L’Italia, l’Ue e il mondo: le regole che è giusto rivedere di Lucrezia Reichlin Corriere della Sera, 24 gennaio 2016 A leggere i giornali della settimana scorsa si poteva pensare che il mondo si trovasse sull’orlo del precipizio. L’allarmismo della stampa è il riflesso del nervosismo dei mercati, che senza dubbio c’è stato. Ma un distacco dagli eventi di questi giorni e un’analisi più pacata sono necessari. Vorrei cominciare col richiamare alcuni fatti. Il mercato, innanzitutto. L’andamento del mercato azionario ha un legame tenue con la dinamica dell’economia reale. I modelli economici più semplici ci dicono che il primo anticipa la seconda, ma i fatti smentiscono ciò: i corsi azionari sono influenzati dal cosiddetto premio al rischio. Questo, a sua volta, è difficile da prevedere poiché riflette meccanismi psicologici legati a eccessi di ottimismo e pessimismo. Infatti, i periodi di alta volatilità del mercato sono molto più frequenti delle recessioni che, nelle economie mature, avvengono in media una volta ogni 10 anni. Il secondo elemento da valutare è la Cina, ovvero un’economia che ha avuto una crescita media del 10 per cento per oltre dieci anni, crescita trainata dall’industria manifatturiera e dalle esportazioni. Quel Paese vive ora una fase di riequilibrio dell’economia verso i servizi e il consumo interno che ne comporta un naturale rallentamento: la crescita nel 2015 è stimata al 7% e nel 2016 al 6,7. Non si prevede un crollo, ma un semplice aggiustamento. Questa diminuzione di qualche punto, secondo le stime della maggior parte degli esperti, avrà un impatto minimo sulla crescita di Usa ed Europa, anche se la Germania è leggermente più esposta. Veniamo all’Italia. Tutti i segnali dell’economia reale indicano che il 2016 confermerà la ripresa del 2015 anche al di là delle aspettative annunciate pochi mesi fa. Tutti questi fatti sono rassicuranti, ma ciò non significa che i rischi siano assenti. Passiamo quindi ad esaminare questi ultimi. Per quanto riguarda l’economia reale, il fattore di rischio principale non è a mio avviso la Cina, ma sono gli Stati Uniti. L’economia Usa è in ripresa da più di sei anni e ciò storicamente suggerisce che una recessione non sia lontana. I dati della produzione (non quelli dell’occupazione che li seguono con ampio ritardo e quindi non possono essere usati come indicatore del futuro) continuano a mandare segnali di un progressivo indebolimento dell’economia. Se gli Usa dovessero entrare in recessione tra la fine del 2016 e il 2017, l’Europa seguirebbe dopo qualche mese. Per noi sarebbe troppo presto: abbiamo ancora bisogno di correre per recuperare quanto abbiamo perduto dal 2008 a oggi. Ma la grande volatilità nei mercati finanziari deriva soprattutto dai movimenti di capitali. E questi sono conseguenza dell’apprezzamento del dollaro combinato a un alto indebitamento dei Paesi emergenti, del calo del prezzo del petrolio e della liberalizzazione in corso del mercato dei capitali in Cina. In una economia in cui i mercati finanziari sono integrati a livello globale e in cui i flussi finanziari sono molto più ingenti di quanto sarebbe giustificato dall’import-export di merci e servizi, anche piccoli cambiamenti nelle aspettative provocano grandi spostamenti di capitali e quindi una volatilità difficile da comprendere sulla base dell’andamento dell’economia reale, ma che su quella stessa economia reale può avere però conseguenze. Da qui il ruolo chiave delle Banche centrali nel garantire liquidità al sistema e calmare le acque. E l’Italia? L’Italia è finalmente uscita dai giorni più bui e sta consolidando la sua ripresa, ma è appesantita da sei anni in cui ha oscillato tra stagnazione e recessione. I crediti malati sono la conseguenza di questa crisi e alla crisi possiamo attribuire anche un buon 25 per cento del nostro debito pubblico. Per questo, nonostante i buoni segnali provenienti dall’economia reale, restiamo vulnerabili al primo singhiozzo del mercato. Non solo. Se effettivamente l’insieme dei rischi globali - e in particolare un rallentamento degli Usa - dovessero accorciare la ripresa europea, noi ci ritroveremmo ad affrontare un nuovo choc negativo senza esserci ancora liberati dell’eredità dell’ultima crisi, quindi con pochi strumenti per affrontare la nuova. L’Italia non è il solo Paese dell’area euro che si trova in questa situazione. La crisi delle banche portoghesi, ad esempio, si iscrive nello stesso scenario. Non c’è dunque tempo da perdere. Il problema delle banche e del trattamento delle sofferenze va affrontato con rapidità e lucidità. Era una crisi annunciata. Siamo arrivati in ritardo. Ma ciò che sta avvenendo in Italia deve valere da richiamo per l’Europa e farle comprendere che lo sforzo di riforma di questi ultimi anni è stato tutto mirato alla costruzione di regole appropriate per il "tempo di pace", cioè quando il peso della crisi sarà riassorbito. L’Europa, invece, non ha dedicato sufficiente attenzione a come accompagnare la transizione verso quella situazione di "normalità". Senza affrontare il problema della transizione, regole che sono da ritenersi giuste in tempi normali potrebbero rivelarsi controproducenti nel breve periodo. Il bail-in è un esempio illuminante di questa situazione. Ecco il tema che l’Italia e gli altri Paesi come noi esposti a nuove turbolenze per via del debito e delle sofferenze bancarie dovrebbero mettere al centro della discussione con Bruxelles. Madia: "il dirigente che non licenzia sarà licenziato, le nuove regole del lavoro pubblico" di Enrico Marro Corriere della Sera, 24 gennaio 2016 Il ministro Madia: "Torneranno le assunzioni per concorso ma addio alla pianta organica. Non ci saranno più incarichi a vita nell’amministrazione e si procederà con la chiusura delle società partecipate". Ministro Madia, quale degli undici decreti di attuazione della riforma della pubblica amministrazione approvati giovedì dal governo ritiene più importante? "Tutti i provvedimenti danno il segno del cambiamento. Sia questi undici sia gli altri nove che presenteremo entro agosto - risponde il ministro della Funzione pubblica Marianna Madia. Un decreto che certamente rappresenta un sfida rispetto al passato è quello sulla riduzione delle società partecipate". Il governo promette di portarle da 8 mila a mille. Ma i precedenti tentativi sono tutti falliti. Perché questa volta dovreste riuscirci? "Innanzitutto ampliamo i criteri che determinano la chiusura, portandoli a sei. Non potranno sopravvivere le cosiddette scatole vuote, le società doppione, inattive, sotto il milione di fatturato, in perdita per 4 esercizi negli ultimi 5 anni e quelle con una produzione non riconducibile a un interesse generale. Le amministrazioni che partecipano queste società dovranno predisporre i piani di razionalizzazione e se dopo un anno non le avranno chiuse o fuse con altre efficienti, lo farà il ministero dell’Economia al posto loro. Un meccanismo di sostituzione che prova che non stiamo giocando". Nel 2014 sono stati licenziati 227 dipendenti pubblici. Perché avete rafforzato le norme? "Lo abbiamo fatto per i casi di truffa con prove assolutamente evidenti. Penso a video e foto che documentino che il lavoratore non è presente in ufficio anche se risulta aver strisciato il badge. In questi casi c’è l’obbligo per il dirigente di allontanare il dipendente entro 48 ore. Se non lo fa, viene a sua volta licenziato e incorre nel reato di omissione di atti d’ufficio". Cioè rischia di andare in prigione? "Questo reato prevede la reclusione, ma sul se e come applicare le pene c’è il giudice". Puntate insomma sulla deterrenza? "Puntiamo su una norma etica che va innanzitutto a vantaggio della maggioranza dei dipendenti onesti che purtroppo, per colpa di una minoranza di disonesti, sono accomunati sotto l’immagine di fannulloni". Anche sui servizi pubblici promettete una svolta. Eppure la messa a gara, già prevista dalle leggi, è finora rimasta sulla carta. "Perché si è legiferato troppo e in maniera confusa. Già aver scritto un decreto che fa chiarezza sulle modalità di affidamento dei servizi è garanzia che ciò avverrà. Tuttavia, anche qui è prevista una norma di chiusura, con poteri di commissariamento delle Regioni sui Comuni e dello Stato sulle Regioni. I servizi pubblici dovranno essere organizzati su un’area territoriale non inferiore alle ex Province. E se l’amministrazione vuole mantenere la gestione in house, deve dimostrare che essa è vantaggiosa per i cittadini e ottenere il via libera dell’Antitrust". I sindacati sostengono che ci sono decine di migliaia di posti di lavoro a rischio. "Siamo consapevoli che si tratta di un cambiamento choc e prevediamo, oltre ai normali ammortizzatori, altre due forme di intervento. La prima è la clausola sociale, per cui nel primo contratto di affidamento la società vincitrice della gara eredita il personale della precedente gestione. La seconda è la mobilità, come abbiamo fatto per le ex Province: blocchiamo le assunzioni nelle partecipate e attiviamo, dove possibile, il ricollocamento degli esuberi". I decreti vanno ora al parere non vincolante del Parlamento e in alcuni casi della Conferenza unificata e del Consiglio di Stato. Quando verranno approvati definitivamente? Sono possibili miglioramenti? "Entro 2-3 mesi i decreti saranno sulla Gazzetta Ufficiale. Miglioramenti sono possibili purché, appunto, rafforzino le norme mentre non siamo disponibili a indebolirle". Ministro, una riforma ambiziosa può camminare sulle gambe dei dipendenti pubblici con l’età media più vecchia d’Europa (oltre 50 anni)? Che fine ha fatto la staffetta generazionale di cui aveva parlato due anni fa? "Innanzitutto i nostri dipendenti pubblici sono più qualificati di quello che si dice. Poi, è evidente che il ricambio è fondamentale. Il punto è come attuare questo ringiovanimento. Dobbiamo portare dentro l’amministrazione le professionalità che servono. Per questo il secondo pacchetto di decreti si fonda su un cambiamento del criterio guida delle assunzioni: non più la pianta organica, ma i fabbisogni". In pratica? "Oggi ogni amministrazione programma le sue assunzioni in base a vecchie piante organiche