi un secondo voto che è un colpo durissimo alla possibilità di accordo con Tripoli. Un colpo dettato chiaramente dai deputati rimasti vicini al generale Khalifa Haftar. Tobruk ha votato l’abolizione dell’articolo 8 della nuova Costituzione. Quest’articolo prevede che le decisioni sul settore militare vengano prese dal Consiglio di presidenza di 9 membri. La norma era stata contrastata sia da Haftar che dai suoi uomini nel Consiglio presidenziale, il vice- premier Alì al-Qatarani e il ministro Omar Aswad. Se davvero l’articolo 8 verrà eliminato, Haftar sarebbe sempre in grado di imporsi ai debolissimi leader politici. Senza addentrarsi nei dettagli procedurali di un paese che è ancora senza Stato ma ha 3 governi e 2 Parlamenti, c’è da notare che a questo punto la reazione di Tripoli al colpo di mano di Tobruk sarà prevedibile. Il governo e il Parlamento di questa città alzeranno a loro volta la posta, per permettere a chi oggi è presidente del Parlamento di Tripoli (Nour Abusahmin) o del governo di mantenere ancora per un po’ le loro poltrone. L’unica speranza viene da una possibile mossa delle Nazioni Unite. Ieri un sito di informazioni arabo citato dalla AdnKronos ha ripreso un’idea che circolava anche fra diplomatici italiani e dell’Onu. L’inviato Martin Kobler starebbe lavorando a un "piano B" per aggirare il sabotaggio di Tobruk. L’Onu organizzerebbe la convocazione dei soli parlamentari sostenitori dell’esecutivo Al-Serraj, legittimati non in quanto deputati eletti ma in quanto sostenitori dell’"Accordo politico" di Skhirat, che il parlamento di Tobruk comunque ha approvato. Una interpretazione forzata di quel testo potrebbe privare di legittimità di fronte all’Onu i deputati di Tobruk. Di fronte a tutto questo, le nazioni alleate guardano con preoccupazione sempre maggiore all’attivismo dello Stato islamico. Da giorni un velivolo americano "E-8", un grosso Boeing modificato, decolla dall’aeroporto di Genova per raccogliere tracce elettroniche ed elettromagnetiche sulla Libia. L’Italia, con una mossa precauzionale decisa da Palazzo Chigi, ha spostato da Treviso a Trapani 4 cacciabombardieri Amx. E insieme a Francia e Inghilterra ha avviato una serie di voli di ricognizione sulla Libia. L’obiettivo è tracciare un quadro delle basi dell’Is nel paese. Si diceva che "un intervento militare in Libia sarà possibile solo con un governo libico". Ma un governo vero potrebbe non esserci ancora per mesi. Libia: giungla di bande e tribù, ma un’alleanza con i libici serve per sconfiggere i jihadisti di Bernardo Valli La Repubblica, 26 gennaio 2016 Lo scenario. Un intervento militare straniero potrebbe aumentare il caos ed è temuto dalle grandi società petrolifere Ma ormai il problema che si pone è solo il "quando" e il "come". Non è più tanto in discussione se intervenire o meno in Libia. Il problema che si pone è quando e come. I militari della coalizione impegnata contro lo Stato islamico in Iraq e in Iran ormai da tempo ispezionano il terreno e valutano le forze da affrontare. Il generale Joseph F. Dunford, capo di stato maggiore americano, è stato esplicito: Barack Obama gli ha dato l’ autorizzazione ad agire. E la concertazione con gli alleati inglesi, francesi e italiani ha occupato l’intera scorsa settimana nelle varie capitali. Le ricognizioni clandestine, compiute da tempo, hanno consentito di stimare la presenza jihadista di Daesh (acronimo di Stato islamico) una minaccia crescente e senz’altro la più grave a ridosso dell’Europa. I terroristi sarebbero circa tremila e sarebbero in aumento da quando la Turchia rende più difficile il passaggio del confine ai volontari diretti in Siria e in Iraq, e quindi la Libia è diventata una spiaggia più raggiungibile. L’accesso dall’Africa subsahariana non presenta seri ostacoli. Lo Stato islamico ha già il controllo su quasi duemila chilometri di costa mediterranea, con Sirte, la città di Gheddafi, come capitale. Uno dei comandanti è Abu Ali al-Anbari, un iracheno un tempo