Riforme. I burocrati e il passo che manca di Sabino Cassese Corriere della Sera, 23 gennaio 2016 "Un buon passo avanti", l’ha definito il presidente del Consiglio dei ministri. Dei primi dieci testi di riforma amministrativa conosciamo i titoli e la direzione di marcia, che è quella giusta, nel segno della semplificazione. Qualche anno fa, venne calcolato in una decina di giorni per anno il tempo sottratto in media a ciascun italiano maggiorenne dai contatti con la burocrazia. Se un governo riuscisse a restituire anche la metà di questo tempo agli italiani (e a eliminare le rendite parassitarie dei mediatori che servono ad agevolare questi rapporti), compirebbe una fondamentale opera di giustizia risarcitoria. Ma semplificare non è facile, perché gli stessi governi che si propongono questo obiettivo, spesso per giusti motivi (ad esempio, aumentare la trasparenza e ridurre la corruzione), introducono nuove complicazioni. Questo primo pezzo della riforma viene annunciato con un misto di aggressività (licenziamento dei "furbetti") e di timore (per gli esuberi che produce). Poiché in un’amministrazione ben funzionante c’è poco spazio per "furbetti"(e per corrotti), non si vede perché non fare il primo passo migliorando il modo in cui funziona la macchina dello Stato. La spiegazione va forse cercata in una certa ambivalenza della riforma amministrativa, che spinge il presidente del Consiglio dei ministri a usare il tema dell’anti-burocrazia, senza tuttavia andare fino in fondo. Renzi sa che i vizi del pubblico impiego sono censurati anche in Quo vado?, ma con occhio divertito e tutto sommato benevolo, e che il pubblico dipendente è diviso tra la difesa dei suoi piccoli privilegi e la sofferenza per un sistema complessivamente poco funzionante, di cui quei piccoli privilegi fanno parte. Il "piatto forte" della riforma deve ancora venire. È la nuova disciplina della dirigenza (per ora ci si è limitati ai dirigenti sanitari, con una soluzione di compromesso), per la quale si deve uscire dal vicolo cieco del sistema di patronato politico imboccato alla fine del secolo scorso, aprendo nuovi canali di promozione a "capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi" (è uno dei sogni costituzionali rimasti inattuati). E deve ancora venire il coinvolgimento della pubblica amministrazione nell’opera di riforma. Come osservò qualche tempo fa un acuto osservatore francese, noi italiani mettiamo troppa enfasi sul testo: fatta la legge, pensiamo che sia fatta la riforma. Perché i buoni intenti legislativi e governativi divengano realtà, occorre una cabina di regia, la preparazione della burocrazia al cambiamento, un accurato monitoraggio dell’attuazione e dei risultati, la segnalazione dei punti da correggere. Le riforme amministrative non si compiono da un giorno all’altro, con una sola decisione. Finora, il governo ha dato prova di attivismo, ma non è riuscito a far passare nelle istituzioni il "soffio repubblicano" (Léon Blum adoperò questa espressione al termine della sua esperienza di governo). Tra azione di governo e azione amministrativa vi è ancora scollamento, continue difficoltà, scarso dialogo. Questi si faranno sentire in particolare nella traduzione in realtà del disegno riformatore, che deve ancora affrontare il difficile percorso parlamentare di esame dei decreti delegati approvati dal governo. Omicidio stradale, facciamo il punto di Elisa Chiari Famiglia Cristiana, 23 gennaio 2016 Un emendamento dell’opposizione fa slittare la Legge sull’omicidio stradale: un fatto politico certo ma anche tecnico, perché i punti del testo della legge dividono ancora molto opinione pubblica e giuristi. L’introduzione dell’omicidio stradale è una questione che fa discutere da anni. Fatica a mettere d’accordo le legittime istanze di giustizia delle associazioni delle vittime della strada, che chiedono una legge che renda forti ed effettive le sanzioni per chi viola il codice della strada fino a ferire gravemente o a uccidere e le legittime preoccupazioni degli addetti ai lavori che devono applicare le norme e che si preoccupano di aspetti più tecnici, forse un pò difficili per l’uomo comune, ma importanti per l’efficacia dell’intero sistema. Il riflesso della discussione sulla legge si è fatto vedere anche in Parlamento: prima in Senato dove, nell’ottobre scorso, il Governo aveva posto la fiducia sul maxiemendamento che riscriveva il testo e ora alla Camera dove il Governo come si dice, il 22 gennaio, è "andato sotto" su un emendamento che esclude l’arresto in flagranza per chi si ferma a prestare soccorso e a collaborare alle indagini. La questione ha certamente una valenza politica - numeri di maggioranza e opposizione -, ma pone anche un problema tecnico reale: c’è il rischio che il timore dell’arresto facoltativo in flagranza, nell’irrazionalità e nel panico del momento, possa indurre paradossalmente un investitore a preferire la fuga al soccorso ("se mi fermo e presto soccorso magari mi arrestano subito, se scappo prima devono prendermi"). In questo senso l’emendamento approvato, contro la maggioranza, accoglie le riserve dei giuristi. I dubbi di chi per lavoro applica le leggi attorno a questo testo sono, infatti da sempre, tanti e diversi. Molti non sono convinti della necessità di un omicidio colposo ad hoc. C’è chi teme che norme troppo rigide producano ingiustizie sostanziali mettendo sullo stesso piano comportamenti che possono avere, nei singoli casi, diversa gravità. C’è chi dubita dell’efficacia: il timore di una sanzione vissuta come durissima potrebbe anche produrre l’effetto opposto a quello desiderato. Si rischia che il responsabile dell’incidente, nel panico o per calcolo, sia ancor più tentato dalla fuga nella speranza di farla franca. C’è chi paventa anche il rischio dell’incostituzionalità: la Corte costituzionale potrebbe infatti considerare incoerente un sistema in cui un omicidio colposo commesso sulla strada sia sanzionato più duramente di uno altrettanto grave commesso contro le regole della sicurezza sul lavoro. Quasi tutti sottolineano la mancanza di una strategia preventiva degli incidenti. Chi sostiene la legge, conta sull’effetto deterrente. Ma non tutti gli esperti sono convinti che possa funzionare nella pratica. Chi causa un incidente stradale - dicono - lo fa per colpa: non vuole commettere un incidente, non ha intenzione di fare male a sé stesso o ad altri, anche se poi il risultato è quello. E in questi casi l’effetto deterrente, che riguarda chi si astiene dal commettere un’azione che sa essere riprovevole per timore della sanzione, potrebbe non funzionare, per il semplice fatto che manca l’intenzione a compiere il male e, anzi, nel caso dell’imperizia potrebbe starci la completa buona fede di chi compie un’azione sbagliata (e dannosa) convinto di essere nel giusto. Omicidio stradale, si acceleri di Antonella Mariani Avvenire, 23 gennaio 2016 Era già capitato, capiterà ancora. Brutti spettacoli in Parlamento se ne sono visti diverse volte. Indimenticabile il caso degli studenti in visita, ammutoliti davanti a un’Aula quasi completamente deserta mentre un ministro pronunciava un discorso. E così è accaduto giovedì a Montecitorio: tutto lasciava pensare che si celebrasse l’ultimo passaggio per la legge sull’omicidio stradale, attesa da anni e in favore della quale sono state raccolte decine di migliaia di firme di semplici cittadini. Tra il pubblico, a Montecitorio, c’erano i familiari delle vittime della strada. Madri, padri, fratelli, figli, che pensavano fosse arrivato il momento di esultare. E invece a esultare e applaudire sono stati numerosi parlamentari dell’opposizione. È accaduto che a voto segreto è stato approvato un emendamento di Forza Italia a cui il governo aveva espresso la sua contrarietà. Dunque, esultanza e applausi. E non perché l’emendamento che esclude l’arresto in flagranza per chi provoca lesioni e si ferma a soccorrere la vittima migliorerà la legge (anche su questo, in realtà, si potrebbe legittimamente dibattere). No, non per questo, checché ne dica il relatore dell’emendamento, il forzista Francesco Paolo Sisto. Si esulta perché il Pd "è stato fregato" o perché in aula c’è stato il "suicidio politico" del governo. E intanto in tribuna i familiari delle vittime si guardano l’un l’altro, sgomenti. Un’offesa al loro impegno e alla loro pazienza, quegli applausi. Uno spregio della loro sofferenza, quel vergognoso trasformare un dibattito parlamentare in un giochetto di bassa politica. Ieri sui social network molti di loro, a partire da Stefano Guarnieri, papà di Lorenzo, ucciso a 17 anni da un ubriaco al volante, e tra i primi firmatari nel 2010 della proposta di legge sull’omicidio stradale, hanno espresso civilmente la loro delusione. Per quell’esultanza e per quegli applausi irriguardosi, prima ancora che per l’ulteriore rinvio al Senato di una normativa giusta, sacrosanta (basta considerare in quali "armi improprie" si trasformino le automobili se guidate in maniera irresponsabile e quali lutti e sofferenze possono provocare). Le associazioni dei familiari della vittime della strada assicurano che non si arrenderanno, che seguiranno con pazienza che l’iter della legge sia completato. Non basterà a distrarle la sguaiatezza di chi trasforma tutto in mero calcolo politico contingente, strumentalizzando anche il buonsenso e dimenticando il rispetto. Perché è buon senso vietare l’arresto per omicidio stradale di Claudio Cerasa Il Foglio, 23 gennaio 2016 L’emendamento di Forza Italia passato alla Camera ha una logica pratica. È stato corretto un errore commesso per spirito demagogico, ma non è una bocciatura del governo. L’approvazione dell’emendamento proposto dal deputato di Forza Italia Paolo Sisto ha apportato una correzione utile e di buon senso alla legge che introduce il reato di omicidio stradale. La legge di per sé è assai discutibile: è stata presentata sulla base dell’emozione suscitata da casi in cui guidatori irresponsabili - spesso condizionati dal consumo di alcool o droghe - avevano causato tragedie per poi non pagarne le conseguenze. Però, per contrastare un fenomeno di questa natura, il ricorso a inasprimenti delle pene non serve a nulla. In un caso, quello richiamato proprio dall’emendamento Sisto - la norma che prevedeva l’obbligo di arresto anche per l’automobilista che si ferma a soccorrere la vittima - rendere più severa la pena può addirittura rivelarsi controproducente. L’automobilista che provoca gravi lesioni, se teme di finire in carcere, può essere indotto a non fermarsi per prestare soccorso e a chiedere l’intervento delle ambulanze. Con la nuova norma, invece, il guidatore sa che se si comporterà in modo civile non sarà sottoposto all’arresto. Coloro che hanno protestato, sostenendo che in questo modo si offendono i parenti delle vittime di incidenti stradali mortali, dovrebbero tener conto che la legge deve, in primo luogo, porsi l’obiettivo di ridurre il numero di tragedie stradali che finiscono con la morte di chi è investito. Come ha detto con un certo coraggio l’ex responsabile per la giustizia del Pd Danilo Leva, la stessa "introduzione del reato di omicidio stradale è di fatto il cedimento al populismo penale che nel nostro paese ha prodotto danni cosmici già in passato". D’altra parte il fatto stesso che l’emendamento Sisto sia passato in una Camera in cui il Pd dispone da solo della maggioranza assoluta testimonia l’ampiezza del dissenso. Non ha molto senso attribuire a