che non rappresentano più nulla. Fanno i concorsi, poi spesso non ricevono l’autorizzazione ad assumere, e si formano liste interminabili di idonei mentre si prorogano i contratti precari. Noi intanto abbiamo tolto la doppia autorizzazione, al concorso e all’assunzione. D’ora in poi, se vinci il concorso sei assunto. Ma i concorsi non si faranno più in base ai buchi delle piante organiche ma sui fabbisogni professionali, come si fa in un’azienda privata". Come cambierà la dirigenza? "Al dirigente pubblico saranno garantite l’autonomia e l’indipendenza fin dall’assunzione per concorso. Ma esse non saranno più legate all’inamovibilità intesa come un percorso automatico di carriera. Passeremo invece a una carriera legata alle valutazioni ricevute. Basta restare a vita nello stesso posto". I dipendenti reclamano il rinnovo del contratto di lavoro fermo da sei anni. Nella legge di Stabilità ci sono appena 300 milioni. "Per avviare la trattativa è necessario che i sindacati raggiungano un accordo sulla riduzione a 4 dei comparti, come prevede la legge. Poi se la ripresa dell’economia si consoliderà, i 300 milioni potranno anche crescere". Le piazze della libertà di Norma Rangeri Il Manifesto, 24 gennaio 2016 Un’Italia democratica, emozionata, festosa che va in piazza per rivendicare uguaglianza e libertà, di questi tempi è una notizia. Le nuove famiglie gay - e non solo - che si sono incontrate in cento città italiane, non vogliono più sentirsi fantasmi sociali, ma essere riconosciute alla luce del sole. Le donne e gli uomini che ormai da oltre dieci anni - era il 2002 quando si discuteva dei Pacs - combattono e si organizzano per non subire l’umiliazione di vivere come persone di serie B, hanno trovato la forza per mettere in piazza l’orgoglio e la dignità della loro esperienza matrimoniale e familiare. Decine di migliaia di persone sono uscite dai condomini, dalle scuole, dagli uffici alzando il velo del silenzio e ben decise a difendere il diritto di tanti - adulti e bambini, genitori e figli - di vivere in un paese che finalmente, attraverso una legge, regoli e tuteli anche le loro scelte di vita, sociale e affettiva. Per tutte queste persone non c’è luce, non c’è futuro sotto le plumbee prediche dei Ruini e dei Bagnasco, sotto le insegne sfigurate delle regioni amministrate dai leghisti e dai berlusconiani che si preparano all’appuntamento della corazzata del family day. Verso questa realtà che fa parte a pieno titolo del nostro vivere quotidiano, non c’è ascolto politico, perché i partiti e il parlamento sanno offrire soprattutto una fedele, sincera rappresentazione della loro storica inadeguatezza. Lo dimostra l’imbarazzante, odioso ritardo con cui si arriva (forse) a una moderata svolta legislativa, ancora impantanata in strumentali distinguo tra la coppia gay e la coppia eterosessuale, tra figli e figliastri. Senza sottovalutare la subalternità che, ancora oggi, la classe politica mostra verso i comandamenti più conservatori della chiesa cattolica. È una subalternità usata come uno scudo, un paravento, un alibi dietro il quale occultare un’idea di matrimonio e di famiglia governata da gerarchie e ruoli, frutto di una retriva difesa di antiche strutture di privilegio (patrimoniale e di genere). Sembra un dejà vu, visto e vissuto ai tempi delle battaglie sul divorzio e sull’aborto, quando la Dc considerava scandalosa la donna divorziata e il Pci riteneva impreparato il popolo dei lavoratori a quella sfida laica e di civiltà. Perché anche allora, con il divorzio e con l’aborto, si metteva in crisi l’ipocrisia del matrimonio eterno e si disvelava l’orrore degli aborti clandestini: si negava il valore di una maternità scelta e consapevole. Si votò e fu chiaro invece cosa voleva il nostro paese. Non è cambiato molto l’atteggiamento di una parte della politica e della chiesa. Siamo, nel 2016, ai raduni dei family day, e ancora alle prese con un partito come il Pd, lontano dal riconoscersi in una cultura laica perché sempre diviso tra guelfi e ghibellini, e condizionato dalle opposizioni cattoliche interne e da infaticabili estensori di emendamenti che negano il riconoscimento pieno del matrimonio omosessuale. Per fortuna è cambiato il mondo che viviamo ogni giorno. In Italia e all’estero, dove si sono mobilitati paesi (come l’Irlanda), dove la forza della religione cattolica sembrava aver interdetto l’emancipazione e i diritti che, invece, si sono pienamente affermati. Tuttavia, nonostante i ritardi, i freni, e gli ultras cattolici, avremo probabilmente una legge. Quale? Lo sapremo quando la proposta Cirinnà andrà al voto del parlamento, e vedremo se il governo Renzi -Alfano, nonostante tutto, riuscirà laddove hanno fallito i precedenti governi del centrosinistra. Unioni civili. "Sì" in piazza. "Nessuno si nasconda dietro il voto segreto" di Carmelo Lopapa La Repubblica, 24 gennaio 2016 L’Arcigay: un milione in cento città. Appello a Renzi La relatrice Cirinnà: diritti, non siamo contro nessuno. È il giorno delle "piazze arcobaleno". Se ne colorano 98 in tutta Italia, da Aosta a Palermo, alla vigilia dell’approdo in aula di una delle leggi più attese da migliaia di coppie. Il testo delle unioni civili che porta il nome della senatrice Pd Cirinnà inizierà al Senato giovedì un percorso che si annuncia già denso di incognite e insidie e che si risolverà nella roulette russa del voto segreto. Sabato sarà la volta del Family day al Circo Massimo. Ma ieri obiettivi e microfoni sono stati per le "sveglie" simbolo del movimento gay e del mondo Lgbt. L’Arcigay parla di "giornata storica" e di "un milione di presenze" sotto le bandiere e lo slogan di "Svegliatitalia". Stima forse esagerata, di certo il colpo d’occhio soprattutto nelle grandi città è stato di un certo impatto. A Roma al Pantheon sono almeno in 5 mila, ovazione quando prende la parola la relatrice del testo Monica Cirinnà. "Questa è una piazza per i diritti, non contro qualcuno. Il Pd - assicura - sarà unito e sarà una bella legge per l’Italia". Ci sono il presidente del Pd Matteo Orfini e il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova. Il senatore di Area popolare, ma di matrice radicale, si dichiara contrario al voto segreto: "Alcuni politici vorrebbero nascondersi, mentre sarebbe utile contarsi". La stessa richiesta viene dall’Arcigay: "Renzi non nasconda il Pd dietro il voto segreto, vogliamo sapere chi dice sì e chi dice no". Ad applaudire la Cirinnà, tra gli altri, il cantante Scialpi col marito (matrimonio a New York). A Milano gremita da oltre 9 mila persone piazza della Scala. C’è il sindaco uscente Giuliano Pisapia: "Il Paese è con noi e non dalla parte di chi vuole accendere le luci e spegnere i diritti", attacca rivolto al governatore Maroni e all’iniziativa di illuminare il Pirellone con la scritta "Family Day". La giudica un "grave errore" anche il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina, pure lui in piazza come la leader Cgil Susanna Camusso. A Torino, piazza Carignano, in settemila con il sindaco Piero Fassino per "una battaglia di civiltà", come l’ha definita. Scendono per strada anche gruppi di italiani a Monaco, Francoforte, Berlino, Vienna, Bruxelles, Copenaghen, Dublino. Sul ddl pesano i seimila emendamenti depositati. I capi gruppi forzisti Brunetta e Romani ribadiscono insieme il "no" al testo, pur lasciando libertà di coscienza, punto di mediazione finale tra la linea dettata da Berlusconi e la "rivolta" della sua fidanzata Francesca Pascale, sponsor delle unioni. Ma dentro Fi il gruppo al Senato è compatto sul no. Così anche Anna Maria Bernini, Paolo Galimberti e Antonio Razzi, che pure si attestano su posizioni laiche sulle unioni. Unico incerto sul voto finale è Augusto Minzolini. Resta un’incognita la scelta dei 35 senatori M5s. Pronti a votare sì se il testo non sarà stato ritoccato. Sembra che i 12 emendamenti concordati in ultimo in casa Pd siano stati discussi anche con il capogruppo grillino Michele Giarrusso e con Alberto Airola che ha seguito il dossier. Ma il dibattito tra i 5Stelle è ancora aperto. Domani si aprirà il Consiglio permanente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco si è già espresso sul ddl ma c’è attesa per la posizione ufficiale sulle unioni civili. Liguria: finalmente il Garante dei detenuti, una speranza per chi vive nell’inferno di Alessandra Ballerini La Repubblica, 24 gennaio 2016 Non so cosa rispondergli. Mi giro la sua lettera tra le mani, non la cestinerò, lui lo sa bene e l’ha già previsto nella sua missiva mettendomi da subito con le spalle al muro, ma l’impotenza paralizza ogni mia capacità di scrittura e di reazione. Mi succede ad ogni lettera dal carcere e ad ogni visita tra i ristretti. Le loro legittime ed educate richieste di giustizia mi costringono a esercizi di compostezza e diplomazia faticosissimi. Quando una persona privata della libertà, cieco da un occhio o senza una gamba o molto anziana, si lamenta del freddo che in poche ore durante la visita, nonostante si abbia ancora indosso il cappotto, noi osservatori di Antigone sentiamo già insopportabile, cosa puoi rispondere? O quando, sempre senza farsi accorgere dalla guardia che non si sa mai possa prendere le lamentele come un’offesa personale, un detenuto chiede di poter avere del cibo che sia commestibile o un orologio che segni il passare interminabile del tempo e lo rassicuri che non si è fermato, il tempo, lì tra quelle sbarre, l’unica risposta possibile è l’ascolto muto, partecipe ma silente. E il conforto, che probabilmente non riesco a trasmettere, che quelle parole resteranno impigliate come filo spinato nei nostri pensieri e nelle nostre giornate di uomini liberi e verranno raccolte e diffuse nei nostri rapporti e nelle nostre pubbliche istanze. A volte i più audaci tra i detenuti aggiungono alle richieste una domanda che li tormenta evidentemente dal primo giorno di reclusione: se lo Stato non è in grado di rispettare le regole, sia quelle precise previste dalla legge penitenziaria del 1975 sia quelle inderogabili e perfette imposte dalla nostra Costituzione e dalla Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, com’è che tutti si aspettano