ufficiale dell’esercito di Saddam Hussein. Anbari è arrivato dal Mediterraneo con una nave da crociera. Un altro capo conosciuto per le sue imprese in Medio Oriente, il siriano Abu Omar, occupa un posto di rilievo nella gerarchia militare della Sirte. Sempre secondo la Cia, Abu Nabil, un altro capo arrivato in Libia dalla Valle dell’Eufrate è stato ucciso durante un bombardamento americano. L’organizzazione militare jihadista si sta estendendo rapidamente. La conclusione del generale Dunford, venerdì scorso di passaggio a Parigi, è che non c’ è tempo da perdere. Ma l’azione militare deve avere l’autorizzazione del nuovo governo libico di unione nazionale, formato in dicembre in Marocco con l’accordo dell’Onu. E quel governo è stato bocciato ieri dal Parlamento di Tobruk che lo ha giudicato troppo numeroso (32 membri; quindi il primo ministro, Fayez el Sarraj, ha adesso una settimana di tempo per presentarne un altro più smilzo. Ma oltre al carattere pletorico del nuovo governo non andrebbe a genio ai deputati di Tobruk l’articolo dell’accordo raggiunto in Marocco secondo il quale sarebbero affidate a Serraj le funzioni di capo supremo dell’esercito libico. Il generale Khalifa Haftar che ha le sue milizie non è d’ accordo. E Haftar è potente. È uno degli avversari più efficaci dello Stato islamico. L’operazione libica si presenta complessa perché il paese è una giungla di tribù e di gruppi autonomi armati. Un intervento militare straniero potrebbe aumentare il caos. Invece di raccogliere, di unire le forze contro lo Stato islamico potrebbe provocare un rigetto dell’invasore straniero e infedele, e favorire gli islamici. O frantumare ancora di più il mosaico tribale o dei clan intensificando le rivalità. Non a caso le società petrolifere occidentali, che operano grazie ad alleanze con i vari gruppi armati, ai quali versano gli "affitti" dei pozzi di estrazione e delle pipelines dirette al mare, sono scettiche o contrarie a un intervento militare occidentale. Sono invece in favore di un’azione diplomatica paziente che cerchi di ricucire il paese lacerato. Nessun paese della coalizione pare comunque disposto a inviare corpi di spedizione. La tattica da adottare resta ovviamente segreta. Ma le guerre asimmetriche hanno insegnato che un esercito tradizionale riesce a spuntarla raramente nel confronto con bande armate che alimentano una guerriglia, che attaccano e fuggono, favorite dal terreno e dalla popolazione. La coalizione che si prepara punta quindi sulle incursioni aeree e su rapide operazioni di commando. Le quali avranno difficilmente risultati positivi in tempi rapidi senza un’ azione politica parallela. Il panorama politico libico è frastagliato. Oggi esistono di fatto tre principali autorità, se si escludono lo Stato islamico e i piccoli o medi gruppi armati che agiscono spesso autonomamente. C’è un governo di salvezza nazionale, un governo libico provvisorio e un governo di unione nazionale. Quest’ultimo, formato il 19 gennaio, e appena bocciato dal Parlamento di Tobruk, opera da Tunisi ed è presieduto da Fayez el-Serray, uomo d’affari tripolitano. Esso dovrebbe rappresentare un certo numero di regioni del paese in frantumi. Col tempo dovrebbe insediarsi a Tripoli. Dove però c’ è il governo di salvezza nazionale, appoggiato da milizie spesso islamiste poco disposte a cedere il posto. Il terzo governo, quello provvisorio di Baida, quando il parlamento di Tobruk avrà legittimato il governo di unione nazionale, potrà rinunciare al suo ruolo. Gli avvenimenti del 2011, che portarono alla fine del regime di Gheddafi, hanno sollevato polemiche. Molti rimpiangono il defunto, folle raìs, sostenendo che lui sapeva tenere unito il paese. In realtà quando l’aviazione anglofrancese aiutò i ribelli la secessione della Cirenaica era già un fatto compiuto e il regime si stava sfaldando, sotto l’influenza delle "primavere" d’Egitto e di Tunisia. L’ errore fu nel non guidare la transizione. Per la storia e la geografia l’Italia potrà