questa sconfitta del governo (che aveva espresso parere contrario all’emendamento alla Camera e aveva chiesto la fiducia al Senato per bloccarne uno analogo) un significato politico generale. Il governo ha commesso un errore e la Camera lo ha corretto: un errore di merito, una correzione di merito. Nessuna conseguenza politica, tranne forse che per l’ammonimento a non farsi trascinare nell’adozione di misure legislative populiste. L’emotività porta spesso a confezionare piccoli mostri giuridici che poi rischiano di peggiorare le situazioni che si pretende di risolvere con un approccio propagandistico. Corruzione: ok Camera a progetto di legge su whistleblowing, che passa a. Senato di Francesco Cerisano Italia Oggi, 23 gennaio 2016 Sarà obbligatorio fare la spia. La legge sul whistleblowing costringerà dirigenti, dipendenti e collaboratori segnalare in modo circostanziato i reati che si ritiene siano stati commessi. Segnalare in modo circostanziato gli illeciti che, in buona fede, si ritiene siano stati compiuti in azienda sarà obbligatorio. Non solo per il management, ossia coloro che svolgono funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione della società, ma anche per i dipendenti e i collaboratori. L’identità dell’autore della soffiata dovrà rimanere segreta, al pari dell’informazione rivelata. E sarà vietato qualunque atto discriminatorio, diretto o indiretto, nei confronti del segnalante, salvo il caso in cui i soggetti accusati debbano difendersi dai reati di diffamazione o calunnia. Chi discriminerà l’autore delle soffiate andrà incontro a sanzioni disciplinari. Così cambieranno i modelli organizzativi 231, finalizzati alla prevenzione dei reati nelle aziende, se la proposta di legge sul "whisteblowing", approvata giovedì in prima lettura dalla camera sarà confermata anche al senato. La proposta, presentata dal Movimento 5 Stelle (prima firmataria l’onorevole Francesca Businarolo) e poi recepita in commissione dal Pd, introduce nel nostro ordinamento l’istituto di origine anglosassone del "whisteblowing", sperimentato con successo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Nazioni dove è assicurata massima tutela a chi segnala gli illeciti compiuti in ambito lavorativo. L’istituto, concepito inizialmente in ambito pubblicistico come deterrente per la commissione dei più frequenti reati contro la pubblica amministrazione (corruzione, concussione, peculato), è stato potenziato nel corso dell’esame parlamentare non solo incrementando i poteri dell’Anac, (l’Autorità anticorruzione) a cui spetterà vigilare che l’autore della soffiata non subisca discriminazioni, ma anche, come detto, estendendo le tutele anche al privato. In entrambi i settori potranno godere delle protezioni previste per i "whistleblower" non solo i dipendenti, ma anche i collaboratori che a vario titolo lavorano per l’amministrazione o per l’azienda. Per quanto riguarda gli statali, la denuncia potrà essere fatta al responsabile della prevenzione della corruzione dell’ente di appartenenza, all’Anac, all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti. In caso di atti discriminatori l’Anac potrà applicare all’autore della condotta una sanzione amministrativa pecuniaria, da 5.000 a 30.000 euro. Nel settore privato, invece, l’adozione di misure discriminatorie nei confronti dei soggetti che effettuano le segnalazioni potrà essere denunciata all’Ispettorato nazionale del lavoro dallo stesso "whistleblower" o dai sindacati. Così recita la proposta di legge che introduce modifiche ad hoc al dlgs n. 231/2001. Il provvedimento prevede la nullità del licenziamento ritorsivo o discriminatorio operato nei confronti dell’autore della segnalazione. Saranno nulli gli atti di demansionamento contro il lavoratore. Quando vi siano elementi che facciano pensare a un licenziamento di natura ritorsiva, spetterà al datore di lavoro l’onere di provare la legittimità del comportamento dell’azienda. Tutelare chi denuncia un illecito? Misura di civiltà di Francesco Delzio Avvenire, 23 gennaio 2016 Non ha certo riempito le pagine dei giornali o i talk show televisivi, e credo proprio che non sposterà voti a favore di chi l’ha promossa o osteggiata. Ma l’approvazione nei giorni scorsi alla Camera della proposta di legge che tutela in Italia il cosiddetto whistleblower o gola profonda - ovvero il lavoratore che denunci pubblicamente, o riferisca alle autorità, attività illecite o fraudolente compiute all’interno dell’azienda o dell’organizzazione pubblica nella quale lavora - è un atto fondamentale di civiltà giuridica. E potrebbe diventare uno strumento fondamentale per la lotta "dal basso" all’endemica corruzione del nostro Paese. Si tratta di un’innovazione già sperimentata negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, dove ha avuto successo perché ha consentito di scoprire pericoli sul luogo di lavoro, frodi ai danni o ad opera dell’organizzazione, danni ambientali, false comunicazioni sociali, negligenze mediche, illecite operazioni finanziarie, minacce alla salute, casi di corruzione o concussione e molto altro ancora. Il principio è semplice: i primi (e spesso gli unici) in grado di intuire o ravvisare eventuali anomalie all’interno di un’impresa o di un ente pubblico sono coloro che vi lavorano, perché hanno accesso ad informazioni privilegiate. Ma spesso i dipendenti non danno voce né ai propri dubbi né alle proprie (provate) certezze, non solo per pigrizia o tendenza all’omertà, ma soprattutto per paura di ritorsioni. Oggi infatti si verifica spesso, troppo spesso in Italia il grande "paradosso della moralità": denunciare un illecito altrui non conviene. Perché chi denuncia non viene premiato o incentivato, ma può essere emarginato dai colleghi o addirittura punito dalla stessa organizzazione in cui opera. Arrivando a perdere il posto di lavoro, perché ritenuto "inaffidabile". Causa eccessiva moralità. Dobbiamo augurarci, dunque, che il passaggio di questa proposta in Senato (a prima firma dell’on. Francesca Businarolo del Movimento 5 Stelle) avvenga senza strane "sorprese" e che possa diventare legge al più presto. Non certo per favorire l’odioso fenomeno della delazione, ma per consentire a chi lavora correttamente di diventare un virus positivo nella sua comunità. Senza doversi trasformare, suo malgrado, in eroe. Dia: cosche investono in Africa e Medio Oriente di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2016 Medio Oriente o Africa, per le mafie poco cambia. Purché ci sia da riciclare e buttarsi negli affari. L’utilizzo delle società con capitali "ibridati" - vale a dire imprenditoria mafiosa o sua diretta emanazione - diventa il momento chiave che consente all’organizzazione criminale di affacciarsi sul mercato internazionale, con il coinvolgimento di Paesi offshore o dei cosiddetti paradisi fiscali, con finalità di riciclaggio o di reinvestimento di proventi illeciti. La logica conseguenza è l’accumulazione di ingenti patrimoni mobiliari e immobiliari attraverso intestazioni fittizie. Lo certifica la relazione sul primo semestre 2015 che il direttore della Dia (la Direzione investigativa antimafia) Nunzio Antonio Ferla ha appena consegnato al Parlamento. "Le mafie nazionali hanno assunto la morfologia caratteristica dei gruppi societari internazionali - si legge nelle conclusioni della relazione - che attraverso una capogruppo, con il centro decisionale idealmente collocato nei luoghi d’origine, controllano e dirigono secondo un disegno unitario, molteplici business criminali, sempre più interdipendenti". Per testimoniare la continua ricerca di nuovi mercati di sbocco, collegati come i vagoni di un treno, la Dia cita il caso di un imprenditore di Alcamo (Trapani), già condannato in via definitiva per associazione mafiosa, che per sfuggire al sequestro dei beni da tempo aveva esportato non solo ingenti somme di denaro in diversi Paesi del Medio oriente ma, grazie all’aiuto di un professionista, aveva avviato attività commerciali in Oman, fittiziamente intestate a terzi. "La connotazione transnazionale della criminalità organizzata si manifesta sotto forma di presenza, stanziale o episodica - spiega infatti la relazione - di soggetti collegati o contigui ad ambienti mafiosi, che si mimetizzano nel contesto di riferimento dove vivono e operano in condizioni di apparente legalità. Questi raggruppamenti costituiscono una rete di protezione e mutuo soccorso pronta ad attivarsi in tutti quei casi in cui è necessario supportare una latitanza, garantire una copertura oppure delocalizzare alcune attività criminali e no". È significativo - ricorda la Dia nella relazione spedita alle Camere - che il 13 aprile 2015 sia stato catturato in Marocco uno tra i 100 latitanti più pericolosi e ricercati in Italia dal 2010, Marco Torello Rollero, che viene ritenuto da investigatori e inquirenti uno dei referenti per la ‘ndrangheta per il narcotraffico internazionale, ma che nel passato avrebbe collaborato anche con Cosa nostra. Gli affari, insomma, cementano alleanze trasversali tra mafie, all’interno delle quali appare logico anche un codice di protezione comune dentro i confini patri ma soprattutto fuori, proprio laddove si spostano ormai da anni i capitali da investire. L’Italia, è la conclusione obbligata, sta sempre più stretta a Cosa nostra, ‘ndrangheta e Casalesi, al punto che gli analisti della Dia si spingono a scrivere che "emerge un tratto saliente e sempre più rappresentativo del fenomeno mafioso unitariamente inteso: la volontà di contaminare, in svariate forme, l’economia reale e finanziaria, in questa ottica evidentemente complementari l’una all’altra". La spallata di Caselli alla "trattativa" Stato-mafia di Luca Rocca Il Tempo, 23 gennaio 2016 L’ex procuratore capo di Palermo sulla mancata cattura di Provenzano "Non c’era nulla di concreto, solo generiche prospettive riferibili al boss". L’ennesima spallata al processo sulla presunta "Trattativa Stato-Mafia", che vede fra gli imputati anche l’ex generale del Ros Mario Mori, è arrivata inaspettata. A darla è stato ieri, nel corso della sua testimonianza nell’aula bunker di Palermo, l’ex procuratore Gian Carlo Caselli, il quale, fornendo la sua versione dei fatti su un episodio cruciale che, secondo il pm Nino Di Matteo, proverebbe l’accordo fra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, cioè la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano, ha reso superflue le tesi della pubblica accusa. Soffermandosi su quanto sostenuto dal colonnello Michele Riccio, che rivelò di aver informato inutilmente gli uomini del Ros dell’occasione di arrestare Provenzano in un casolare di Mezzojuso, dove il 31 ottobre 1995 si sarebbe svolto un summit di mafia, Caselli, infatti, ha raccontato quanto segue: "Un giorno l’allora capo della Dia, Tuccio Pappalardo, mi disse che Riccio aveva un confidente (Luigi Ilardo, ndr ) che poteva aiutarci a catturare dei latitanti importanti, come Provenzano, Brusca e Bagarella. Io nominai il pm Giuseppe Pignatone come coordinatore (…). C’erano generiche prospettive riferibili al boss Provenzano (…). Pignatone mi riferiva che di concreto non c’era, in realtà, nulla, se non la speranza di arrivare al boss". Dalla testimonianza dell’ex procuratore capo di Palermo emerge, dunque, che le prospettive di prendere Provenzano di cui parlava Riccio erano "generiche" e che Pignatone gli aveva riferito che "di concreto non c’era nulla". Lo stesso Pignatone, sentito come testimone il 14 