Le alternative alla detenzione per recuperare i detenuti e non creare allarme sociale di Carlo Valentini Italia Oggi, 22 gennaio 2016 Il processo di depenalizzazione deve essere accompagnato da un politica carceraria diversa. Il decreto del governo con un ventaglio di depenalizzazioni ha sollevato dubbi e polemiche. Ancora una volta si scontrano le esigenze di contrasto alla microcriminalità sempre più diffusa e verso la quale ci si sente impotenti, e il problema della spropositata mole di lavoro dell’apparato giudiziario che unito a una situazione spesso d’emergenza all’interno delle carceri finisce per contraddire le finalità dell’espiazione della pena. È più che meritoria l’attenzione che i radicali da tempo dedicano alla carceri, che non debbono essere luoghi di vessazione e di disumanizzazione. Dice Rita Bernardini, che insieme a Marco Pannella, guida l’iniziativa radicale sulle carceri: "Abbiamo finalmente un ministro di Giustizia che ha ammesso clamorosamente che le carceri sono criminogene, in altre parole che lo Stato, violando le sue stesse norme, obbliga a un percorso verso le recidive e non di riabilitazione. Ma allora, cosa si aspetta a far sì che davvero, e non solo negli orientamenti accademici, il carcere sia l’extrema ratio? Il governo invece agisce in modo schizofrenico e rincorre i populismi giustizialisti senza riflettere sulle conseguenze". Ma sull’altro piatto della bilancia vi è la necessità di difesa della società anche nella sua quotidianità. Che fare? Vi è una prateria che in Italia finora è stata poco frequentata, quella delle pene alternative che da un lato non cancella una sanzione per chi pone in atto comportamenti contro qualcuno o qualcosa pur evitandogli il degrado della cella mentre dall’altro lato una minore popolazione carceraria consentirebbe una gestione delle prigioni secondo criteri di recupero per chi ha commesso i reati più gravi. Esperienze-pilota di alternativa al carcere sono in corso a Rimini, Copertino (Lecce), Mulazzo (Massa Carrara) e Piasco (Cuneo). Le sta realizzando la Comunità papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi, sacerdote scomparso nel 2007, antesignano delle comunità (e delle case-famiglia), la prima, a Rimini, venne aperta per accogliere i tossicodipendenti. Ora è la volta di chi può essere affrancato dal carcere. Dice Giovanni Ramonda, che guida la comunità: il progetto "Oltre le sbarre", prevede, in accordo con le istituzioni, da un lato il contatto in carcere, con colloqui e attività di animazione di vario genere, dall’altro lo sviluppo e la sperimentazione di nuove modalità di esecuzione della pena, volte alla reale riabilitazione dell’individuo. Nella nostra esperienza abbiamo constatato che solo l’8% di coloro che hanno portato a termine il programma di recupero presso le nostre strutture è tornato a delinquere, a fronte di una media nazionale del 70-75%. La comunità offre ai recuperandi un percorso educativo e una professionalizzazione al lavoro che è terapia e strumento di reinserimento sociale". La comunità riminese è stata recentemente visitata da Francesco Cascini, capo dipartimento per la giustizia minorile (ministero della Giustizia) e Vincenzo Petralla, dirigente dell’Ufficio esecuzione penale esterna. Sarà uno sprone a perseguire, da parte del ministero, quando vi sono le condizioni, un’alternativa alla detenzione? L’associazione sta seguendo 290 detenuti ed ex detenuti comuni mentre 40 operatori visitano periodicamente le carceri per offrire sostegno a chi sta in cella. "La professionalizzazione e l’orientamento al lavoro", aggiunge Ramonda, "sono elementi importanti per costruire il proprio futuro. L’impegno nelle attività lavorative misura anche il grado di pentimento del soggetto: nelle prime fasi non è remunerato e assume pertanto un valore educativo e risarcitorio nei confronti delle vittime e della società. Spesso per la realizzazione di queste attività sono coinvolti centri di lavoro e cooperative in cui sono inserite persone disabili. Poi vi sono i corsi di alfabetizzazione per gli stranieri, i corsi di informatica, e gli incontri quotidiani individuali e di gruppo". Qualcosa è migliorato nelle prigioni italiane, anche a seguito degli interventi della Corte europea. Ma la situazione non esce da una sostanziale situazione di emergenza. Nel 2015 vi sono stati 120 decessi nelle celle, di cui 42 per suicidio. Un dato impressionante poiché il 93% dei detenuti ha meno di 60 anni. Inoltre il numero di coloro che sono impegnati in corsi di formazione è calato dai 3.584 del giugno 2010 ai 1.918 del giugno 2015. "Il buon coinvolgimento nel percorso", aggiunge Ramonda, "garantisce, in base alle norme vigenti, la riduzione della pena. In caso di comportamenti contrari al rispetto delle regole è prevista una retrocessione rispetto alle fasi del programma di recupero e in casi gravi un rientro coatto in carcere". Sì o no alle depenalizzazioni? Secondo gli ultimi dati (settembre 2015) i detenuti sono 52.294, di cui 33.682 hanno già subito una condanna definitiva. La capienza massima delle 197 carceri italiane è di 49.585 detenuti. Aggiunge Fabio Cavalli, un veterano poiché lavora da 14 anni come regista nelle carceri ed è tra i membri degli Stati generali del sistema penale: "Con 3 miliardi annui di spesa dello Stato per il sistema penitenziario dovremmo avere stanze singole con bagno e doccia in camera. Invece, la vita reclusa si svolge in celle fredde in inverno e fornaci in estate, sovraffollate, con tassi di suicidio 8 volte superiori alla media dei cittadini liberi". Un appropriato intervento nel pianeta-carceri potrebbe contribuire a evitare la recidiva e a rendere più sicure le nostre città. Vi è poi un problema umano, come ha sottolineato Papa Francesco: "Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono chiamati oggi o a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche per migliorare le condizioni carcerarie. E questo io lo collego con l’ergastolo. Nel codice penale del Vaticano, non c’è più l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta". Non a caso a Rimini quelli della comunità sono molto impegnati sul fronte dell’ergastolo: "Siamo contro questa grande ingiustizia dell’attuale sistema penale - dice Ramonda. Il carcere a vita, l’ergastolo, soprattutto nella sua variante ostativa ad ogni beneficio penitenziario, che esclude ogni possibilità di reinserimento sociale, diventa a tutti gli effetti un fine pena mai, fino alla morte fisica del condannato. Dal 2007 incontriamo decine e decine di detenuti condannati all’ergastolo, in molte carceri d’Italia, seguendoli, dove è possibile, anche quando vengono trasferiti e rimanendo vicini alle loro famiglie. Contrariamente a quanto si pensa, sono più di 100 le persone in carcere da oltre 30 anni e dei 1576 ergastolani dietro le sbarre ben 1.162 sono ostativi quindi destinati a morire in carcere". Nel 2015 sono calati i suicidi in carcere di Alessia Guerrieri Avvenire, 22 gennaio 2016 Il dato va guardato in controluce. Per capire la storia che c’è dietro quelle morti tra le sbarre. Solo così, infatti, il numero dei suicidi in carcere potrà continuare a scendere. È vero, va detto, 39 detenuti che si tolgono la vita non sono un dettaglio insignificante, ma questo "è il dato più basso dal 1992". La buona notizia, diffusa ieri dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), porta con sé anche le prime festività natalizie - un periodo di solito di "grande fragilità emotiva" che fa aumentare i suicidi - in cui "non si sono verificati casi". Uno dei motivi è appunto il miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri (i detenuti sono passati da 68mila a 52mila), come anche - ricorda ancora il Dap - "l’implementazione di progetti di reinserimento sociale e lavorativo", più di 12mila lo scorso anno. Peccato che tutto ciò sia a macchia di leopardo. Numeri più contenuti, ovviamente, "portano ad una migliore vivibilità", commenta don Virgilio Balducchi, capo dell’Ispettorato generale dei cappellani nelle carceri italiane, ma ancor di più "sarebbe importante paragonare il numero dei suicidi ai tentati suicidi, comprendendo quindi anche il lavoro degli agenti che li hanno sventati". Quella cifra va letta in filigrana però, "analizzando il vissuto dei detenuti, quando e perché hanno scelto di togliersi la vita"; così si può agire per far calare ancora i suicidi, "certamente già positivo", "con azioni mirate". Sta di fatto che passare meno tempo tra le sbarre, o attraverso le misure alternative e di comunità o con il lavoro, sarebbe un buon deterrente. "La detenzione non è perciò l’unica moneta con cui pagare il reato - è la precisazione della presidente del Seac (Coordinamento enti ed associazioni di volontariato penitenziari) Luisa Prodi - anzi deve essere residuale". Passi avanti in questo "cambio di mentalità" sono stati fatti, ammette, ma "c’è un mondo di sofferenza oltre il suicidio che non va dimenticato, come l’autolesionismo, le morti in carcere per droga e rissa". Il volontariato si è dimostrato un aiuto importante nell’accompagnamento al male di vivere, ancor di più in quelle strutture dirette da figure lungimiranti. Ma ancor più può fare "la società e gli enti locali", magari incentivando i programmi di socializzazione. La "soddisfazione" si accompagna "alla prudenza", quando c’è una flessione dei suicidi anche se "39 persone sono tantissime, se si pensa che in carcere l’incidenza è circa 20 volte di più che fuori". Prova ugualmente ad allargare l’orizzonte il senatore del Pd Luigi Manconi, presidente della commissione per la tutela dei Diritti umani e fondatore dell’associazione A buon diritto, ricordando che "in dieci anni si sono uccisi anche quasi 100 agenti di polizia penitenziaria". A dimostrazione che è "il sistema carcere e l’organizzazione di quella macchina ad essere patogena". Al di là del numero delle vittime della detenzione, però, secondo i dati del dossier Morire di carcere, redatto dal centro studi di Ristretti orizzonti, è inoltre il numero dei tentati suicidi ad essere indicativo - 933 nel 2014 quando i suicidi erano stati 44 - ma anche il fatto che le morti nel 2015 si concentrano soprattutto nelle strutture più grandi (e dunque più sovraffollate): Roma Rebibbia e Regina Coeli, Palermo Pagliarelli, Firenze Sollicciano. Queste ultime due ad esempio, insieme a quella di Catania e Termini Imerese, sono tornati alla ribalta invece per l’emergenza freddo, visto che almeno in Toscana i riscaldamenti sono fuori uso da una settimana. Per i "tagli ormai insopportabili" che colpiscono persino acqua e luce, denuncia il Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria), uniti a problemi "strutturali che insieme a quelli economici - aggiunge il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella - contribuiscono a peggiorare le condizioni di carceri già vecchi, per mancanza di manutenzione". Il ministro Orlando: "subito prescrizione, reato di tortura e nuovo processo fallimentare" di Claudia Fusani L’Unità, 22 gennaio 2016 Ora che, dopo vent’anni, la giustizia sembra aver smesso i panni del ring dove si consumavano gli scontri tra maggioranze ed opposizioni, la relazione annuale al Parlamento del ministro Guardasigilli diventa un documento forse meno intrigante politicamente ma più utile nei fatti. Che possono avere chiari e scuri e anche letture contrastanti ma vanno tutti nella stessa direzione: l’azione riformatrice del governo punta ad avere una giustizia efficiente. Un servizio, dopo decenni di disservizio. La strada è lunga ma, dice il ministro Orlando, "rivendico a questo governo, al mio dicastero, alla magistratura, all’avvocatura e al personale amministrativo il merito di aver chiuso quella fase di scontro e di aver avviato il percorso che porta al recupero di efficienza del servizio giustizia che è una decisiva risorsa politica ed economica". Una riforma che adesso ha due nuovi obiettivi. Il primo riguarda il processo fallimentare "a cui sarà cambiata anche la parola" e per cui "l’approccio sarà di prevenzione della crisi per preservare il patrimonio imprenditoriale, lavorativo e finanziario di un’impresa". Il secondo riguardala sfera del penale. Mentre camminano in Parlamento la riforma del processo e della prescrizione, il ministro indica due obiettivi urgenti: l’approvazione del reato di tortura e più tutela per le vittime dei reati. I "fatti" più importanti riguardano il civile. "L’arretrato, che paralizzava l’attività dei tribunali italiani nonostante l’elevata produttività dei magistrati, è in costante calo. A fine 2015 si è fermato a quota 4,2 milioni. A fine 2016 dovremmo scendere sotto il muro dei quattro milioni di arretrato, una svolta storica visto che ogni anno vengono definiti 3, 8 milioni di processi". Il tempo di emissione dei decreti ingiuntivi è diminuito in un anno: a Catania del 32%; a Napoli del 41%; a Milano del 52%; a Roma del 54%. Gli atti depositati al mese dai magistrati sono passati da 1,5 milioni di un anno fa ai circa a 2,5 milioni del dicembre 2015. Gli atti depositati dai professionisti sono passati, nello stesso arco temporale, da 1,2 milioni circa a quasi 4,4 milioni. Dal 2013 ad oggi, il processo civile telematico "ha portato risparmi per 130 milioni" anche se, come ha denunciato il dossier dei radicali sulla Giustizia, "in molti tribunali non funziona proprio". Un altro "fatto" riguarda il numero di magistrati e il personale amministrativo. Quest’ultimo, sotto organico di 9 mila unità, vedrà quattro mila nuovi assunti nel prossimo biennio, "450 hanno già preso servizio" a fronte di una spending review ministeriale pari a64 milioni. Sul fronte delle toghe, anche loro cronicamente sotto organico, 311 magistrati - vincitori del concorso nel 2013 - prendono servizio a febbraio. Altri 340 posti dovrebbero sbloccarsi a breve. A novembre ci sarà un nuovo concorso per altri 350 posti. "Fatti" sono anche il numero dei detenuti. Il 31 dicembre 2015 erano 52.164 (capienza di 49.574). "E nessuno di loro - precisa il ministro - vive in meno di tre metri, secondo le raccomandazioni europee". Per l’omicidio stradale nuovo passaggio al Senato di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2016 Il disegno di legge sull’omicidio stradale cambia ancora, a sorpresa. Garantendo l’immunità dall’arresto in flagranza a chi si ferma per soccorrere i feriti dopo aver causato "solo" lesioni gravi o gravissime. Una sola modifica apportata ieri dalla Camera rispetto al testo che sembrava ormai definitivo, dopo che il Governo - lo scorso dicembre - lo aveva riscritto ponendovi la questione di fiducia su cui il Senato aveva dato voto favorevole. Dunque, ora il testo dovrà tornare a Palazzo Madama e i tempi per l’approvazione definitiva si allungano di poche settimane. Al momento, sembra che le conseguenze finiscano qui e che quindi l’approvazione finale non sia messa in pericolo. Però va registrato che, contrariamente a quanto accadeva in autunno (si veda Il Sole 24 Ore del 29 ottobre 2015), l’omicidio stradale ha assunto anche una rilevanza politica. E ieri, dopo la battuta d’arresto alla Camera, sono riemerse alcune delle perplessità tecniche sollevate da più parti e riprese da qualche