difficilmente sottrarsi all’impegno che sembra profilarsi. Se non si presenteranno altre scelte, il solo suggerimento è quello di agire insieme ai libici alleati, e il più possibile attraverso un’azione politica. Ma i rischi restano inevitabili. Francia: contro la "radicalizzazione" dei detenuti sezioni speciali e corsi "anti-jihad" di Leonardo Martinelli Il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2016 Le prigioni sono diventate il principale luogo di affiliazione e di propaganda per l’integralismo. L’obiettivo è separare i carcerati dagli altri per impedire la "contaminazione". Dall’altra parte si punta al recupero, grazie a percorsi mirati che prevedono l’incontro con vittime, politologi e pentiti. Dopo gli attentati del gennaio 2015, i media francesi andarono subito a scavare nel passato di Amedy Coulibaly, autore del massacro all’Hyper Cacher, rimasto ucciso lì durante l’assalto delle teste di cuoio. Ebbene, quel giovanotto di periferia, di origini africane, era rimasto fino a un certo punto solo un delinquente come altri: a suo carico c’erano solo reati comuni di piccola taglia e una serie di andirivieni fra il carcere e la libertà. Ma nel 2005 a Fleury-Mérogis, il più grande carcere della regione di Parigi (e di tutta l’Europa), Coulibaly aveva incontrato Djamel Beghal, ex esponente del Gia, la brigata islamica integralista algerina. La sua vita era cambiata: si era "radicalizzato". Proprio analizzando i percorsi di Coulibaly e di altri jihadisti, le autorità francesi hanno capito che le carceri sono diventate uno strumento di affiliazione e di propaganda per l’integralismo. Bisognava intervenire. Dopo una lunga fase di preparazione, proprio oggi (lunedì 25 gennaio) sono state aperte due unità specifiche per carcerati radicalizzati (sia già condannati che in attesa di giudizio). L’obiettivo è separarli dagli altri, per impedire la "contaminazione". Ma si vuole anche analizzarli, valutarli e soprattutto cercare di allontanarli dal credo jihadista. A più riprese dal ministero della Giustizia si è espressa la volontà di non creare dei "Guantánamo alla francese" e di voler lasciar aperta la porta anche a un possibile recupero. Le due unità appena inaugurate si trovano a Osny, non lontano da Parigi, e a Lilla, nel Nord. A fine marzo altre due apriranno i battenti proprio all’interno di Fleury-Mérogis e una quinta a Fresnes, ancora non lontano da Parigi, che in realtà era già attiva dal 2014 a livello sperimentale. Ogni unità potrà accogliere una ventina di carcerati. Ma come individuarli? "Non sarà sufficiente avere un tappetino per la preghiera e una copia del Corano nella propria cella, per diventare un pericoloso proselita", ha sottolineato nei giorni scorsi Géraldine Blin, responsabile della lotta alla radicalizzazione per tutta l’amministrazione penitenziaria francese. Per scovare i detenuti da isolare nelle unità, verranno utilizzati soprattutto gli agenti che già rappresentano una sorta di intelligence all’interno del sistema carcerario: sono attualmente 159 ma tra pochi mesi diventeranno già 180 (contro i 70 appena che si contavano nel 2012). A gestire le unità, invece, personale interno, che è stato formato ad hoc negli ultimi mesi: un centinaio di persone, compresi anche psicologi. Questi detenuti "speciali" vivranno in celle individuali ma avranno l’obbligo di seguire quattro mezze giornate alla settimana di un programma intensivo, che comprende incontri con vittime del terrorismo, jihadisti pentiti e politologi. Si andrà avanti per sei mesi, al termine dei quali si valuterà chi potrà ritornare con i delinquenti comuni e chi invece dovrà restare lì isolato dagli altri. Già c’è chi critica, ovviamente, il nuovo sistema, giudicandolo insufficiente rispetto alle necessità, dato che si valutano fra i 700 e i 2mila i detenuti già radicalizzati. Intanto, proprio in questi giorni decollerà una nuova misura di prevenzione delle derive integraliste. Un altro dei fenomeni riscontrati è l’apparire di