gennaio scorso, ha affermato che Riccio non gli parlò "mai del mancato blitz", e che quando il giorno dopo il summit incontrò il colonnello gli venne riferito "solo che c’era stato un incontro a cui era andata la fonte e che c’erano buone possibilità di prendere Provenzano di lì a poco. Una cosa che ci dicevano in continuazione". Se davvero il colonnello Riccio fosse stato convinto della possibilità concreta di catturare il boss, se sul serio pensava che solo l’inerzia del Ros avesse contribuito a lasciare "Zu Binnu" latitante, perché l’1 novembre del 1995 di fronte a Pignatone rimase quasi silente? Caselli, ieri, si è anche soffermato sulla mancata perquisizione del covo di Totò Riina, affermando che fu il Capitano Ultimo, alias Sergio De Caprio (processato e assolto insieme a Mori), a chiedergli di soprassedere "per non compromettere sviluppi investigativi importanti". Proprio quello sostenuto sempre da De Caprio. Quanto alla sorveglianza del nascondiglio, Caselli ha affermato che dava per "scontato che il Ros l’avrebbe proseguita". Ma Ultimo ha sempre spiegato che mantenerla era troppo rischioso per la sicurezza dei suoi uomini, mentre Mori ha più volte evidenziato che non fu mai data "una disposizione precisa dalla procura" in merito. "Pinhub", parte da Napoli progetto per terapia del dolore nelle carceri pharmastar.it, 23 gennaio 2016 "Il dolore è una malattia "fuorilegge". Ma da oggi c’è un gruppo coeso di ricercatori, figli della Legge 38, che si batte per farla rispettare e per tutelare i cittadini: ecco perché abbiamo dato vita a Pinhub". Queste le parole con cui Renato Vellucci, Presidente del Comitato Esecutivo di Pinhub e Dirigente Medico del Dipartimento anestesia e rianimazione dell’AOU Careggi, ha aperto ufficialmente i lavori del 1° Scientific Forum a Firenze, evento di presentazione di Pinhub. Pinhub è la prima rete nazionale di terapia del dolore che unisce in un "network del dolore" i Centri hub da tutta Italia: hanno già aderito i Centri hub di Cagliari, Cosenza, Cremona, Firenze, Garbagnate Milanese, Giugliano in Campania, Napoli (Azienda Ospedaliera V. Monaldi e Istituto Nazionale Tumori-Irccs Fondazione Pascale), Parma, Pisa, Roma e Siena, e altri ancora (quattro solo nelle prossime settimane) sono in arrivo. Una sfida importante per un progetto che nasce nel segno della ricerca e della condivisione, per essere accreditato dalla Conferenza Stato-Regioni e poter collaborare con le Società Scientifiche supportandole nel loro lavoro. Obiettivo: superare le differenze regionali nella cura del cittadino con dolore, per garantire una reale applicazione di quella Legge sulla terapia del dolore e la cure palliative, la 38/2010, che è considerata un’eccellenza a livello europeo. E sono tanti i progetti che Pinhub porterà avanti, presentati nel corso del 1° Scientific Forum alla presenza dei responsabili dei Centri Hub, di medici e ricercatori di tutta Italia e del Consigliere Regionale Stefano Scaramelli, in rappresentanza delle istituzioni. A cominciare dal coinvolgimento dei Centri hub nel progetto Pain-Omics, una Ricerca scientifica internazionale che prevede di arruolare entro la fine del 2016, solo in Italia, circa 5 mila pazienti per identificare la cause che portano alla transizione da mal di schiena acuto (episodio singolo) a mal di schiena persistente/cronico (che dura più di 12 settimane). Ma non solo: Pinhub si farà promotore anche di un progetto con una grande valenza sociale per estendere la somministrazione di cure per la terapia del dolore anche nelle carceri. "Arrestare il dolore per liberare un diritto": questo il nome del progetto che il Dottor Pietro Vassetti, Responsabile Centro hub Regionale PO San Giuliano ASL Napoli 2 Nord, ha presentato a Firenze. Il primo carcere in cui questo servizio è stato applicato ad oggi, unico in Italia, è quello femminile di Pozzuoli, e dal 17 di marzo sarà esteso anche a quello maschile di Poggioreale: "Si tratta di un progetto molto importante: anche chi è in carcere deve vedere rispettati i propri diritti, nel rispetto della Legge 38 - commenta il Dottor Vassetti- e adesso, grazie al network esteso di Pinhub; contiamo di estendere questo diritto anche alle strutture penitenziarie di tutte le altre regioni italiane. Il dolore deve essere "fuorilegge" anche nelle carceri". E sono tanti altri i progetti in programma per il 2016. Pinhub ha dato vita ad un apposito Numero Verde (800.178.541) aperto a tutti i cittadini che hanno avuto un episodio improvviso di dolore acuto alla schiena, che potranno essere indirizzati al Centro hub più vicino. "La parola chiave di questo progetto è "alleanza" - commenta Guido Fanelli, Professore Ordinario di anestesia, rianimazione e terapia del dolore all’Università di Parma e Direttore Scientifico del progetto Pinhub - e infatti questo progetto non solo andrà a coinvolgere i Centri Hub di tutte le Regioni, uniti nel superare le disparità nei trattamenti dei pazienti, ma anche i medici di famiglia, che hanno un primo contatto fondamentale con il cittadino, e le farmacie: stiamo infatti concludendo un accordo con la Fofi (Federazione Ordini Farmacisti Italiani) per lanciare una grande campagna informativa nazionale. Il dado è tratto: Pinhub oggi ha fatto solo un primo passo, la strada da percorrere è ancora lunga". Sardegna: Maurizio Veneziano nuovo provveditore dell’amministrazione penitenziaria Ristretti Orizzonti, 23 gennaio 2016 "È Maurizio Veneziano il nuovo responsabile dell’amministrazione penitenziaria per la Sardegna. Il Dirigente, 52 anni, originario di Messina, subentrerà a Enrico Sbriglia che ha retto il Prap regionale per 6 mesi. Finalmente le strutture detentive dell’isola avranno un interlocutore a tempo pieno. Era ora. Peccato però che siano rimasti ancora vacanti le direzioni di Badu e Carros a Nuoro e di Nuchis-Tempio assegnate, per ora, rispettivamente a Patrizia Incollu e Marco Porcu". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", che "nel formulare gli auguri di buon lavoro al nuovo Provveditore, ricorda che è ancora irrisolto il grave problema dei Direttori penitenziari". "L’esperienza di Veneziano, che ha ricoperto per quattro anni l’incarico di Provveditore in Sicilia dopo essere stato direttore del carcere di Agrigento e dell’Ucciardone di Palermo, avrà - sottolinea - un notevole peso nella gestione delle diverse specificità sarde. L’auspicio è che possa soprattutto incidere sull’organizzazione interna relativamente alla nomina dei Direttori. La Sardegna è la regione italiana che vanta il negativo primato di non avere coperti gli incarichi di vertice negli Istituti e la totale assenza di Vice Direttori". "Il nuovo Provveditore, che nei prossimi giorni completate le consegne arriverà nell’isola, dovrà quindi affrontare gli aspetti organizzativi e le problematiche relative all’intero sistema penitenziario, a partire dal completamento degli organici degli Agenti di Polizia Penitenziaria, ancora in sofferenza. Dovrà altresì trovare una soluzione all’inadeguato numero di Direttori. La soluzione tampone individuata non fa altro che rimandare un problema che il Dap e il Ministero della Giustizia dovranno affrontare in tempi stretti. Il dott. Porcu, che dovrà occuparsi di Tempio, è responsabile dell’Ufficio Legale del Prap, oltre che direttore di Isili e Lanusei. La dott.ssa Incollu dovrà invece dividersi tra Nuoro e Sassari. L’esperienza personale e la buona volontà - conclude la presidente di Sdr - sono virtù molto apprezzate ma non bastano anche perché ormai la dotazione di Direttori è ridotta a 5 per 10 Istituti e il numero dei detenuti problematici è in costante aumento". Genova: morto detenuto straniero che tentò suicidio in cella, era in coma vegetativo Ansa, 23 gennaio 2016 È morto il detenuto che lo scorso sabato aveva tentato il suicidio nella sua cella in carcere a Marassi e che era stato soccorso dai poliziotti della Penitenziaria. Ne dà notizia il sindacato di polizia penitenziaria Sappe specificando che l’uomo, detenuto per spaccio di droga, era in coma vegetativo. "È il primo detenuto morto per suicidio che si registra in un carcere italiano dall’inizio dell’anno - scrive il segretario del Sappe Donato Capece - e, per ironia della sorte, il decesso avviene a poche ore dalla notizia, diffusa dall’Amministrazione penitenziaria di un calo nel numero dei morti suicidi in carcere dal 1992, suicidi che nel 2015 sono stati complessivamente 39". Capece commenta anche la futura riorganizzazione del sistema penitenziario in Liguria: "destano preoccupazione e perplessità certe decisioni in materia di riorganizzazione dell’amministrazione della Giustizia sul territorio ligure che prevedono - in controtendenza con il principio della territorialità della pena e con la garanzia di assicurare stabili rapporti con gli Enti locali e le istituzioni a favore della sicurezza sociale, attraverso l’impiego sul territorio del personale della Polizia Penitenziaria, e di progetti concreti per il trattamento rieducativo del reo - la chiusura del carcere di Savona, l’accorpamento di quello di Imperia con la struttura detentiva di Sanremo e la cancellazione del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria di Genova che sarà assorbito da quello di Torino". Firenze: tanti problemi per il carcere di Sollicciano… è meglio chiuderlo? nove.firenze.it, 23 gennaio 2016 Ieri alla Camera discussa interpellanza urgente sull’istituto di pena fiorentino, rimasto al freddo. Enrico Rossi incontrerà il provveditore Cantone. Il garante regionale dei detenuti Corleone chiede un incontro con la nuova direttrice. Condizioni igieniche indegne, impianti di riscaldamento guasti, carenze strutturali che si trascinano da anni. Sono solo alcuni dei rilievi relativi al carcere di Sollicciano evidenziati dalle ispezioni della Asl, dai sopralluoghi dei radicali fiorentini e dalle denunce dei detenuti. "Nei prossimi giorni incontrerò il provveditore dell’Amministrazione penitenziaria in Toscana Carmelo Cantone per fare il punto della situazione nel carcere di Sollicciano e capire come la Regione possa contribuire al miglioramento delle condizioni dei detenuti, degli operatori sociali e degli addetti alla sicurezza". Ad annunciarlo è il Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi dopo aver appreso dei problemi causati in ampi settori del penitenziario fiorentino da un guasto all’impianto di riscaldamento. Rossi ricorda che la Regione, già in passato, è intervenuta con proprie risorse sostituendo i materassi nelle celle nel carcere. "Quello che sta accadendo - afferma il presidente - è intollerabile e per le istituzioni di un Paese civile è un impegno inderogabile, oltreché un dovere costituzionale, garantire condizioni di vita dignitose sia per i detenuti sia per tutti coloro che vivono quotidianamente a vario titolo una struttura penitenziaria". "Esprimo la mia soddisfazione - conclude Rossi - per la decisione del Ministro della Giustizia di inviare gli ispettori e formulo gli auguri di buon lavoro alla nuova direttrice del carcere fiorentino Marta Costantini". "L’auspicio era avere risposte concrete per sanare quella che è una vera e propria vergogna nazionale - ha affermato il deputato di Ala Massimo Parisi, che ha firmato un’interpellanza urgente al Governo discussa stamani alla Camera- ma così non è stato. Siamo ancora alla fase della progettazione degli interventi, quando invece servono risorse e interventi urgenti, perché Sollicciano è una specie di