parlamentare. Due elementi che non consentono di essere del tutto certi degli esiti. La modifica apportata ieri, contenuta in un emendamento di Francesco Paolo Sisto (Forza Italia) approvato a scrutinio segreto, è un altro ammorbidimento del testo sul fronte dell’arresto in flagranza. Un nervo scoperto per le associazioni delle vittime della strada, per i tanti casi in cui i responsabili di gravi incidenti sono arrivati al processo senza aver trascorso neanche un giorno in carcere, nemmeno se erano risultati ubriachi o drogati. Così inizialmente il Ddl prevedeva l’arresto obbligatorio in flagranza in ogni caso di omicidio stradale, cioè di morte per incidente causato da chi guida sotto l’effetto di alcol o droghe o a velocità "spropositata" o passando col rosso o commettendo infrazioni ritenute particolarmente pericolose (contromano, sorpasso con striscia continua o vicino alle strisce pedonali, inversione vicino a dossi curve o incroci). In caso di lesioni personali stradali (cioè causate dalle stesse violazioni appena citate) gravi o gravissime, era previsto l’arresto facoltativo in flagranza. A ottobre la Camera stessa aveva limitato l’arresto obbligatorio ai soli casi di omicidio legati ad alcol e droga. Ora si aggiunge il fatto che l’arresto facoltativo viene escluso per chi si ferma a prestare soccorso. Una misura che teoricamente serve a limitare i casi di pirateria stradale, istituendo una "premialità" per chi non scappa. Ma solo l’esperienza dirà se sarà davvero così: le fasi immediatamente successive a un incidente sono tanto concitate da indurre comportamenti spesso non razionali né lineari. Sotto questo profilo, diverrà importante valutare caso per caso la posizione di chi inizialmente si allontana per poi ritornare sul luogo del sinistro nel giro di pochi minuti. Quei compromessi tra aziende e giustizia di Luigi Ferrarella Sette - Corriere della Sera, 22 gennaio 2016 In Italia crescono gli accordi tra imprese, procure e Fisco per barattare con maximulte la non belligeranza processuale. Le conseguenze? Non solo economiche. "Too big to fail", troppo grandi per fallire, sta diventando anche "too big to jail", troppo grandi per finire (simbolicamente) in galera: inizia a essere vero pure in Italia per le grandi corporation, proprio come oltreoceano, dove dal 2001 al 2014 Brandon Garret, ricercatore della Virginia law school, in un libro ha contato 303 accordi tra aziende e giustizia americana per barattare con maximulte la non belligeranza processuale. Bank of America, pur scesa a patti nel pagare l’enormità di 16,6 miliardi di dollari per uscire quasi indenne dallo scandalo della manipolazione dei tassi sui mutui, è come Jp Morgan che ne ha sborsati altri 13, o come la francese Bnp che in Usa ha patteggiato 9 miliardi di multa per violazione dell’embargo in alcuni Paesi, o come Credit Suisse salassata per 2,5 miliardi, Ubs anni fa per 780 milioni, ora Julius Baer per 570 milioni e via contando: eppure tutti questi colossi del credito fanno palate di profitti come e persino più di prima, quasi che il peso dei rispettivi accordi di non procedibilità somigli soltanto a uno dei tanti costi di produzione da mettere a bilancio. Al punto che l’agenzia Moody’s, in dicembre, ha calcolato che i big del credito mondiale abbiano complessivamente ammortizzato qualcosa come 219 miliardi di dollari di multe o sanzioni. Anche in Italia, nei contenziosi fiscali intentati dall’Agenzia delle entrate con la robusta "sponda" delle procure, cominciano a moltiplicarsi soluzioni con le quali le corporation depotenziano i rischi tributari e penali di passate condotte illecite in cambio di negoziate adesioni a grossi versamenti di denaro. E persino i sociologi li valutano in maniera opposta. "Dobbiamo ai pm milanesi Francesco Greco e Adriano Scudieri", scrive Domenico De Masi su InPiù, "se i sotterfugi della Apple ai danni del fisco italiano sono stati almeno in parte rintuzzati recuperando all’erario 318 milioni di euro: queste vittorie di Davide contro Golia debbono inorgoglirci perché sono le prime in Europa rispetto alle mega-elusioni fiscali delle multinazionali". Ma un altro sociologo docente a Stanford, il bielorusso Evgeny Morozov, partendo dal fatto che l’iniziale contestazione fosse stata di 880 milioni, conclude che "all’Italia serviva una vittima di alto profilo per mostrare la propria serietà nella lotta all’evasione", ma che "chi ha davvero il potere si è mostrata Apple, che ha pagato allo Stato molto meno di quanto dovesse". E del resto lo stesso è successo pochi giorni fa con la multinazionale del gioco PokerStars che, a fronte di una contestazione di 85 milioni evasi, ha "chiuso" con l’Agenzia delle Entrate a 6 milioni. Riduzione del danno - L’abbraccio di reciproche forze e debolezze dietro queste intese (analoghe anni fa a una da 300 milioni tra Agenzia delle entrate e Bosch, i cui manager furono poi paradossalmente assolti nel giudizio penale) è intuibile: da un lato lo Stato fa cassa perché Fisco e procure portano a casa un corposo risultato immediato invece di dover affrontare contenziosi tributari estenuanti e processi penali imprevedibili per l’insidiosità della cornice normativa; dall’altro le corporation praticano su larga scala una riduzione del danno nel mutato contesto internazionale, e magari riescono pure a rifarsi una verginità d’immagine. Ma, sotto la buccia degli aspetti quantitativi, variamente soppesabili, c’è la polpa di una metamorfosi qualitativa colta da una ricerca di Rosa Anna Ruggiero presso la Brooklyn law school di New York sull’esperienza statunitense: e soprattutto sul fatto che, laddove avanza la "giustizia negoziata", lo Stato "non si limita a fare l’arbitro", ma, attraverso le agenzie fiscali o gli uffici giudiziari, "utilizza la minaccia del processo come mezzo per attuare certe scelte di carattere politico e, in ultima analisi, anche di tipo economico". E in questa "torsione delle funzioni" la giustizia non interviene più solo a proteggere l’ordine precostituito, "ma seleziona le condotte che le imprese devono tenere nel mercato e le promuove per mezzo della minaccia del processo". Utile? Improprio? Comunque la si valuti, è questa sorta di mutazione genetica del processo l’altra faccia del "too big to jail". Nei reati la minaccia va valutata secondo la direttiva europea di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2016 Cassazione, sentenza 21 gennaio 2016 n. 2702. Per capire quanto una minaccia sia in grado di forzare la volontà, bisogna valutare la vulnerabilità del destinatario, basandosi sulle indicazioni fornite dalla direttiva che tutela le vittime di reato (2012/29 Ue in vigore dal 20 gennaio scorso). La Cassazione, con la sentenza 2702 depositata ieri, conferma la condanna per estorsione a carico dell’imputata che aveva minacciato la "cliente" (alla quale cedeva dosi di droga) di fare rivelazioni in grado di danneggiare lei e la sua famiglia se non le avesse dato del denaro. Invano la difesa cerca di dimostrare che la minaccia non era idonea a coartare la volontà della vittima e dunque a far scattare il reato di estorsione. La Corte di cassazione, per dimostrare il contrario, fa ricorso alle chiare indicazioni dettate dalla direttiva 29/2012 che rafforza i diritti, l’assistenza e la protezione in favore delle vittime di reato. La norma, recepita con il Dlgs 212/2015 e operativa dal 20 gennaio, consente di individuare (articoli 22 e seguenti) i profili di vulnerabilità della vittima, basandosi sulle sue caratteristiche personali e sulla natura e le circostanze del reato. La Suprema corte precisa che