casi di persone con simpatie jihadiste nelle amministrazioni pubbliche. Samy Amimour, uno dei kamikaze del Bataclan, ad esempio, era stato autista della Ratp, la società di trasporto pubblico di Parigi. Ebbene, una nuova legge ora in discussione in Parlamento (e che sarà discussa domani, martedì, in seconda lettura al Senato), prevede l’introduzione di "deontologi" per la lotta alla radicalizzazione nell’amministrazione dello Stato. Si tratterà di dipendenti che riceveranno un’apposita formazione. E che dovranno raccogliere le segnalazioni di colleghi con comportamenti strani e decidere di volta in volta come affrontarli. Saranno i grandi ospedali, innanzitutto, ad avere i loro deontologi anti-jihad, ma progressivamente si estenderà la pratica anche ad altri contesti. Proprio nella Ratp, a Parigi, sono stati segnalati diversi casi di autisti che non vogliono rivolgersi alle donne che salgono nell’autobus. Perché, secondo loro, l’Islam non lo consente. Stati Uniti: Obama vieta l’isolamento in carcere per giovani con reati minori La Repubblica, 26 gennaio 2016 E la Corte suprema stabilisce la retroattività della legge che proibisce l’ergastolo per i minorenni. In un intervento apparso sul Washington Post, il presidente Usa Barack Obama ha annunciato una serie di azioni esecutive che vietano nelle prigioni federali di punire con il regime di isolamento i giovani detenuti che hanno commesso reati minori. Le nuove norme mirano anche ad espandere il trattamento per i prigionieri mentalmente malati. Secondo Obama, la prassi dell’isolamento è usata eccessivamente e comporta devastanti conseguenze psicologiche che minano anche il reintegro nella società. La riforma, che dovrebbe interessare circa 10 mila di carcerati, arriva sei mesi dopo che Obama, come parte di una più ampia riforma della giustizia penale, aveva ordinato al ministro della giustizia di studiare come è usato l’isolamento dal sistema penitenziario. "Come possiamo sottoporre i prigionieri ad un isolamento non necessario, conoscendo i suoi effetti, e poi aspettarci che tornino nelle nostre comunità come persone integre?", scrive Obama. "Questo non ci rende più sicuri. E" un affronto alla nostra comune umanità", aggiunge. L’iniziativa viene vista come un altro tentativo del primo presidente afro-americano di affrontare delicate questioni legate alla razza e alla giustizia criminale prima di concludere il suo secondo mandato. Spero, ha spiegato, che tali riforme a livello federale servano come modello agli Stati per ripensare le loro norme in materia. Un crescente numero di studi dimostra una connessione tra prigionieri che hanno vissuto l’esperienza dell’isolamento e tassi più alti di recidività. Intanto c’è stata oggi un’importante decisione della Corte costituzionale americana in materia di detenzione dei minori. Può applicarsi retroattivamente la sentenza della corte suprema Usa del 2012 che vieta come anti costituzionale il carcere a vita per un minore: lo ha deciso la stessa corte, accogliendo il ricorso di un detenuto che aveva 17 anni quando uccise un vice sceriffo in Louisiana. La decisione apre una speranza a numerosi prigionieri condannati all’ergastolo prima del 2012 per un crimine commesso quando non avevano ancora la maggiore età. Svizzera: ci sono 6884 carcerati, numero leggermente diminuito rispetto al 2014 tio.ch, 26 gennaio 2016 Calano anche i minori collocati al di fuori della famiglia per ragioni penali. Il 2 settembre scorso erano 6884 gli adulti detenuti negli istituti di pena di tutta la Svizzera. Lo rileva l’Ufficio federale di statistica (UST), che indica che rispetto all’anno precedente c’è stata una diminuzione di 15 unità. Nel giorno di riferimento per il 2015 si contavano 3673 detenuti adulti condannati all’esecuzione di pene e misure, ovvero 15 in meno rispetto al 2014. 2725 persone si trovavano in stato di carcerazione preventiva o di sicurezza oppure in esecuzione anticipata della pena. 316 stranieri si trovavano in carcerazione preventiva e in vista d’espulsione, mentre l’anno precedente erano 328. 