Metti una sera a cena… Ingalera di Francesca Rapanà Il Mattino di Padova, 25 gennaio 2016 Un’idea da esportare anche a Padova, perché è un esempio di come dovrebbe essere la pena: non "far marcire" le persone in carcere senza far niente, ma accompagnarle in un percorso di cambiamento che abbia al centro lo studio, il lavoro, una crescita culturale vera. Entrare nel ristorante "Ingalera", inaugurato a settembre scorso nel carcere di Bollate (vicino a Milano), forse disorienta di più chi con il carcere ha già familiarità, per motivi lavorativi o vicende personali rispetto a chi il carcere non lo conosce affatto. Giovedì scorso Ornella, Bruno e io (per la redazione di Ristretti Orizzonti) siamo andati a Milano per intervistare Massimo Parisi, direttore della Casa di Reclusione di Milano-Bollate e ne abbiamo approfittato per fermarci a cena presso il ristorante Ingalera. Parlavo di stupore perché proprio chi il carcere lo frequenta, conosce anche le limitazioni e le rigidità di alcune procedure, nate per garantire la sicurezza in un certo momento, ma poi diventate consuetudini, della cui reale necessità ed efficacia nessuno si interroga più. Ci presentiamo, curiosi e affamati alle 19.30 in punto davanti al carcere: per i clienti del ristorante c’è un’entrata riservata gestita dagli studenti della sede esterna dell’istituto alberghiero Paolo Frisi (presente dal 2012 all’interno del carcere con una sezione per detenuti), che aspettano i clienti all’ingresso e li accompagnano al ristorante. Non ci sono agenti, non è richiesto il nome, né documenti; non dobbiamo lasciare, come solitamente accade, borse, cellulari o altro; non ci sono metal detector. Ci guardiamo un po’ straniti e ci facciamo condurre all’ingresso del ristorante. Entriamo e veniamo accolti da Silvia Polleri, da tempo amica di Ristretti, Presidente di Abc La sapienza in tavola, cooperativa sociale che gestisce da anni un servizio di catering di alto livello per aziende e privati. Dall’incontro tra questa esperienza e Pwc Italia, che si occupa di servizi alle imprese e coltiva da tempo l’idea di un ristorante sociale, viene progettato Ingalera, lanciato poi anche grazie al supporto di altri soggetti (Fondazione Cariplo, Ministero della Giustizia, l’Istituto Alberghiero Paolo Frisi, la Fondazione Peppino Vismara). Il ristorante aperto a pranzo e a cena coinvolge uno chef e un maître "esterni" e per il resto, sia in sala che in cucin, ci sono persone detenute. Collaborano anche studenti dell’Istituto alberghiero, che vengono qui a fare lo stage, che diventa quindi un’esperienza dal doppio valore formativo: dal punto di vista della crescita professionale e da quella personale, avvicinando gli studenti a conoscere il carcere e le persone che ci vivono. Certamente un aspetto fondamentale del progetto è il reinserimento lavorativo delle persone detenute, che imparano un lavoro professionale dalle sicure prospettive, ma l’aspetto dirompente, come ci fa notare Silvia Polleri, è un altro: "Per la prima volta non è il carcere a chiedere un servizio alla città, ma è il carcere che offre un servizio, invitando la popolazione ad un insolito salto del muro di cinta al contrario". Il carcere è sempre di più un luogo separato dalla società, che finge di non vederlo, e dalle città, visto che i carceri moderni sono costruiti lontano dai centri urbani. Il carcere quindi non si vede e, a meno che uno non sia obbligato ad andarci o ci lavori, non ha motivo di entrarci. Qui invece la gente, chiaramente mossa anche dalla curiosità, viene per mangiare e per mangiare bene, per fare qualcosa che con il carcere, i reati, le pene, non ha niente a che vedere. Ma inevitabilmente, entrando in un ristorante all’interno di un carcere, le persone si avvicinano a questa realtà, non possono non vedere, si fanno e fanno delle domande e soprattutto danno un volto alle persone detenute, umanizzandole. Dice sempre Silvia Polleri "È fondamentale che la società capisca che chi è qui dentro è parte della società stessa. Una volta un mio detenuto, dopo un evento importante aperto all’esterno, mi ha chiesto: "ma lo avranno capito che non abbiamo due teste?". Intanto si avvicina Giuseppe per portarci dell’acqua e al volo gli facciamo qualche domanda. Anche lui conferma "Qui è bellissimo, tutta un’altra aria, un’altra dimensione, proprio un’altra vita, rispetto a stare chiuso in carcere. Hai la possibilità di vedere la società esterna, anche il rapporto con il cliente all’inizio mi spaventava, pensavo che sarebbero stati un po’ freddi, un po’ intimoriti. Invece no! Sono molto socievoli, tutti molto accoglienti e mi trattano non da detenuto, ma da persona". Non so dire perché, ma si respira un clima davvero accogliente. Il ristorante è realmente bello, estremamente curato nei dettagli, le pareti sono colorate e ospitano locandine di film che raccontano storie di carcere, di banditi e di perdita della libertà, come Fuga da Alcatraz, Le ali della libertà, La grande fuga. Anche le sbarre alla finestre sono gentili, non sono le classiche sbarre verticali, ma ricordano quelle che si possono trovare in qualsiasi abitazione a piano terra e ci sono vasi e fiori. Il personale di sala è elegantissimo ed estremamente professionale, accorto, ma discreto, si assicura che tutto vada bene. Silvia ci dice che oggi è la prima volta che le persone detenute che lavorano sono da sole, perché il maître ha avuto un contrattempo. Si vede che li ha preparati bene, perché il servizio è impeccabile. Il menù a cena è sofisticato, da ristorante di livello che farebbe sfigurare molti locali del centro. Chi conosce il carcere immagina la fatica che c’è dietro ad un progetto così innovativo, le difficoltà che ha trovato sul proprio cammino chi questo ristorante lo ha voluto e il coraggio di chi ci ha creduto e ha voluto sostenerlo anche a costo di attirare critiche e malumori. Però la sfida è vinta, Bollate è sì un laboratorio di innovazione, ma è un carcere a tutti gli effetti, ci sono circa millecento detenuti che hanno pene medio-alte da scontare, e i problemi di gestione di una struttura imponente, che vengono affrontati non perpetuando modelli dati per scontati, ma cercando risposte nuove con l’obiettivo sempre chiaro che la pena deve tendere alla rieducazione e al reinserimento. Quando noi abbiamo finito di mangiare, il ristorante ormai è pieno, anche questa sera, un giovedì di gennaio, è tutto esaurito. È ora di andare, salutiamo Silvia e il personale, usciamo dal ristorante e ci avviamo da soli all’uscita del carcere. Non ci sono agenti né gli studenti dell’alberghiero, è tutto incredibilmente "normale". Attraversando il parcheggio interno c’è un viavai di clienti che si confondono con le persone detenute che rientrano in carcere dopo una giornata di lavoro. Ci guardiamo ancora straniti e ripartiamo. Il ristorante è aperto dal lunedì al sabato, dalle 12 alle 14 e dalle 19.30 alle 22. Per prenotazioni 334/3081189 - ingalera.it. L’illusione di rinnovare la politica con l’antipolitica di Giovanni Orsina La Stampa, 25 gennaio 2016 La politica è in crisi in tutto l’Occidente, e in tutto l’Occidente da quella crisi nascono movimenti cosiddetti populisti: movimenti che si propongono di rinnovare la politica eliminando le attuali classi dirigenti, poiché le considerano corrotte e incompetenti, attingendo alle virtù profonde del popolo, e rappresentandolo in maniera "autentica". All’interno di questa crisi globale, la crisi italiana è più profonda ancora, e dura da più tempo. Perché? L’Italia è per tradizione un Paese iper-politico: da noi la politica ha sempre pesato più che altrove. Basta sfogliare un quotidiano italiano e uno francese o inglese e contare le pagine dedicate alla politica interna per rendersene conto. Al contempo, però, nella Penisola il tasso di fiducia nelle istituzioni pubbliche è sempre stato molto basso. Questi due parametri - la politica per un verso sta "in alto", per un altro è fragile - contribuiscono a spiegare perché, quando fra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta sono cambiati il mondo e l’Europa, i meccanismi e soggetti della nostra vita pubblica sono crollati in maniera così fragorosa. La crisi di Tangentopoli, non c’è dubbio, aveva radici più che reali nel finanziamento illegale dei partiti e nella corruzione. In quella vicenda, tuttavia, ha agito anche, e in misura non piccola, l’ansia degli italiani di esorcizzare le proprie paure di fronte alla fine di una stagione storica, e di negare qualsiasi responsabilità per la grande festa dei diritti acquisiti, dei privilegi diffusi e della spesa pubblica scriteriata che aveva preso avvio negli anni Sessanta - e per la quale era giunto il momento pagare il conto. Con Tangentopoli la politica è diventata insomma un capro espiatorio. E ci si è illusi che, sacrificato il capro, ogni debito sarebbe stato rimesso. In quegli anni, così, si sono cristallizzate due convinzioni. La prima, che la politica fosse all’origine di ogni male, e che bastasse modificarne i meccanismi per rimettere d’incanto e di colpo in piedi l’Italia. La seconda, che cambiare la politica implicasse negarne l’autonomia, le logiche e regole specifiche, sottraendola ai politici di professione e affidandola a qualcun altro - agli imprenditori, ad esempio, o ai magistrati. Il berlusconismo, com’è evidente, è nato da queste convinzioni: la guida del Paese andava affidata a chi veniva dalla "trincea del lavoro"; la politica doveva essere meno intrusiva e ideologica; doveva costare molto di meno, e soprattutto gestire una quota di gran lunga inferiore dei soldi degli italiani. Seguendo questa ricetta, sarebbe fiorito senz’altro il "nuovo miracolo italiano". Ma anche nella sinistra antiberlusconiana, che pure è stata meno strutturalmente antipolitica del berlusconismo, quelle convinzioni hanno avuto un peso. Basti pensare all’uso politico della morale e della legalità. A partire dal 1994, insomma, sia la destra sia la sinistra hanno messo le vele al vento dell’antipolitica. Speravano in quel modo di navigare verso un nuovo assetto politico stabile e virtuoso. Ma la speranza si è rivelata vana - non da ultimo perché le due barche sfruttavano correnti distinte di quel vento, e volevano approdare in porti assai diversi. E gli ultimi vent’anni hanno confermato gli italiani nella convinzione che la politica è non soltanto inutile, ma dannosa; hanno alimentato illusioni promettendo soluzioni miracolistiche, rapide e indolori; e hanno generato immense frustrazioni e delusioni quando i miracoli poi - e come avrebbero mai potuto? - non si sono concretizzati. È così sorprendente, date queste premesse, che alle scorse elezioni politiche i grillini abbiano preso un quarto dei voti? Il Movimento, in fondo, non ha fatto altro che portare la logica dell’antipolitica alle sue estreme conseguenze, inseguendo l’utopia della completa eliminazione dell’intermediazione e degli intermediari. Ma da questa storia scaturisce pure Renzi. Con una strategia non così diversa da quelle della destra e della sinistra degli anni 1994-2011: sfruttare i temi e le retoriche dell’antipolitica per ricostruire la politica. La grande differenza fra Renzi e i suoi predecessori è che quelli erano due gruppi in feroce concorrenza l’uno con l’altro, e si sono paralizzati a vicenda - lui invece è solo. C’è soltanto da sperare che, grazie alla sua solitudine, abbia maggior successo di loro. E che, una volta ricostruita un po’ di politica, gli nasca contro un’opposizione decente. La strada in salita dei valori di Federico Geremicca La Stampa, 26 gennaio 2016 Se Matteo Renzi, battezzando il 2016 "anno dei valori", sperava di aprirsi il cammino lungo un sentiero meno impervio rispetto al 2015, "anno delle riforme", bene: gli sono bastate un paio di settimane per aver conferma che le cose non stanno proprio così. Le tante e affollate "piazze arcobaleno" di sabato scorso e il prevedibile successo che avrà