più marcata è la vulnerabilità e maggiore è la "potenzialità coercitiva di comportamenti anche "velatamente" e non scopertamente minacciosi". Per la Cassazione forma e modo della minaccia sono indifferenti perché questa si può manifestare in molti modi, scritti o orali, impliciti o espliciti, reali o figurati: ciò che conta sono le circostanze concrete, da quelle ambientali alla personalità sopraffattrice dell’agente. Dirimente è la condizione soggettiva della vittima vista come persona di normale impressionabilità, ed è irrilevante che si verifichi un’ effettiva intimidazione. Nel caso esaminato, direttiva alla mano, la Cassazione ritine che le lettere scritte dall’imputata avessero un reale effetto intimidatorio anche tenuto conto dello stato di vulnerabilità della destinataria. La vittima si trovava, infatti, in condizioni di "depressione nevrotica, disturbo della personalità borderline ed abuso alcolico". Uno stato, secondo i giudici, che non le lasciava alternativa tra cedere al ricatto della ricorrente o subire le sue incontrollabili rivelazioni. Reati tributari "senza" prescrizione nelle gravi frodi Iva di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2016 La decisione della Corte di cassazione di disapplicare la normativa del Codice penale sull’interruzione della prescrizione in presenza di gravi frodi Iva, in adesione a quanto già stabilito dalla Corte Ue, e al di là della sua condivisibilità nei princìpi, comporta conseguenze concrete e importanti e, in alcuni casi, anche immeditate. Una volta che la Suprema Corte ha ammesso la possibilità di disapplicazione da parte del giudice nazionale, è verosimile che anche in altri giudizi, non necessariamente di legittimità, si proceda in tal senso. Vale la pena, allora, di riepilogare il funzionamento dell’istituto della prescrizione in campo penale e segnatamente nei reati tributari. Tempi di prescrizione - Nei reati tributari i tempi di prescrizione hanno subìto da qualche anno delle modifiche e occorre distinguere le violazioni commesse fino al 17 settembre 2011 dalle successive, tenendo presente che per i reati dichiarativi la consumazione del delitto coincide con la presentazione della dichiarazione (ovvero trascorsi 90 giorni dal termine in caso di omessa presentazione). Nella maggior parte dei casi, quindi, seguono i nuovi - e più lunghi - termini prescrizionali le dichiarazioni relative al periodo di imposta 2010 (salvo presentazioni precedenti al 17 settembre 2011). Fino a tale data i reati tributari si prescrivono in sei anni (sette e mezzo se operano cause interruttive). A partire dal 17 settembre 2011, invece, i delitti fiscali si prescrivono in otto anni (dieci con l’interruzione), fatti salvi quelli di omesso versamento, indebita compensazione e sottrazione fraudolenta che continuano a prescriversi in sei anni. Interruzione - Il corso della prescrizione (articolo 160 del Codice penale) è interrotto se vi è: sentenza o decreto di condanna; ordinanza che applica le misure cautelari personali di convalida del fermo o dell’arresto; interrogatorio reso davanti al Pm o al giudice; invito a presentarsi al Pm per l’interrogatorio; fissazione dell’udienza per la decisione sulla richiesta di archiviazione; richiesta di rinvio a giudizio; decreto di fissazione della udienza preliminare; ordinanza che dispone il giudizio abbreviato, giudizio immediato e di citazione a giudizio; decreto di fissazione della udienza per la decisione sul patteggiamento; presentazione o citazione per il giudizio direttissimo. Per i reati tributari, inoltre, si ha interruzione anche con la notifica del verbale di constatazione o dell’atto di accertamento delle relative violazioni. In nessun caso, però, l’interruzione può comportare l’aumento di più di 1/4 del tempo necessario a prescrivere (fatta eccezione per i casi di recidiva o di delinquenza abituale e/o professionale ed alcuni reati specificamente previsti). Quindi, esemplificando, se trascorsi 6 (o 8 anni) dal fatto costituente reato tributario, non è intervenuto almeno un Pvc o un atto di accertamento il reato è prescritto; ove sia intervenuto, la prescrizione si interrompe ma comunque non potrà prolungarsi complessivamente oltre i 7 anni e sei mesi (ovvero 10 anni per i reati commessi dal 17 settembre 2011) La disapplicazione - Secondo la Cassazione, in presenza di "gravi" frodi Iva si possono disapplicare le norme che fissano il tempo massimo di interruzione (fino a un quarto del termine base). Ne consegue che il termine di 6 anni inizierebbe a decorrere da capo dall’ultimo atto interruttivo. Tuttavia sarà importante comprendere per l’attuazione di tale principio in base a quali criteri una frode Iva diventi "grave". Da tenere presente, peraltro, che la sentenza della Cassazione e quelle della Corte Ue si riferivano a episodi delittuosi commessi in anni in cui la prescrizione era di 6 anni. Dopo l’allungamento a 8 anni potrebbe verosimilmente rilevarsi che i tempi prescrizionali non sono più così ridotti per scoprire (e condannare) i responsabili di gravi frodi all’Iva non fosse altro perché dal 17 settembre 2011 i reati tributari hanno una prescrizione più lunga rispetto ai delitti comuni di pari gravità (che continuano a prescriversi in 6 anni). Senza l’adozione dei modelli 231 la società paga per l’omicidio colposo del dipendente di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2016 Corte di cassazione - Quarta sezione penale - sentenza 21 gennaio 2016 n. 2544. Paga la società, oltre ai dirigenti, per l’omicidio colposo del dipendente. La mancata adozione dei modelli organizzativi conduce così diritti a una sanzione pecuniaria di 80mila euro a carico dell’impresa. Infatti, nei reati colposi d’evento, "uil finalismo della condotta prevista dall’articolo 5 del decreto legislativo n. 231/2001 è compatibile con la non volontarietà dell’evento lesivo, sempre che si accerti che la condotta che ha cagionato quest’ultimo sia stata determinata da scelte rispondenti all’interesse dell’ente o sia stata finalizzata all’ottenimento di un vantaggio per l’ente medesimo". A puntualizzarlo è la Corte di cassazione con lasentenza n. 2544 della Quarta sezione penale depositata ieri. È stata così confermata la condanna inflitta in appello a una srl attiva nel settore edile per la morte di un dipendente. La difesa della società aveva sostenuto che i giudici di merito avevano affrontato la questione della responsabilità dell’ente come se fosse una conseguenza automatica della responsabilità degli imputati. Quando invece la condotta del rappresentante legale della società non sarebbe stata funzionale a un vantaggio dell’ente. La Cassazione però ricorda che il requisito dell’interesse esiste anche quando la mancata adozione della disciplina antinfortunistica rappresenta l’esito di una scelta indirizzata a risparmiare sui costi d’impresa. Pur non volendo il verificarsi dell’infortunio a danno del lavoratore, pertanto, l’autore del reato ha violato consapevolmente la disciplina a presidio della sicurezza puntando a soddisfare un interesse dell’ente. Il vantaggio invece comporta la concretizzazione di una politica d’impresa disattenta alla materia della sicurezza del lavoro con un contenimento della spesa e una massimizzazione del profitto. La responsabilità allora poteva essere esclusa solo dimostrando l’adozione dei modelli e la vigilanza sulla loro applicazione da parte di un organismo autonomo. I dirigenti devono garantire la sicurezza anche se non hanno un’investitura formale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2016 Corte di cassazione - Quarta sezione