83 carcerati ogni 100mila abitanti - Nel 2015 erano detenute 83 persone ogni 100’000 abitanti, un dato che colloca la Svizzera nel terzo inferiore della graduatoria dei Paesi europei. Il tasso è più elevato nella Svizzera latina, con 109 detenuti ogni 100’000 abitanti, seguita dalla Svizzera orientale (77 detenuti) e dalla Svizzera nordoccidentale e centrale (68 detenuti). Più carcerati negli ultimi 15 anni - Tra il 1999 e il 2015 il tasso di detenzione è salito complessivamente del 18% in tutta la Svizzera (1999: 5844, 2015: 6884). Particolarmente marcato è stato l’aumento nella Svizzera latina (56%). Nella Svizzera nordoccidentale e centrale l’effettivo è salito del 6%, mentre in quella orientale è sceso del 2%. Prigioni latine sovraffollate - Per quel che riguarda il Concordato sull’esecuzione delle pene e delle misure della Svizzera orientale, il tasso di occupazione era dell’85%, mentre per il Concordato sull’esecuzione delle pene e delle misure della Svizzera centrale e del Nord Ovest era dell’88%. Per il concordato della Svizzera latina, gli istituti penitenziari presentano un sovraffollamento, con un tasso del 108%. Meno minori collocati - Erano 433 i minori che all’inizio di settembre si trovavano collocati al di fuori della famiglia per ragioni penali. Un dato in netto calo rispetto al 2010: sei anni fa, il numero complessivo di collocamenti presso terzi era il doppio. Il dato per il 2015 è in calo per la quinta volta consecutiva, e la diminuzione rispetto all’anno precedente è del 10%. Le cifre comprendono i giovani collocati preventivamente - ovvero già durante lo svolgimento di un’indagine - e quelli per i quali il collocamento è consecutivo ad una sentenza. Provvedimenti stazionari in calo - Anche nel 2015 si è affermata la tendenza al calo dei giovani collocati presso terzi in seguito a una sentenza, con un -18% rispetto all’anno precedente. "Questo dipende principalmente dal fatto che sempre meno giovani sono condannati a un provvedimento stazionario. Le sentenze riguardanti giovani condannati a provvedimenti stazionari sono scese del 70% tra il 2010 al 2014. I provvedimenti ambulatoriali sono proporzionalmente molto più frequenti rispetto al passato. Nel 2010, le sentenze comportanti un provvedimento ambulatoriale erano 2,4 volte più importanti delle sentenze con un provvedimento stazionario, mentre nel 2014 il rapporto era di 5,7". I maschi sono il 90% - Nove collocati su dieci, riferisce ancora l’Ust, sono di sesso maschile e di età di almeno 16 anni. Il 70% dei giovani collocati presso terzi per ragioni penali si trovava in istituti aperti, il 10% in istituti chiusi. Un altro 7% si trovava in osservazione stazionaria. Il 96% dei minori collocati presso terzi faceva parte della popolazione residente permanente (62% svizzeri, 34% stranieri con libretto B, C o Ci). Stati Uniti: evasi tre detenuti a Los Angeles, è caccia all’uomo swissinfo.ch, 26 gennaio 2016 È caccia all’uomo in California dopo una fuga spettacolare di tre pericolosi detenuti da un carcere di massima sicurezza nell’area metropolitana di Los Angeles. I tre si sono dati alla fuga calandosi dal tetto con le lenzuola. Le guardie si sono accorte con ritardo che tre persone mancavano all’appello a causa di una finta lite inscenata da altri detenuti per facilitare la fuga. Sono passate ben 16 ore prima che scattasse l’allarme. Secondo quanto dichiarato dalle autorità, gli evasi sono riusciti a procurarsi degli attrezzi con i quali hanno scavato un foro nel muro tra i letti a castello di un dormitorio dove c’erano altri 60 detenuti. Poi sono riusciti a raggiungere un’area non sorvegliata sul tetto della prigione e da lì si sono calati giù per quattro piani con corde realizzate con le lenzuola. Si tratta della prima fuga dopo oltre 20 anni in quel carcere. La prigione è stata costruita nel 1968 e ospita circa 900 detenuti. Fbi e Us Marshals hanno offerto una taglia di 50 mila