il Family day - indetto per quello prossimo - sono lì a dimostrarlo. Il tema dei cosiddetti diritti civili, infatti, sarà magari tra i meno sentiti nella "cittadella della politica" (come dimostrano, per altro, gli imbarazzanti ritardi accumulati su questo fronte) ma interessa e coinvolge i cittadini in maniera diretta e appassionata, trattandosi di questioni che segnano e scandiscono la loro vita quotidiana. Ed è per questo che le "due Italie" che simbolicamente si contrappongono in piazza sul tema delle unioni civili, a distanza di sette giorni l’una dall’altra, reclamano con urgenza da governo e Parlamento risposte chiare e, soprattutto, definitive. Non sarà una gatta facile da pelare, diciamolo subito. I 6 mila emendamenti già presentati in Senato - e tesi a correggere il disegno di legge Cirinnà - non lasciano presagire nulla di buono. In più, il ricorso al voto segreto e il fatto che due dei maggiori gruppi presenti a palazzo Madama (Pd e Forza Italia) abbiano deciso di lasciare libertà di coscienza ai propri senatori, rendono ardua la tradizionale professione di ottimismo: non solo circa l’effettiva approvazione della legge, ma anche riguardo al testo che potrebbe venirne fuori. Se a ciò si aggiunge che quasi tutti i partiti risultano divisi al proprio interno, il quadro è chiaro: e nient’affatto rassicurante. Il milione di cittadini italiani, che sabato hanno riempito le "piazze arcobaleno", reclamano però una risposta. Per ora, quella di Renzi e del Pd è chiara: la legge non è rinviabile e il testo Cirinnà non si cambia, nemmeno nel contestatissimo articolo riguardante la cosiddetta stepchild adoption (la possibilità, all’interno di una coppia gay, di adottare il figlio del partner). E’ una linea che non solo non convince tutti nello stesso Pd, ma che ha spaccato la maggioranza di governo e spinto il Vaticano a far sentire la sua voce. In più, da sabato prossimo ci sarà - presumibilmente - almeno un altro milione di cittadini che chiederà a governo e Parlamento cose decisamente diverse - se non opposte - a quelle delle "piazze arcobaleno". Per Matteo Renzi un passaggio nient’affatto semplice, e in una settimana che già si presenta - unioni civili a parte - densa e delicata. Domani, infatti, va al voto in Senato la mozione di sfiducia al governo per il caso Banca Etruria; giovedì inizia (sempre a Palazzo Madama) la corrida sul disegno di legge Cirinnà, e il giorno dopo Renzi dovrà volare a Berlino per l’atteso e delicatissimo faccia a faccia con l’"amica" Angela Merkel. Appuntamenti certo delicati e dall’esito non scontato: ma che non possono distrarre governo e Parlamento dalla necessità di colmare, stavolta, una lacuna etica e legislativa insopportabile in un Paese moderno e civile. L’"anno dei valori" si apre, insomma, all’insegna dello scontro e delle difficoltà. E a voler andar avanti su questo sentiero (eutanasia, ius soli, legge sull’omofobia) non è che all’orizzonte s’intravedano passaggi semplici. Renzi può lamentare - come in altri campi - il gravosissimo lascito ereditato dalle precedenti classi dirigenti: ed è vero che all’ombra dello strumentale ritornello secondo il quale con le riforme e l’affermazione dei nuovi diritti "non si mangia", il Paese ha accumulato in questa materia ritardi tali da farne fanalino di coda in Europa. Ma così stanno le cose. E se non stessero così, del resto, non ci sarebbe stato bisogno, al governo, di un leader che prometteva di "cambiare verso" ad un Paese prostrato ed arrabbiato. La politica (sbagliata) dei toni alti di Paolo Mieli Corriere della Sera, 25 gennaio 2016 Tanto più le classi dirigenti esibiscono i propri successi, tanto meno a queste manifestazioni di autostima corrispondono lodi degli interlocutori. E viceversa. Venerdì prossimo Matteo Renzi incontrerà Angela Merkel e verrà il momento di fare il punto sullo stato delle relazioni tra Italia, Germania (ed Europa). Già si può immaginare il modo in cui andrà a concludersi: come sempre accade dopo le tempeste, si prenderà atto che i rapporti tra i due Stati sono "eccellenti", che qualche problema rimasto sul tappeto è "in via di soluzione", talché i giornali del giorno seguente racconteranno di "successo" del summit. Sarà più utile, perciò, soffermarci a osservare qualcosa di apparentemente laterale, cioè posture e toni che caratterizzeranno quella riunione. Quelli della Merkel possiamo dire di conoscerli in anticipo: flessibili, quantomeno in apparenza, e garbati. Più imprevedibili saranno quelli del nostro presidente del Consiglio che negli ultimi tempi si è esibito in un crescendo di veemenza laddove ha ribadito in più occasioni che il nostro Paese non si presenta più "con il cappello in mano", che quando è in campo l’Italia (cioè lui) "non ce n’è per nessuno", che pretendiamo "ciò che ci spetta" e cose simili. Sono toni non nuovi nella storia d’Italia, che hanno precedenti nelle fasi più instabili del nostro passato e che quasi mai hanno prodotto esiti all’altezza degli enunciati. Dapprincipio, dopo il 1861, le nostre classi dirigenti furono più sorvegliate nel coniugare la retorica risorgimentale con i propositi di affermazione e di grandezza. Anche perché le brucianti sconfitte di Lissa e Custoza nella terza guerra di indipendenza (1866) inducevano ad una qualche prudenza. Alla fine degli anni Settanta, mentre uscivano di scena i grandi che avevano guidato la stagione in cui si era fatta l’unità d’Italia, gli stili e il piglio cambiarono. Mentre il Paese si avviava alla stagione del "trasformismo", forse per compensazione alle difficoltà politiche interne, le voci cominciarono ad alzarsi. Il povero ministro degli Esteri Luigi Corti - un ex diplomatico con ottime credenziali - reo di aver enunciato al congresso di Berlino (1878) la saggia politica delle "mani nette", cioè della non partecipazione alla corsa coloniale, fu sommerso di contumelie. Insulti che presto trovarono qualcuno pronto ad "interpretarli": il console italiano a Tunisi, Licurgo Macciò, mobilitò armatori e imprenditori per conquistare posizioni nella terra del Bey. Risultato? La Francia si allarmò e nel 1881 con un colpo di mano impose il suo protettorato sulla Tunisia. Le voci in Italia contro la politica delle "mani nette" (presentate adesso come "mani vuote") si alzarono al massimo, ne fu travolto il governo guidato dall’ultimo dei fratelli Cairoli, Benedetto, e da quel momento i nostri politici si dovettero cimentare con le idee di grandezza messe in campo dai più intransigenti, da intellettuali e soprattutto da poeti del calibro di Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli (in contrasto con la sua cifra poetica), fino agli eccessi di Gabriele D’Annunzio. Mai più un’Italia "con il cappello in mano". Francesco Crispi, deciso a farsi valere, tentò l’avventura africana e ne fu travolto con la sconvolgente sconfitta di Adua (1896). A Giovanni Giolitti andò meglio con la guerra di Libia (1911) ma solo perché nell’immediato furono in pochi a misurare il rapporto tra costi (altissimi) e benefici (pressoché inesistenti) di quell’impresa. Poi quando lo stesso Giolitti si mostrò più esitante all’idea di far entrare l’Italia nella Prima guerra mondiale, mancò poco che venisse linciato. Inutile aggiungere qualcosa sull’uso che di quella retorica avrebbe fatto Benito Mussolini. Nel nome dell’orgoglio italico il nostro Paese prese parte ai due conflitti che nel Novecento sconvolsero il pianeta, uscendone ammaccato e la seconda volta ferito quasi a morte. Di seguito, iniziò la stagione migliore della nostra storia, quella del secondo dopoguerra, impersonata nella fase iniziale da Alcide De Gasperi. Stagione che produsse un "patriottismo sobrio" atto a favorire un trentennio di clamoroso sviluppo civile ed economico. D’incanto i politici italiani compresero come fosse disdicevole presentarsi nei consessi internazionali battendo i pugni sul tavolo, fare la voce grossa, manifestare in eccesso il loro orgoglio. E quanto più si abbassava il tono delle loro voci, tanto più cresceva la loro reputazione. "Questi italiani hanno un magnifico appetito, ma pessimi denti", aveva ironizzato il cancelliere Bismarck molti anni prima. Adesso invece arrivavano elogi sempre crescenti e non solo dai Paesi alleati; dagli incartamenti segreti venuti alla luce emerge un’equazione che ha il carattere di un dato scientifico: tanto più le classi dirigenti si sentono in dovere di esibire i propri successi, di svelare l’intimità a loro concessa dai partner internazionali, di magnificare le sorti dell’Italia al momento in cui governano (o hanno governato), tanto meno a queste manifestazioni di autostima corrispondono lodi degli interlocutori. E viceversa. Con le crisi degli anni Settanta l’epoca virtuosa di cui si è detto volse al termine e nel decennio conclusivo della prima Repubblica fu la volta di leader, chi più chi meno, propensi a cantare i propri successi sulla scena mondiale. Negli ultimi vent’anni poi quel vizietto italico è riemerso nei modi presenti alla memoria di chi non ha dimenticato Silvio Berlusconi e qualche suo oppositore. Adesso la tentazione di insistere nell’assunzione di posture baldanzose appare di nuovo forte. Soprattutto nei modi (e non solo quelli della politica) di rivolgerci alla Germania, un Paese che prima e dopo la riunificazione ha realizzato qualcosa che porterà tutti i suoi leader, da Adenauer alla Merkel, ad avere un posto d’onore nei libri di storia. Qualcuno, certo, può cedere alla tentazione di compiacersi per inciampi, come lo scandalo Volkswagen o il capodanno di Colonia, che sono lì a raccontarci come anche i tedeschi abbiano problemi da risolvere. E questo qualcuno può pensare di conseguenza che ci si possa presentare a Berlino con una qualche baldanza. Ma non è saggio. Un debito e una spesa pubblica come i nostri ci mettono in condizioni peggiori di quanto fossero quelle di oltre un secolo fa quando avevamo alle spalle Lissa e Custoza. E per quel che riguarda i nostri successi, il ruolo nuovo che abbiamo conquistato nel consesso internazionale, aspettiamo che siano gli altri a prenderne atto. Le lodi che ci diamo da noi, valgono poco. Anzi, niente. Legge Pinto: strategia di attacco sull’arretrato di Carmine De Pascale Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2016 Calano le pendenze per il civile e il debito complessivo per la legge Pinto si attesta a oltre 400milioni di euro. Secondo la relazione del Ministro della giustizia Andrea Orlando - presentata al Parlamento il 20 gennaio scorso - gli affari civili nel 2015 hanno fatto registrare una consistente contrazione delle pendenze: dai 4,5 milioni del 2014 si è passati infatti a 4,2 milioni dello scorso anno, con una riduzione di ben 327mila cause. Anche se la produttività della "macchina" nel suo complesso non è aumentata: sempre nel 2015 le definizioni si sono attestate sui 3,8 milioni senza crescere, imputando così la flessione delle pendenze solo ai "fascicoli" in ingresso, che sono stati nello stesso periodo pari a 3,5 milioni. La "palla al piede" dell’arretrato - Nella dinamica, dunque, in calo dei procedimenti giudiziari appare una "piccola luce", che fa diminuire il "debito della giustizia italiana" dovuto al suo mancato funzionamento e rappresentato dal costo degli indennizzi della legge 89/2001, già oggetto di recenti interventi con l’articolo 1, comma 777, della legge di stabilità del 2016. Nella sostanza la Relazione di Orlando alle Camere - che anticipa la cerimonia di inaugurazione in Cassazione, prevista il 28 gennaio prossimo - individua un rapporto positivo legato alla diminuzione delle liti pendenti (327mila in meno) e i minori esborsi per la legge Pinto, che secondo la relazione ministeriale a giugno 2015 ammontavano a oltre 450 milioni di euro. Un solo esempio per capire l’impatto positivo di questa equazione: in Corte d’appello i ricorsi pendenti per la ex legge Pinto sono scesi di 10mila unità, ciò