penale - Sentenza 21 gennaio 2016 n. 2536. Sono rimasti inerti di fronte alla gravità dello sciame sismico che colpiva L’Aquila già da mesi, e che era particolarmente insistente la notte del crollo del Convitto nazionale, tre ragazzini morti e due feriti, il 6 aprile 2009, mentre i due imputati, entrambi con posizione di garanzia, avrebbero dovuto dichiarare da tempo l’inagibilità della scuola la cui instabilità era nota. Almeno quella notte, avrebbero potuto organizzare l’evacuazione degli studenti. Per queste ragioni la Cassazione, sentenza n. 2536 depositata ieri, ha confermato le condanne per omicidio colposo e lesioni per l’ex rettore del Convitto e per l’allora dirigente provinciale responsabile dell’edilizia scolastica. "La situazione di allarme sismico era talmente conclamata che il sindaco di L’Aquila aveva disposto la chiusura di tutte le scuole del centro storico", ricorda la sentenza. Se fosse stata fatta la valutazione di pericolosità, "non sarebbe mancata una analoga ordinanza di inagibilità che avrebbe salvato gli allievi del convitto". La Cassazione, poi, sul piano più squisitamente giuridico, interviene a favore di una concezione sostanziale della posizione di garanzia. In questo senso è maestra la sentenza delle Sezioni unite penali del 24 aprile 2014 sulla vicenda ThyssenKrupp per la quale la posizione di garanzia può essere prodotta non solo da un’investitura formale, ma anche dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante. Di particolare importanza è allora concentrare l’attenzione sulla concreta organizzazione della gestione del rischio: milita in questo senso, osserva la Corte, l’articolo 299 del Testo unico sulla sicurezza del lavoro. Del resto, avverte la sentenza, bisogna fare riferimento "a una visione eclettica della fondazione del ruolo di garanzia che ha in parte superato la storica concezione formale. Si è sviluppata una elaborazione sostanzialistico-funzionale che non fa più leva tanto su profili formali quanto piuttosto sulla funzione dell’imputazione per omissione, connessa all’esigenza di natura solidaristica di tutela di beni giuridici attraverso l’individuazione di un soggetto gravato dal ruolo di garante della loro protezione". Si tratta di un’impostazione che, agli occhi dei giudici della Cassazione, presenta una pluralità di vantaggi. Innanzitutto, nella prospettiva dell’ordinamento penale, seleziona in senso restrittivo il dovere di agire nell’ambito di una sterminata lista di obblighi presenti nell’ordinamento". In questo modo possono anche essere fronteggiate situazioni nelle quali, anche se esiste un vizio della fonte contrattuale dell’obbligo, c’è stata l’assunzione effettiva di un ruolo di garante, la cosiddetta, precisa la Corte, presa in carico del bene protetto. Come pure possono essere affrontate situazioni analoghe a quelle previste dalla fonte legale dell’obbligazione, come nel caso della consolidata convivenza in un rapporto familiare o istituzionale. Il perdono e la legge di Antonio Maria Mira Avvenire, 22 gennaio 2016 "Il mio Dio, il nostro Dio, non è il loro Dio. Perché il mio Dio è misericordioso, il mio Dio sa perdonare, il mio Dio perdona. Il mio Dio è un Dio di speranza, non di morte e violenza". No, non si parla di fondamentalisti, di Daesh, di Medioriente ma di Calabria e ‘ndrangheta. Le parole sono di Michele Albanese, giornalista del "Quotidiano del Sud" da un anno e mezzo sotto scorta per concrete e pericolosissime minacce della mafia calabrese. Le abbiamo ascoltate nella seconda puntata del bel programma di Rai1 "Cose nostre". Quattro storie, il sabato sera (tardi, purtroppo) di giornalisti sotto tiro. Parole che non stupiscono. Conosciamo da molti anni Michele, spesso lavoriamo insieme, come due settimane fa in occasione della nuova impennata di tensione a Rosarno. Parole chiare, per qualcuno forse un po’ inusuali in bocca a un giornalista. Il "Dio del perdono" proclamato da chi, dopo aver raccontato tante volte la violenza, ora la vive sulla sua pelle e su quella della sua famiglia. Ma Michele, cresciuto all’ombra del campanile, parla del Dio che ha conosciuto nella sua formazione familiare, nelle associazioni ecclesiali, nel rapporto con alcuni parroci. Non lo dissimula di raccontarlo davanti alla telecamera. Anzi lo rivendica confrontandolo col "dio della ‘ndrangheta", con la pseudo-religiosità dei mafiosi, coi loro riti di iniziazione dove si brucia un santino dell’Arcangelo Michele (già, proprio il suo nome...), con la "gestione" delle processioni. Come quella di Oppido Mamertina, con quell’inchino davanti alla casa del boss che Michele aveva raccontato per primo "Non è possibile far inchinare le statue dei santi davanti alle case dei boss". Non ci sta Michele, così come non ci stanno tanti veri calabresi che dicono "no" alla pseudocultura ‘ndranghetista, alla violenza che usa anche simboli e immagini religiose, e con questi cerca consenso e giustificazione, come quando uno ‘ndranghetista spiega che "l’arcangelo Michele è l’unico con la spada". Per questo dalla bocca di Michele esce uno spontaneo "Bravo!", quando sotto il palco nella piana di Sibari, ascolta papa Francesco scomunicare gli uomini della ‘ndrangheta. "Un momento di liberazione. Finalmente si separava l’olio dall’acqua". Parla e scrive chiaro Michele, giornalista "dalla schiena dritta, senza mai piegarsi, perché la gente deve capire che ci sono alternative a soggiacere alla ‘ndrangheta, che esiste una vita fatta di libertà, di futuro, di lavoro", come dice il procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho. Per questo Michele è finito nel mirino dei clan. Per questo ora passa più tempo coi ragazzi della scorta ("Sono miei amici") che coi vecchi amici. Ma forte di una profonda e convinta formazione non perde la speranza. "Spesso mi chiedo se rifarei quello che ho fatto. Ma non posso che dire di "sì", perché noi abbiamo diritto alla vita come tutte le comunità del mondo". È questa la Calabria che ci piace, che raccontiamo assieme a quella negativa, sempre troppa. Una Calabria spesso fatta di bella e profetica Chiesa: vescovi, sacerdoti, laici. L’ha ricordato il Papa sempre a Sibari, ma chiedendo di fare di più. "La Chiesa che so tanto impegnata nell’educare le coscienze deve sempre più spendersi perché il bene possa prevalere". Spesso le voci positive sono lasciate sole. Lo dice con chiarezza don Pino Demasi, parroco di Polistena amico di Michele e ben noto ai lettori di "Avvenire". "Se lasciamo solo Michele, se lasciamo sole le persone che lottano e aprono strade, è chiaro che le mettiamo in pericolo. Se invece recuperiamo un "noi" collettivo, se facciamo un lavoro di rete, credo che sono le mafie ad avere paura". Non basta la solidarietà "dopo". Serve fare squadra "prima". Michele ha scelto coerentemente, raccontando il brutto e il bello della sua terra. Una terra che racconta anche coi presepi che ogni anno costruisce per regalarli agli amici. Penna e taccuino, con una forza che viene da lontano messa ora a dura prova dalla vita blindata. "Esco solo quando è necessario. Passeggiare in piazza con la scorta è quasi un’ostentazione". Con la preoccupazione del marito e del papà. Ma con convinzioni forti, come gli enormi ulivi della Piana che Michele paragona ai calabresi, "quasi schiacciati dal peso del contesto sociale, ma che comunque nonostante questo loro contorcersi, si proiettano verso l’alto alla ricerca della luce". Lui lo fa, anche per noi, dal suo piccolo paese di Cinquefrondi, avamposto della legalità e della speranza. Quando l’etica si inchina all’economia di Carlo Giarelli ilpiacenza.it, 