dollari a chiunque fornisca elementi per catturare i tre evasi. Cina: rilasciato attivista svedese, accusato di aver addestrato avvocati senza licenza Ansa, 26 gennaio 2016 Il governo cinese ha rilasciato e immediatamente espulso Peter Dahlin, il cittadino svedese accusato di aver addestrato e finanziato avvocati senza licenza nel paese per prendere in carico casi contro il governo. Il portavoce dell’ambasciata svedese Sebastian Magnusson ha confermato che Dahlin ha lasciato la Cina ma non ha potuto fornire ulteriori dettagli. Dahlin è apparso la scorsa settimana sul canale televisivo Cctv in un video di 10 minuti nel quale ha fatto quella che è stata descritta come una confessione di aver violato la legge cinese. Dahlin era stato arrestato il 3 gennaio scorso mentre si stava recando all’aeroporto di Pechino. L’ambasciata svedese ha diffuso un comunicato nel quale dice di stare cercando chiarimenti sulle accuse a carico di Dahlin e di un altro cittadino svedese detenuto. Romania: se il detenuto-scrittore per uscire dal carcere paga un ghostwriter di Andrea Tarquini La Repubblica, 26 gennaio 2016 Scrivi un libro in cella, e ti guadagnerai la libertà. Sembra quasi una versione moderna della vendita delle indulgenze, invece è legge in Romania. Chi si dedica a opere scientifiche o informative può avere uno sconto di pena di 30 giorni per ogni volume. Appare un’idea discutibile e insieme meritevole. Ma cela l’inganno. Lo sospettano le autorità romene che, nella guerra ai corrotti lanciata dal presidente Klaus Iohannis e dalla Dna, Direzione nazionale anticorruzione, hanno indagato sui libri scritti in prigione. Per scoprire casi di opere scritte da ghostwriter su commissione: una truffa che coinvolge detenuti eccellenti, ovviamente ricchi, magari finiti in carcere proprio per provenienza illegale del patrimonio. Non è facile scrivere un libro nelle dure prigioni romene: i detenuti non hanno accesso a biblioteche né a internet, spesso in cella manca persino un tavolo. Eppure i media narrano storie incredibili. Quella di un volume scientifico di 212 pagine che sarebbe stato scritto dal carcerato in questione (il nome viene taciuto) in appena sette ore. O di un’altra opera ad alta velocità: dodici ore per 180 pagine. La possibilità di ottenere condoni di pena scrivendo, paradossalmente, fu inventata dalla dittatura di Nicolae Ceausescu per i molti intellettuali imprigionati e incapaci di lavoro manuale. Fino a poco tempo fa, erano pochi i casi di volumi redatti in cella. Ma nel 2014, dicono le autorità anticorruzione, sono saliti a ben 90 libri, e l’anno scorso il loro numero è salito in modo sospetto a ben 340. Magistratura e Dna indagano, il pubblico vede nella storia una triste conferma della corruzione dilagante. "I cosiddetti libri scientifici scritti in galera" afferma alla "Associated Press" Laura Stefan, presidente della ong Think tank, "hanno a che fare con la ricchezza dei detenuti, non con il loro presunto talento. Il boom di libri che nascono nelle celle è un fenomeno collegato al numero di persone ricche che finiscono in prigione". Possono pagarsi buoni avvocati, e anche buoni scrittori ombra. Alcuni di loro - come Gigi Becali, ex europarlamentare condannato anni fa a tre anni e mezzo di reclusione per truffe nella compravendita di terreni, rapimenti e partite truccate - ha ammesso di recente di non aver scritto i quattro libri con cui ha ritrovato in anticipo la libertà. E se qualcuno i libri in cella li scrive davvero, sono spesso plagi. Ma questo secondo aspetto della vendita letteraria delle indulgenze sorprende meno. Anche perché ad esempio l’ex premier Victor Ponta fu riconosciuto da autorità accademiche colpevole di aver copiato la tesi di dottorato. Il suo partito cercò invano di cambiare le leggi in merito. Altro caso esemplare, Sorin Rosca Stanescu, ex senatore condannato per associazione a delinquere: ha scritto tre libri in cella, ora è docente specializzato sul problema della corruzione nei media.