significa una marcata "riduzione del 27,6% rispetto all’anno precedente". Piano Strasburgo 2: calendarizzazione delle pratiche e priorità - Ebbene, per uscire dall’emergenza si punta tutto sull’abbattimento dell’arretrato, da realizzare attraverso un miglioramento dell’organizzazione del lavoro all’interno degli uffici giudiziari. La frase d’ordinanza è "calendarizzazione delle cause da decidere": in altre parole l’individuazione delle "pratiche" che hanno una assoluta priorità di discussione in relazione alla loro anzianità di iscrizione. Nella sostanza, la punta di diamante di questa strategia è il "Piano Strasburgo 2", presentato dai tecnici di Via Arenula nell’agosto 2015, un progetto che consentirà - secondo il Ministro Orlando - di contenere la durata dei procedimenti e di diminuire l’impatto della legge 89/2001 sui fascicoli più vecchi. La Stabilità e il restyling della Pinto - Sul piano normativo con la legge 208/2015 il legislatore ha operato, ancora una volta, un restyling della legge n. 89 del 2001. Infatti, il comma 777 della "Stabilità" ha messo a disposizione degli operatori del diritto dei "rimedi preventivi", ossia degli strumenti endo-processuali da utilizzare nei processi (civile, penale, amministrativo, contabile, tributario) per accelerarne la definizione e, così, ridurne la durata. Si tratta di rimedi particolarmente importanti: se la parte non li promuove nel suo processo, ove questo, alla fine, abbia avuto durata irragionevole, è precluso il diritto a ottenere un indennizzo ex legge Pinto. Una impostazione interpretativa in contrasto con l’orientamento di Cassazione (da ultimo, Cassazione civile, sentenza 5 gennaio 2016 n. 47: "la previsione di strumenti sollecitatori non sospende né differisce il dovere dello Stato di pronunciare sulla domanda in caso di omesso esercizio degli stessi, né implica il trasferimento sul ricorrente della responsabilità per il superamento del termine ragionevole per la definizione del giudizio"). Legge Pinto: con la Legge di Stabilità giro di vite sugli indennizzi di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2016 Maglie sempre più strette per ottenere gli indennizzi della legge Pinto. Per avere diritto all’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo non basta aver subito un danno patrimoniale o non patrimoniale, ma si deve dimostrare di avere promosso tutti i rimedi preventivi che le nuove disposizioni prevedono proprio per evitare che nel processo non sia rispettato il termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. La legge di Stabilità 2016 (legge 208/2015), con il comma 777 del suo unico articolo, ha trasformato la legge 24 marzo 2001 n. 89, nota come legge Pinto. Varata per evitare che si moltiplicassero i ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo e le conseguenti condanne dello Stato italiano per i processi-lumaca, la legge 89/2001 costituiva un rimedio interno tutto concepito in chiave meramente riparativa. Si voleva cioè garantire al cittadino quell’indennizzo che altrimenti avrebbe richiesto al giudice europeo. L’aumento vertiginoso dei procedimenti di equa riparazione aveva già indotto il legislatore a porre un primo argine alle domande di equa riparazione con il decreto legge 83/2012 (convertito con modificazioni nella legge 134/2012). Venivano in particolare stabiliti i casi in cui comunque non poteva essere richiesto l’indennizzo, i termini entro i quali era da considerarsi comunque ragionevole la durata dei processi e i limiti minimi e massimi entro i quali andava commisurata la riparazione. Ora, con il dichiarato intento di "razionalizzare i costi conseguenti alla violazione del termine di ragionevole durata dei processi", la legge di Stabilità ridisegna la legge Pinto per favorire la prevenzione dello sforamento dei termini di durata dei processi. Viene introdotto un articolo 1-bis, secondo il quale la parte di un processo, prima ancora di avere diritto alla riparazione del danno da irragionevole durata, già in pendenza del giudizio ha diritto ad esperire rimedi preventivi alla violazione dell’articolo 6 della Convenzione. In realtà questo diritto è un onere. Perché il diritto alla riparazione sorge solo se la parte ha subito il danno, pur avendo esperito i rimedi preventivi. E l’articolo 2, comma 1, della legge Pinto, che in origine prevedeva il riconoscimento del diritto all’equa riparazione, viene sostituito con una norma processuale, secondo la quale va dichiarata inammissibile la domanda proposta da chi non abbia esperito i rimedi preventivi nel processo del quale si lamenta l’irragionevole durata. È il nuovo articolo 1-ter a stabilire per ciascuna tipologia di processo quale sia il rimedio preventivo da esperire. Nei processi civili basta introdurre il giudizio nelle forme del rito sommario di cognizione di cui agli articoli 702-bis e seguenti del Codice di procedura civile. Se non lo si è fatto o se si è stati convenuti in un giudizio da altri nelle forme ordinarie (e quindi all’inizio non si è potuto scegliere), costituirà rimedio la richiesta di passaggio al rito sommario entro l’udienza di trattazione o comunque almeno sei mesi prima della scadenza del termine fissato come ragionevole dall’articolo 2 comma 2-bis (tre anni in primo grado, due in secondo grado, uno in Cassazione). Per le cause in cui non può procedersi con il rito sommario, comprese quelle in appello, varrà come rimedio l’istanza di decisione a norma dell’articolo 281-sexies del Codice di procedura civile (cioè con discussione orale e decisione contestuale con motivazione succinta letta in udienza), da proporre sempre almeno sei mesi prima della scadenza del termine ragionevole. Nel processo penale il rimedio è il deposito dell’istanza di accelerazione sei mesi prima della scadenza del termine ragionevole. Nel processo amministrativo analoga funzione ha la presentazione dell’istanza di prelievo. L’istanza di accelerazione è prevista anche nel procedimento contabile dinanzi alla Corte dei conti, nei giudizi di natura pensionistica e in quelli davanti alla Corte di cassazione. Nei giudizi di legittimità, visto che il termine ragionevole è pari a un anno, il deposito dell’istanza di accelerazione va fatto due mesi prima della scadenza dell’anno. Le norme non si applicano ai giudizi presupposti conclusi prima del 1° gennaio 2016 o che avranno superato i termini ragionevoli al 31 ottobre 2016. Illeciti depenalizzati: fedina pulita e portafoglio vuoto di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 25 gennaio 2016 La depenalizzazione imbocca due strade, che portano la prima davanti a un funzionario amministrativo e la seconda davanti al giudice civile. Molti reati cambiano pelle e si trasformano alcuni in illeciti amministrativi e altri, invece, in illeciti civili. La manovra attuata con la riforma approvata dal governo il 15 gennaio scorso è doppia. Da un lato, abbiamo la depenalizzazione classica con subentro di sanzioni amministrative (quindi abbiamo sempre una p.a. che punisce, ma senza intaccare la libertà personale e, comunque, fuori dal circuito delle aule penali); dall’altro lato assistiamo a una manovra da gambero: un passo indietro delle autorità penali, per lasciare (criticamente si potrebbe dire: abbandonare) il campo e la vittima a farsi le proprie ragioni in una causa civile per ottenere il risarcimento del danno, salvo, poi, fare un mezzo passo avanti e incassare (o tentare di incassare) una aggiuntiva sanzione punitiva, disposta dal giudice civile a favore dello stato. I due decreti legislativi (il n. 7 e il n. 8, pubblicati sulla G.U. n. 17 del 22/1/2016) in commento si possono considerare da più punti di vista, ma hanno un tratto in comune: alleggerire il carico di lavoro delle procure e dei tribunali. A parte questo e, con un occhio agli effetti della riforma, il responsabile scansa condanne ed effetti penali, ma, se viene beccato dalla p.a. (titolata a irrogare la subentrata sanzione amministrativa) oppure se viene condannato a risarcire il danno e a pagare l’aggiuntiva sanzione per il nuovo illecito civile, non è detto che sia un bene, perché la sanzione amministrativa o l’importo del danno, aumentato della sanzione civile, rischia di essere pesante sul portafoglio. Se però la condotta illecita non emerge (perché la p.a. non la scopre o perché la vittima non promuove un’azione civile), per il responsabile sarà un colpo di spugna. D’altra parte il successo della deterrenza di una reazione sanzionatoria (penale, amministrativa o civile) dipende dalla effettività della reazione e cioè dal rapporto tra illeciti commessi e illeciti sanzionati. Anche per le sanzioni amministrative e civili, il sistema avrà successo se riuscirà a reagire (e a dare tutela alla collettività e alla vittima) in tutte o quasi tutte le volte, che verrà commesso un illecito. Anzi è proprio questo un argomento a favore delle riforme: il sistema penale non ce la fa e certi illeciti rimangono solo sulla carta, la persona offesa non ne ha alcun beneficio e, anche quando si arriva a una condanna a pena pecuniaria, lo stato, con spese sproporzionate per irrogare la sanzione e organizzare la riscossione, riesce a incassare solo 6/7 euro su 100. Tanto vale, è la filosofia dei due procedimenti, ottenere almeno un risultato economico: spendere meno risorse per indagini e processi penali; tanto vale scommettere sul fatto che l’autorità amministrativa sarà più efficiente e che il cittadino abbia voglia e soldi per iniziare una causa civile, scommettendo ancora una volta sull’efficienza della giustizia civile. Certo per misurare l’effettività di una riforma (anzi due) bisognerà attendere un lasso di tempo per potere computare un primo bilancio. Nell’immediato, e senza dover aspettare, ci sono comunque effetti oggettivi. Sono effetti favorevoli ai responsabili coinvolti in procedimenti penali, che traggono vantaggio dalla depenalizzazione (è già un beneficio) e che forse in futuro subiranno una sanzione amministrativa oppure una causa per danni più sanzione civile punitiva. La sanzione (derubricata) viene rinviata e il responsabile (non solo profitta del rinvio) ma ha già subito un tornaconto nel fatto che non ci saranno conseguenze sul piano dell’onorabilità (la fedina penale non viene toccata: è come prendere una multa per avere parcheggiato in sosta vietata), non si subiranno indagini e processi penali. Per i procedimenti pendenti ci sono effetti sfavorevoli per le vittime: magari avevano la sicurezza che qualcosa si era mosso o che, addirittura, per esempio, il procedimento aveva già prodotto una rinvio a giudizio e ora cade tutto e bisogna, se si vuole ottenere qualcosa, ricominciare da capo. C’è, poi, dal lavoro da fare per le procure e i tribunali penali: bisogna fare il passaggio di consegne all’autorità amministrativa e comunque chiudere i procedimenti per reati derubricati in sanzioni civili. È l’ultimo atto da compiere (per il sistema penale), anche se ci vorrà un bel po’ di tempo, ma lo si farà sapendo che non c’è più un flusso di procedimenti in entrata. Nell’immediato, per i reati depenalizzati in illeciti amministrativi, le autorità amministrative dovranno gestire (dedicando risorse e personale) il flusso in entrata sia delle pendenze di procure e tribunali sia organizzare l’accertamento e la repressione di fatti commessi dopo la riforma. Sempre nell’immediato, se la riforma dei reati trasformati in illecito civile avesse followers, ci sarebbe da lavorare per chi ha un ruolo nella soluzione delle controversie civili (avvocati, tribunali civili, organismi di mediazione, ecc.). Come saranno puniti i reati. Le nuove sanzioni amministrative si articolano in tre fasce: - da 5.000 a 10.000 euro per i reati puniti con la multa o l’ammenda non superiore nel massimo a euro 5.000; - da 5.000 a 30.000 euro per i reati puniti con la multa o l’ammenda non superiore nel massimo a 20.000 euro; - da 10.000 a 50.000 euro per i