22 gennaio 2016 Che l’economia sia da considerarsi oggi l’unico vero valore, cui tutti (più o meno) ci inchiniamo per svolgere il compito, spesso non solo difficile, ma incomprensibile, datoci in dono dall’esistenza, è un dato di fatto. Chi lo nega, o è in mala fede, oppure un idealista che vive appunto di ideali e non di cose pratiche. Detto questo, altra cosa ritenere se sia giusto. Su un tema del genere allora, causa la sua importanza, vale la pena aprire una parentesi, ovvero scrivere qualcosa in merito, rivolgendomi a quelle persone (ce ne sono ancora) che si pongono ancora il problema di cosa sia giusto e del suo contrario. Per cercare di rispondere, visto che di economia pur non sapendo tutto, ne subiamo continuamente gli effetti, bisogna per prima cosa rispondere quale significato dare all’etica. Una parola questa che si usa e di cui soprattutto si abusa. Cominciamo dal suo significato etimologico o se volete storico che tutti conosciamo (per chi è acculturato, si può anche ricordare che deriva dalla parola greca ethos) che semplicemente vuol dire, comportamento, abitudine o anche costume. In sostanza per non rimanere troppo generici nella definizione, per etica si intende la morale. Vale a dire, come ci si deve comportare nelle varie circostanze della vita, sulla base di cosa sia il bene e cosa il male. In altri termini come bisogna agire per fare quello che si ritiene giusto. Fin qui sembra tutto chiaro. Il problema si complica quando bisogna definire il bene e il male. Se in sostanza questi due valori rimangono uguali nel tempo oppure cambiano. Per capirci qualcosa, entro allora nel merito di uno degli ultimi decreti del Governo approvati in poco più di un’ora (un lampo) in una riunione del Consiglio dei Ministri, secondo il quale (decreto) molti reati vengono depenalizzati. Non che siano cancellati, come se non esistessero, questo no, solo che subiscono una trasformazione, in quanto da reati penali diventano amministrativi. In questo modo, si riduce il loro significato punitivo, perché si preferisce colpire più che la persona il portafoglio della stessa, aumentandone i prelievi, più o meno forzatamente. I reati interessati da tale provvedimento sono diversi e per brevità mi soffermo solo su alcuni. Tipo: la guida senza patente, la sottrazione per profitto delle cose comuni e poi quella vasta area del comportamento borderline che sconfina spesso e volentieri negli atti osceni in luogo pubblico. Limitiamoci a questi tre, che come tutti gli altri (sono in tutto 31) saranno puniti d’ora in avanti da sanzioni amministrative di tipo pecuniario, per le quali si giustifica il titolo di quest’articolo. A questo punto è giusto porci la domanda, a chi conviene? Al Governo inteso come forza politica, oggi, nelle alternanze delle maggioranze, chiamato con qualche dubbio da parte dei duri e puri, di sinistra? Senza dubbio, sì, è la risposta. Svuotare le carceri per reati minori, ed incrementare le casse statali può in effetti, rappresentare un vantaggio. Specie in periodi di vacche magre come quelle attuali, dove se l’economia barcolla, come i fatti lo dimostrano ampiamente, tutta l’impalcatura su cui si regge lo Stato rischia di crollare. Ma per i cittadini? Qui, la risposta non è così semplice. Prima di tutto, quali cittadini? Gli onesti (ce ne sono ancora), quelli cioè che rispettano le regole, anche quelle più complicate e fatte quasi ad arte, per colpire tale categoria che tende faticosamente a sopravvivere? Per queste persone allora le perplessità sono tante. Gli onesti infatti sono tali a prescindere dalle sanzioni. Anzi per loro, visto che non sono coinvolti in problemi illeciti, meglio sarebbe, fossero aumentate le sanzioni penali. Ne riceverebbero la prova da parte della legge, che sono dalla parte del giusto. Il ché è pur sempre causa di riconoscimento di merito e gratificazione. E per i disonesti? Mah, pur con qualche incertezza, non mi sembra che questo decreto serva granché a modificare la loro natura, sempre a proposito dell’etica e del suo significato di discriminare, come dicevo, il bene dal male. Anzi forse è dannosa. Riducendo infatti la questione etica al solo livello economico, si potranno verificare due categorie fra loro opposte. Da una parte i ricchi, per i quali una multa, causa lo stato di benessere, costerà loro praticamente niente e non servirà di certo a ingenerare complessi di colpa verso l’infrazione commessa. Per cui il loro giudizio di bene o di male, subordinato alla convenienza e sottoposto all’altra legge, quella del profitto, non rischierà di subire alcun attentato. Anzi per dirla tutta, questo provvedimento di tolleranza penale, contribuirà a creare una condizione psicologica e mentale tale da far pensare ad una certa legittimazione da parte dello Stato, verso l’illecito. Dall’altra parte della barricata, i poveri, per i quali la cosiddetta prova morale cade nel vuoto del portafoglio. Infatti non avendo i denari con cui estinguere la colpa, la colpa verrà estinta ugualmente, senza pagare dazio, né alla cassa pubblica né alla loro coscienza. Ecco allora il problema di fondo sul quale come una trottola, ci stiamo girando attorno. Il bene e il male sono valori assoluti o cambiano nel tempo? La risposta rimanda allora alla felicità, vale a dire a cosa ci rende felici. Una possibile risposta è il vivere bene, secondo il concetto, oggi da tutti desiderato, rappresentato dell’economia. Tipo, avere una bella casa, una bella auto e perché no, una nuova e bella amante, e cose del genere. In base all’economicamente corretto sembrerebbe questa una risposta giusta. Ma quanti sono poi veramente le persone felici? Poiché purtroppo non se ne vedono molti in giro, per tutti gli infelici del mondo, si potrebbe allora proporre una ricetta diversa. Quella di pensare che bene e felicità non stiano tanto nelle cose, ma nel nostro desiderio di bene. Una specie di tensione morale che superi ogni realtà contingente per mantenersi tale nel tempo, come qualcosa di irraggiungibile. Ma per la quale vale la pena vivere. Un’idea questa non nuova, perché a questo proposito, già Platone 2500 anni fa col suo mondo delle idee, quella del bene in particolare, l’aveva filosoficamente proposta. E che è stata poi rielaborata e ampliata dall’avvento del cristianesimo con la scoperta di Dio, Bene assoluto. Se allora questa impostazione concettuale, può trovare riscontro nelle tre condizioni sopra menzionate: tensione morale, Idea e Dio, altra cosa dal punto di vista pratico, chiedersi in cosa consista il temperamento etico o virtuoso? Una possibile soluzione sta nel contenimento delle esigenze in modo che la felicità definita anche come etica pratica, trovi la sua collocazione fra i due opposti. Per esempio, da una parte l’eccesso di ambizione, dall’altro l’eccessiva timidezza o rinuncia e cose del genere. Ma ho parlato di una possibile soluzione non della soluzione. Infatti oggi tutti i cosiddetti valori vengono sconvolti da un procedere rapidissimo delle cose. La scienza con tutte le sue scoperte quasi ogni giorno ci mette di fronte alla rivelazione di qualcosa di nuovo, riguardo a quel mondo ancora misterioso che sta dentro di noi. E che condizionerebbe certe nostre azioni e molti dei nostri comportamenti, senza necessariamente scomodare il mondo,inteso come terra, che noi calpestiamo, sia coi piedi che con le nostre bassezze quotidiane e che sta, religiosamente parlando, sopra di noi. Cosicché i concetti di bene e male subiscono continue trasformazioni, che se ancora non riguardano i principi, considerati universali, quanto meno coinvolgono certi loro