bomba pronta ad esplodere, con evidenti rischi per la salute di chi è internato in quella struttura, ma anche di chi ci lavora e dei tanti servitori dello Stato che prestano in quella struttura il loro servizio. Se quella ispezione della Asl fosse capitata in qualsiasi tipo di struttura pubblica del Paese che non fosse un carcere e che non fosse il carcere di Sollicciano, quella struttura sarebbe già stata chiusa", ha aggiunto il deputato fiorentino. La risposta del Governo, affidata al viceministro Enrico Costa è sintetizzabile nei seguenti punti: Sulla base degli esiti dell’ispezione ministeriale sarà calibrato l’intervento operativo; saranno reperite le risorse fondamentali anche dalla Cassa delle ammende; è altresì in corso la verifica di destinare a più profonde ristrutturazioni dell’istituto risorse da reperirsi nel quadro della programmazione interministeriale; costituzione di un tavolo tecnico coordinato dall’ufficio di Gabinetto ministeriale con gli enti, le istituzioni locali, gli uffici giudiziari competenti, il garante regionale dei detenuti per le verifiche delle criticità e l’attivazione dei processi di risanamento ambientale. Troppo poco, per Parisi: "Non bastano i tavoli, non bastano le parole, neanche la buona volontà basta. Temo che se non corredato da altri elementi, non basterà neanche l’avvicendamento con un ottimo funzionario dello Stato per risolvere i problemi. Servono risorse. Io su questo non ho sentito parole chiare questa mattina, non mi potrò dichiarare soddisfatto su questa vicenda fino a quando non sarà risolta e credo che l’attenzione del Governo e del Parlamento debba restare desta", ha incalzato Parisi, auspicando una sinergia tra i parlamentari e i membri del governo toscani per contribuire a individuare soluzioni. "O siamo in grado di rendere quella struttura, con interventi che temo saranno pesantissimi dal punto di vista economico e finanziario, o temo che, fin quando non ci scriveremo una cifra, non troveremo le risorse e non diremo concretamente in quali tempi si pensa intervenire, noi abbiamo sempre lì una bomba. Spero che di tutto questo il Governo abbia preso buona nota. Spero che arriveranno provvedimenti risolutivi, perché, altrimenti, lo ripeto, quel carcere, che è una vergogna nazionale così come è oggi, è meglio chiuderlo", ha concluso Parisi. "Ieri in aula, al Senato, abbiamo posto la questione di Sollicciano al ministro Orlando. L’abbiamo posta negli stessi termini in cui l’abbiamo sollevata settimane fa, dopo la nostra visita, e prima ancora nei termini in cui l’hanno sollevata le donne della sezione femminile. Ben vengano, quindi, gli impegni e le dichiarazioni di oggi, ma ci stupisce l’inaccettabile ritardo della politica che pare essersi risvegliata di colpo e aver scoperto che i problemi di Sollicciano non sono mai finiti. Facciamo i migliori auguri di buon lavoro a Marta Costantino che eredita una situazione difficile, in un contesto di totale abbandono, per risolvere il quale saranno necessarie determinazione, consapevolezza del senso della detenzione e umanità" Lo affermano le parlamentari toscane di Sel, on. Marisa Nicchi e sen. Alessia Petraglia. "Torniamo a ripeterlo: il carcere di Sollicciano va chiuso. L’emergenza freddo di questi giorni è solo una delle tante emergenze dell’istituto penitenziario fiorentino -intervengono Massimo Lensi e Maurizio Buzzegoli, presidente e segretario dell’associazione radicale "Andrea Tamburi" di Firenze. Ad agosto, insieme al cappellano, denunciammo l’emergenza caldo: celle trasformate in veri e propri forni. Ma potremmo anche aggiungere: emergenza vitto, emergenza sanitaria, tubi che si rompono, strutture murarie impregnate di umidità. Una storia infinita. Mettere mano solo a qualcuno di questi problemi con provvedimenti tampone equivale a curare una cancrena con i pannicelli caldi. Il carcere di Sollcciano va immediatamente chiuso e dismesso. È su questa proposta che andrebbe aperto un dibattito serio tra le forze politiche, le istituzioni e le associazioni, dando vita a un coincidente processo di decarcerizzazione attraverso l’affidamento esterno in esecuzione di pena. Finalmente un ministro di Giustizia ha ammesso che le carceri sono criminogene. Lo Stato, in altre parole, viola le sue stesse norme, obbligando i rei a un percorso verso le recidive e non di riabilitazione. I trattamenti inumani e degradanti cui sono sottoposti i detenuti nelle carceri italiane sono stati sanzionati più volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. E allora cosa aspettiamo? I pannelli solari da mettere sui tetti come proposto dalla Regione Toscana? O che la ditta di manutenzione riesca nell’ardita impresa di far funzionare il sistema di riscaldamento per qualche settimana? La nostra proposta non è una provocazione. Tutt’altro; ciò che la anima è la tutela dei sistemi di garanzia dello Stato di Diritto, per tutti, istituzioni in primis, contro l’aberrazione delle continue emergenze della ragion di stato". Nuovo incontro del garante regionale dei detenuti, Franco Corleone, con tutte le associazioni e le cooperative che si occupano di carcere, soprattutto a Firenze ma non solo. Molte le novità emerse durante la riunione, che si è svolta ieri. Corleone ha spiegato che, durante il summit avuto qualche giorno fa con il ministro della Giustizia Andrea Orlando e con gli altri garanti dei detenuti regionali, per fare il punto sulla situazione delle carceri in Italia, è stata annunciata la nomina in tempi brevissimi del garante nazionale dei detenuti. È stato inoltre chiesto che le Regioni in cui è ancora assente la figura del garante ottemperino rapidamente alla nomina. Il panorama emerso, ha detto ancora Corleone, mostra che, nonostante una diminuzione del sovraffollamento carcerario, non si è assistito in molti casi a un miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti. "Un caso tipico è quello di Sollicciano - ha detto il garante toscano - in cui i problemi di qualità della vita e di relazioni interne sono e rimangono gravi". Per quanto riguarda Sollicciano, la notizia è che da pochi giorni è stata indicata una nuova direttrice, Marta Costantini, che si occuperà esclusivamente del carcere fiorentino. "L’auspicio è che si intervenga rapidamente per migliorare la situazione" ha commentato il garante. Per questo sarà chiesto un incontro nei prossimi giorni con la nuova responsabile, per lanciare una serie di proposte immediatamente operative e fare il quadro di quello che resta da fare. Nell’attesa dell’incontro sono sospese le iniziative di protesta già in programma. Firenze: Parisi (Ala) "sul carcere di Sollicciano risposte insoddisfacenti del Governo" gonews.it, 23 gennaio 2016 Condizioni igieniche indegne, impianti di riscaldamento guasti, carenze strutturali che si trascinano da anni. Sono solo alcuni dei rilievi relativi al carcere di Sollicciano evidenziati dalle ispezioni della Asl, dai sopralluoghi dei radicali fiorentini e dalle denunce dei detenuti, riassunti in un’interpellanza urgente al Governo firmata dal deputato di Ala Massimo Parisi e discussa stamani alla Camera. "L’auspicio era avere risposte concrete per sanare quella che è una vera e propria vergogna nazionale - ha affermato Parisi - ma così non è stato. Siamo ancora alla fase della progettazione degli interventi, quando invece servono risorse e interventi urgenti, perché Sollicciano è una specie di bomba pronta ad esplodere, con evidenti rischi per la salute di chi è internato in quella struttura, ma anche di chi ci lavora e dei tanti servitori dello Stato che prestano in quella struttura il loro servizio. Se quella ispezione della ASL fosse capitata in qualsiasi tipo di struttura pubblica del Paese che non fosse un carcere e che non fosse il carcere di Sollicciano, quella struttura sarebbe già stata chiusa", ha aggiunto il deputato fiorentino. La risposta del Governo, affidata al viceministro Enrico Costa è sintetizzabile nei seguenti punti: Sulla base degli esiti dell’ispezione ministeriale sarà calibrato l’intervento operativo; saranno reperite le risorse fondamentali anche dalla Cassa delle ammende; è altresì in corso la verifica di destinare a più profonde ristrutturazioni dell’istituto risorse da reperirsi nel quadro della programmazione interministeriale; costituzione di un tavolo tecnico coordinato dall’ufficio di Gabinetto ministeriale con gli enti, le istituzioni locali, gli uffici giudiziari competenti, il garante regionale dei detenuti per le verifiche delle criticità e l’attivazione dei processi di risanamento ambientale. Troppo poco, per Parisi: "Non bastano i tavoli, non bastano le parole, neanche la buona volontà basta. Temo che se non corredato da altri elementi, non basterà neanche l’avvicendamento con un ottimo funzionario dello Stato per risolvere i problemi. Servono risorse. Io su questo non ho sentito parole chiare questa mattina, non mi potrò dichiarare soddisfatto su questa vicenda fino a quando non sarà risolta e credo che l’attenzione del Governo e del Parlamento debba restare desta", ha incalzato Parisi, auspicando una sinergia tra i parlamentari e i membri del governo toscani per contribuire a individuare soluzioni. "O siamo in grado di rendere quella struttura, con interventi che temo saranno pesantissimi dal punto di vista economico e finanziario, o temo che, fin quando non ci scriveremo una cifra, non troveremo le risorse e non diremo concretamente in quali tempi si pensa intervenire, noi abbiamo sempre lì una bomba. Spero che di tutto questo il Governo abbia preso buona nota. Spero che arriveranno provvedimenti risolutivi, perché, altrimenti, lo ripeto, quel carcere, che è una vergogna nazionale così come è oggi, è meglio chiuderlo", ha concluso Parisi. Napoli: recluso in "condizioni inumane", risarcimento per ex detenuto a Poggioreale Ansa, 23 gennaio 2016 Il Ministero della Giustizia è stato condannato dal Tribunale civile di Napoli a risarcire un ex detenuto recluso nel carcere napoletano di Poggioreale in "condizioni inumana" - secondo i suoi legali - a causa del sovraffollamento. Lo rendono noto i legali dell’ex recluso, gli avvocati Elio Esposito e Nunzia Della Corte. La legge 117/2014, in base alla quale è stata presa la decisione, dispone che al detenuto vada riconosciuta la somma di 8 euro per ogni giorno di reclusione in tali condizioni. Secondo il giudice monocratico di Napoli "risulta provato dalla documentazione" il "grave di stato di sovraffollamento della Casa Circondariale di Poggioreale" in cui si trovava il detenuto; peraltro l’Amministrazione Penitenziaria "non ha contestato le condizioni di detenzione indicate nel ricorso". La decisione del giudice monocratico è stata emessa il 28 dicembre scorso e depositata in cancelleria il 18 gennaio; il ricorso era stato presentato il 2 marzo 2015. "Siamo soddisfatti del risultato raggiunti - hanno sottolineato Esposito e della Corte - e speriamo che questo provvedimento costituisca una pietra miliare per altri accoglimenti in favore di coloro che patiscono il degrado delle carceri italiane". Brescia: carcere di Verziano verso la riqualifica, sarà l’unico penitenziario cittadino di Thomas Bendinelli Corriere della Sera, 23 gennaio 2016 Brescia potrebbe ottenere finanziamenti per 20 milioni di euro, l’inaugurazione nel 2019 Bazoli La struttura rispecchierà le moderne concezioni di detenzione Celle aperte e spazi per socializzare: per i lavori dovrebbero bastare un paio di anni. Il progetto per la