reati puniti con la multa o l’ammenda superiore nel massimo a 20.000 euro. In genere si tratta di sanzioni più alte delle precedenti penali. Tuttavia, ai fatti commessi prima della data di entrata in vigore del dlgs non può essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato. Il procedimento è regolato dalla legge del 1981 n. 689, e quindi la sanzione viene irrogata con una ordinanza ingiunzione. Per i ricorsi contro le ordinanze si applica il dlgs 150/2011. I procedimenti pendenti. Le sanzioni amministrative sono retroattive: si applicano anche ai reati commessi prima dell’entrata in vigore del dlgs e non ancora giudicati con sentenza definitiva. Tre le ipotesi. La prima è che non sia pendente nessun procedimento. In questo caso il fatto verrà accertato e sanzionato dall’autorità amministrativa con l’applicazione della sanzione amministrativa. Se il procedimento pendente è già stato definito, prima dell’entrata in vigore della depenalizzazione, con sentenza di condanna o decreto irrevocabili, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e vengono meno gli effetti penali della stessa. Se, invece, il procedimento è pendente presso l’autorità giudiziaria e non ancora definito, i fascicoli dovranno essere trasmessi all’autorità amministrativa competente entro 90 giorni. A meno che non sia già decorso il termine di prescrizione del reato. A quel punto l’autorità amministrativa inizia il procedimento per applicare la sanzione pecuniaria amministrativa. Equa riparazione: termine per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2016 Processo equo - Termine ragionevole - Opposizione al decreto ex art. 5 ter della l. n. 89/01 - Termine per la notifica al resistente del ricorso - Perentorietà - Esclusione - Conseguenze. Nel procedimento di equa riparazione per durata irragionevole del processo, l’opposizione di cui all’art. 5 ter della l. n. 89/01 dà luogo a un procedimento camerale pertanto il termine assegnato per la notificazione del ricorso non ha carattere perentorio e, laddove quest’ultima risulti omessa o inesistente, il giudice, in difetto di spontanea costituzione del resistente all’udienza fissata nel decreto deve fissare un nuovo termine per la notifica. • Corte cassazione, sezione VI - 2, sentenza 15 settembre 2015 n. 18113. Processo equo - Termine ragionevole - Durata irragionevole del processo - Equa riparazione - Ricorso - Termine per la notifica del ricorso e dell’unito decreto di fissazione dell’udienza. In materia di equa riparazione per durata irragionevole del processo, il termine per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza alla controparte non è perentorio, non essendo previsto espressamente dalla legge. Il giudice può, nell’ipotesi di omessa o inesistente notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza, in difetto di spontanea costituzione del resistente, concedere al ricorrente un nuovo termine, avente carattere perentorio, entro il quale rinnovare la notifica. • Corte cassazione, sezioni Unite, sentenza 12 marzo 2014 n. 5700. Processo equo - Termine ragionevole - Opposizione al decreto di rigetto ex art. 5 ter della l. n. 89/01 - Onere dell’opponente di notificare ricorso e decreto di fissazione dell’udienza - Sussistenza - Inosservanza - Conseguenze. Nel procedimento di equa riparazione per durata irragionevole del processo, l’opposizione al decreto di rigetto, a norma dell’art. 5 ter della l. n. 89/01, apre una fase contenziosa, soggetta al rito camerale, sicché l’opponente deve notificare all’amministrazione controinteressata il ricorso e il decreto di fissazione dell’udienza entro un termine idoneo ad assicurare l’utile esercizio del diritto di difesa; tuttavia, non essendo questo termine perentorio, se la notifica è omessa o inesistente, può concedersi all’opponente un nuovo termine, perentorio, affinché vi provveda. • Corte cassazione, sezione VI - 2, sentenza 10 aprile 2014 n. 8421. Processo equo - Termine ragionevole - Termine per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione della camera di consiglio - Perentorietà - Esclusione. In tema di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo, il termine per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza alla controparte non è perentorio e, pertanto, è ammessa la concessione di un nuovo termine, posto che la l. n. 89/01, all’art. 3, si limita a prevedere il termine dilatorio di comparizione di quindici giorni per consentire la difesa all’Amministrazione, e ricollega, all’art. 4, la sanzione dell’improponibilità della domanda soltanto al deposito del ricorso oltre il termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza che ha concluso il procedimento presupposto. • Corte cassazione, sezione VI - 1, sentenza 8 maggio 2012 n. 7020. Mezzi di prova: riconoscimento fotografico durante le indagini preliminari Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2016 Prove - Mezzi di prova - Riconoscimento fotografico nel corso delle indagini preliminari - Successiva ricognizione personale effettuata dal medesimo testimone ma con esito negativo in dibattimento - Prevalenza del primo atto. In tema di riconoscimento fotografico effettuato nella fase delle indagini preliminari, cui segua, nel corso del dibattimento, una ricognizione personale effettuata dal medesimo testimone, con esito negativo, potrà essere riconosciuta maggiore valenza probatoria all’atto compiuto nella fase delle indagini preliminari soltanto nel caso in cui emergano concreti elementi che il testimone sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità con la finalità di condizionare l’esito dell’atto ricognitivo, in applicazione della disciplina prevista per le contestazioni dall’art. 500 cod. proc. pen. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 27 ottobre 2015 n. 43294. Prove - Riconoscimento fotografico effettuato nel corso delle indagini preliminari - Mancata rinnovazione in dibattimento - Acquisizione del fascicolo fotografico sottoposto al teste - Necessità. Ai fini della valutazione del riconoscimento fotografico compiuto nel corso delle indagini preliminari e non rinnovato in sede dibattimentale è necessaria l’acquisizione agli atti del fascicolo fotografico sottoposto all’esame del teste. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 21 novembre 2014 n. 48428. Prove - Mezzi di prova - Riconoscimento fotografico positivo - Successiva ricognizione personale negativa - Valenza probatoria. Al riconoscimento fotografico smentito da una successiva ricognizione personale operata dalla stessa persona non possono essere attribuiti attendibilità ed efficacia probatoria superiori rispetto alla seconda, a meno che quest’ultima non risulti, da precisi elementi processualmente emersi, effetto di "violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità" posto che il regime delle contestazioni è applicabile anche alla ricognizione. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 2 marzo 2011 n. 8272. Prove - Mezzi di prova - Difformità tra risultato del riconoscimento fotografico dinanzi alla P.G. e ricognizione personale in dibattimento - Prevalenza del primo - Condizioni. Qualora sussista discrasia tra l’esito della ricognizione fotografica eseguita dinanzi alla polizia giudiziaria e quello della ricognizione personale esperita nel corso del dibattimento, la possibilità di ritenere prevalente il primo sul secondo è subordinata alla ricorrenza delle condizioni indicate nell’art. 500, comma 4, cod. proc. pen., e cioè alla sussistenza di elementi concreti per ritenere che il testimone sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di danaro o di altra utilità affinché non deponga ovvero deponga il falso. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 31 marzo 2003 n. 14855. Con le parole per vivere un mondo senza odio di Agnese Moro La Stampa, 25 gennaio 2016 In questo periodo spesso ascoltiamo e usiamo parole che invitano all’odio. Ce lo fa notare una bella iniziativa, #Nohatespeech, dell’associazione Carta di Roma (cartadiroma.org/) che ci propone anche di sottoscrivere una petizione (su change.org) perché siano bandite dai media tradizionali e dal la rete espressioni che incitano all’odio e alla violenza. "Non è solo un problema di addetti ai lavori - scrive Domenica Canchano, direttore del periodico dell’Associazione - è una "battaglia" di civiltà in cui ogni coscienza libera da pregiudizi può e deve fare la propria parte". E si può lavorare sulle parole anche perché queste favoriscano incontri un po’ improbabili. È quanto sta facendo a Parma la cooperativa sociale Sirio (www.siriocoop.it), presidente Patrizia Bonardi, con il laboratorio socio narrativo "La manomissione delle parole", dal titolo dell’omonimo libro di Gianrico Carofiglio, che prenderà anche lui parte al progetto. Si tratta di parole importanti: vergogna, giustizia, ribellione, bellezza, scelta. Il progetto vede coinvolti anche gli Istituti Penitenziari di Parma, la Facoltà di Scienze Sociali, il Liceo delle Scienze umane "Albertina Sanvitale", il Liceo Artistico "Paolo Toschi", la redazione radiofonica "Non ci sto più dentro". Come lavorerete, chiedo. "Il punto di riferimento - dice Giuseppe La Pietra responsabile formazione della cooperativa - sarà per tutti il libro di Carofiglio e ciascun gruppo lavorerà in modo laboratoriale e autonomo sulle parole. Nei mesi di marzo e aprile ci saranno poi degli incontri nel teatro del carcere fra gli studenti e i partecipanti detenuti del reparto di alta sicurezza As1 (a Parma è la prima volta); si confronteranno sulle parole, a partire dai rispettivi vissuti". Aggiunge Giuseppe: "Lo stesso Carofiglio e altri ospiti faranno da facilitatori fra questi "mondi" che s’incontrano". E questo anche grazie all’impegno della direzione del carcere e di agenti e operatori. E gli studenti dell’artistico? "Il Toschi - aggiunge La Pietra - partecipa con una classe serale, studenti adulti, che interpreteranno le parole etimologicamente, pittoricamente e graficamente, ridando loro un senso autentico e soggettivo. L’esito finale sarà condiviso in un unico incontro con tutti gli altri partecipanti". Il materiale dei confronti e dei laboratori sarà raccolto e darà vita a una pubblicazione. Liguria: educare alla legalità, la nuova campagna sociale di TgR Rai targatocn.it, 25 gennaio 2016 Conoscenza e rispetto delle regole, diritti di cittadinanza e parità di genere, principi di solidarietà e convivenza civile, il codice della strada e la tutela dell’ambiente, i rischi per la salute e i pericoli del web, le sostanze e il bullismo. Sono gli argomenti della nuova campagna sociale della Testata Giornalistica Regionale della Rai, che per tutta la settimana vedrà impegnate tutte le redazioni d’Italia. Un gigantesco reportage, una prova concreta di servizio pubblico. Interlocutori naturali sono i giovani nel loro rapporto con la scuola e con le agenzie educative o comunque di aggregazione sul territorio: le associazioni, il volontariato, i luoghi dello sport e della cultura, le occasioni di confronto fra pari e con gli adulti. TgR Liguria comincerà con la diretta durante Buongiorno Regione di domani lunedì 25 gennaio e chiuderà con il Settimanale di sabato 30 interamente dedicato al tema dell’educazione alla legalità. Prima tappa e primo tema l’accoglienza e la condivisione vissute nell’Istituto comprensivo di Sestri Ponente, poi i ragazzi più grandi del Bergese; gli alunni dell’Alessi di Pegli spiegheranno il progetto di un Parco per le giovani vittime delle mafie, con i liceali del Viesseux di Imperia si parlerà di sana gestione della cosa pubblica. Ogni giorno gli spazi informativi della TgR (Buongiorno Regione, tre edizioni del Telegiornale e altrettante del Giornale radio) ospiteranno personaggi significativi e racconteranno grandi e piccole ma importanti storie: il nipote del giudice Scaglione ucciso dalla mafia nel 1971; la coppia di docenti che ha scritto