risvolti pratici. Dopo questa lunga ed estenuante premessa che con l’uso di qualche termine filosofico, verosimilmente sarà risultata indigesta a molti di voi e di cui non mi resta che scusarmi, torno allora al nuovo decreto legge del Governo. In cui, come anticipato nel titolo, l’etica si inchina all’ economia. Che allora sia quest’ultima a dire l’ultima ragione? A me non sembra e mi auguro che non sia. Certamente oggi ognuno ci mette del suo per avallare questa tesi. Ed il Governo con questo provvedimento, non si è limitato solo a guardare. Braccialetto elettronico e inefficienza della Pubblica Amministrazione di Piero Laporta corrierecomunicazioni.it, 22 gennaio 2016 Il progetto non ha funzionato. Soprattutto per l’inadeguatezza dell’amministrazione italiana. Il codice di procedura penale consente al giudice di surrogare gli arresti domiciliari, mediante l’adozione del cosiddetto "braccialetto elettronico". Tripwire additò anni fa l’inadeguatezza dei contratti stipulati dalla PA con la Telecom. Più tardi, nella sua relazione al Parlamento del 2014, la Corte dei Conti rese noto che i quattordici bracciali della Telecom, entrati in funzione nei dieci anni precedenti, costarono 80milioni, cioè quasi sei milioni a bracciale. Che qualcosa tuttora non funzioni è testimoniato da una sentenza della Cassazione che dà ragione a un detenuto, trattenuto in cella nonostante il giudice gli avesse prescritto gli arresti domiciliari, perché non vi era adeguata disponibilità del "prezioso" braccialetto. È ingiusto che l’inefficienza della PA esasperi l’espiazione della pena. Giusto. Però interroghiamoci sulle ragioni di tale inefficienza. Un braccialetto è molto meno dello smartphone di ciascuno di noi, che emette e riceve segnali GPS. Chiunque della PA abbia stipulato un contratto per un numero limitato di braccialetti dovrebbe essere reimpiegato in modo più confacente. L’approvvigionamento sarebbe dovuto essere senza limiti di approvvigionamento e con tempi stringenti di consegna, tenendosi un largo margine di riserva, almeno per due motivi. I "clienti" sono da tempo in quantità rilevante e crescente. Inoltre, chi è nella PA può dare testimonianza diretta del contributo della stessa PA all’incremento di tali "clienti". Sarebbe stata dunque utile la previdenza, se non altro per il proprio possibile diretto interesse. La PA non è in grado invece di esprimere neppure questa lungimiranza. Emilia Romagna: la Garante Bruno "positiva la proposta di accorpamento delle carceri" Ristretti Orizzonti, 22 gennaio 2016 La Garante regionale dei detenuti incontra il Ministro Orlando: "positivo il giudizio su accorpamento, principali criticità restano assenza percorsi lavoro e forte presenza stranieri irregolari" Dalla Garante parere positivo alle due proposte di accorpamento, che in Emilia-Romagna riguardano in un caso Ferrara e Ravenna, nell’altro Modena e Castelfranco: "Si tutela la piccola struttura con vocazione trattamentale e si va verso il superamento delle Case-lavoro". Ora che "i dati sul sovraffollamento sono sotto controllo e la chiusura dell’Opg è avvenuta con ottimi risultati", le due principali criticità nelle carceri emiliano-romagnole sono "l’assenza di attività formative o di percorsi professionali nonostante il diffondersi dei regimi cosiddetti a celle aperte" e "la forte presenza di detenuti immigrati irregolari in attesa di espulsione, e che quindi sono difficili da coinvolgere in iniziative trattamentali". Sono questi i temi su cui si sono confrontati martedì scorso a Roma la Garante regionale delle persone private della libertà personale dell’Emilia-Romagna, Desi Bruno, e il ministro della Giustizia Andrea Orlando, insieme ai vertici del Dipartimento di amministrazione penitenziaria e agli altri Garanti regionali per i detenuti. E almeno a una delle due preoccupazioni Orlando ha già dato risposta positiva: il Governo, riferisce infatti la Garante, sta cercando di dare piena operatività ai protocolli siglati con i Paesi di origine dei ristretti per il loro rientro. Bruno ha espresso al ministro sostanziale condivisione per gli accorpamenti delle sedi penitenziarie di Ravenna e Ferrara, "perché così si garantisce il mantenimento di una piccola struttura a forte vocazione trattamentale" come quella della città bizantina, e di Castelfranco Emilia e Modena, "perché è il primo passo per il superamento della casa-lavoro". L’incontro, specifica la figura di garanzia dell’Assemblea legislativa, è stato nel complesso "molto positivo": insieme al ministro, hanno partecipato il suo capo di Gabinetto, Giovanni Melillo, il capo del Dap, Santi Consolo, e il capo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, Francesco Cascini, e i Garanti di otto regioni (oltre a Emilia-Romagna, anche Marche, Lombardia, Puglia, Toscana, Piemonte, Campania e Valle D’Aosta). Al centro del confronto il rapporto tra Garanti regionale e il nuovo ufficio del Garante nazionale, i cui tre componenti sono già stati individuati e per la cui convalida si aspetta solo la firma del presidente della Repubblica: si auspica una strettissima collaborazione anche con incontri mensili tra Garante nazionale e uffici regionali, ma soprattutto, "è evidente la necessità che la Regioni ripensino la normativa in materia, per adeguarla all’introduzione del Garante nazionale". In cima all’agenda congiunta di Garanti e ministero restano anche, conclude Bruno, "la proposta complessiva di riforma del sistema penitenziario che avanzeremo dopo la presentazione dei risultati dei tavoli degli Stati generali dell’esecuzione penale e la creazione tramite accorpamento del nuovo dipartimento di comunità, che si occuperà anche di minori". Toscana: Progetto "Tra le righe", acquisto di testi scolastici per i detenuti della Regione Redattore Sociale, 22 gennaio 2016 La Regione ha varato un piano da 86 mila per integrare i testi delle biblioteche dei 18 istituti penitenziari e per fornirle di testi scolastici. A duecentotrenta anni dall’abolizione della pena di morte nel Granducato, in Toscana si continua a riflettere sul concetto di pena in risposta ad un reato commesso e giudicato. Ieri si è svolto il convegno "Dall’abolizione della pena di morte al riformismo penitenziario" tenuto all’Auditorium Istituto tecnico Russell-Newton di Scandicci nell’ambito delle iniziative culturali promosse dalla Regione Toscana per la Festa della Toscana; sede in cui la assessore alla istruzione e formazione Cristina Grieco ha illustrato il progetto regionale "Tra le righe", inserito tra le attività previste da uno specifico protocollo per la realizzazione di azioni congiunte nei settori dell’istruzione, formazione, orientamento e lavoro. In Toscana sono presenti 18 istituti di pena, all’interno dei quali si svolgono corsi scolastici di ogni ordine e grado che interessano complessivamente oltre 2mila detenuti, di cui quasi 1500 stranieri. L’obiettivo del progetto regionale "Tra le righe", finanziato con 86mila euro, è l’integrazione della dotazione dei testi nelle 25 biblioteche presenti negli istituti di pena nelle lingue maggiormente rappresentate dalla popolazione detenuta straniera (arabo, albanese, rumeno, serbo, russo, spagnolo, cinese, portoghese, cinese, portoghese, francese e inglese) e l’acquisto di testi scolastici per percorsi di istruzione primaria e secondaria attuati negli istituti. "L’articolo 27 della Costituzione afferma che le pene detentive devono tendere alla rieducazione del condannato - ha sottolineato la assessore Grieco, per questo è indispensabile portare l’istruzione scolastica all’interno degli istituti di pena