le si debba rispettare noi, comuni mortali spesso pure vessati una sorte infelice? E come si può pretendere che, dopo anni passati impotenti e rabbiosi ad assistere a violazioni di diritti e disprezzo delle regole da parte di quello stesso Stato che ci rinchiude per rieducarci, si possa uscire da queste sbarre migliori di come si è entrati? Domande assolute che, al pari delle richieste per la vita quotidiana, sono così importanti da non meritare alcuna risposta che non sia risolutiva. E ovviamente io non ho soluzioni. Per questo mi giro da due settimane quest’ultima lettera tra le dita. Ma oggi forse posso azzardare una risposta. Non decisiva, né personalizzata, ma un barlume di speranza. A breve forse l’attenzione ai diritti dei reclusi potrebbe divenire più vigile e strutturata. Giovedì scorso davanti ad un’affollata ed attentissima platea il Consigliere Regionale Gianni Pastorino insieme ai relatori Giovanni Maria Bellu (Presidente della Carta di Roma), Patrizio Gonnella (Presidente di Antigone), Stefano Anastasia (ricercatore Università di Perugia) e Massimo Calandri (giornalista inviato di Repubblica), ha presentato la proposta di legge regionale per l’istituzione del garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Gli scriverò di quest’incontro e di come per due ore si è affrontato il tema del carcere senza mai parlare di colpa o di punizione ma di dignità, di rispetto delle regole e dei diritti e di come sia apparso naturale e decisamente pressante il bisogno nella nostra regione di una figura indipendente e autorevole che possa dare risposta alle concrete richieste di giustizia che provengono dai tanti luoghi di privazione della libertà. E gli dirò, alla fine della lettera, come un buon auspicio, che al termine dell’incontro nella sala aleggiava pressante la domanda posta da Zagrebelsky nella postfazione del libro "Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini" non ci appare stupefacente che in tanti secoli l’umanità che ha fatto tanti progressi in tanti campi delle relazioni sociali non sia riuscita ad immaginare nulla di diverso dalle gabbie, sbarre, celle dietro le quali chiudere i propri simili come animali feroci?". Savona: Uil-Pa; chiusura carcere fallimento politico, ora nuovo penitenziario a Cairo ivg.it, 24 gennaio 2016 "Abbiamo annunciato per primi la chiusura del Sant’Agostino di Savona, anticipando la stessa amministrazione penitenziaria e cogliendo di sorpresa la politica savonese e alcuni sindacati. In questi giorni stiamo assistendo a proclami politici e sindacali senza senso (vedi il falso sciopero della fame dei detenuti), ma il decreto ministeriale del 28 dicembre 2015 parla chiaro: il ministro Orlando ha soppresso il Sant’Agostino". Ad intervenire sono Fabio Pagani, segretario regionale della Uil Penitenziari, e Paolo Badalino, segretario Uil-pa. "È inutile piangerci addosso - proseguono - è un fallimento della politica locale che da tempo conosceva le precarie condizioni della struttura, poco attenta alla politica europea in merito alle condizioni dei detenuti all’interno di istituti di pena. Ed inoltre nulla è stato fatto in merito a individuare, progettare, ed edificare il nuovo carcere. Ora bisogna correre - aggiunge Pagani - la soluzione migliore, immediata e di buon senso per poter fronteggiare il problema è la concreta possibilità di realizzare il nuovo carcere dall’interno della Scuola di Polizia Penitenziaria di Cairo Montenotte: una soluzione rapida, più economica e soprattutto di recupero ed impiego di personale di Polizia Penitenziaria e Comparto Ministeri". "Ora alla politica locale, all’amministrazione penitenziaria e ovviamente al Ministro Orlando l’analisi della nostra proposta che invieremo nei prossimi giorni - annunciano dalla Uilpa - oggi si è verificato quello che sempre abbiamo sostenuto: il mondo delle carceri non riscuote alcun interesse tra i politici e nel Governo, altrimenti non saremmo qui a parlare di questi ritardi. Adesso la politica locale è impreparata alla decisione di soppressione del carcere di Savona, e solo ora si accorge dell’importanza strategica e di contenimento del sovraffollamento. Una decisione che rischia di essere fatale", conclude Pagani. Caserta: "Fuori dalla Gabbia", progetto formativo per ex detenuti pupia.tv, 24 gennaio 2016 Con l’approvazione dello schema di protocollo d’intesa con il Consorzio "Nco-Nuova Cooperazione Organizzata", si avvia il progetto formativo per ex detenuti, denominato "Fuori di Gabbia", strutturato dal Servizio Sociale Professionale. Si dà il via, pertanto, ad un’intesa con il gestore dei beni confiscati per l’utilizzo del bene volto a rafforzare la cultura della legalità nel nostro territorio. "La rilevanza sociale del progetto - commentano il sindaco Nicola Di Benedetto e l’assessore alle Politiche sociali, Mario Migliozzi - è duplice in quanto mira all’inclusione sociale di persone che hanno sicuramente commesso dei gravi errori violando la legge, ma allo stesso tempo si propone l’obiettivo di recuperare alla vita chi ha pagato il debito contratto con la società attraverso un percorso formativo mirato all’inserimento lavorativo teso anche al reinserimento sociale. "L’amministrazione comunale ritiene prioritari e di grande impatto sociale gli obiettivi contenuti nel progetto "Fuori di Gabbia" per il duplice fine di legalità contenuto: "Con il recupero del bene si tende anche al recupero della persona come tale", sottolineano Di Benedetto e Migliozzi. Foggia: i reclusi rimettono a nuovo protesi per persone non autosufficienti di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 24 gennaio 2016 Aperto "l’Atelier dell’ausilio", un progetto sperimentale finanziato da Fondazione con il Sud all’interno dell’iniziativa Carceri 2013 permetterà ai detenuti di aiutare la Asl pugliese nel recupero di arti artificiali. Una bottega e un’officina per ridare nuova vita a protesi obsolete o dismesse grazie al lavoro di detenuti. È questo il progetto sperimentale d’innovazione sociale finanziato da Fondazione con il Sud e nato anche grazie alla sinergia tra pubblico e privato. A cooperare per la realizzazione infatti enti pubblici come l’Asl di Foggia e la casa circondariale di Lucera e soggetti privati tra i quali la Cooperativa sociale L’Obiettivo e la capofila "Escoop - Società cooperativa europea". Aiutare e aiutarsi. Il lungo percorso che ha portato all’inaugurazione dell’ "Atelier dell’Ausilio" è iniziato nel maggio 2014 con l’adeguamento funzionale dei locali della Casa circondariale di Lucera per la realizzazione della "Bottega dell’Ausilio", il luogo dove ha preso vita la prima unità produttiva. Mentre il secondo polo produttivo si trova nella zona industriale di Cerignola dove nell’ "Officina dell’ausilio" i dipendenti si occupano di ritirare, riparare e sanificare le protesi per disabili. Gli operai che si occupano di queste fasi hanno seguito un corso di formazione sia teorico che sul campo per poi essere assunti con il Ccnl delle Cooperative Sociali. Gerarchie solidali. Tra i dipendenti nell’officina dell’ausilio ci sono tre detenuti della casa circondariale di Lucera e quattro persone in esecuzione penale esterna. A coordinarli con la mansione di caposquadra saranno due reclusi già formati sul campo e assunti dalla Cooperativa L’Obiettivo nel mese di aprile 2015. Il tutto per garantire un servizio alla Asl foggiana che grazie al lavoro dell’Atelier potrà garantire un miglior funzionamento e soprattutto mautenzione e recupero degli arti artificiali. Nonostante sia in fase sperimentale, il progetto assicura alla Asl pugliese una serie di servizi. Il primo consiste nel ritiro delle protesi obsolete o danneggiate sia dalla Asl che presso abitazioni private. Dopo aver individuato il problema, gli ausilii saranno divisi e destinati a vari percorsi. Una volta terminate le diverse fasi che posso variare dalla manutenzione al ricondizionamento, dalla rigenerazione alla sanificazione, sotto la guida della Asl l’Atelier provvederà a consegnare le protesi trattate ai destinatari. L’innovazione fa bene. Il servizio garantito dall’Atelier, recuperando ausilii che altrimenti avrebbero dovuto essere sostituiti, ridurrà le spese dall’azienda sanitaria locale in modo incisivo. Un risparmio che di conseguenza segna una diminuzione della spesa pubblica destinata alla Sanità che si aggira tra il 60% e il 70% del costo sostenuto per l’acquisto degli ausili nuovi. Ma i benefici sono anche altri come un miglioramento del servizio anche per l’utente che riceverà gli ausili direttamente a casa sua. Reggio Emilia: detenuti-attori e studenti insieme sul palco in "Angeli e Demoni" Gazzetta di Reggio, 24 gennaio 2016 L’Herberia ospita in prima nazionale l’allestimento del regista Stefano Tè Studio sulla Gerusalemme Liberata per parlare di guerre e scontri di civiltà. Secondo appuntamento con la nuova stagione di prosa 2015-2016 curata dalla Corte Ospitale. Stasera alle ore 21 e domani pomeriggio alle ore 17, al teatro comunale Herberia di piazza Gramsci 17b va in scena in prima nazionale Angeli e Demoni. Il regista Stefano Tè porta in scena detenuti e internati delle case circondariali di Castelfranco Emilia e Modena insieme agli studenti di classe V dello Spallanzani di Castelfranco Emilia e agli attori del Teatro dei Venti, con uno studio tratto dal poema epico La Gerusalemme Liberata. L’azione scenica si concentra sulla battaglia tra Angeli e Demoni, tra Cristiani e Musulmani. L’obiettivo consiste nel creare un racconto sul contemporaneo, mettendo a confronto chi solitamente non ha voce, attraverso un testo che porta con sé l’eco della guerra e scontri di civiltà. Nell’opera del Tasso, conflitti ideologici e spirituali, motivi epici e amorosi, intenzioni religiose e profane, si intrecciano in maniera convulsa e intensa. Lo studio vuole mettere a fuoco suggestioni, suoni e azioni, che aprono ad un’ambientazione desertica, un immaginario bellico che inevitabilmente conduce a vicende contemporanee. Il progetto rappresenta un ennesimo passo sulla strada che cerca di rendere il teatro in carcere funzionale al teatro stesso; inoltre, attraverso il percorso di prove in residenza presso