ristrutturazione e l’ampliamento del nuovo carcere di Verziano è in fase avanzata. È quanto ha assicurato il vice capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Massimo De Pascalis nel corso di un incontro con il deputato del Partito democratico Alfredo Bazoli. "Una notizia molto positiva - commenta Bazoli - che apre alla prospettiva di soluzione di un problema annoso e rende merito all’impegno di questo governo". Proprio nei giorni scorsi il sindaco Emilio Del Bono, in un confronto con gli esponenti del sindacato di polizia penitenziaria (Sinappe), aveva spiegato di aver ricevuto dal ministero le garanzie necessarie per l’avvio dei cantieri. Per la nuova struttura esisterebbe addirittura già un progetto di massima. Rispetto agli attuali 130 posti, Verziano dovrebbe arrivare ad ospitarne fino a 400 e diventare quindi l’unico carcere della città, inglobando quindi Canton Mombello. "Il tutto secondo le concezioni più moderne della detenzione - spiega Bazoli - celle aperte, mini appartamenti, spazi di socializzazione per i detenuti". Entro l’estate partirà l’iter. Aspetto non secondario sono i fondi, che già in buona parte ci sarebbero, derivanti in parte dal vecchio piano carceri ora in via di rivisitazione. "Lo si sta rimodulando: il vecchio piano era studiato per una popolazione carceraria di 70 mila persone, che nel frattempo è scesa a 50 mila, grazie ad alcuni interventi legislativi del governo". Brescia, anche nel nuovo scenario, è protagonista e in pratica, oltre ai 15 milioni già destinati, potrebbe ottenerne altri 5, portando il totale a circa 20 milioni di euro. Altro elemento significativo è che il nuovo carcere di Verziano, secondo il progetto depositato al ministero, non si mangerà terreno aggiuntivo. "Un aspetto molto importante - sottolinea Bazoli - che dovrebbe semplificare l’iter per l’edificazione". Secondo il Dap entro l’estate potrebbe già partire l’iter per l’avvio del procedimento amministrativo. Inaugurazione nel 2019. I tempi di attuazione? "Un paio di anni per la ristrutturazione: si potrebbe arrivare all’inaugurazione per il 2019". Un secondo passaggio sarebbe ottenere dal Comune un’area agricola limitrofa nella quale avviare un’azienda agricola collegata al carcere di Verziano. In cambio di quest’area potrebbe essere ceduta quella di Canton Mombello: "sarebbe però un secondo step - spiega Bazoli - ora non c’è necessità di avere nuovi terreni". A breve dovrebbe esserci un incontro tra una delegazione bresciana guidata da Del Bono e i responsabili del ministero per capire tempi e modalità del progetto. Sul piatto, oltre a un nuovo carcere all’avanguardia, c’è anche il futuro dell’edificio in cui sorge Canton Mombello, che occupa un’area molto vasta dentro le Mura venete. "Siamo in attesa di avere contatti - dice l’assessore ai Lavori Pubblici Valter Muchetti - di sicuro è un percorso che auspichiamo da tempo". Cosenza: il Senatore Francesco Molinari "adeguare la pianta organica dell’Uepe" giornaledicalabria.it, 23 gennaio 2016 "È da qualche tempo che ho preso l’abitudine di visitare gli istituti di pena. Penso che dovrebbe essere in cima ai pensieri di ogni società civile il recupero di chi ha sbagliato attentando alle regole della pacifica convivenza della comunità". Lo ha detto il senatore Francesco Molinari, componente della Commissione Parlamentare Antimafia, al termine dell’ispezione effettuata nella casa circondariale di Cosenza. "Un pensiero - ha aggiunto - che dovrebbe suonare doveroso per chi deve rappresentare le istituzioni. In questa abitudine devo ringraziare i "Radicali Italiani" e, nella fattispecie, Emilio Enzo Quintieri, vittima di un incubo giudiziario di tipo kafkiano, recentemente conclusosi nel migliore dei modi, che mi ha accompagnato nell’ultima visita effettuata presso l’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna (Uepe), ufficio periferico del Dipartimento per la Giustizia Minorile, situato nella Casa Circondariale "Sergio Cosmai", a Cosenza, con giurisdizione su tutta la provincia. L’Uepe, versa da tempo in gravissime condizioni operative in virtù della carenza di personale e del costante aumento del carico di lavoro, derivante anche dall’introduzione dell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, una carenza ormai cronicizzatasi. Non è stato neanche possibile stabilizzare - in posizione di distacco da oltre un anno presso l’Uepe - il Funzionario che si occupa di coordinare le attività di segreteria nonostante costei abbia avanzato, con parere favorevole del Direttore dell’Ufficio, istanza alla competente Direzione Generale del Personale e della Formazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e nonostante l’imminente quiescenza dell’attuale Responsabile dell’Area di Segreteria". "Ma poi, presso gli Uepe - ha detto ancora Molinari - possono prestare la loro collaborazione, come previsto dall’Ordinamento Penitenziario, le organizzazioni di volontariato, con i rispettivi Assistenti Volontari, anche per lo svolgimento di attività trattamentali e risocializzanti individuate nelle intese sottoscritte dall’Ufficio con gli Enti Pubblici e Privati e, in particolare, per l’affidamento in prova, per il regime di semilibertà e per l’assistenza ai dimessi dagli Istituti Penitenziari ed alle loro famiglie. Allo stato, presso l’Uepe di Cosenza non risulta presente alcun Assistente Volontario mentre sarebbe necessario il contributo apportato dagli stessi nella collaborazione nell’esecuzione delle misure alternative, in particolare per assicurare con maggiore continuità un’azione di prossimità ai bisogni ed alle esigenze dei condannati e del loro ambiente di vita. Un’opportunità della quale, alla luce delle esperienze realizzate con risultati lusinghieri in altre realtà locali del Paese, potrebbero usufruire gli stranieri". "Ecco perché ho interrogato - ha concluso - il Ministro della Giustizia, insieme ai colleghi Mussini, Vacciano, Romani e Bencini, su quali iniziative ed in quali tempi intenda adoperarsi per risolvere l’adeguamento numerico e professionale della pianta organica dell’Uepe di Cosenza. Così come ho chiesto di sapere quale sia lo stato della collaborazione dell’Uepe di Cosenza con le organizzazioni di volontariato". Pisa: detenuto sequestra un medico e lo minaccia con una lametta pisatoday.it, 23 gennaio 2016 Sono stati 15 minuti drammatici quelli vissuti al carcere Don Bosco di Pisa lunedì scorso. Il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria racconta di un episodio in cui un detenuto problematico ha perso la testa ed ha sequestrato un medico che cercava di calmarlo, puntandogli poi alla gola una lametta. L’uomo, un italiano di 49 anni con pena da scontare fino al 2026, una volta in presenza dei rinforzi di Polizia giunti sul posto ha compreso la gravità di quanto stava accadendo ed ha fatto cadere l’arma. Nel dettaglio il detenuto è stato condannato per una serie di reati fra cui spaccio, furto, rapina e ricettazione, oltre a varie turbolenze in carcere che ne hanno comportato il trasferimento in varie sedi per motivi disciplinari. Un soggetto quindi particolare, con alcuni precedenti di escandescenze anche recenti. A ricostruire gli accadimenti è il segretario regionale Sappe della Toscana Pasquale Salemme. "Qualche giorno prima di questo grave episodio - spiega - l’uomo aveva rotto nel Centro clinico del carcere una macchina che favorisce la respirazione ai malati, che lui stesso usava. Lunedì, poi, non avendo risposto nessuno alla telefonata da lui fatta ai familiari, che per altro aveva sentito il sabato prima e che contatta regolarmente, pretendeva di chiamare una utenza cellulare, cosa questa che non può essere fatta senza l’autorizzazione del magistrato, come correttamente hanno fatto notare i poliziotti di servizio che pure avevano notato il suo atteggiamento aggressivo e irascibile". A questo punto si cerca di calmarlo: "È intervenuto - prosegue Salemme - un medico che lui conosce, ma questi con uno scatto repentino, impugnando una lametta e puntandola al collo del dottore, lo ha sequestrato per quindici lunghi minuti, urlando che avrebbe fatto vedere lui come si fa a far arrivare subito un giudice in carcere. L’accorrere del personale di Polizia Penitenziaria deve però averlo indotto a rendersi conto della gravità di quel che stava facendo ed infatti ha poi buttato la lametta e lasciar andare il medico". "È un fatto gravissimo - commenta il segretario generale Sappe Donato Capece - che poteva avere pericolosissime ripercussioni sia per l’incolumità del medico che sul mantenimento dell’ordine e della sicurezza all’interno del carcere di Pisa. La professionalità e l’abnegazione del personale di Polizia Penitenziaria del Reparto, cui va il mio apprezzamento, hanno gestito al meglio un evento critico che avrebbe potuto avere drammatiche conseguenze". Una situazione critica quella del Don Bosco che si ripete negli istituti detentivi italiani. Ancora Capece: "Si conferma la tensione che continua a caratterizzare le carceri italiane, al di là di ogni buona intenzione. Le carceri sono più sicure assumendo gli Agenti di Polizia Penitenziaria che mancano, finanziando gli interventi per potenziare i livelli di sicurezza delle carceri. Altro che la vigilanza dinamica, che vorrebbe meno ore i detenuti in cella senza però fare alcunché. La situazione nelle carceri resta dunque allarmante. Dal punto di vista sanitario, poi, è semplicemente terrificante: secondo recenti studi di settore è stato accertato che almeno una patologia è presente nel 60-80% dei detenuti. Questo significa che almeno due detenuti su tre sono malati. Tra le malattie più frequenti ci sono proprio quelle infettive, che interessano il 48% dei presenti. A seguire i disturbi psichiatrici (32%), le malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%)". "Altro che dichiarazioni tranquillizzanti - conclude il segretario generale - altro che situazione tornata alla normalità. La Polizia Penitenziaria, i suoi uomini e le sue donne costantemente in prima linea nelle sezioni detentive delle carceri lo sanno bene: i numeri dei detenuti in Italia sarà pure calato, ma le aggressioni, le colluttazioni, i ferimenti, i tentati suicidi e purtroppo anche le morti si verificano costantemente". Salerno: detenuto appicca il fuoco in una cella, paura al carcere di Fuorni salernonotizie.it, 23 gennaio 2016 Un giovane napoletano, detenuto nel carcere di Fuorni, ha appiccato il fuoco all’interno della sua celle mettendo al rischio la sua incolumità e quella degli altri. Per evitare ripercussioni, gli agenti della polizia penitenziaria hanno fatto uscire tutti e li hanno scortati nelle aree all’aperto. Il caso è stato prontamente gestito dal personale della struttura penitenziaria. Nonostante tutto il coordinatore provinciale della Uil-pa Penitenziari Lorenzo Longobardi e il vice Daniele Giacomaniello affermano in una nota: "Abbiamo più volte chiesto all’autorità dirigente di formare ulteriore personale in ambito, ma per quanto ci è dato sapere, i finanziamenti elargiti dall’amministrazione centrale non consentono di fare ulteriore formazione". Spiegano che ieri si è stati fortunati perché l’incendio è avvenuto in una fascia oraria con più agenti in servizio: "Se fosse successo in un orario serale o notturno, non osiamo immaginare che cosa poteva succedere". Genova: lunedì il Seminario "Mettiamoci alla prova. Istituzioni e territorio a confronto" Ristretti Orizzonti, 23 gennaio 2016 Il prossimo 25 gennaio 2016 