il Codice etico per una scuola di Cornigliano e ora adottato in tutta Italia; le Scuole della pace che la Comunità di Sant’Egidio porta ovunque (fra le altre, l’esperienza del Cep); i bambini della Garaventa che lavorano per sostituire i loro disegni alle scritte che imbrattano i muri della loro scuola; l’impegno dei Vigili Urbani di Alassio che hanno organizzato una serie di incontri con centinaia di studenti del Ponente; la continua ricerca da parte delle Forze dell’ordine di un rapporto concreto e diretto con i giovani: dai carabinieri di Sanremo alla Polstrada di Genova, alla Polizia postale concentrata sulla rischiosa attualità dei pericoli informatici; con il Coni di Savona e le settimanali "lezioni" in classe dei giocatori dell’Entella si parlerà di lealtà nell’agonismo e pulizia nella pratica sportiva. TgR Liguria andrà anche (con il Tg itinerante del giovedì) nella villa di Sarzana che la Magistratura ha sequestrato alla criminalità organizzata e ha consegnato a Libera e altri gruppi impegnati sul territorio; con gli operatori del Sert e i volontari delle associazioni di quartiere si valorizzerà l’immenso e capillare lavoro di strada, quotidianamente mirato a proporre alternative praticabili anche nelle situazioni più difficili. Il contributo di giornalisti e tecnici della Sede regionale per la Liguria costituirà, insieme a quanto faranno i loro colleghi di tutte le redazioni d’Italia, uno straordinario patrimonio di conoscenza e cultura della legalità. La campagna è stata ufficialmente presentata a Roma nei giorni scorsi dal direttore Vincenzo Morgante e dal direttore generale Antonio Campo Dall’Orto. In questi giorni è stata costantemente ricordata da spot trasmessi in tutte le edizioni di Tg e Gr regionali. Pisa: uccisa da un malore a 26 anni, era in carcere per il tentato furto di una bicicletta di Francesca Gori Il Tirreno, 25 gennaio 2016 Era nella sua camera al carcere don Bosco, dove era arrivata per scontare una condanna a un anno, la scorsa estate. Aveva già percorso metà di quella strada che l’avrebbe vista presto libera. Aveva già attraversato due stagioni quando, il giorno dell’ultimo dell’anno, si è sentita male. Si è accasciata e il personale dell’istituto penitenziario si è accorto subito che le sue condizioni erano molto gravi. Nella struttura c’è anche un servizio medico, ma Clelia stava molto male ed è stata portata subito all’ospedale Cisanello dove è stata ricoverata nel reparto di Rianimazione. È rimasta lì, sospesa tra la vita e la morte per più di dieci giorni. I medici hanno fatto di tutto per salvarle la vita ma il suo giovane cuore ha smesso di battere. Clelia se n’è andata spalancando un abisso di dolore nella vita di suo padre e di sua madre che per settimane hanno sperato che la loro unica figlia si salvasse. Clelia Fini era stata arrestata a luglio dalla polizia, dopo che era stata trovata in una cabina del telefono in piazza della stazione. Due settimane prima aveva tentato di rubare una bicicletta e il giudice per le indagini preliminari aveva disposto i domiciliari. La ragazza però, quella domenica d’agosto era uscita lo stesso da casa e, quando aveva visto arrivare la volante della polizia, aveva cercato di nascondersi nella cabina. Per lei si erano aperte le porte del carcere di Pisa dove scontare quella condanna. Poi, una volta fuori, avrebbe ripreso la sua vita di ventiseienne e avrebbe anche ricominciato a coltivare la sua grande passione per i cani che aveva ereditato dal padre. Stava facendo il suo percorso e lo stava anche facendo bene. A casa sarebbe tornata in estate, se il suo cuore non avesse battuto male il tempo proprio il giorno dell’ultimo dell’anno. La Procura di Pisa ha aperto un fascicolo per accertare se vi siano state o meno responsabilità. Se qualcuno abbia sbagliato qualcosa. Giovedì, all’obitorio del Cisanello, si è svolta l’autopsia sul corpo della ventiseienne e ora la famiglia, assistita dall’avvocato Elena Pellegrini, sta aspettando i risultati dell’esame. La salma della ragazza è già stata restituita ai familiari e, dai primi riscontri, sembra che la ragazza sia morta per cause naturali. Una morte che ha lasciato senza fiato i parenti, gli amici e tutte le persone che l’avevano conosciuta, quelli con i quali aveva percorso un tratto di strada troppo breve per essere interrotto da un arresto cardiaco. Padova: alloggi fatiscenti al carcere Due Palazzi, gli agenti non pagano l’affitto di Carlo Bellotto Il Mattino di Padova, 25 gennaio 2016 La direzione del carcere intima di saldare i conti entro 10 giorni ed è pronta a rivolgersi a Equitalia. In 72 minacciano il sit-in e si affidano all’avvocato: "Andremo dal giudice, sono spazi indecorosi". Minacciano un sit-in di protesta in piazza Castello di fronte al Provveditorato alle Carceri e sono determinati ad andare di fronte al giudice pur di non pagare quanto chiede loro, o meglio quanto gli ordina la direzione del Due Palazzi. Loro sono un centinaio di agenti della Polizia Penitenziaria in servizio al carcere che beneficiano degli alloggi di servizio e proprio in merito al proprio uso l’ente gli ha intimato per lettera raccomandata di provvedere entro 10 giorni dal ricevimento di saldare una cifra variabile tra i 600 e 700 euro a fronte dell’occupazione di quegli spazi. Non sarebbe un affitto vero e proprio ma una sorta di concorso spese per le utenze, per i consumi. In 72 si sono rivolti all’avvocato Fabio Targa, pronti ad adottare la linea dura contro la direzione del carcere. Non vogliono pagare per quegli alloggi perché li ritengono poco sicuri, con scarsa igiene, insomma non degni di ospitarli. Se verranno sistemati sono pronti a rivedere la loro posizione, ma in questo momento non vogliono versare nulla. Nemmeno sapendo che la direzione del carcere è disposta a "passare" la riscossione a Equitalia. "Si tratta di un obolo, ne stiamo parlando con il ministero decisi ad andare fino in fondo alla questione" assicura l’avvocato Fabio Targa. "Ci sembra che questa sia la mossa di uno Stato che va a raccattare soldi qua e là, magari per pagare dei risarcimenti ai detenuti. Noi contestiamo pure l’intimazione a pagare, non è un titolo idoneo. Inoltre i consumi che stabiliscono per ogni agente, non sono consumi reali per singolo appartamentino, ma una divisione in base ad altri parametri". La vicenda risale già all’estate scorsa e si trascina da tempo prima. Gli alloggi oggetto della diatriba sono camere senza cucina con bagno, la singola misura 12 metri quadri, è più piccola di una cella. Questi locali sono dislocati nei nove piani del palazzo a fianco di quella che ospita i detenuti. La singola costa 37 euro al mese, la doppia 64 e la tripla 76: si tratta di una cifra non alta, ma gli agenti ne fanno una questione di principio e soprattutto di igiene. Ieri a protestare in studio dall’avvocato Targa c’erano Ignazio Guglielmi del Sappe e Luigi Prota del Spp in rappresentanza dei colleghi decisi a dire no a quel pagamento. Proprio ieri è arrivata una telefonata da parte della direzione del carcere all’avvocato per cercare comunque un accordo sul pagamento dell’obolo. Che gli agenti sono decisi a non pagare. Qualcuno di loro, volenteroso, ha ridipinto a sue spese la camera e provveduto a far qualche miglioria: l’amministrazione penitenziaria non ha soldi. Nel giugno dell’anno scorso l’ascensore è rimasto fuori uso un mese e chi era al nono piano è stata una sfacchinata. Roma: "la mia sfida da avvocato in sedia a rotelle a piazzale Clodio" di Giuseppe Scarpa La Repubblica, 25 gennaio 2016 La storia di Chiara Taglioni, 40 anni "Ascensori inagibili, ma non mollo". "Questo non è un tribunale per disabili, ma di mollare non se ne parla proprio". Un sorriso illumina il viso di Chiara Taglioni, 40 anni, avvocatessa del Foro di Roma, da quattro anni in sedia a rotelle. Gesticola con le mani mentre racconta la sua storia, i suoi occhi castani le brillano e nessuna ombra li attraversa nemmeno quando racconta le mille peripezie che quotidianamente affronta per poter esercitare la sua professione. A piazzale Clodio oramai non si contano più gli ascensori che non funzionano. Nella palazzina B il sali e scendi quotidiano è affidato, ormai da tempo, ad un unico elevatore. "In quello proprio non ci salgo, è troppo piccolo. In uno simile (dentro il tribunale ndr) una volta sono rimasta incastrata". Mani avanti, quasi per respingere quel ricordo, e il sorriso che questa volta si fa un po’ più beffardo. "I problemi comunque non sono solo legati agli ascensori quasi sempre non funzionanti o troppo piccoli". L’ingresso al bagno per i disabili con un mobile accanto che impedisce il passaggio della sedia a rotelle è una beffa. Oppure le rampe che sia in discesa che in salita le fanno paura perché troppo ripide per poterle percorrere da sola. E poi ancora quella volta, l’estate scorsa, quando nel carcere di Regina Coeli il montascale esterno era rotto e quattro agenti l’hanno dovuta prendere di peso e portarla dentro il penitenziario per poter svolgere un colloquio con un detenuto, suo assistito. I problemi sono tanti ma la tenacia che dimostra Chiara è più forte. Lo sa anche lei che il tribunale penale di Roma è un formicaio con decine di avvocati che ogni giorno, instancabili, da mattina a pomeriggio macinano chilometri e schizzano da una parte all’altra della cittadella giudiziaria. "Io prima dell’incidente - afferma ironica - non camminavo bensì pattinavo. Trottavo da una parte all’altra, prima in cancelleria poi dal gup, ora dal pm, poi in udienza". Adesso fa lo stesso: "Piazzale Clodio è enorme, i miei colleghi hanno le loro scorciatoie da seguire per poter andare da un punto ad un altro nel minor tempo possibile. Anche io ho trovato i miei percorsi con la sedia a rotelle per risparmiare minuti preziosi". Molto spesso però ha bisogno dell’aiuto di qualcuno, sono insuperabili gli ostacoli che le si parano davanti: "Non mi faccio mai problemi e dico scusa mi dai una spinta io devo arrivare fino a lì. Certo non va bene, il tribunale di Roma non deve avere barriere architettoniche. Spero rimedino perché voglio continuare a lavorare". Milano: detenuti più farmacisti, quando la solidarietà va in gol di Gian Luca Pasini Gazzetta dello Sport, 25 gennaio 2016 La partita finisce 1-1, ma il risultato è l’ultima delle cose. Ieri la Nazionale Italiana Farmacisti, una onlus che da 15 anni gira l’Italia giocando partite per raccogliere fondi destinati a piccoli progetti del territorio, è scesa in campo, dentro la casa di Reclusione di Milano-Bollate, per sfidare la squadra dei carcerati. Anche questa non è una novità. La cosa particolare la racconta Angela Calloni, che della Nazionale Farmacisti è la presidente: "Quando i ragazzi hanno saputo della nostra attività, ci hanno detto attraverso il mister, di non portare regali a loro ma di devolvere la cifra a uno dei nostri progetti. Così, a nome dei detenuti, daremo un sostegno all’associazione Vivi Down di Milano. Ma è una cosa che ci ha toccato molto e, infatti, abbiamo voluto ugualmente portare un po’ di materiale a Bollate (30 palloni e 2 reti per le porte donate dalla Lega Dilettanti, ndr). E saremo ancora vicini in futuro a questi ragazzi". "Che sono fantastici - s’inserisce Carlo Feroldi, giramondo del calcio che dopo Parma, Perugia e Lazio ha conosciuto tante panchine africane. Tra tutte le mie esperienze, questa di Bollate è quella a cui tengo di più. Mi hanno chiamato nel 2014, non immaginavo soddisfazioni ed emozioni così. Passo mediamente 200 giorni all’anno qui dentro, le difficoltà le potete immaginare, il campo è quello che è, manca tutto, quest’anno non abbiamo potuto iscriverci al campionato perché non ci sono fondi sufficienti, non tanto per l’iscrizione, quanto per le trasferte che devono avvenire con bus particolari e con la scorta. Questi ragazzi hanno sbagliato, ma non sono animali e mi danno grandi gioie con il loro impegno. E anche