La Corte Ospitale, si offre ai detenuti la possibilità concreta di permanenza prolungata fuori dalle mura carcerarie per un motivo puramente artistico, un progetto che mira a concentrare energie e risorse in una creazione straordinaria. Prossimo spettacolo. Il 2 febbraio in prima regionale "Le intellettuali" di Molière, traduzione Cesare Garboli, adattamento e regia Monica Conti, con Maria Ariis, Stefano Braschi, Marco Cacciola, Monica Conti, Federica Fabiani, Miro Landoni, Roberto Trifirò, scene e costumi Domenico Franchi, musiche Giancarlo Facchinetti. Informazioni: biglietti 14 euro intero e 12 euro ridotto (giovani con meno di 25 anni, pensionati con più di 65 anni, soci Arci e soci Coop). Carta Doc, biglietto a 8 euro riservato ad insegnanti e docenti dell’Emilia Romagna e per gli studenti universitari di Modena e Reggio Emilia. Telefono teatro 0522 620852. La biglietteria è aperta ogni sera di spettacolo a partire dalle 20. La domenica apertura a partire dalle 16. Quanti rischi nello stato di emergenza di Gianmarco Pondrano Altavilla* e Domenico Letizia** L’Unità, 24 gennaio 2016 Sono convinto che non possiamo più nutrire la ragionevole speranza di salvare tutto, ma che possiamo quantomeno proporci di salvare i corpi di modo che il futuro resti un futuro possibile", 1946. Sulle colonne di "Combat", organo della Resistenza francese, Albert Camus pubblica una serie di otto articoli, intitolata "Né vittime né carnefici". Dopo gli sconvolgimenti dei decenni alle spalle, sulle macerie di un civiltà devastata dal terrore e dall’odio, il pensatore algerino invia un messaggio all’Europa e al Mondo che a 70 anni di distanza risuona ancora attuale, ancora pressante. Un messaggio di una semplicità disarmante: ogni uomo, ogni donna, in ogni luogo, oggi e sempre meritano di vivere. Sembrerà banale ma non lo è. Non lo era allora, per Camus che sino ad un anno prima aveva incrociato le penne con Francois Mauriac, invocando la pena di morte per i collaborazionisti del periodo dell’occupazione (ebbe il coraggio di "pentirsi" pubblicamente). E banale non lo è nemmeno oggi. Quando la morte continua a giungere non solo per mano di singoli, ma di interi Stati. A quelle ideologie del suo come del nostro presente, che pretendevano e pretendono tuttora di edificare il paradiso, qualsiasi paradiso celeste, o terrestre che sia, usando dei cadaveri come mattoni, Camus opponeva il credo umano, limitato, ma saldo, del corpo e dei corpi. L’uomo e la donna, quest’uomo, questa donna, qui e ora. Ogni valore, ogni dignità risiedono in loro e nella incredibile, straordinaria possibilità che gli è propria di comprendere, d’agire, di evolvere, di migliorare loro stessi e gli altri. Una possibilità che li rende unici, insostituibili, quindi intangibili. "Ecco la grande motivazione - scriveva in uno degli articoli della serie - la passione e il sacrificio richiesti. Il che esige soltanto che vi si rifletta, e si decida con chiarezza se vale la pena aggiungere ancora dell’altro al dolore umano per scopi sempre meno definibili, se vale la pena accettare che il mondo si riempia di armi e che il fratello uccida di nuovo il fratello, o se vale invece la pena risparmiare il più possibile sangue e dolore per demandare ad altre generazioni (...) le opportunità che si presenteranno loro". Aggiungendo qualche anno più tardi: "Siamo tutti giudici e parti in causa. Ne consegue la nostra incertezza sul diritto a uccidere e l’impossibilità in cui ci troviamo di convincerci reciprocamente. Senza innocenza assoluta non esiste giudice supremo. (...) Non esistono giusti, ma soltanto animi più o meno sprovvisti di giustizia. (...) Il diritto alla vita, che coincide con la possibilità di riscatto, è il diritto naturale di ogni uomo, persino del peggiore. L’ultimo dei delinquenti e il più integro dei giudici si ritrovano qui fianco a fianco, egualmente infelici e solidali. Senza questo diritto la vita morale è assolutamente impossibile. Nessuno di noi, in particolare, è autorizzato a disperare di un uomo, chiunque egli sia, se non dopo la morte che ne trasforma la vita in destino, e consente allora il giudizio definitivo. Ma pronunciare il giudizio definitivo prima della morte, decretare la resa dei conti quando il creditore è ancora vivo, non spetta a nessun uomo. Su questo limite, per lo meno, chi giudica in maniera assoluta si condanna in maniera assoluta". Certo, non si può immaginare un mondo dove la violenza, l’omicidio, scompaiano del tutto. Si può, però, ragionevolmente tentare di costruire un mondo dove l’omicidio in quanto tale almeno non sia mai considerato legittimo. Dove la Giustizia perda definitivamente ogni legame con le sue radici fatte di vendetta. A molti probabilmente sembrerà allo stesso tempo un obiettivo troppo, e troppo poco ambizioso. Perseguendo le loro utopie fatte oramai più di cinismo ed ipocrisia che di vera fede, riterranno questa lotta limitata ed illusoria insieme. Eppure in tempi in cui la civiltà dell’individuo e della libertà è minacciata non solo e forse non tanto dal di fuori, ma da se stessa, dalla propria paura, dalla propria incapacità di dominare i propri istinti ancestrali, ripartire dai "corpi", dalle singole concrete persone e dalla loro tutela; ripartire dalla legittima aspirazione di ognuno a vivere e crescere sviluppando le proprie potenzialità, è quanto mai fondamentale. Proprio quella cultura francese che fece da culla all’evoluzione dello spirito algerino di Camus ce ne sta dando la riprova: dopo i tragici fatti di Parigi, la Francia tutta è attraversata da un intenso dibattito circa l’inserimento di elementi dello "stato di emergenza" e dello "stato securitario" all’interno della stessa Costituzione, capaci di trasformare la ragion di Stato in una forma sviata di stato di Diritto, travolgendo l’idea stessa di democrazia, di giustizia e più "umilmente" - nell’ottica camusiana - di tutela della concretezza dell’uno contrapposto alle esigenze, pure comprensibili, dei "tanti". Una Francia che tradisce i propri principi di fratellanza, libertà e diritto, che tradisce i "corpi", rinunciando all’aspirazione comune, transnazionale, universale alla dignità della persona, della sua vita, della sua esistenza. Una Francia in cui molti, troppi vedrebbero con favore il ritorno dell’inquietante ombra del patibolo o comunque l’adozione di strumenti legali capaci di rendere la "vita" un disgustoso eufemismo. E dalla Francia, il ceppo virale già infetta tutta l’Europa, facendola crollare nelle sue stesse paure, con la concreta possibilità che i cupi fantasmi del passato si ripresentino sotto nuove vesti. A fronte della civiltà del terrore che sventola i suoi orrendi cappi ai nostri confini e insinua il dubbio sui nostri valori all’interno, la lezione di Camus si presenta come un rifugio di umiltà e fermezza cui fare riferimento ancora una volta. Una piccola ridotta, nell’infuriare di tante battaglie più grandi di noi. Ma che se difesa strenuamente, giorno per giorno, con l’opera di tutti potrà forse salvarci dalla paura e dall’odio che sembrano offuscare il nostro avvenire comune. * Centro di studi "Gaetano Salvemini" ** Consiglio direttivo di "Nessuno Tocchi Caino" Lo sguardo corto sui rifugiati di Carlo Bastasin Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2016 È il difetto di una democrazia stanca e rituale pensare che i problemi diventino politici solo se influenzano la scelta elettorale più vicina. Nel cercare soluzioni al problema dell’immigrazione, il nostro sguardo si ferma sempre troppo presto: alle elezioni locali di primavera in Germania e in Italia o a quelle generali che nel 2017 decideranno le sorti di Merkel e Hollande. Questa miopia politica indebolisce anche la strategia europea dell’Italia. È possibile tenerne conto prima dei prossimi decisivi incontri di Matteo Renzi con la cancelliera Merkel e con il presidente Juncker. In realtà, non troveremo alcuna soluzione se non allunghiamo lo sguardo. Nel 2050 la sola Nigeria avrà più abitanti degli Stati Uniti o dell’Euro-area. Nel 2100 ci saranno più etiopi che europei. La popolazione africana supererà i 4 miliardi, mille volte il numero dei siriani che hanno abbandonato la loro casa durante la guerra. Mille volte cioè la quantità di profughi che già ora ci fa cedere all’istinto di rialzare i muri e revocare gli accordi di libera circolazione. I quattro milioni di siriani sono certamente un’entità rilevante, tre volte superiore ai profughi delle guerre balcaniche negli anni Novanta o a quelli dell’Indocina nei due decenni precedenti. Rappresentano un esodo anche paragonati ai 15 milioni della seconda guerra mondiale. Ma attualmente le Nazioni Unite stimano che la grande maggioranza dei 59 milioni di rifugiati nel mondo aspiri a tornare nel paese di origine. Dal punto di vista morale, politico ed economico non è corretto tenere problemi di tale dimensione umana in ostaggio di un lancio di dadi tra stati nazionali, cioè di scontri ispirati da interessi elettorali che arrivano al massimo a scandagliare pochi mesi a venire. È per esempio un’ipotesi pericolosa quella tedesca di ristabilire la cortina di ferro ai confini meridionali della Slovenia. Forse si tamponerà l’immigrazione per qualche mese, allentando le minacce politiche alla cancelliera, ma milioni di profughi finirebbero imbottigliati tra Grecia e Croazia, in un territorio instabile, mal governato, o reduce da guerre recenti a sfondo etnico e religioso. È anche irragionevole da parte di Roma non schierarsi con Bruxelles nel rilanciare una politica estera e di difesa comune che vedrebbe al vertice istituzionale proprio una protagonista italiana. È indispensabile inoltre cercare una soluzione alle sofferenze dei profughi al vertice di Londra del 4 febbraio, sviluppando le zone protette in Libano e Turchia. Ma bisogna andare oltre tutto ciò. Gli europei devono impostare una strategia di respiro secolare per Africa e Vicino Oriente al vertice Onu di settembre, approfittando finché è ancora possibile del dialogo col presidente Obama. Nessun governo europeo è in grado di agire da solo di fronte a tali sfide e ciò rende miserevoli le questioni che occupano l’agenda politica