si terrà presso l’Aula Magna della Scuola di Formazione del Ministero della Giustizia in Via del Seminario 4 Genova il Seminario dal titolo "Mettiamoci alla prova: Istituzioni e territorio a confronto sulla legge 67 del 28 aprile 2014", organizzato da Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria per la Liguria - Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Genova - con il Patrocinio dell’Ordine Assistenti Sociali della Liguria. Il Seminario rappresenta un momento di riflessione tra Istituzioni e territorio sulla esperienza sino ad ora realizzata di introduzione dell’istituto giuridico della sospensione del procedimento con messa alla prova degli adulti (legge n. 67 del 28/04/2015). La sospensione del procedimento con messa alla prova degli imputati adulti- che vengono affidati all’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (Uepe) - prevede lo svolgimento di un programma di trattamento che contiene attività obbligatorie quale il lavoro di pubblica utilità, consistente in una prestazione gratuita in favore della collettività, e condotte riparative, volte ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato. La misura penale delinea una esperienza significativa verso il nuovo orientamento di giustizia riparativa anche per gli adulti. La giornata vedrà pertanto la partecipazione di Magistrati, Avvocati, rappresentanti degli Enti Locali Associazioni e Terzo settore a testimonianza della proficua collaborazione interistituzionale nella gestione di tale misura penale. Ferrara: "Arte in prigione", apre oggi a Pontelagoscuro la mostra dei detenuti estense.com, 23 gennaio 2016 Esposte a Pontelagoscuro le opere realizzate alla Casa circondariale di via Arginone. Oggi, sabato 23 gennaio, alle 10.30 alla sala Nemesio Orsatti (via del Risorgimento 4) a Pontelagoscuro aprirà la mostra collettiva "Arte in prigione". Curata dal pittore polesano Raimondo Imbrò, l’esposizione si compone di quaranta pitture, opera di detenuti della casa circondariale ferrarese di via Arginone, e diciannove grafiche a china di Empedocle Imbrò (padre di Raimondo) ufficiale dell’esercito internato dagli inglesi nel carcere indiano di Yol durante la seconda guerra mondiale. L’arte espressa tra le mura di un carcere dai detenuti genera sensazioni particolarmente intense, che vanno oltre la semplice ammirazione per le forme, i colori, le prospettive disegnate, schizzate, dipinte. C’è una carica umana che è inevitabilmente condizionata dalla sete di libertà, che l’arte consente di liberare al pari di chi le sbarre le vede da fuori. È un evento unico che dimostra come l’arte non conosca confini, accomunando le vicende umane di chi il carcere lo conosce per errori propri e chi invece l’ha conosciuto per errori di altri. Come Empedocle Imbrò, che rimase internato per diversi anni quale prigioniero degli inglesi nelle terre lontane dell’India durante la guerra, tramandando al figlio Raimondo una passione innata che oggi, a sua volta, trasmette ai bambini di Pontelagoscuro, essendo l’organizzatore di laboratori artistici al centro Quadrifoglio, sia ai detenuti alla Casa Circondariale di via Arginone come loro insegnante di pittura. Patrocinata dal Comune di Ferrara la manifestazione è stata ideata e organizzata dal centro di promozione sociale "Il Quadrifoglio" di Pontelagoscuro - nell’ambito delle celebrazioni per il 30° anniversario della fondazione - con la collaborazione di Pro Loco di Pontelagoscuro, Comitato Vivere Insieme e Agire Sociale/Centro Servizi per il Volontariato. Accanto al curatore della mostra Raimondo Imbrò, all’inaugurazione saranno presenti il sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani, l’onorevole Paola Boldrini, l’assessore al Decentramento Simone Merli, la presidente del centro di promozione sociale "Il Quadrifoglio" Loreta Prampolini e autorità civili e militari. La mostra sarà visitabile fino al 7 febbraio, tutti i giorni dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 19. Lunedì chiuso. Libri: "La guerra del Sacro. Terrorismo, laicità e democrazia radicale" di P. Flores d’Arcais recensione di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 23 gennaio 2016 "La guerra del Sacro" di Paolo Flores d’Arcais (Raffaello Cortina pag. 246 euro 15). Il nuovo libro di Paolo Flores d’Arcais: il ruolo del pensiero democratico radicale come unico strumento di integrazione di fronte al fanatismo. Molte cose è il libro di Paolo Flores d’Arcais "La guerra del Sacro. Terrorismo, laicità e democrazia radicale" (Raffaello Cortina Editore): un allarme per il pericolo che l’Islam fondamentalista rappresenta per gli ideali politici dell’Occidente, una denuncia delle debolezze e delle ipocrisie dei nostri governi, una teoria delle condizioni irrinunciabili della democrazia. Il "precipitato" di tutti i discorsi anzidetti è nella parola laicità, intesa nel senso più rigoroso, senza gli aggettivi oggi di moda (sana, positiva, vera: aggettivi che non l’arricchiscono, ma l’avvelenano). Le considerazioni che seguono non sono, propriamente, una recensione. Sono piuttosto un tentativo d’inquadrare i problemi e di sollecitare riflessioni su questioni cruciali per il nostro avvenire. La laicità è il presupposto della democrazia, in quanto s’intenda la religione come eteronomia, cioè soggezione alla trascendenza. La democrazia, al contrario, è autonomia, cioè libertà nell’immanenza. Si potrebbe dire così: chi si appella alla religione ritiene che le cose terrene siano subordinate a un ordine sacro oggettivo necessario che a noi spetta rispettare e, eventualmente, restaurare se è stato violato; chi si appella alla democrazia ritiene, invece, che la casa terrena non abbia un ordine, ma siamo noi a doverglielo dare, attraverso discussioni, controversie, voti ed elezioni. Chi vuole risolvere i problemi della convivenza in base a premesse sacrali apre le porte a quella maledizione dell’umanità che sono le guerre di religione. Ora, se guardiamo alla storia, dobbiamo riconoscere che è nello Stato nazionale che la democrazia ha trovato l’humus necessario. Questo è un punto importante per comprendere le difficoltà odierne della democrazia. Lo Stato nazionale ha generato mostri totalitari, quando è degenerato in nazionalismo. Ma la nazione ha realizzato la "sfera pubblica" comune, nella quale i cittadini possano confrontarsi dialogicamente, e "discorsivamente" partecipare alla creazione d’una volontà comune su temi di rilevanza generale. La democrazia non è incompatibile con il pluralismo delle opinioni, ma il "multiculturalismo" è altra cosa, è rottura dell’unità del quadro entro il quale si deve svolgere la vita comune. Il libro di Flores è una scossa necessaria e salubre contro la cecità, la viltà e l’inanità di fronte ai pericoli del fanatismo religioso usato come sostanza incendiaria, versata sulle controversie economiche e politiche che dividono il mondo e le società e le trasformano in crociate. Un breve excursus storico. La Francia del Cinque-Seicento fu il terreno d’una orribile guerra civile in cui ragioni politiche si mescolavano col fanatismo religioso: l’obbedienza cattolica contro la riforma protestante. La "notte di San Bartolomeo" (23-24 agosto 1572) in cui migliaia di Ugonotti furono trucidati dal partito cattolico sotto l’egida di Caterina dè Medici è un esempio di come si possono regolare i conti tra fedeli di religione diversa e azzerare le diversità imponendo una sola legittimità. Contro tanta barbarie, si fece strada un diverso modo di pensare che potrebbe essere sintetizzato in un detto del Cancelliere di Francia Michel de L’Hospital: "Non importa quale sia la vera religione, ma come si possa vivere insieme", ciascuno con la sua fede. Quella massima trovò attuazione con l’editto di Nantes di Enrico IV (1598) che, sia pure provvisoriamente e con molte limitazioni, riconobbe la libertà di coscienza e di culto: tolleranza a condizione che cattolici e protestanti stessero ciascuno al proprio posto e il potere assoluto del Re non fosse messo in discussione. Questa forma di coesistenza per parti separate poteva valere in quel tempo, quando di democrazia non si parlava. In democrazia, deve esistere un unico foro politico generale dove tutti sono chiamati a partecipare. Non basta che ci sia un potere che garantisca la non aggressione. Occorre che i "fedeli" delle diverse chiese si rispettino e si riconoscano reciprocamente come portatori di buone ragioni valide in generale. La legittimità democratica nasce da lì, dal riconoscimento d’essere parti d’un foro comune. Il foro comune si chiama "nazione". La nazione è stata celebrata come la casa accogliente, protettiva, il luogo del cuore, la Heimat del romanticismo tedesco. La storia delle Nazioni e della "nazionalizzazione delle masse" (titolo d’un celebre libro di George Mosse del 1974) è stata però lunga e tortuosa e, soprattutto, fatta di cose molto diverse: movimenti di emancipazione da servaggi e discriminazioni e conquista di diritti (per esempio, il voto e la protezione sociale per la classe lavoratrice, in origine esclusa dalla nazione, secondo la concezione borghese) o, al contrario, di discriminazione e persecuzione. L’unità è una bella cosa se è il prodotto dell’azione che mira a distruggere barriere e a creare fratellanza. Ma può essere - ed è stata - cosa violenta, se è imposta con obblighi e divieti (come l’uniformità di lingua, di religione e di insegnamento). Può essere terribile, se viene brandita come arma contro coloro che i governi dichiarano "non integrabili", i diversi per natura: gli stranieri, i senza cittadinanza, i nemici della Patria, i potenziali traditori (gli ebrei, i rom e sinti, gli omosessuali, gli slavi, i latini, secondo il concetto nazionale razzista del nazismo). Raccogliamo questi spunti di riflessione e facciamoli reagire con i problemi del multiculturalismo. Il "modello San Bartolomeo", cioè la violenza e i pogrom usati per sbarazzarsi dei migranti è proponibile solo per gli xenofobi razzisti di casa nostra. Tuttavia, neppure la separazione "modello Nantes" è accettabile: i muri, le enclave e i quartieri monoetnici, le classi scolastiche separate o le scuole coraniche sostitutive di quelle pubbliche. Sono cose che hanno il nome apartheid e sono inconcepibili in democrazia. La parola-chiave dei nostri giorni è integrazione e, nel libro di Flores, l’integrazione implica la laicità nella sua accezione più rigorosa. Si prenda la questione dei simboli: come dovrebbe essere vietata l’esibizione di quelli islamici (il velo delle donne), così dovrebbe essere per quelli cristiani (il crocifisso nei luoghi pubblici). Ma, qui c’è il rischio d’una aporia, un’aperta contraddizione. La laicità è funzionale all’autonomia, ma la si può imporre in regime di eteronomia. Si può essere laici perché qualcuno ce lo comanda? La contraddizione non è da poco. La laicità imposta significa soffocare i propri tratti identitari e, da questo soffocamento, si possono sprigionare reazioni di rigetto. L’esperienza insegna: invece di promuovere convivenza, si rischia di alimentare i conflitti. L’integrazione è l’obbiettivo, ma l’obbiettivo si può perseguire in autonomia solo con l’interazione. Prima o poi, non saremo più gli stessi. Di questo possiamo essere certi. Si tratta di sapere se ci si arriveremo in mezzo a conflitti o, invece, con la disponibilità delle culture a entrare in rapporto. Ferma restando l’intransigenza verso ogni forma di violenza tra e nei gruppi sociali, e fermo l’aiuto