attraverso il calcio contiamo di non vederli ritornare più qui, quando usciranno. Io sono il loro allenatore, ma amo di più definirmi tutto-campista". Ranieri Limonta si fa portavoce delle emozioni dei farmacisti: "Un’esperienza umanamente eccezionale, da molti anni non tornavamo a Bollate. Siamo contenti di averlo fatto". Chiude Ivan Cassano, capitano dei detenuti, piedi buoni e ottima visione di gioco: "Lo sport è importante per noi, aiuta molti a rompere la routine della vita quotidiana nell’istituto. Fortunatamente io lavoro otto ore al giorno, in più studio legge per laurearmi e l’allenamento è il mio momento di gioco. Non mi accorgo della fatica di incastrare tutte le attività, ma, per chi non ha la mia fortuna, il calcio è ancora più importante". Da quando è qui? "A Bollate da due anni, ma è un pezzo che sono in giro per l’Italia". Fine pena? "2025". Il capitano ha un sorriso sereno. Piccola festa finale con pizza calda e bibite dentro il Quarto Reparto, dove oltre a chiacchierare al caldo con i giocatori si scoprono altre cose particolari, come il laboratorio di pelletteria e la sala musica gestite da Angelo Aquino, un laureato in sociologia che ha anche insegnato, prima di finire in questo reparto. E quando mette giù gli attrezzi si trasferisce in sala musica. Alla chitarra suona e canta De André per i calciatori. I mille volti di Bollate. Livorno: liberi di calciare, di segnare, di sognare di Dario Serpan Il Tirreno, 25 gennaio 2016 Una giornata insieme alla squadra delle Sughere, protagonista nel campionato Uisp Promosport: in campo finisce 1-1. "Chi è libero dentro è libero ovunque". Un aforisma come tanti, che provano a cogliere l’essenza di ciò che si prova in una condizione di costrizione, fisica o psicologia, dalla quale si può uscire con la forza di volontà e la consapevolezza che, nella società dell’uomo a una dimensione (per dirla con Marcuse), la libertà è prima di tutto un’assunzione mentale. Figlia di un processo di scoperta interiore, passa anche attraverso gli errori che in vita si commettono, o i limiti da superare, in relazione ai margini di espressione che il contesto materiale in cui si abita permette. E dentro un carcere cosa è permesso? Fin dove si può spingere il senso di libertà in una situazione di detenzione? La chiave di volta sta nel recupero, nella rieducazione finalizzata all’inserimento, perché come sottolinea S., "la detenzione non è una vendetta e stipare un soggetto tra quattro mura serve solo a incattivirlo, mentre il carcere può essere positivo per la società solo se non se ne fa abuso, solo se diventa luogo di riflessione e rieducazione. Il carcere - continua S. - è una storia di corpi e non di anime". S. è un giocatore, o meglio il capitano, della squadra Liberi Dentro, formata dai detenuti dell’istituto penitenziario Le Sughere di Livorno, dove c’è un campo di calcio a 8 in cui è nato un progetto che permette a 34 persone di allenarsi ogni settimana e giocare partite all’interno di un campionato vero, quello di calcio a 8 denominato "Premier League" e organizzato dalla Uisp - Promosport. Ne fanno parte altre tredici squadre, che a ruota si presentano e affrontano i Liberi Dentro realizzando un’esperienza che va oltre il risultato del campo. Non è una frase fatta, perché vedere l’entusiasmo e la passione con cui i detenuti scendono in campo, mentre dalle finestre blindate delle celle circostanti gli altri si affacciano per assistere alla partita, è qualcosa che, superato lo scotto di trovarsi dentro un carcere, riconcilia con certi valori a tratti perduti là fuori. È una lezione di umanità; è la speranza che, proprio nei luoghi estremi della condotta umana, la vita può ripartire. Liberi Dentro nasce per questo, dalla volontà di Paolo Stringara (allenatore ed ex calciatore di serie A, oggi collaboratore di Jurgen Klinsmann nella Nazionale di calcio statunitense) e Pino Burroni (presidente dell’associazione allenatori di Livorno). Loro hanno convinto i vertici dell’Istituto e messo in piedi uno staff tecnico ampio e qualificato, tanto da configurare uno scenario da squadra professionistica. Ne fanno parte, con Paolo e Pino: Alessandro Doga, Enio Bonaldi, Francesco Landi, Giuliano Gambuzza, Emiliano Gronchi, Rossano Rosellini, Mauro Viviani, Ermanno Romani, Riccardo Fratini, Bruno Ciardelli, Claudio Dini, David Tarquini, Massimo Sannino, Fabrizio Vivaldi, Davide Civetta. I membri di questo staff si presentano in sei o sette alla volta per ogni allenamento o partita che sia, garantendo una presenza e una qualità di lavoro che tante altre squadre si sognano. Si fanno due sedute mattutine alla settimana, più le partite in programma da calendario, e noi siamo andati a seguire quella contro il Dream Team, valida per la sesta giornata di campionato. La rosa dei 34 detenuti viene giostrata in modo che tutti abbiano lo stesso spazio in campo, perciò ad ogni gara vengono convocati 15 giocatori, mentre gli altri possono tifare i compagni dalla tribuna, e poi scendono in campo nella partita successiva. In 8 partite disputate, i Liberi Dentro hanno colto una sola vittoria, un pareggio e sei ko. "Ma qui il risultato non conta - afferma Paolo Stringara, qui si vince sempre e va capito lo spirito. Questi ragazzi finora hanno visto il calcio solo in Tv, mentre ora sono una squadra vera e la hanno presa sul serio, cominciando ad allenarsi su livelli professionistici". Tanto che i progressi già si vedono, dal punto di vista tecnico e atletico. E il Dream Team se ne accorge, perché affrontare i Liberi Dentro non è una passeggiata. Sotto un sole invernale, il fischio d’inizio apre le danze in un pomeriggio infrasettimanale: il primo tempo si sblocca al 10’, quando gli avversari passano in vantaggio con un guizzo del numero 10. Poco male, perché prima dell’intervallo i padroni di casa pareggiano e, una volta uscito per sostituzione, l’autore del gol dice: "Segnare è stato un’emozione indescrivibile, come tornare bambino. Speriamo di vincere la partita". Lo spera anche S., il capitano, che nel primo tempo resta in panchina e ne approfitta per una chiacchierata: "Oggi portiamo a casa i 3 punti - esordisce, e poi diventa un fiume di parole. Qui ci divertiamo tanto, e vinciamo anche quando perdiamo. Questo progetto è una prova di forza e lungimiranza che apre una prospettiva rivoluzionaria, perché noi siamo un progetto monito per l’Italia, e magari altri istituti penitenziari seguiranno il nostro esempio. Personalmente, sono fiero di ciò che ho fatto qui dentro: sono entrato con la quinta elementare e una condanna abbastanza lunga, mentre oggi sono laureato in Giurisprudenza con 110. È una grande soddisfazione verso i miei figli: il loro papà oggi è un’altra persona rispetto a 15 anni fa". Difensore centrale di 39 anni, G. lascia invece il campo all’intervallo, con il sorriso sulle labbra e un fisico da atleta. "Qui non si sta mai fermi - afferma - con tutte le attività proposte, ma il calcio è nel mio dna e quindi sono felice di essere tornato a giocare. È un progetto utile per il nostro reinserimento in società, perché in campo, come nella vita, bisogna stare attenti a come ci si comporta". Tra meno di un mese, G. uscirà, la sua pena è al termine. Che cosa si prova? "È una bella sensazione. Tornerò a Milano dalla mia famiglia dopo sei anni. So che non sarà facile per il lavoro, ma ho un sogno: vorrei prendere il patentino per allenare i bambini". La partita va avanti, quella in campo finisce 1-1, ma quella da vincere davvero è un’altra e i Liberi Dentro hanno adesso una marcia in più. Teramo: "Voci recluse", gara di canto tra i detenuti del carcere di Castrogno Il Centro, 25 gennaio 2016 Il carcere di Castrogno ospiterà oggi la sesta edizione di "Voci recluse", la competizione canora realizzata dall’associazione culturale "Bon Ton" di Bellante. L’iniziativa, promossa in sinergia con la direzione e gli educatori del carcere, ha come intento quello di offrire ai detenuti un momento di spensieratezza e far sentire loro più vicina la comunità locale. L’evento si svolgerà in due tempi, partendo da uno spettacolo eseguito dallo staff dell’associazione culturale, in cui i finalisti del talent canoro teramano "Mix Factor Karaoke", si esibiranno in qualità di ospiti proponendo i loro pezzi più noti. La seconda parte, invece, consisterà nella gara vera e propria, nella quale una quindicina di detenuti - selezionati tra quelli che si saranno iscritti alle prove canore - si esibiranno davanti alla giuria. Quest’ultima sarà composta dallo staff tecnico, dal direttore del carcere Stefano Liberatore, da rappresentanti dell’area educativa della casa circondariale e del Comune di Teramo. I giurati decreteranno così i vincitori, a cui verranno consegnati i relativi premi mentre tutti riceveranno un attestato di partecipazione. "È noto come il contesto detentivo possa risentire delle limitazioni alle offerte trattamentali imposte dalla carenza di risorse umane e dalla scarsità di fondi disponibili", si legge in una nota della diffusa dalla direzione del carcere, "ma grazie alla tenacia di Anna Di Paolantonio, (presidentessa dell’associazione "Bon Ton", ndr) e al sostegno della Fondazione Tercas, siamo giunti alla sesta edizione del progetto "Voci recluse", rivolto specificatamente ai detenuti della casa circondariale di Teramo". La gara canora rappresenta un’occasione per coinvolgere i detenuti in un’iniziativa, nella quale gli stessi potranno dare espressività alle loro doti artistiche. Così il ritorno delle frontiere spezza il sogno dell’Europa di Paolo Rumiz La Repubblica, 25 gennaio 2016 Perché quelle linee ostinatamente si riformano? Può essere spiegato solo con i populismi e i flussi migratori. Ne so qualcosa di frontiere che si fanno e si disfano. Sono nato a Trieste, a uno sputo dalla Jugoslavia, e non basta. Come "I figli della mezzanotte" di Salman Rushdie, son venuto al mondo la stessa notte in cui la frontiera veniva tracciata attorno alla città. Era il 20 dicembre del 1947, e i militari angloamericani con le truppe di Tito, tra una long size e una slivovica, piantavano allegramente i paletti di demarcazione mentre mia madre perdeva le acque. La nonna materna ci aveva fatto il callo, e me ne raccontava di storie. Aveva imparato a convivere con la tragicommedia proprio lì, sul confine più mobile d’Europa. Senza mai muoversi da Trieste aveva cambiato sei bandiere: austriaca, italiana, germanica, jugoslava, del Governo militare alleato e dell’Italia democratica. Da adulto mi sono tenuto in allenamento. Di confini ne ho conosciuti abbastanza, quelli veri intendo, con la polizia che ti guarda in cagnesco e ti porta via per ore il passaporto. Con la vecchia "Jugo" inizialmente fu un affare serio. Ti perquisivano da capo a piedi, e le Drugarice, le donne in divisa, mi mettevano paura. Nel 1985 presi il Lubiana-Mosca e al confine con l’Ucraina, sotto un nubifragio, l’intero treno venne sollevato su martinetti per l’adattamento dei carrelli allo scartamento sovietico. Fu un’attesa di sei ore, in mezzo a un mare di binari, con cani lupo e fasci di fotoelettriche tipo Auschwitz. In compenso, nel dicembre del 1989, vidi spalancarsi uno dei confini più duri del mondo, quelle rumeno, con le facce di bronzo dei poliziotti lì a sorridere dopo avermi brutalmente respinto 24 ore prima. Una notte di primavera del 1991, con la Jugoslavia in agonia, mentre dormicchiavo sul wagon- lit per Belgrado, miliziani croati salirono a bordo e passarono al setaccio il mio bagaglio, facendo scendere alcuni serbi sgraditi a suon di bestemmie. Era l’inizio della guerra dei Balcani. Ma l’Europa intera non aveva pace, sulle frontiere era tutto un balletto di apri e chiudi. Due anni prima, in Ungheria, avevo visto cadere il primo pezzo di Cortina di Ferro, e a tutto avrei pensato allora, tranne che l’Ungheria, nel 2015, sarebbe stata la prima a rimettere fili spinati sul suo confine. Nel 2001, il mitico Kyber Pass