degli Stati nazionali. Risibile la campagna per il Brexit; patetica la reticenza di Parigi e Berlino nel coordinarsi; scandalosa la retorica nazionalista di Ungheria e Polonia. Ma non è morale nemmeno barattare la collaborazione sui temi dell’immigrazione con le concessioni su un pò di spesa pubblica in più, come sta facendo Roma. Anche questa è una conseguenza del dominio degli interessi elettorali di breve termine. La bassa crescita italiana, da vent’anni molto inferiore alla media europea, è dovuta per quattro quinti alla minore produttività totale dei fattori, non alla minore spesa pubblica. Puntare sulla "flessibilità permanente" del bilancio significa aggirare il compito di rivedere la funzione di produzione del paese, l’efficiente combinazione di capitale e lavoro attraverso innovazioni. Significa cioè evitare di cambiare ciò che non funziona: il sistema della giustizia, i mercati del lavoro e dei prodotti, i criteri del credito e tutti gli istituti che presiedono alla formazione del capitale umano. Anche qui il problema è lo stesso: cambiare il paese richiede un impegno di lungo respiro mentre la politica è concentrata sulle brevi scadenze. Uno studio pubblicato da Sep (Luiss) mostra come la strategia italiana di puntare sulla flessibilità fiscale ostacoli ogni progresso nelle politiche europee di condivisione dei rischi. Impedisce che gli altri paesi concordino su forme di mutualizzazione, tra cui l’assicurazione dei depositi bancari e il fondo di risoluzione comune, che sarebbero vitali per un paese ad alto debito come l’Italia. In questo senso, strategia per l’immigrazione e politica economica sono davvero legate. Non perché possano essere una la contropartita dell’altra - concessioni alla Germania sull’immigrazione contro maggiore flessibilità fiscale per l’Italia, bensì perché entrambe contrappongono scelte nazionali a scelte condivise. I prossimi incontri di Renzi con Merkel e Juncker sono l’occasione per mettere a fuoco una comune strategia di condivisione dei rischi. Barriera anti-profughi, il (nuovo) piano Ue di Maria Serena Natale Corriere della Sera, 24 gennaio 2016 Dal confine macedone sono transitati circa 38 mila migranti dall’inizio dell’anno Un muro per sigillare il confine Grecia-Macedonia La proposta slovena piace a Bruxelles e agita Atene che resterebbe isolata. Da Nord a Sud ogni giorno nuovi muri di controlli e divieti, da Sud a Nord non si ferma il flusso di una migrazione che fa saltare regole e confini. Anche la linea del fronte si sposta in questa crisi dai troppi punti di rottura. Prima l’Italia lasciata sola nel Mediterraneo, poi l’Ungheria delle barriere di filo spinato per fermare il flusso lungo la rotta balcanica, quindi il braccio di mare tra Turchia e isole greche dell’Egeo con il suo carico di vite e dolore. Un nuovo focolaio si accende ora al confine meridionale della Macedonia, dal quale passano i profughi in arrivo dalla Grecia diretti verso Germania, Austria e Paesi del Nord Europa. La Ue sta studiando un piano per aiutare Skopje a fermare il passaggio dei migranti che si ritroverebbero così bloccati in una Grecia circondata e costretta a gestire all’interno un’emergenza superiore alle forze del governo di Alexis Tsipras. Il primo ministro di Atene, già alle prese con le contrastate riforme previste dal terzo pacchetto di salvataggio internazionale, giudica pericolosa l’ipotesi di rafforzamento dei controlli al confine macedone emersa mercoledì scorso dalla riunione degli ambasciatori europei su proposta della Slovenia e già sfociata nell’invio di una squadra tecnica per valutare la situazione sul terreno. I funzionari della Commissione Ue dovranno ora stimare l’entità delle risorse - mezzi e uomini - necessarie alla Macedonia, che nella settimana appena conclusa ha bloccato la frontiera due volte "per motivi tecnici". Il confine è stato riaperto ieri, aggiornata la conta degli ingressi: oltre mille nelle ultime 24 ore, circa 38 mila dall’inizio dell’anno, con temperature sotto lo zero e nevicate che mettono in serio pericolo i profughi, tra i quali molti anziani, donne e bambini. La Macedonia attualmente respinge i migranti economici e lascia passare solo rifugiati da Siria, Afghanistan e Iraq decisi a raggiungere Austria e Germania, due dei Paesi che insieme a Slovenia, Svezia e Danimarca nelle ultime settimane hanno annunciato la reintroduzione dei controlli temporanei ai confini. Sigillando la frontiera Nord, il progetto europeo di fatto taglierebbe fuori dall’area di libera circolazione di Schengen la Grecia che ha visto oltre 850 mila ingressi nel 2015, più di 42 mila solo a gennaio 2016. La rapida risposta di Bruxelles alla sollecitazione del premier di Lubiana Miroslav Cerar, preoccupato per il passaggio di migranti irregolari dalla via dei Balcani che ormai include a pieno titolo anche la piccola Slovenia, riflette la presa d’atto del fallimento del piano di cooperazione con Ankara per tentare di arrestare il flusso in Turchia. Solo venerdì scorso 43 persone hanno perso la vita nel doppio naufragio dell’Egeo, tra loro 17 bambini. E traduce il senso d’impotenza che corre tra le capitali di fronte a una marcia che sfida l’inverno per sfuggire alla guerra e alle persecuzioni trovando un’Europa divisa e paralizzata, incapace anche di procedere con il sistema degli hotspot per l’identificazione dei migranti in Grecia e Italia e con lo smistamento dei 160 mila richiedenti asilo previsto dalla Commissione: finora solo 331 rifugiati sono stati ricollocati. L’operazione Macedonia piace a Berlino da dove Angela Merkel mantiene la leadership politica della gestione dell’emergenza ma deve fare i conti con un’opposizione interna alla linea dell’apertura che è stata rinvigorita dalle polemiche sull’aggressione di massa di Capodanno a Colonia e che nell’immediato costringe la cancelliera a un riposizionamento a favore di controlli più severi. Il progetto piace anche al presidente del Consiglio Ue, il polacco Donald Tusk, che con i leader europei ha fissato per marzo l’ultimatum per l’elaborazione di un nuovo piano capace di salvare uno dei pilastri dell’Unione, la libera circolazione nello spazio Schengen - con annessa revisione del sistema di Dublino sul diritto d’asilo. Europa ultima chiamata. Schengen: nessuna sospensione possibile di Giovanni Maria Del Re Avvenire, 24 gennaio 2016 "Non c’è alcuna sospensione di Schengen sul tavolo". È stata perentoria Natasha Bertaud, portavoce della Commissione Europea per il settore migrazione commentando le voci riportate dalla stampa italiana. Perché sulla vicenda dei controlli interni all’Europa senza frontiera con l’acuirsi della crisi aumenta anche la confusione. Una confusione che potrebbe, si spera, forse ridursi lunedì 25 gennaio al consiglio informale dei ministri dell’Interno ad Amsterdam, con l’occhio rivolto al Consiglio Europeo che riunirà i leader a Bruxelles il 18 e 19 febbraio. Nessuno chiede la fine del sistema Schengen, "se viene distrutto è l’intera Europa drammaticamente in pericolo" ha detto il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, mentre il presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz parla di "effetti catastrofici" e l’Alto rappresentante Ue Federica Mogherini di "costi impressionanti". "Non c’è altra scelta se non collaborare - ha avvertito anche il presidente Bce Mario Draghi - sono fiducioso che alla fine la portata del fenomeno lo farà capire e penso che si arriverà a un accordo ragionevole". Non si sta parlando in effetti di "sospendere Schengen", come se d’un tratto ovunque dovessero ritornare controlli di frontiera. La questione riguarda specificamente alcuni paesi che già hanno reintrodotto controlli (Francia, Svezia, Danimarca, Germania, Austria e Norvegia - fuori Ue ma dentro Schengen). Lo stesso Codice Schengen prevede la possibilità di ripristinare temporaneamente i controlli per una massimo di due mesi di fronte a eventi imprevisti (articolo 25) e massimo sei per gli altri casi (articolo 24), sempre per motivi di sicurezza interna. Il problema più acuto riguarda la Germania, che a settembre ha attivato l’articolo 25 poi, da novembre, l’articolo 24. A maggio sarebbe costretta a ripristinare i controlli ma, come ha detto il ministro dell’Interno Thomas Da Maizière, Berlino non ci pensa proprio. La Germania si richiama all’articolo 26 del Codice, previsto nel caso in cui "il funzionamento globale dello spazio senza controllo alle frontiere interne è messo a rischio a seguito di carenze gravi e persistenti nel controllo di frontiera alle frontiere esterne". Ci vuole, però, un rapporto della Commissione che confermi che questa situazione si è verificata, con una raccomandazione su dove i controlli interni debbano essere introdotti (o mantenuti), che dovrà essere poi approvata a maggioranza qualificata dal Consiglio Ue. I controlli possono esser rinnovati semestralmente per un massimo di due anni. "Non abbiamo attivato il meccanismo - ha detto Bertaud - ma la Commissione è pronta se sarà necessario". E Berlino lunedì dovrebbe chiedere che il Consiglio avanzi una richiesta in questo senso alla Commissione, ma non sarà una riunione facile. Soprattutto Grecia e Spagna (con l’occhio a Ceuta e Melilla) sono contrarie a far scattare l’articolo 26. L’Italia ha qualche perplessità, il resto è d’accordo. Strettamente collegato è l’altro tema di cui si parla lunedì, la proposta di un corpo di guardie di frontiera Ue presentata dalla Commissione a dicembre per rafforzare i confini, con la possibilità di segnalare disfunzioni alle frontiere e inviare squadre Ue. Spagna e Grecia non sono d’accordo, ma a Bruxelles c’è ottimismo. Frontex (agenzia Ue) ha rivelato che nel 2015 in Italia e Grecia sono arrivati rispettivamente 160.000 e 880.000 irregolari, 5 volte i numeri del 2014. "Libertà per Jacqueline". Uccise il marito violento, ora la Francia vuole salvarla di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 24 gennaio 2016 Condannata a 10 anni. In 300 mila chiedono la grazia a Hollande. Secondo la ricostruzione del processo, alle 13 e 30 del 10 settembre 2012, nella villetta di La Selle sur le Bied, paesino di 1.000 abitanti a un’ora d’auto da