che deve essere dato a coloro che liberamente desiderano sottrarsi alle imposizioni delle loro comunità, si tratta di promuovere l’interazione, nella convinzione ch’essa aiuti la conoscenza reciproca e la convivenza pacifica. Convinzione o illusione? Non lo sappiamo, ma sappiamo che questa è l’unica via conforme alle nostre convinzioni democratiche. Allarme sulla privacy. "L’accordo con gli Usa deve essere rivisto" di Francesca De Benedetti La Repubblica, 23 gennaio 2016 Il Garante in pressing sul governo italiano: "Fate presto" In ballo ci sono i dati personali e gli affari delle aziende. I dati degli europei in Usa non sono al sicuro e Safe Harbor, l’accordo che dal 2000 assicurava il passaggio di dati da Ue a Usa per Facebook, Google e molte altre aziende, non è più valido. Perciò urge un piano B. Sembrano tutti d’accordo, i difensori della privacy così come le aziende: la vacanza (legislativa) è durata troppo. L’ultimo allarme viene da Antonello Soro, garante italiano della privacy. Chiede al premier Matteo Renzi di fare pressing: "Le due sponde dell’oceano arrivino a una soluzione, basta incertezze". Interpellato da Repubblica, il governo risponde per voce di Sandro Gozi: "Confidiamo in un primo accordo di principio entro due settimane". Il 6 ottobre la Corte di giustizia europea dichiarò non valido Safe Harbor. I giudici diedero ragione a Max Schrems, lo studente che aveva sollevato il caso: le informazioni personali in America non sono al sicuro, lo ha dimostrato Snowden. E senza tutele, i dati non possono viaggiare. Dal 6 ottobre il vecchio sistema non è più legale, ma il nuovo manca. Il garante è preoccupato: "Serve un accordo entro inizio febbraio, altrimenti si rischia il blocco. Ci sono 4500 imprese coinvolte: o agiscono fuori legge o si fermano. Immagina che crisi?". Gli dà sponda il presidente di Confindustria digitale Elio Catania: "Ha ragione Soro. Le aziende della Silicon Valley in qualche modo se la cavano, fanno i loro accordi e clausole contrattuali. Per le piccole e medie imprese invece è un calvario. L’incertezza ha un costo". Dal gabinetto della commissaria Ue che sta negoziando con gli Usa, Vera Jourova, arriva una rassicurazione: "Lavoriamo a un quadro comune, siamo a stretto contatto con Washington con cui negoziamo intensamente da ottobre". Il garante europeo per la privacy Giovanni Buttarelli usa un cauto ottimismo. Da Bruxelles ricorda che "in tutte le negoziazioni importanti le vere soluzioni arrivano sul tavolo all’ultimo". Ma quando? E quali? "Qualcosa si muoverà verso fine gennaio. In ogni caso le authorities hanno dato inizio febbraio come limite massimo", ricorda Mister privacy Ue. Che prosegue: "Una soluzione che non tuteli la privacy rischia di essere di nuovo invalidata dalla Corte. È possibile allora che l’America estenda agli europei le garanzie già applicate ai cittadini Usa. Il Congresso ci sta lavorando". È questa per ora l’offerta messa sul piatto dalla segretaria al commercio Usa Penny Pritzker. La doppia pena del migrante di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 23 gennaio 2016 la Danimarca partecipa attivamente ai bombardamenti della Siria - cioè prima dice di bombardare l’Isis per sconfiggere il fondamentalismo e poi impone i balzelli a chi scappa dall’Isis. Un miracolo di logica. Infine, forse, entrano in Austria, da dove sono spediti in Germania, cioè in Baviera. E quale è la prima mossa dei bavaresi, costretti a farli entrare da Angela Merkel? Sequestrare beni e contanti superiori a 750 Euro, "per finanziare la loro accoglienza". Prima di maledire il governo bavarese, è utile qualche considerazione microeconomica, anzi di economia domestica. Per un viaggio del genere, una famiglia tipo, in cui lavora solo il capofamiglia, di quanto denaro avrà potuto disporre, in dollari? Tenendo conto che il reddito pro capite in Siria non arriva a 2000 dollari (nel 2007, prima della guerra), meno di un ventesimo di quello tedesco o austriaco, è difficile immaginare più di un migliaio o due, cucito nelle fodere, ma solo se stiamo parlando di professionisti o commercianti. Il resto, se ce l’avevano, se ne sarà andato, sicuramente, a ungere miliziani e doganieri, non solo in Turchia, e a comprarsi da mangiare. E poi, ci saranno anche qualche gioiello di famiglia, un orologio, un cellulare e magari un tablet. Sequestrare a questa gente i valori oltre 750 euro è una cosa schifosa. La Danimarca ha fatto scuola. Ma non è solo schifosa, è insensata. Se si sfogliano i quotidiani economici europei si troveranno spesso, ma solo nelle pagine interne, analisi sulla necessità dei migranti per un continente che non cresce e la cui popolazione invecchia. In altri termini, il welfare europeo - o meglio i conti pubblici europei - hanno bisogno di gente che sostenga la domanda e paghi le tasse. È il punto di vista dell’economia di mercato, fatto proprio da Merkel, a cui interessano fino a un certo punto le giaculatorie identitarie. Nulla di filantropico, per carità. Si parla della stessa tecno-politica transnazionale che non ha voluto far fallire la Grecia, ma solo per comprarle a poco prezzo gli asset, insomma per succhiarle un pò di sangue. Torniamo alla famiglia siriana. Perché imporre il balzello d’ingresso, se poi, trovato un lavoro, anche misero, il capofamiglia e la moglie (lui facendo il lavapiatti, anche se in Siria magari era un dentista, e lei riparando giacche) cominceranno a finanziare il welfare bavarese? La risposta è in un concetto del sociologo algerino Sayad, "la doppia pena del migrante". Loro non sono come noi e, se vogliono vivere tra noi, devono pagare pegno. Non solo stranieri, ma anche tenuti sotto il tallone. E di che pegno si tratta? I danesi, che hanno introdotto il sequestro d’ingresso, lo hanno detto chiaramente. Sappiamo che è una misura priva di qualsiasi significato economico, ma così li scoraggiamo. Tra l’altro, la Danimarca partecipa attivamente ai bombardamenti della Siria - cioè prima dice di bombardare l’Isis per sconfiggere il fondamentalismo e poi impone i balzelli a chi scappa dall’Isis. Un miracolo di logica. D’altronde, nella vicenda dei profughi non c’è alcuna logica, tanto meno europea. Ogni stato, in base alla sua specifica xenofobia o paura del populismo, erige i suoi muri, chiude le sue frontiere, impone i suoi balzelli. Non esiste uno straccio di politica comune delle migrazioni, né di autorità capace di realizzarla, come mostra la vicenda dei ricollocamenti dei migranti approdati in Italia e Grecia. Una politica unitaria non esiste, perché l’Europa è solo un’espressione finanziaria, per citare un famigerato motto di Metternich sull’Italia. Così, innalzare le barriere interne, come stanno facendo stati xenofobi o paranoici, significa compromettere quel pò di libertà, di cosmopolitismo infra-europeo facilitato dalla libera circolazione delle merci. Molti osservatori preconizzano che, con la crisi di Schengen, inizia la probabile agonia della Ue. Ma la fine o il declino di questo continente incombe da anni, da quando si è dichiarato incapace di dare una speranza di vita a chi, oltretutto, potrebbe aiutarlo a crescere. Conto alla rovescia per salvare Schengen di Ivo Caizzi Corriere della Sera, 23 gennaio 2016 Schaeuble: senza libera circolazione Europa a rischio. Il "Financial Times": piano Ue per bloccare gli arrivi dai Balcani. Una discussione sulla reintroduzione dei controlli alle frontiere possibile già lunedì, ma non sono previste decisioni. La Germania e altri Paesi europei, che hanno introdotto controlli alle frontiere nazionali temporanei e ormai vicini alla scadenza, possono chiedere di estenderli fino a un massimo di due anni. La Commissione europea ha confermato questa facoltà concessa dalle attuali regole di applicazione del Trattato di Schengen, che garantisce la libera circolazione tra i Paesi aderenti. I governi interessati potranno discuterne nel Consiglio dei 28 ministri degli Interni in programma lunedì prossimo ad Amsterdam, dove non sono previste decisioni in quanto si tratta di una riunione informale. L’obiettivo principale dei ministri è preparare accordi in vista dei due summit dei 28 capi di Stato e di governo in febbraio e marzo. Viene rinviata a quei vertici anche la valutazione della tenuta di Schengen davanti al rischio di arrivi di profughi in Europa nel 2016 almeno pari al milione stimato l’anno scorso (157 mila in Italia, secondo Frontex). Il ministro degli Interni tedesco Thomas de Maiziere, che giovedì scorso aveva ventilato l’estensione a tempo indeterminato degli attuali controlli temporanei alle frontiere della Germania, è stato corretto dal collega delle Finanze Wolfgang Schaeuble. "Se il sistema Schengen viene distrutto - ha affermato Schaeuble - l’Europa è drammaticamente in pericolo dal punto di vista politico ed economico". Anche il premier Matteo Renzi ha difeso la libertà di spostamento dei cittadini. "Schengen è molto messo in dubbio e per noi è veramente triste - ha detto Renzi -. La libera circolazione era il grande sogno europeo. È giusto essere attenti contro il terrorismo, ma non è che sospendendo Schengen si bloccano i terroristi. Alcuni terroristi di Parigi sono cresciuti nelle nostre città". Il premier francese Manuel Valls ha ribadito la volontà della Francia di aiutare la Germania, che resta la principale destinazione dei profughi. Ma Valls ha implicitamente criticato la politica delle "porte aperte" annunciata dalla cancelliera tedesca Angela Merkel su pressione di molte imprese nazionali. "Il primo messaggio che dobbiamo trasmettere ora con la massima fermezza è che non accoglieremo tutti i rifugiati in Europa", ha affermato il premier francese, aggiungendo che "se si dice benvenuti, si provocano maggiori spostamenti". Il presidente Usa Barack Obama ha telefonato a Merkel per coinvolgerla nella sua proposta di un vertice mondiale sull’emergenza rifugiati da organizzare negli Stati Uniti a margine dell’Assemblea generale dell’Onu in calendario nel settembre prossimo. Germania, Austria e gli altri Paesi con controlli temporanei alle frontiere vedranno scadere questa facoltà nel maggio prossimo. Per questo i governi di Berlino e di Vienna hanno sollecitato di decidere entro il summit di marzo interventi comuni adeguati ad affrontare l’emergenza migranti. Altrimenti non gli resterà che chiedere l’estensione dei controlli alle frontiere fino a due anni, che è possibile se esistono "carenze persistenti" ai confini esterni dell’area (quindi soprattutto in Grecia e in Italia). Merkel ha esortato Roma e Atene ha istituire tutti i centri di identificazione dei migranti. Punta poi molto sui tre miliardi promessi dall’Ue alla Turchia affinché freni il maxi esodo di profughi siriani e iracheni diretti in Germania. L’Italia, che fu snobbata dall’Ue quando l’emergenza era provocata principalmente dagli sbarchi dal Nord Africa, ha bloccato l’esborso. Chiede di attingere solo dal bilancio Ue e chiarezza su come Ankara spenderà gli aiuti. Un compromesso è atteso nell’incontro Merkel-Renzi in programma il 29 gennaio prossimo. Secondo il sito del "Financial Times", i leader europei starebbero pensando a un piano per frenare l’ondata dei migranti dai Balcani, bloccando il passaggio in Macedonia e isolando di fatto la Grecia. Migranti, raddoppia in un giorno il conto dei morti di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 23 gennaio 2016 Sono 45 i corpi di naufraghi recuperati ieri, 45 in un solo giorno, il che fa raddoppiare il tremendo