fra Pakistan e Afghanistan, sbarrato per via della guerra con i Taliban, si sciolse un mattino come neve al sole davanti a un interminabile convoglio di allegri mujahiddin armati fino ai denti provenienti da Peshawar, che mi aprirono la strada per Jalalabad. Ho combattuto tutta la vita perché il confine attorno a Trieste cadesse e, quando nel 2007 è stato abolito, ho fatto festa grande. Siccome s’era pensato bene di abbatterlo la notte del suo 60esimo anniversario, e siccome quella data coincideva col mio compleanno tondo, si fece baldoria fino all’alba assieme agli sloveni in un’osteria per l’appunto di frontiera. Era un appartato passaggio pedonale, e la gloriosa transenna bianco-rosso-blu fu tagliata a fette in mezzo ai brindisi e distribuita come souvenir. Con che gioia noi italiani, e ancora di più gli sloveni, new entry dell’Unione, pronunciammo la parola "Europa"! Il mattino dopo andai in soffitta a rivedere il pezzo di filo spinato sovietico che la polizia ungherese mi aveva consentito di portarmi a casa 18 anni prima e pensai che era finita un’epoca. Ora che le transenne tornano di moda e la macchina dei reticolati si rimette in moto nel cuore d’Europa tagliando perfino - in Istria - sentieri che avevo sempre percorso in libertà, ora che l’euroscetticismo dilaga, non posso evitare rabbia e malinconia. Ma come? Ci siamo dimenticati dei timbri, dei visti, dei tignosi cambiavalute, delle dogane e dei treni fermi in mezzo alla campagna? Io quella memoria non l’ho persa, e ricordo come piansi di felicità una sera a Berlino, quando - sbarcato dall’aereo per la prima volta senza esibire i documenti - mi sentii chiedere dal tassista " Vier und zwanzig euro, bitte", come niente fosse, lì nel Paese del marco onnipotente. E ancora mi commuovo, quando metto le mani in tasca e trovo spiccioli di euro coniati da Paesi che fino al 1945 si erano combattuti. Ma dopo la rabbia, vengono le domande. Perché quelle linee ostinatamente si riformano? Può essere spiegato solo col populismo o l’ondata migratoria degli Esiliati? Forse c’è qualcosa che non abbiamo capito di quelle tracce divisorie spesso ereditate dall’antichità o dal medio evo. Ripenso al confine di casa mia e ricordo che quando cadde, poco più di sette anni fa, dietro la gioia si fece strada un senso di perdita, che tentai di ricacciare perché inammissibile, indegno di essere manifestato. Solo più tardi capii: con quella frontiera "porosa", non certo paragonabile con quelle sovietiche, se ne andava un elemento di ordine del mio mondo. Qualcosa che, cadendo, mi faceva sentire più esposto al peggio del Globale, ai rovesci di borsa, alle pandemie e alla scomparsa dei luoghi. Non volevo ammettere a me stesso che a quella linea mi ero un po’ affezionato. Nell’inconscio, essa era la garanzia che "quelli dell’altra parte" restassero diversi da me, e io come viaggiatore mi nutrivo di quella diversità. Non so che farmene di un mondo-minestrone in cui tutti si somigliano e, specialmente oggi che l’Europa scricchiola, mi rendo conto che ci manca una profonda riflessione sui confini e sul loro valore anche simbolico, una riflessione che vada oltre la retorica del Pianeta necessariamente privo di asperità e di conflitti. E qui, nel turbine dei pensieri, ce n’è uno cui non posso sottrarmi. Se non ci sentiamo più protetti dai muri esterni della casa comune, forse è anche perché una patria europea non è mai nata. Né dentro né fuori di noi. Ministri degli Interni ad Amsterdam per salvare Schengen di Marco Zatterin La Stampa, 25 gennaio 2016 Si riuniscono oggi ad Amsterdam i ministri degli Interni dell’Unione europea. È un incontro importante ma sarà meglio abbassare il livello delle aspettative. Gli appassionati del sensazionalismo hanno riempito di significato un conclave che - si auspica - deve servire ad attribuire un preciso contenuto politico all’insieme di strategie disegnate per contenere e controllare il flusso dei migranti disperati in fuga dalle guerre. Non si parla anzitutto di sospendere Schengen per due anni. Si discuterà invece dell’ipotesi di applicare l’articolo 26 degli accordi di Schengen che consente ai paesi che hanno già reintrodotto temporaneamente i controlli alle frontiere di continuare, previo via libera dell’Ue, per altre quattro estensioni di sei mesi. Si parla invece di come scongiurare che questo accada. Di come salvare Schengen e la nostra più grande libertà europea: la libera circolazione. Di come far funzionare la macchina dell’Ue prima che i flussi riprendano a essere copiosi e insostenibili per i governi, soprattutto quelli senza fantasia e attributi. Il che vuol dire rafforzare bene le frontiere esterne, rendere efficaci i sistemi di identificazione per chi arriva, accettare il dovere della responsabilità comune e redistribuire davvero chi ha diritto di restare, impegnarsi a rimandare indietro chi non ha le carte in regole. Infine, fra le cose più importanti, si tratta di far decollare l’accordo con la Turchia, fondi ai campi profughi in cambio di maggiore efficienza nel fermare i trafficanti d anime. Chissà se l’Italia ha finalmente deciso di togliere il proprio veto al progetto Ankara? La Commissione ha fretta. Tanto che l’alto rappresentante Federica Mogherini, insieme coi colleghi Johannes Hahn e Christos Stylianides oggi è in Turchia. Si negozia. Nulla è facile. Si rischia di uccidere Schengen il che, secondo molti, significa uccidere il mercato interno e l’euro. Intorno a questa saga ancora troppo verbale si intrecciando due dossier italiani. Rischiosi. Si attendono contatti tecnici e possibili riunioni sulla Bad Bank del tesoro in vista della visita del ministro Padoan domani dalla signora Vestager, numero europeo dell’Antitrsut. L’Italiano vuole chiudere, a ragione. I bookmaker che seguono le cose europee dicono che ci sono possibilità discrete. L’alta cosa da tenere d’occhio è il rapporto triennale sulla sostenibilità delle finanze pubbliche in arrivo alle 15 esatte. È un dossier tecnico. Un’analisi fattuale. Ma nel capitolo per il paese con il terzo peggior debito del pianeta è difficile che, a voler essere gentili, non ci sia nemmeno un qualche piccolo suggerimento a fare meglio. Cosa che, in questi tempi di disfide italo-europee, potrebbe diventare esplosiva. "I film fateli bene, tanto la fatica è lo stessa" (Ettore Scola sul cinema, ma vale per tutte le cose, dunque anche per noi e l’Europa). L’intesa Roma-Berlino su Schengen "per sospenderlo servirà il sì di tutti" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 25 gennaio 2016 La proposta al vertice dei ministri dell’Interno Ue ad Amsterdam: chi vorrà sospenderlo dovrà concordare l’iniziativa con gli altri Paesi. L’alternativa, gradita alle nazioni del Nord Europa, è la sospensione di 2 anni dell’accordo sulla libera circolazione. Lo Stato che vuole ripristinare temporaneamente i controlli alle frontiere dovrà concordare l’iniziativa con gli altri Paesi dell’Unione. In questo modo si creerà un tavolo di coordinamento per evitare iniziative estemporanee che mettono in difficoltà gli altri partner e rischiano di far saltare l’intero sistema. L’ultimo tentativo per tenere in vita il Trattato di Schengen passa dalla proposta, informale, che sarà formulata oggi da Italia e Germania. Al Consiglio dei ministri dell’Interno che si svolge ad Amsterdam, si cercherà una mediazione con chi difende la "linea dura" ponendo come priorità la "blindatura" dei confini esterni. L’alternativa, se non si riuscirà a trovare una soluzione, è la sospensione per due anni dell’accordo sulla libera circolazione. Una possibilità che Roma cerca in ogni modo di contrastare fidando proprio sull’appoggio di Berlino, visto che due giorni fa è stato il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, a dire che "distruggere il sistema Schengen vuol dire mettere l’Europa drammaticamente in pericolo, dal punto di vista politico ed economico". Il pericolo è fin troppo evidente: un’invasione sulle nostre coste con l’apertura di nuove rotte dall’Albania e dal Montenegro e una nuova impennata dalla Libia. I segnali sono già inquietanti: negli ultimi tre giorni sono sbarcati più di mille migranti. Anche il 2016 si annuncia come un anno drammatico per la gestione dei flussi migratori e il blocco di alcuni Stati può stringere l’Italia in una vera e propria morsa. L’asse del Nord - Danimarca, Austria e Svezia hanno già chiuso i confini con un provvedimento unilaterale provvisorio e, con l’appoggio di Polonia e Ungheria, insisteranno per una sospensione di Schengen per almeno due anni. A maggio i controlli alle loro frontiere dovranno infatti essere interrotti e questo ha alimentato l’ipotesi che vogliano creare una sorta di mini Schengen alla quale parteciperebbero la Germania (che ha preso un provvedimento analogo giustificandolo come necessario di fronte alle iniziative dei Paesi confinanti) e il Belgio, anche se gli analisti sono scettici e ritengono si tratti esclusivamente di una forma di pressione nei confronti di Italia e Grecia affinché rendano operativi i centri di identificazione, i cosiddetti "hotspot" sui quali la cancelliera Angela Merkel ha ribadito di voler "prestare attenzione". Domenica il commissario europeo alle Migrazioni, Dimitris Avramopoulos, ha smentito in maniera categorica - "non esiste alcun piano di questo tipo" - l’ipotesi anticipata dal Financial Times di una estromissione di Atene dall’area Schengen e il ministro degli Esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, ha rincarato la dose: "Le soluzioni come l’esclusione di alcuni Stati non risolvono nulla". Una posizione sostenuta dai socialisti europei con il presidente del gruppo al Parlamento europeo, Gianni Pittella, che sottolinea come "qualsiasi ipotesi di mini Schengen o di isolamento della Grecia è assolutamente inaccettabile. Invece di velleitarie scorciatoie solitarie gli Stati membri mettano in pratica le decisioni del Consiglio. È l’unico modo per salvare l’Europa da se stessa". L’appoggio dell’Onu - Sono diverse le questioni all’ordine del giorno di lunedì e tra le principali c’è quella riguardante l’accordo di Dublino con il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che chiederà nuovamente la modifica di quella norma che obbliga i richiedenti asilo a registrarsi nel Paese di primo ingresso. L’obiettivo è infatti una distribuzione equa all’interno dell’Unione e uno snellimento delle procedure di registrazione. "Noi stiamo facendo la nostra parte - sottolinea il viceministro dell’Interno, Filippo Bubbico - e per questo ci auguriamo che non prevalgano gli egoismi nazionali. Se dovesse cadere il trattato di Schengen saremmo costretti a rivolgerci all’Onu visto che noi abbiamo la responsabilità della difesa del Mediterraneo. Importante è trovare un’intesa su tutti i punti in discussione, tenendo conto che anche sugli hotspot abbiamo rispettato tutte le richieste". Con il via libera alle sue istanze, l’Italia potrebbe a sua volta versare la propria quota per il finanziamento di tre miliardi alla Turchia dove, dall’inizio del conflitto, sono già transitati due milioni di siriani. Si tratta di 280 milioni di euro che dovrebbero però essere scomputati dalla legge di Stabilità, come si è impegnato a fare la scorsa settimana il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, nel pieno dello scontro tra Italia e Ue sui migranti, ma anche su tutti gli altri temi in agenda, con un’attenzione particolare ai provvedimenti sulle banche, e sulla flessibilità. Lo scippo e poi le botte alla giovane mamma: arrestato "l’uomo più odiato di Svezia" di Luigi Offeddu Corriere della Sera, 25 gennaio 2016 Era stato ripreso a Stoccolma mentre picchiava una donna che gli voleva impedire di scippare una signora. È un profugo: è stato espulso, ma nessun Paese lo vuole. La ragione per cui giornali e blog l’hanno bollato come "l’uomo più odiato della Svezia" sta nel video ripreso da una telecamera