Parigi, Jacqueline Sauvage finisce di lavare i piatti, esausta. Ha passato la mattina a sopportare i soliti insulti del marito Norbert Marot, stavolta perché il loro figlio Pascal non vuole più lavorare nell’azienda di trasporti di famiglia. Pascal non risponde al telefono, si è ucciso e lo troveranno impiccato nel suo appartamento qualche ore dopo. La madre non lo sa ancora, prende dei sonniferi e cerca di dormire. Il marito la picchia da oltre quarant’anni, lei è andata più volte al pronto soccorso ma non ha mai trovato il coraggio di sporgere denuncia. Teme per le tre figlie Sylvie, Carole e Fabienne, e per Pascal, anche loro regolarmente picchiati e minacciati con il fucile da caccia. Le figlie racconteranno poi al processo di essere state violentate dal padre, più volte, a partire dall’adolescenza. Verso sera il marito torna a casa, trova la donna chiusa in camera, spacca la maniglia, è furibondo perché la cena non è ancora pronta. "Mi si è gettato addosso - ha testimoniato la donna in aula - e ha urlato "Alzati, buona a nulla, vai a preparare la minestra!"". Norbert Marot la riempie di calci e pugni, le strappa la catenina che ha al collo, le spacca il labbro inferiore, poi si versa del whisky e va a berlo in terrazza. "In quel momento ho avuto come un lampo, ho preso il fucile in camera, l’ho caricato. Lui era seduto in terrazza, di spalle. Mi sono avvicinata. Ho sparato e sparato, fermando gli occhi. Ho esitato, per il terzo colpo". L’uomo muore quasi all’istante, alle 19 e 20 lei chiama i gendarmi: "Ho ammazzato mio marito". Nel dicembre scorso Jacqueline Sauvage, 67 anni, ha visto confermata la condanna a 10 anni di carcere nel processo di appello per omicidio volontario. I giudici hanno stimato che non si potesse invocare la legittima difesa: la reazione è stata in effetti proporzionale, ma non concomitante alla violenza del marito, colpito di spalle e quando ormai l’assalto era terminato. Jacqueline ha passato 47 anni nella prigione della casa coniugale. Ne è uscita solo per entrare nel carcere di Orléans. Ieri centinaia di persone hanno manifestato per lei in piazza della Bastiglia, a Parigi, e in altre città della Francia. Dopo la condanna in appello il quotidiano Libération le ha dedicato la copertina con la scritta a tutta pagina "Liberate Jacqueline Sauvage" e la petizione online per sostenere la domanda di grazia presidenziale ha ormai raccolto 312 mila firme. La lettera a François Hollande è stata firmata dalle tre figlie: "Signor presidente, nostra madre ha sofferto durante tutta la sua vita di coppia, vittima del potere di nostro padre, uomo violento, tirannico, perverso e incestuoso". Le associazioni femministe si sono mobilitate. "Manifestiamo contro una giuria che mostra di non avere capito nulla del potere di controllo che i carnefici sono capaci di esercitare sulle loro vittime, e che ha emesso una sentenza di tipo tecnico, valutando in senso restrittivo la nozione di legittima difesa", ha spiegato Suzie Rojtman, portavoce del "Collettivo nazionale per i diritti delle donne". Gli avvocati di Jacqueline Sauvage sottolineano poi come manchi il rischio di una ripetizione del reato: la donna ha sparato al marito dopo decenni di violenze, e non può ucciderlo un’altra volta. Perché allora tenerla in prigione? Una pena si infligge anche per punire il condannato, ma lei non ha già pagato abbastanza? La battaglia per Jacqueline Sauvage vuole ottenere la sua liberazione, e anche denunciare la cecità di vicini di casa, famigliari, assistenti sociali, infermieri del pronto soccorso. Una catena di indifferenza corresponsabile delle oltre 130 donne uccise ogni anno dai loro uomini in Francia, e delle 600 mila vittime di violenze coniugali. Libia: gli Usa pensano al ricorso alla forza per fermare i jihadisti di Paolo Mastrolilli La Stampa, 24 gennaio 2016 Per il generale Dunford l’ordine arriverà presto: "Non stiamo parlando di ore, ma di settimane". Bengasi è stata il fulcro della rivolta contro Gheddafi. Nel 2014 è stata l’epicentro degli scontri fra i militari di Tripoli e le bande islamiste. Unità d’intelligence occidentali sono attive in Cirenaica. "In Libia servono azioni militari risolute per fermare l’espansione dell’Isis, condotte in maniera da sostenere il processo politico di lungo termine". È stato molto chiaro Joseph Dunford, capo degli Stati Maggiori Riuniti americani, parlando con i giornalisti dopo la visita dei giorni scorsi a Parigi. Quindi il generale dei Marines ha aggiunto che l’ordine di lanciare queste operazioni verrà presto: "Non parliamo di ore, ma settimane", cioè entro il prossimo mese. Le forze speciali e i servizi segreti di vari paesi sono già sul terreno da tempo per prepararle. Gli americani avevano accelerato le azioni in Libia alla fine dell’anno scorso, quando a novembre un F-15 aveva colpito e ucciso Abu Nabil, considerato allora il capo dell’Isis nel paese. La strategia si muoveva su due binari: il primo era il processo politico mediato dall’Onu, che ha portato alla creazione del governo di unità nazionale (che attende il via libera, processo ad oggi in bilico, del Parlamento di Torbuk), indispensabile per stabilizzare il paese e consentire l’intervento internazionale, in particolare quello per fermare il traffico di esseri umani che interessa soprattutto l’Italia; il secondo erano i raid contro gli obiettivi terroristici, che potevano scattare quando si presentava l’occasione, come aveva dimostrato il caso di Nabil. I nuovi leader dell’Isis - Ora che il governo è stato formato, la componente militare sta subendo un’accelerazione. Dunford e il capo del Pentagono Carter nei giorni scorsi sono stati a Parigi, dove hanno incontrato i colleghi europei. Alla fine della visita il generale ha parlato con i giornalisti, dicendo che gli Usa stanno preparando le operazioni insieme a Francia, Italia e Gran Bretagna. A Roma finora erano state richieste soprattutto le informazioni di intelligence per individuare gli obiettivi, perché la nostra presenza sul terreno è superiore a tutti gli alleati, ma questo potrebbe cambiare se il governo di unità nazionale farà nuove richieste di aiuto. Oltre agli italiani, ora nel paese operano anche gli altri paesi citati da Dunford. Secondo al giornale arabo "Asharq al Awsat" ci sono pure i russi, ma fonti libiche lo hanno smentito alla tv "al Arabiya". La maggior parte delle truppe avrebbe raggiunto la base Gamal Abdel Nasser, a sud di Tobruk, ma un gruppo americano sarebbe ad ovest di Tripoli, e avrebbe incontrato il leader jihadista di Sabrata Mohamed el Madhouni. Il generale italiano Serra, consigliere militare della missione Onu, sta individuando tutti i gruppi con cui è possibile collaborare per stabilizzare il paese. I servizi occidentali stimano che l’Isis ha circa 3.000 affiliati in Libia, che aumentano in continuazione a causa dell’impossibilità di raggiungere la Siria. Secondo il "New York Times" i leader sarebbero ora Abu Ali al Anbari, ex ufficiale dell’esercito di Saddam, e il siriano Abu Omar. A giorni la coalizione anti Isis comincerà a prenderli di mira. Libia: diplomatici e militari italiani preparano il piano di riserva di Guido Ruotolo La Stampa, 24 gennaio 2016 Uomini dell’intelligence incontrano in Cirenaica il generale Haftar Ecco gli scenari per l’intervento se salta il governo di pacificazione. La giornata decisiva per il futuro della Libia sarà venerdì 29 quando il Parlamento dovrà esprimersi sulla fiducia al governo presentato dal premier designato Fayez Al Sarraj. Strada piena di ostacoli. La fiducia è tutta da conquistare nei prossimi 5 giorni. Ma è essenziale affinché la coalizione occidentale abbia il via libera formale per un intervento anti-Isis sulle coste del Nord Africa. Garante degli egiziani - È in questo contesto frammentato e precario che si muovono diplomazie e apparati di intelligence. L’Italia preme sempre più: lo fa anzitutto schierando nella base di Birgi, Trapani, quattro aerei Amx pronti a pattugliare il Mediterraneo. E lo fa soprattutto portando l’intelligence in terra libica. Giovedì scorso unità italiane sono atterrate a Beida, e in Cirenaica hanno incontrato il generale Khalifa Haftar, una delle pedine più importanti per risolvere il caos libico. È stato lo stesso generale a far trapelare - evidentemente con il consenso alleato - la notizia dell’incontro tramite Twitter. Rifugiato negli Stati Uniti dopo la guerra in Ciad, Haftar oggi è ritenuto un garante degli egiziani. Per l’Onu è un comandante militare al pari dei capi delle altre milizie; per una fetta di libici della Cirenaica è il capo supremo delle forze armate libiche. Ed è inviso agli islamisti di Tripoli. La sua posizione però a Tobruk è meno solida di un tempo. Anzitutto si è consumata la rottura con Aguila Saleh, il presidente del Parlamento, fortemente ostile all’accordo sul governo di Al Sarraj, che ha avviato un’inchiesta per corruzione su Haftar. Domani i 230 deputati del Parlamento si raduneranno a Tobruk. Non ci sarà alcuna votazione. Gran parte dei parlamentari hanno già fatto sapere che non voteranno il governo ma proporranno modifiche importanti sui numeri (sono ben 32 i ministri indicati da Sarraj e tra questi 13 sono islamisti) e sulla stessa composizione del governo (pietra dello scandalo ministri ex autisti, segretari o funzionari di ministero). Saleh, dopo la rottura con Haftar, spinge per far saltare il banco. E appena due giorni fa aveva ipotizzato la formazione di un governo provvisorio. Un clima di confusione che obbliga americani - presenti con unità d’intelligence e reparti speciali nella zona di Bengasi oltre che a Tobruk e Misurata - francesi, inglesi e italiani a considerare - in caso di mancata approvazione di un governo di pacificazione - un piano B. Ci sta lavorando, dietro le quinte, l’inviato dell’Onu Kobler. Prevede la formazione di un comitato di conciliazione che possa in qualche modo fare da ponte fra le fazioni e da garante a un eventuale intervento anti-Isis. I piani militari in queste ore entrano più nei dettagli. È Sirte il problema da risolvere subito. La città di Gheddafi, occupata dalle milizie jihadiste sostenute anche dagli ex gheddafiani, deve essere