display delle morti di quest’anno nelle acque plumbee dell’Egeo e lo fa moltiplicare per 21 volte rispetto a quelle registrate sempre dall’Organizzazione mondiale delle migrazioni nel gennaio dell’anno scorso. La progressiva chiusura delle frontiere europee, la situazione di permanente guerra in Siria arrivata ormai al quinto anno e il freddo incalzante nei campi profughi dei paesi ai bordi dell’Europa ha accelerato i transiti. Le 45 persone che sono morte ieri tra la sponda turca e quella greca avevano pagato, secondo quanto ha raccontato un superstite ricoverato nell’isoletta di Kalymnos, 2.500 dollari per un posto sul barcone, la metà per i bambini. E di bambini ieri ne sono morti venti. La prima barca, uno scafo di legno, si è incagliata negli scogli dell’isola di Farmakonissi. Imbarcava 49 persone, 40 sono riuscite a raggiungere la riva, una ragazza è stata ripescata dai soccorritori, 8 corpi sono stati ripescati: erano i cadaveri di sei bambini e di due donne. Nel frattempo un’altra tragedia si consumava poco più a sud, davanti all’isolotto di Kalymnos, dove una barca a vela carica di migranti si era cappottata. Qui la guardia costiera è riuscita a salvare soltanto 22 persone mentre altre 34 sono state inghiottite dalle onde: 16 donne, 7 uomini e 11 bambini. Secondo le testimonianze dei sopravvissuti il motore della barca aveva smesso di funzionare alle tre del mattino, dopo cinque ore di navigazione in mare dalla partenza da Smirne. Nel primo pomeriggio l’agenzia di stampa turca Anadolu ha fatto sapere che la guardia costiera aveva recuperato altri tre corpi, di bambini, sulla costa, probabilmente provenienti dagli stessi due naufragi. Oppure, secondo l’agenzia di stampa turca Dogan, appertenenti a un terzo naufragio, una t erza barca che sarebbe affondata nei pressi della località balneare di Didim. Il conto del resto non è mai preciso, i morti sono sempre di più di quelli che finiscono nelle statistiche ufficiali. Nell’isola greca di Lesbo ieri sono morti per ipotermia un bambino di cinque anni e due donne che erano stati tratti in salvo ancora in vita dalle acque del mar Egeo martedì scorso. Lo rivela la piccola agenzia di stampa greca Apokoronneonews. Nel silenzio d’ufficio dei funzionari di Frontex e dell’Ufficio europeo per le migrazioni che sono incaricati dei controlli d’identità, del rilevamento delle impronte e dei respingimenti, a protestare per "l’orrenda strage" e a richiamare i governanti europei alle loro responsabilità sono gli operatori umanitari delle Ong. Come Kate O Sullivan, portavoce di Save The Children a Lesbo, dove l’hot spot di Moria ospita attualmente oltre 4.500 migranti. "Invece di concentrarsi su recinzioni con fili spinati e rafforzamento dei controlli alle frontiere - le è uscito fuori dai denti - esortiamo i leader europei a prodigarsi per evitare che altri bambini perdano la vita senza senso". L’ha detto in video all’agenzia Ap e poi su Twitter, dove si mostra sorridente con un cartello scritto a pennarello: "Welcome refugees". Improbabile che l’abbiano ascoltata Angela Merkel e Ahmed Davutoglu a Berlino, dove la cancelliera e il premier turco discutevano essenzialmente dei soldi che la Turchia deve avere (3,3 miliardi di euro in base agli accordi sottoscritti con la Ue ma ora Davutoglu ne vuole di più) per contenere gli arrivi in Europa dei migranti. È in base e per conto di quell’accordo che ieri sono stati arrestati dai gendarmi turchi 78 migranti che a Ayvacik si preparavano a partire per le isole greche dell’Egeo. Donne, uomini, bambini - birmani, afghani e siriani - infagottati nelle coperte, pieni di buste e pacchi, circondati in uno spiazzo - mostrano le foto dell’agenzia Dogan - come criminali. In Turchia sono 2,5 i profughi siriani e altri 300 mila gli iracheni ma non sono conteggiate tutte le nazionalità. L’Oim calcola che queste prime settimane del 2016 già 37 mila migranti abbiano raggiunto la Grecia. Stati Uniti: chiusura del carcere di Guantánamo, il nodo di Obama di Francesco Semprini La Stampa, 23 gennaio 2016 Il numero di prigionieri è sceso sotto le 100 unità e il presidente potrebbe essere vicino a uno dei suoi più importanti obiettivi: chiudere la struttura. Esattamente sette anni fa, il 22 gennaio 2009, l’allora neopresidente degli Stati Uniti, Barack Obama, firmò il decreto esecutivo per la chiusura di Guantánamo. Quello fu il primo provvedimento d’imperio preso dal nuovo inquilino della Casa Bianca subito dopo l’insediamento e l’esordio nel discorso sullo stato dell’Unione. Chiudere la prigione off-shore è stata uno dei principali impegni presi da Obama in campagna elettorale, una priorità del suo programma di governo rilanciata con forza nel primo intervento da presidente davanti al popolo. Quella promessa è giunta esattamente altri sette anni da quando era iniziata la saga del carcere militare cubano, in quell’11 gennaio 2002 quando il primo gruppo di terroristi catturati soprattutto nella guerra in Afghanistan iniziata ad ottobre dell’anno precedente, in risposta agli attentati dell’11 settembre, fu internato nella nuova struttura. E sempre a gennaio, ma questa volta il 12 di quest’anno, nel suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione Obama ha promesso ogni sforzo per portare a compimento l’opera chiedendo al congresso di collaborare alla chiusura della prigione off-shore. Nella sua battaglia di Obama ha dovuto fare i conti con aspetti legali, ovvero far giudicare i detenuti che rimanevano in Usa da Corti federali civili e non dai tribunali militari istituiti a Guantánamo. Ma soprattutto trovare una sistemazione ai prigionieri, gran parte dei quali senza processo. Il trasferimento nelle carceri Usa ha sollevato le proteste di una parte della popolazione americana che temeva in una sorta di contaminazione, o addirittura che le carceri diventassero luoghi di pellegrinaggio da parte di simpatizzanti estremisti. Obama ha inoltre avviato trattative con i Paesi di origine dei detenuti, o che si offrivano di ospitare in strutture detentive locali gli ex di Gitmo, giunti nell’anno successivo all’apertura del carcere off-shore, a una quota massima di 680 prigionieri. Ebbene a conti fatti Obama non sembra così lontano dal traguardo, visto che per la prima volta, il numero dei detenuti nella base della marina militare Usa è sceso al di sotto dei cento dal 2002. Il traguardo è stato raggiunto dopo il rilascio di dieci detenuti yemeniti che sono stati trasferiti verso lo Stato dell’Oman. L’annuncio rappresenta una tappa fondamentale nel cammino verso la chiusura della struttura. Il ministro della Difesa Ash Carter, ha detto che l’obiettivo è quello di trasferire all’estero il maggior numero di tutti i detenuti possibile e poi cominciare a lavorare con il Congresso per trovare una struttura dove trasferire quelli da detenere negli Stati Uniti. Il Dipartimento di Stato, inoltre, ha fatto sapere che entro l’estate saranno trasferiti altri 40 detenuti. Questi spostamenti hanno talvolta creato polemiche, è capitato che una volta tornati in patria gli ex di Gitmo non solo hanno scampato la prigione, ma sono tornati a fare jihad armata. Altri trasferimenti rischiano di far discutere come quello di Muhammad Abd al-Rahman Awn al-Shamrani, detenuto ad alto rischio, qaedista che ha ucciso americani in Iraq e Afghanistan. Originario dell’Arabia saudita è rientrato nel regno. L’amministrazione Usa tuttavia tira dritto e per quelli che rimangono in America spiega che "se le prigioni americane sono sufficientemente buone per il re del narcotraffico messicano, "El Chapo", significa che sono buone anche per i detenuti di Guantánamo". Nessuno tocchi Caino: a pena di morte in Iran e il volto sorridente dei Mullah di Ciriaco Cimenti Il Manifesto, 23 gennaio 2016 In occasione della visita in Italia del presidente iraniano Hassan Rouhani, prevista per il 25 e 26 gennaio, l’organizzazione Nessuno tocchi Caino diffonde il Rapporto sulla pena di morte in Iran dal titolo "Il volto sorridente dei Mullah". Il documento, che è stato presentato ieri a Roma, si propone di fornire un dato complessivo sulla pratica della pena capitale sotto la presidenza Rouhani, la cui elezione è stata salutata come una svolta. Invece - avverte il Rapporto - per quanto concerne le esecuzioni capitali e la tortura, la sua politica continua "una storia iniziata nell’estate del 1988 quando, in seguito a una fatwa di Khomeini, sono stati impiccati oltre 30.000 prigionieri politici, in massima parte simpatizzanti dei Mojahedin del Popolo Iraniano (Pmoi), accusati di essere "nemici di Allah". Nessuno tocchi Caino evidenzia che molti dei responsabili di quel massacro fanno oggi parte della classe dirigente del regime: "come Mostafa Poor Mohammadi e Seyed Ebrahim Reisi, due dei cinque membri del cosiddetto Comitato del perdono che Khomeini aveva inviato nelle carceri e poi rivelatosi essere un Comitato per la morte -, divenuto oggi, rispettivamente, ministro della Giustizia e Procuratore generale della Repubblica islamica". Questo il ragionamento politico del Rapporto, rivolto a quanti, "in nome della pace e della sicurezza internazionali" intendono affidare "il governo dell’emergenza a un regime che ha provocato l’emergenza stessa e minato le basi della pace e della sicurezza internazionali". Ancor più grave, per il Rapporto, "è che si legittimi internazionalmente un regime che al proprio interno conduce una guerra di lunga durata e una quotidiana campagna di terrore e insicurezza nei confronti del suo stesso popolo". Seguono gli allarmanti dati, posti come "promemoria per tutte le autorità del nostro Paese che riceveranno Rohani", il quale ha definito l’Italia la "porta d’ingresso" verso l’Occidente. Sotto la presidenza di Rouhani sono state impiccate almeno 2.277 persone. Nel 2015 le esecuzioni sono state almeno 980, un 23% in più rispetto alle 800 del 2014, e il 42,6% in più rispetto alle 687 del 2013. Almeno 53 persone sono già state giustiziate nelle prime due settimane del 2016. Per applicare la sharia, l’Iran uccide soprattutto tramite impiccagione, ma nell’aprile del 2013 è stata reinserita la lapidazione. Il 17 dicembre 2015, l’Assemblea generale dell’Onu ha adottato una nuova risoluzione che condanna fermamente le violazioni dei diritti umani in Iran, l’aumento della violenza e della discriminazione nei confronti delle donne e delle minoranze etniche e religiose Birmania: rilasciati 52 prigionieri politici Reuters, 23 gennaio 2016 Sono oltre 52 i prigionieri politici birmani rilasciati oggi nell’ambito di un’amnistia concessa dalle autorità a 101 prigionieri, di cui molti criminali comuni. Lo specifica l’Associazione per l’assistenza ai prigionieri politici (Aapp), che dalla Tailandia monitora da anni le condizioni dei detenuti di coscienza in Birmania. Dal 2011, quando è iniziato il processo di riforme del governo Thein Sein, sono 1.300 i prigionieri politici rilasciati in Birmania. Secondo l’Aapp, nelle carceri ci sono ancora un’ottantina di detenuti di coscienza, mentre altri 408 sono in attesa del processo. A fine mese, il nuovo Parlamento birmano si riunirà per iniziare le procedure per l’elezione del prossimo presidente, che entrerà in carica a marzo. Le elezioni dello scorso novembre hanno visto un trionfo per la "Lega nazionale per la democrazia" di Aung San Suu Kyi, che pur non potendo diventare presidente perché glielo vieta la Costituzione, ha i numeri per eleggere a capo dello stato un rappresentante del suo partito.