nel centro di Stoccolma, e diffuso sul web dalla polizia svedese. Lui si calca il berretto di lana sulla fronte e affianca l’anziana signora che risale le scale della metropolitana. Cerca di strapparle la borsa, ma accade qualcosa di imprevisto: una giovane madre con due bambini si mette in mezzo, grida, cerca di allontanare lo scippatore. Lui allora le salta addosso: una spinta, due pugni, la ragazza prende in braccio uno dei bambini e cerca di fuggire. L’uomo torna indietro e le sputa in faccia. Arrestato grazie al video - Grazie a quel video, con la scritta "wanted", l’hanno identificato e arrestato: tunisino, in ottobre aveva chiesto asilo in Svezia ma gli era stato rifiutato, e da allora viveva in un centro profughi in attesa che la sua situazione si chiarisse. Sul piano legale, si è proceduto quasi in automatico: tentato scippo e violenza privata, espulsione verso la Danimarca, ultimo Paese da cui l’uomo era arrivato in Svezia. Le autorità danesi hanno formalmente accettato il provvedimento, ma a Copenaghen si sono udite le stesse proteste di Stoccolma: perché la Danimarca dovrebbe accogliere "l’uomo più odiato della Svezia"? Così lui è diventato un caso emblematico, di quel che agita l’Europa del 2016. Le reazioni - Per qualcuno, quel video ha un significato simbolico: la giovane madre è vestita con eleganza come i suoi bambini, ha i capelli sciolti sulle spalle, un volto gentile, l’immagine stessa di come il Nord Europa è, o era, secondo certi luoghi comuni. Il suo aggressore ha sul volto una smorfia di rabbia, o di disperazione. "Sono così contento di aver investito da poco i miei soldi nell’industria europea della corda - scrive qualcuno sul web - che diventerò dannatamente ricco". È un europeo, probabilmente. E parla di impiccagioni, della legge di Lynch, non del Trattato di Schengen. Tunisia: la Primavera è stata tradita ma i sogni dei giovani restano vivi di Tahar Ben Jelloun (Traduzione di Fabio Galimberti) la Repubblica Cinque anni fa la rivoluzione della piccola Tunisia contagiava l’Egitto: in piazza Tahrir esplodeva una rivolta di cui ancora oggi viviamo le conseguenze. Cinque anni fa tutti avevamo creduto che la Tunisia sarebbe riuscita a sfuggire alle tenebre che sconvolgono in questo momento la maggior parte dei Paesi arabi: e insieme a lei l’Egitto, lo Yemen, la Libia e tutti i paesi che in quelle settimane si erano rivoltati contro i rispettivi regimi autoritari. Il 25 gennaio del 2011 migliaia di persone si riunirono in piazza Tahrir, dando avvio alla rivoluzione che avrebbe cancellato un regime che durava da 30 anni. Da allora, tutto è cambiato. L’Egitto ha ritrovato i vecchi metodi autoritari dei tempi di Mubarak: nessuna opposizione è tollerata, laica o islamista, ma questo non ha impedito ai terroristi di colpire i turisti. Piazza Tahrir era il luogo dove centinaia di migliaia di uomini e donne si riunivano per abbattere un regime corrotto: oggi non è più così. Le elezioni diedero la maggioranza ai Fratelli musulmani, che governarono senza rispettare la democrazia: qualche mese dopo con un colpo di Stato arrivò al potere il generale Abdel Fatah al Sisi, sostenuto da americani e sauditi, nel solco della tradizione di governi militari che in Egitto va avanti dai tempi di Nasser, morto nel 1970. Quello che è cambiato in Egitto negli ultimi cinque anni è che la gente non ha più paura, ma ancora una volta le difficoltà economiche rendono impossibile qualsiasi evoluzione verso una società giusta ed egualitaria. La religione resta presente ovunque, e questo non facilita l’accesso alla modernità e l’affer-mazione dell’individuo. La Siria è invischiata in una guerra di cui non si vede sbocco, che regala a Bashar al Assad una legittimità usurpata e senza fondamento: senza l’aiuto di Putin, questo regime criminale sarebbe sparito da tempo. La Libia sta affondando in un caos molto gradito a Daesh, che estende la sua barbarie un po’ ovunque nel mondo. La Tunisia, che ha avuto il coraggio e la fortuna di adottare una Costituzione storica, ha creduto per un momento di poter prendere il volo e ricostruire un paese su basi democratiche. La libertà di coscienza è garantita, e anche l’uguaglianza di diritti fra uomini e donne: è un caso unico nel mondo arabo. Ma il terrorismo non è stato dello stesso avviso e ha colpito il piccolo Paese del Nordafrica in più occasioni, finendo per ucciderne l’economia. Oggi a Tunisi e dintorni non ci sono quasi più turisti e il malcontento popolare cresce continuamente, al punto che lo Stato, il 20 gennaio scorso, ha dovuto imporre il coprifuoco: negli ultimi due anni, il terrorismo ha fatto 255 morti. L’attacco al museo del Bardo, il 18 marzo 2015, ha lasciato sul terreno 23 morti e 43 feriti; l’attentato sulla spiaggia di Soussa si è concluso con 37 vittime, in maggioranza di nazionalità britannica; il 25 novembre 2015, un pullman della guardia presidenziale è stato attaccato in pieno centro di Tunisi, con 11 morti. Scontri armati fra esercito e polizia da un lato e individui armati dall’altro avvengono spesso nell’interno del Paese, a Rouhia, a Bir Ali Ben Khelifa, a Fernana. Pastori vengono sgozzati, soldati attaccati e massacrati da miliziani che hanno giurato fedeltà a Daesh. A tutto questo bisogna aggiungere gli omicidi politici, come quello del sindacalista di sinistra Chokri Belaid e del deputato Mohamed Brahmi. Il paese non è sicuro, e i turisti lo disertano. Gli islamisti, che siano nelle fila di Ennahda, il partito islamista che ha governato all’inizio della rivoluzione, o dei Fratelli musulmani sotto l’egida del wahhabismo saudita (una scuola di pensiero ultra-conservatrice che applica alla lettera la sharia) non sono contenti di vedere la Tunisia modernizzarsi, dando diritti alle donne e aprendosi all’Europa. Il problema è che l’economia non è ripartita. La disoccupazione è cresciuta, soprattutto fra i giovani, per la maggior parte diplomati e senza lavoro. La polizia, malgrado i suoi sforzi, non è in grado di affrontare il nemico terrorista, che recluta i suoi adepti tra gente disperata o sedotta dal discorso religioso, che promette una vita migliore una volta divenuti martiri. La società civile tunisina è molto attiva: si batte su tutti i fronti, in particolare quello della condizione della donna, che gode di diritti rari nei Paesi arabi e musulmani. Ma il Paese è minacciato: è impossibile sorvegliare le centinaia di chilometri di frontiere con la Libia, da dove vengono i terroristi di Al Qaeda del Maghreb islamico e del sedicente stato islamico. Molte armi attraversano queste frontiere. La Tunisia non può far fronte da sola alla sfida terrorista. Avrebbe bisogno di essere aiutata, sostenuta economicamente, appoggiata politicamente. L’Europa assiste a questo naufragio senza poter fare granché. Neanche l’Algeria l’aiuta, avendo già i suoi problemi per la crisi economica seguita al calo del prezzo del petrolio. La gioventù è impaziente: sono centinaia i giovani che si sono arruolati con le milizie di Daesh, per disperazione o per spirito di avventura. La Tunisia teme il ritorno di alcuni di loro, e lo stesso problema riguarda il Marocco e tutta l’Europa. La primavera araba non ha ancora detto l’ultima parola. Con il tempo, e la sconfitta di Daesh, che tutti auspichiamo, forse potrà ripartire e riportare pace e prosperità a questi popoli così maltrattati dalla storia. Libia: Italia pronta ai raid contro l’Is, ecco il patto con gli Stati Uniti di Vincenzo Nigro La Repubblica, 25 gennaio 2016 I jihadisti un pericolo: l’attacco dopo l’accordo tra le milizie per il governo. "Ogni azione degli americani è concordata con noi". La sintesi che arriva da Palazzo Chigi dopo la notizia dell’accelerazione dei piani d’attacco Usa in Libia svela la sostanza del "patto". "L’Italia è pronta ad azioni militari: se sarà necessario, agiremo con i nostri alleati, su richiesta del governo di Tripoli e nel quadro dettato dalle risoluzioni dell’Onu". Per la prima volta, arriva la conferma a quello che ormai trapelava da troppi segnali convergenti. Il livello di minaccia militare dell’Is in Libia ha raggiunto una pericolosità insostenibile, tanto da spingere il premier Renzi a lasciarsi le mani libere per diversi scenari. Vogliamo seguire una road map che è chiara, è nota a tutti ed è ragionevole, dicono fonti vicine al presidente del Consiglio, e che potrebbe dunque concretizzarsi nel giro di due, tre settimane. È una linea perfettamente concordata con gli Stati Uniti, che gli altri alleati conoscono perfettamente. Entro il 29 gennaio dovrebbe entrare in funzione il nuovo governo libico nato dalla mediazione Onu. Il premier Fayez Sarraj avrà un ministro della Difesa con cui elaborare i suoi piani, fare le sue valutazioni sul modo in cui combattere il terrorismo in Libia, e fare quindi le sue richieste alla comunità internazionale. La prima pista da esplorare - insistono al governo - è quella di una soluzione politica. Solo allora, quando ci sarà un’entità libica con cui fare i conti sul terreno, avrà senso avviare una campagna militare. Il timore di Renzi era che attacchi "spot" in Libia contro il Califfato, condotti per colpire una base, una colonna di auto, potessero non essere risolutivi, ma attirare semplicemente altro terrorismo in Europa e magari anche in Italia. Un altro punto che viene sottolineato in queste ore dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e dal sottosegretario all’intelligence Marco Minniti è che "mentre si sta facendo di tutto per far nascere un tentativo di governo libico, azioni militari fuori controllo non farebbero che spaccare la società politica libica, portando sostegno all’Is: ogni 100 militanti eliminati ne arriverebbero altre migliaia". Di questo l’Is è perfettamente al corrente: per questo sta allargando lo spettro delle sue attività militari (vedi attacchi a Ras Lanuf, offensiva su Sidra, minaccia verso il Sud). Secondo gli ultimi segnali lo Stato Islamico starebbe già preparando la difesa di Sirte, in cui si è prima infiltrato e poi "blindato" dal marzo del 2015. La città sul Mediterraneo è stata circondata da posti di blocco del Califfato; i miliziani hanno riportato indietro dai vari fronti aperti in questi giorni, mezzi blindati e anche artiglieria. Sono state intensificate le esecuzioni dei dissidenti, delle "spie" sospette di lavorare per Tripoli o Tobruk. È probabile che nelle prossime ore, anche per attirarsi gli attacchi aerei degli alleati, l’Is proverà a mettere a segno, in Libia o in Europa, nuovi attacchi terroristici. E il richiamo dell’Is in Libia è tanto forte che da 48 ore l’Algeria ha lanciato un allarme sul flusso di giovani marocchini che starebbero provando ad attraversare i confini per entrare in Libia. Mentre sempre da Sirte arriva la conferma che alcune centinaia di abitazioni sono state sgombrate con la violenza dai miliziani: serviranno ad ospitare i nuovi combattenti islamici che arrivano da tutta l’Africa. Per fare della città che fu di Gheddafi la nuova Raqqa sul Mediterraneo, la nuova capitale del califfato. Brasile: evasione a Recife, detenuti usano esplosivo per abbattere muro penitenziario Askanews, 25 gennaio 2016 Spettacolare evasione di massa in Brasile. I Detenuti hanno usato esplosivi per far saltare in aria un muro e scappare da una delle più dure prigioni del paese, la Frei Damiao de Bozaanno, nella città nordorientale di Recife. Dopo che la nuvola di polvere e detriti si è depositata, un flusso di uomini vestiti da ordinari civili si è precipitata nelle strette strade della città, prima che la polizia potesse arrivare sul luogo. Le autorità dello stato di Pernambuco, citate dal sito di notizie Globo, hanno detto che, dei 40 evasi, mentre 36 sono tornati in custodia. Due dei prigionieri sono morti, uno è in ospedale e un altro è ancora in fuga. Ci sono volute ore perché la polizia fornisse informazioni, mentre i media brasiliani erano scatenati e parlavano di 100 evasi.