liberata al più presto. I piani militari alleati prevedono un intervento di terra delle milizie libiche e un sostegno tattico aereo dei Paesi della coalizione. Sono le milizie di Misurata, di Zintan e di Tripoli a dover intervenire. Le stesse che il generale italiano Paolo Serra, consigliere militare del segretario dell’Onu Ban Ki-moon, vuole impiegare per creare la cornice di sicurezza nella capitale. Si tratta di un progetto che prevede l’uso delle milizie, della polizia e dei militari. Quasi duemila uomini che dovranno garantire la sicurezza in una fascia esterna della capitale, che presidieranno le infrastrutture (dagli aeroporti al porto) alle sedi diplomatiche e istituzionali. "Assistenza tattica" - Nel progetto Serra, non sono previste forze di supporto straniere. C’è invece un capitolo dedicato alla "Missione assistenza tattica" che prevede l’utilizzo di istruttori per addestrare e ricostruire gli apparati di sicurezza libici. E per garantire un sostegno tattico alle attività di contrasto. Solo dopo aver liberato Sirte dall’occupazione dell’Isis, si affronteranno gli altri problemi. Da Bengasi a Derna, da Tripoli a Sabratha si dovranno neutralizzare i gruppi jihadisti dell’Isis ma anche di altre organizzazioni terroristiche, come Ansar Al Sharia o il Gruppo combattente libico. In attesa si guarda a Tobruk nella speranza che il governo Sarraj, magari rimaneggiato, ottenga la maggioranza dei due terzi del Parlamento. Se così non fosse, davvero sarà molto complicato evitare un intervento militare alleato. Anche la risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite prevede un intervento se dovessero venire meno le condizioni di sicurezza. Medio Oriente: la minaccia della guerra sovrasta la Siria di Chiara Cruciati Il Manifesto, 24 gennaio 2016 Usa e Turchia si dicono pronti all’intervento militare se il dialogo fallirà, la Russia si costruisce una base aerea a nord. Il negoziato previsto per domani è al collasso, dopo il boicottaggio delle opposizioni. Il negoziato siriano sta per fallire e le potenze mostrano i muscoli. Ieri il vice presidente Usa Biden, in visita in Turchia, ha rivelato l’intenzione di Ankara e Washington di preparare un intervento militare nel caso il dialogo fallisse. "Sappiamo che è meglio raggiungere una soluzione politica, ma siamo preparati ad una militare per sradicare Daesh". Contro l’Isis e non contro la Siria, ha tenuto a precisare il team statunitense. Intanto secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, ingegneri e servizi segreti russi sarebbero arrivati al confine con la Turchia, nella provincia di Latakia. Secondo fonti turche, Mosca avrebbe mandato uomini in una piccola base aerea governativa per trasformarla in un vero e proprio aeroporto in mano russa. Immediata la risposta di Ankara che, secondo il quotidiano Hurriyet, ha inviato carri armati e avviato la costruzione di trincee lungo la frontiera. Interviene anche Damasco: fonti militari siriane hanno detto all’Afp che 100 esperti militari Usa lavorano nella provincia nord di Hasakah per espandere l’aeroporto di Rmeilan, da usare per elicotteri e cargo. Difficile distrincarsi nel gioco della propaganda incrociata. E se da Riyadh il segretario di Stato Kerry, pur non indicando date, insiste nel dire che il negoziato procederà, la soluzione politica sembra al collasso. Domani a Ginevra Damasco e opposizioni avrebbero dovuto incontrarsi, come previsto dall’accordo internazionale siglato a Vienna a novembre. Nei giorni scorsi l’Onu era stata costretta a prospettare un breve rinvio, ma il rischio è che quel tavolo non si apra: a tagliargli le gambe sono le opposizioni riunite sotto l’ombrello saudita. Ieri George Sabra, ex presidente della Coalizione Nazionale, federazione delle opposizioni moderate, ha detto chiaramente che i negoziatori non si voleranno a Ginevra fino a quando la Russia non interromperà i raid (ieri un presunto bombardamento russo avrebbe ucciso 29 persone a Khasham, vicino Deir Ezzor) e Damasco non cesserà gli assedi sulle città controllate dai miliziani anti-Assad. Ma a far traballare il negoziato è anche il mancato consenso internazionale su chi intorno a quel tavolo dovrebbe sedersi. Damasco non intende accettare gruppi islamisti considerati terroristi (tra cui i salafiti di Jayish al-Islam il cui nuovo leader, Mohammed Alloush, ha ottenuto la poltrona di negoziatore delle opposizioni). Dall’altra parte a frenare sono l’Arabia saudita, longa manus dietro il boicottaggio delle opposizioni, e la Turchia che pone come precondizione l’assenza del Pyd, Partito dell’Unione Democratica, rappresentante dei kurdi siriani di Rojava. Eppure il Pyd non può non esserci: prima forza di difesa del nord della Siria contro l’avanzata dell’Isis, è oggi punto di riferimento sia per Russia che Stati uniti. Washington - che da settimane si appoggia alle Forze Democratiche Siriane, di cui i kurdi sono leader - opta per la solita strategia del piede in due staffe: sì al Pyd, no al Pkk. Biden ieri ha coccolato Erdogan ribadendo avversione per il Partito Kurdo dei Lavoratori: "Non è solo l’Isis a rappresentare una minaccia esistenziale al popolo turco - ha detto il vice presidente - Il Pkk è ugualmente una minaccia. È un gruppo terroristico puro e semplice". Una dichiarazione netta che spiega bene l’impunità di cui oggi gode Ankara nella brutale repressione del popolo kurdo nel sud est della Turchia: il governo di Davutoglu non potrebbe permettersi tanto senza il beneplacito della Nato. Eppure le Ypg, il braccio armato del Pyd, e il partito stesso sono l’emanazione siriana del Pkk, di cui hanno per la prima volta applicato il progetto democratico confederale teorizzato negli ultimi 10 anni dal leader-prigioniero Ocalan. La distinzione architettata da Washington è strumentale. La Turchia lo sa, non si fa abbindolare e insiste: fuori il Pyd dal negoziato o il boicottaggio del dialogo non cesserà. Perché i kurdi siriani sono una minaccia concreta allo Stato-nazione turco: capaci di assumere il controllo di buona parte della frontiera nord tra Siria e Turchia, si muovono verso ovest puntando a creare un’entità autonoma a stretto contatto con i territori kurdi turchi. Stati Uniti: i 14 anni del carcere di Guantánamo di Alessandro Graziadei pressenza.com, 24 gennaio 2016 È tempo di anniversari utili per non dimenticare e forse per non riprodurre sempre gli stessi errori. Il 17 gennaio 1991 una coalizione di 35 paesi guidata dagli Stati Uniti attaccò militarmente l’Iraq con l’operazione Desert Storm. "È bene rinfrescarci la memoria su quello che accadde 25 anni fa perché seguirono a cascata eventi disastrosi per l’Iraq e il Medio Oriente, di cui tutti paghiamo lo scotto, poiché viviamo in una casa comune, il Mediterraneo" ha ben ricordato la scorsa settimana Martina Pignatti Morano, Presidente di Un ponte per…. Oltre a quella tragica esperienza che è costata milioni di morti e si è rivelata incapace di "stabilizzare" le altre sponde del Mediterraneo, forse è bene ricordare anche l’anniversario dell’inaugurazione del Carcere di Guantánamo, cinicamente e consapevolmente posto fuori dagli Usa, a Cuba, dall’amministrazione Bush l’11 gennaio del 2002, in seguito agli attentati dell’11 settembre. Come la guerra non ha pacificato il Medio Oriente, Guantánamo non ha arginato il terrorismo. Eppure Barack Obama lo aveva intuito. Il 22 gennaio del 2009, a quarantotto ore dal suo insediamento, firmava un ordine esecutivo storico: "la chiusura del carcere di Guantánamo a Cuba". Secondo le direttive della Casa Bianca i 241 detenuti dovevano essere scarcerati o ricollocati entro il 21 gennaio 2010. Ma la grande sconfitta di Obama si consumò già il 20 maggio del 2009 quando il Senato bocciò quasi all’unanimità la proposta di stanziare 80 milioni di dollari per chiudere il carcere. Così a 6 anni da quella deadline e 779 sospetti di terrorismo dopo, Guantánamo è ancora aperto ed è uno dei luoghi di detenzione più carenti al mondo in fatto di diritti umani. Ora per Amnesty International "gli ostacoli posti dal Congresso alla chiusura del centro di detenzione rischiano di porre gli Usa tra i paesi che continuano stabilmente a violare gli standard internazionali condivisi in materia di giustizia e diritti umani". Ad oggi sei condanne e sette processi sono tutto quel che resta dello stato di diritto nella prigione allestita all’interno della base militare americana a Cuba. Molti detenuti non hanno mai subito un processo (neanche da una corte militare) e sono stati trattenuti senza formalizzare un’accusa per anni. Circa 650 persone sono state rilasciate o trasferite in strutture di altri paesi. Alcuni sono morti suicidi o a causa di malattie. Attualmente la prigione "ospita" 104 uomini, 45 di loro in attesa di rilascio. Secondo la ong "Guantánamo rimane aperto perché la politica intende sfruttare la paura di attacchi terroristici da parte dell’opinione pubblica. Invece di individuare misure efficaci e legali per prevenire quegli attacchi, i membri del Congresso passano il tempo a giocare con le vite di decine di uomini che potrebbero morire dietro le sbarre senza neanche essere stati processati" ha dichiarato Naureen Shah, direttrice del programma Sicurezza e diritti umani di Amnesty International Usa. Amnesty è stata molto critica anche con il piano di trasferimenti che l’amministrazione a stelle e strisce sta elaborando. Il presidente Obama fino ad oggi ha parlato solo del progetto di chiudere Guantánamo, trasferendo in carceri del territorio statunitense alcuni prigionieri per continuare a sottoporli a detenzione a tempo indeterminato. "Così facendo, cambierebbe solo il codice di avviamento postale di Guantánamo e si darebbe alle prossime amministrazioni un precedente pericoloso. Il presidente Obama deve porre fine, e non spostarle altrove, alle detenzioni a tempo indeterminato senza processo" ha sottolineato Shah. I detenuti che non possono essere trasferiti dovrebbero essere processati nei tribunali federali oppure rilasciati e dovrebbero essere aperte indagini sulle torture e sulle altre violazioni dei diritti umani commesse a Guantánamo. Per Shah "Chiudere il centro non significa semplicemente spostare i prigionieri altrove, bensì porre fine a tutte quelle pratiche e assumere le responsabilità per le violazioni dei diritti umani che vi hanno avuto luogo". Recentemente, il capogabinetto del presidente Denis McDonough ha spiegato che Obama manterrà la promessa della chiusura, perché "sente questo dovere verso il suo successore" e presenterà "un nuovo piano al Congresso" in questo senso. Non ha precisato, tuttavia, se in caso di nuova opposizione del Parlamento Usa, la Casa Bianca ricorrerà ai poteri presidenziali per scavalcare l’ostacolo. Ma visto che dal 30 gennaio 2016 Obama avrà gestito Guantánamo più a lungo del suo predecessore George W. Bush, non si può che insistere e una petizione on line chiede al presidente americano di fare presto. "Invece di giustizia per gli attacchi dell’11 settembre - si legge nelle richieste dei firmatari -, Guantánamo ci ha dato detenzioni indefinite, tortura e processi ingiusti". Il presidente Obama ha solo un altro anno per tradurre in realtà il suo impegno a chiudere Guantánamo. Attualmente la popolazione carceraria di Guantánamo potrebbe già essere sensibilmente ridotta liberando le decine di detenuti di cui è stata già approvato il rilascio, ma "Il Pentagono dovrebbe ricevere dal presidente chiare direttive per il loro trasferimento verso paesi considerati sicuri" ha aggiunto Shah. "Sono in gioco il suo lascito in tema di diritti umani, così come quello degli Usa. Non sarà facile, ma il presidente Obama può e deve riuscirci" ha concluso Amnesty. Con il prossimo di presidente potrebbe essere peggio o troppo tardi. Egitto: arresti e siti web oscurati, si prepara all’anniversario di piazza Tahrir di Arturo Di Corinto La Repubblica, 24 gennaio 2016 La denuncia dei media locali e delle Ong: già 5 amministratori di pagine Facebook arrestate. Critiche all’operatore Etisalat. Intimidazioni, minacce, siti chiusi e telefonini che non funzionano. A cinque anni dalla rivolta che cacciò Hosni Mubarak dal potere, in Egitto il giro di vite sull’opposizione al governo si fa ogni giorno più drammatico. Il 25 gennaio gli egiziani celebrano il quinto anniversario della primavera araba (fotostoria) che si espresse con le proteste di piazza Tahrir. Per ricordare quei giorni da alcune settimane gli attivisti di ieri e di oggi si stanno dando appuntamento via Internet per ritrovarsi nello stesso luogo e commemorare i martiri della dura repressione del regime. E per questo motivo decine di attivisti e blogger sono stati arrestati al Cairo. A raccontarlo sono il quotidiano Egypt Indepedent e altri siti online, ma la notizia è filtrata soprattutto grazie al lavoro fatto sul campo da alcune Ong come Global Voices, una comunità di volontari. Dal sei gennaio ad oggi, cinque amministratori di pagine Facebook sono stati arrestati e detenuti per aver invitato i loro follower a manifestare e il giornale online Masr al-Arabia è stato perquisito e messo offline dalla polizia che durante il raid ha sottratto otto computer dalla redazione. Anche i rappresentanti di alcune organizzazioni sindacali sono stati portati in commissariato e poi rilasciati. L’accusa? Attività antigovernativa. Alla base di molti fermi di polizia c’è anche la nuova legge anti-proteste che obbliga i cittadini a chiedere il permesso di riunirsi in più di dieci sia in pubblico che in privato. Come era già accaduto nel 2011, l’uso di strumenti della comunicazione digitale per organizzare le manifestazioni preoccupa il governo a cui gli attivisti attribuiscono i malfunzionamenti in tutto l’Egitto di Skype, WhatsApp, Viber, e altri servizi sicuri di messaggistica istantanea via cellulare. Anche il Free Basic Service di Facebook - che fornisce gratuitamente alcuni servizi Internet nei paesi in via di sviluppo come le news - funziona solo a tratti. Per questo The Guardian Project un gruppo affiliato al progetto Tor ha accelerato lo sviluppo di un’app appositamente creata per aggirare la censura e invita gli attivisti ad usarla. Si tratta di un software che consente ai cellulari Android di sfruttare il network dei nodi Tor per garantire l’accesso e la pubblicazione di informazioni e notizie su facebook anche dal telefonino. Al centro delle controversie sui malfunzionamenti di Internet, secondo Global Voices, ci sarebbe comunque la compagnia di telecomunicazioni Etilasat, in gran parte di proprietà degli Emirati Arabi Uniti e che era già salita agli onori delle cronache per aver dismesso i propri servizi, insieme a Orange e Vodafone, proprio in Egitto nei giorni della Primavera Araba causando un blocco temporaneo di Internet in tutto il paese. Secondo la classifica stilata da Ranking Digital Rights sull’affidabilità delle aziende, Etisalat ottiene il punteggio più basso di tutti per non aver mai assunto alcun impegno di rispettare privacy, libertà d’espressione e la net neutrality, ovvero la non discriminazione delle comunicazioni che avvengono via Internet. La compagnia ha chiuso anche Viber, un altro VoIP service in Marocco poco tempo fa. Perciò gli attivisti ricordano quale sia il valore, e la responsabilità, dei soggetti che concorrono al funzionamento di Internet e dei social media nel garantire la libertà d’espressione. La discriminazione del traffico nei confronti di alcune compagnie internet o dei siti indipendenti che fanno informazione è parimenti ritenuta una violazione palese dell’articolo 19 dei diritti umani perché come dice Global Voices discrimina il traffico verso contenuti specifici e specifiche applicazioni impedendo a nuovi competitori di entrare nel mercato da una parte, ai cittadini di manifestare le proprie opinioni. Ma soprattutto, rimarcano, "senza alcun rispetto" per le linee guida delle Nazioni Unite ("Protect, Respect, Remedy") relativamente ai diritti umani in rete. Per questo gli attivisti internazionali chiedono di interrompere tali pratiche anticoncorrenziali e di pubblicare tutti gli ordini di inibizione al traffico provenienti dal governo, e alle compagnie come Etilasat di dialogare con la società civile e impegnarsi al rispetto della trasparenza e della tutela dei netizen (i cittadini in rete). Nel frattempo invitano tutti a firmare le petizioni su Change.org and Avaaz per ripristinare la democrazia della comunicazione nei paesi nordafricani. Turchia: ma l’Occidente ha capito chi è davvero Erdogan? di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2016 Come riciclare Erdogan? Per condurre questa operazione Obama ha scelto il suo vice Biden che un anno fa aveva accusato il presidente turco di essere connivente con l’Isis, per poi scusarsi sia pure con qualche incertezza. C’è da chiedersi se gli Stati Uniti, l’Europa, il cosiddetto Occidente, esistano ancora come nozione politica, morale o anche soltanto geografica. Più di un dubbio viene spontaneo dopo la visita del vicepresidente americano Joe Biden in Turchia. Biden sostiene che gli Stati Uniti sono pronti a fare la guerra con la Turchia contro il Califfato. Anche i sassi della provincia di Antiochia sanno che Erodgan ha fatto passare migliaia di terroristi sull’"autostrada della Jihad" per abbattere Assad. E tutti abbiamo visto che gli Stati Uniti ben poco hanno fatto per combattere l’Isis negli ultimi due anni, al punto che non avevano neppure opposto un’obiezione quando il Califfato aveva conquistato Mosul nel giugno 2014. Se non avessero tagliato la testa a un cittadino americano, sollevando l’ira dell’opinione pubblica, Washington avrebbe lasciato fare. È comprensibile che gli americani cerchino adesso di recuperare un alleato della Nato, lo stesso che peraltro ha esitato mesi prima di concedere la base aerea di Incirlik per i raid contro lo Stato Islamico e quando lo ha fatto ha preferito bombardare i curdi del Pkk e anche quelli siriani piuttosto dei jihadisti. Biden ha fatto una distinzione tra il Pkk e Pyd, le forze curde siriane anti-Isis, gli eroi di Kobane per intenderci, ma questo non basta. Come non è sufficiente aver detto che la Turchia non rispetta gli standard democratici mettendo in carcere giornalisti e intellettuali. Il vicepresidente americano sta cercando di sommare le pere con le mele, come si diceva alle scuole elementari. Cioè tenta di salvare la capra, ovvero il ruolo di Erdogan nella Nato, e i cavoli americani, la palese contraddizione di avere condotto una finta guerra al Califfato che ha aperto le porte all’intervento della Russia a fianco del regime di Damasco. Agli Stati Uniti adesso serve un autocrate come Erdogan, complice dei jihadisti, non per fare la guerra all’Isis ma per contrastare Putin in Siria. La realtà è che la Turchia ricatta gli Usa con la minaccia russa per ottenere un pezzo di territorio siriano che finora non è riuscita a conquistare servendosi del Califfato. È con questa bella compagnia, con queste idee brillanti, che facciamo la lotta all’Isis e ci prepariamo ai negoziati di pace sulla Siria dove dobbiamo fare accomodare i rappresentanti del terrorismo che piacciono ad Ankara e Riad. Siamo amici e alleati di coloro che ci mettono le bombe in casa, che hanno distrutto interi Paesi, provocato milioni di profughi e che alimentano la propaganda islamista radicale: ecco siamo noi i "nuovi" occidentali. Nord Corea: studente Usa arrestato per "incidente" in hotel blitzquotidiano.it, 24 gennaio 2016 Sarebbe stato arrestato per un incidente non meglio specificato avvenuto in un hotel lo studente americano detenuto in Corea del Nord. Lo riferisce l’agenzia di viaggio cinese, Young Pioneer Tours. Sarebbe stato arrestato per un incidente non meglio specificato avvenuto in un hotel lo studente americano detenuto in Corea del Nord. Lo riferisce l’agenzia di viaggio cinese, Young Pioneer Tours. A quanto si apprende, Otto Warmbier alloggiava al Pyongyang’s Yanggakdo International Hotel ed era in procinto di partire per Pechino quando si è verificato "l’incidente" i cui dettagli non sono stati resi noti. L’agenzia riferisce in un comunicato che il giovane, 21 anni, è stato arrestato il 2 gennaio scorso. Lo studente è dell’Ohio e frequenta la facoltà di finanza all’università della Virginia. La Corea del Nord lo accusa di "atti ostili" e di avere "legami con il governo Usa".