grazie a concrete opportunità di rieducazione e di apprendimento. L’attività scolastica e l’impegno che si mette in atto con il progetto "Tra le righe" contribuisce dunque a dotare adeguati strumenti didattici che riteniamo possano contribuire a costruire il percorso riabilitativo dei detenuti, che siano italiani o stranieri, presenti nelle carceri del nostro territorio". Valle d’Aosta: il Garante dei detenuti Enrico Formento Dojot ricevuto da ministro Orlando aostanews24.it, 22 gennaio 2016 Il Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Valle d’Aosta, Enrico Formento Dojot, è stato ricevuto martedì scorso, insieme ad una delegazione di Garanti regionali, dal Ministro della giustizia, Andrea Orlando. "L’incontro con il Ministro, che ringrazio per l’attenzione e lo spazio che ha voluto dedicarci - spiega Dojot - ha riguardato, in particolare, la riorganizzazione dell’Amministrazione penitenziaria, che comporta l’accorpamento di alcuni Istituti. La Casa circondariale di Brissogne resterà autonoma e ho espresso al Ministro l’auspicio che, attraverso questa riorganizzazione, venga ripristinato un Direttore titolare. Da quasi due anni, infatti, si alternano Direttori in missione da altre sedi, e, al di là del loro fattivo impegno, si creano ovvie difficoltà di gestione, che da tempo sottolineo. È stata anche l’occasione per fare il punto sull’iniziativa degli Stati Generali dell’Esecuzione penale, che si sta avviando alla fase conclusiva". E conclude "All’incontro ha altresì partecipato il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Santi Consolo al quale ho rappresentato la questione del lavoro, interno ed esterno all’Istituto, per i detenuti, sottolineandone la valenza morale e l’efficacia ai fini del futuro reinserimento nella società, lavoro al quale ha accesso un numero limitato. Il Dottor Consolo ha concordato sul fatto che il trattamento detentivo passa prioritariamente dal lavoro". Firenze: il Garante regionale dei detenuti chiede incontro con la direttrice di Sollicciano Adnkronos, 22 gennaio 2016 Il garante regionale dei detenuti e le associazioni avanzeranno una serie di proposte. Nuovo incontro del garante regionale dei detenuti, Franco Corleone, con tutte le associazioni e le cooperative che si occupano di carcere, soprattutto a Firenze ma non solo. Molte le novità emerse durante la riunione, che si è svolta ieri. Corleone ha spiegato che, durante il summit avuto qualche giorno fa con il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e con gli altri garanti dei detenuti regionali, per fare il punto sulla situazione delle carceri in Italia, è stata annunciata la nomina in tempi brevissimi del garante nazionale dei detenuti. È stato inoltre chiesto che le Regioni in cui è ancora assente la figura del garante ottemperino rapidamente alla nomina. Il panorama emerso, ha detto ancora Corleone, mostra che, nonostante una diminuzione del sovraffollamento carcerario, non si è assistito in molti casi a un miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti. "Un caso tipico è quello di Sollicciano - ha detto il garante toscano - in cui i problemi di qualità della vita e di relazioni interne sono e rimangono gravi". Per quanto riguarda Sollicciano, la notizia è che da pochi giorni è stata indicata una nuova direttrice, Marta Costantini, che si occuperà esclusivamente del carcere fiorentino. "L’auspicio è che si intervenga rapidamente per migliorare la situazione" ha commentato il garante Corleone. Per questo sarà chiesto un incontro nei prossimi giorni con la nuova responsabile, per lanciare una serie di proposte immediatamente operative e fare il quadro di quello che resta da fare. Nell’attesa dell’incontro sono sospese le iniziative di protesta già in programma. Orlando: a Sollicciano ho inviato gli ispettori "Nel carcere di Sollicciano ho già inviato un’ispezione e attendo ad horas i risultati. Segnalo inoltre che i vertici del carcere sono stati sostituiti". Lo ha detto al Senato il ministro della Giustizia Andrea Orlando. La sostituzione dei vertici di Sollicciano risalirebbe a lunedì scorso con l’arrivo della nuova direttrice Marta Costantini. Nelle ultime settimane diversi interventi avevano sollecitato attenzione sul carcere fiorentino di Sollicciano. Il 31 dicembre dello scorso anno, in una lettera, le detenute avevano denunciato una situazione igienica carente, con la presenza di topi, una condizione di "invivibilità" delle celle e di assenza di riscaldamento. Carenze strutturali del carcere erano state indicate anche dalla Camera penale e dai garanti dei detenuti. Infine i radicali aveva chiesto la chiusura stessa del carcere fiorentino. Roma: per il Giubileo 100 detenuti "giardinieri" destinati al verde e assistenza di Manuela Pelati Corriere della Sera, 22 gennaio 2016 Accordo tra il ministro di Giustizia, Andrea Orlando e il commissario straordinario Francesco Paolo Tronca. Finanziamento da 49.500 euro da parte di Cassa Ammende. Il reinserimento dei detenuti riparte dal verde. E dal Giubileo. Dopo il progetto "Ricomincio da Roma", il Cda di Cassa Ammende, presieduto dal Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, ha approvato il progetto destinato a 98 detenuti degli istituti penitenziari di Roma per la manutenzione degli spazi verdi, per gli interventi al decoro della città e per l’assistenza alle persone nelle aree cittadine interessate dagli eventi religiosi durante il Giubileo della Misericordia. Un accordo tra il Provveditorato Regionale del Lazio con gli Istituti Penitenziari di Rebibbia. I detenuti giungeranno in 40 da III Casa, 50 da Casa di Reclusione; 8 da Casa circondariale Femminile. L’accordo - "Ricomincio da Roma" era destinato a 20 soggetti in esecuzione penale esterna per l’impiego lavorativo a titolo volontario/gratuito in analoghe attività. Si dà così concreta attuazione - sottolinea il Dap in una nota - alle intese intercorse tra il Ministro della Giustizia Andrea Orlando e il Commissario straordinario per la gestione provvisoria di Roma Capitale Francesco Paolo Tronca. Il finanziamento - L’avvio dell’attività sarà preceduto da un percorso formativo di sensibilizzazione sulle attività che i detenuti saranno chiamati a svolgere. L’impegno lavorativo per ciascun detenuto sarà di 25/40 ore settimanali e avrà una durata complessiva di 11 mesi. Il progetto è stato finanziato da Cassa Ammende per un totale di 49.500 euro che andranno a coprire le spese di assicurazione e l’acquisto di materiale antinfortunistico. A breve saranno definite dall’Ufficio del Commissario straordinario per la gestione provvisoria di Roma Capitale le aree cittadine interessate dagli interventi per consentire l’inizio delle attività entro il mese di febbraio. Sondrio: carcere "accorpato" con Bergamo, anche al Garante l’ipotesi non piace di Alberto Gianoli La Provincia di Sondrio, 22 gennaio 2016 Il caso. Francesco Racchetti perplesso di fronte all’idea "Unire le strutture può garantire figure di mediazione Ma Bergamo è lontana e presenta altre caratteristiche". L’ipotesi di accorpare la casa circondariale di via Caimi con quella di Bergamo, contenuta in una bozza di decreto del Ministero della Giustizia, non piace nemmeno a Francesco Racchetti, garante dei diritti delle persone limitate nella libertà personale del Comune di Sondrio. Il rischio sarebbe quello di una gestione della struttura demandata agli organi di Polizia Penitenziaria che, pur svolgendo bene il loro lavoro, non potrebbero assolvere i compiti propri di un direttore, figura che negli anni è comunque spesso stata assente nella nostra città. Baricentro e mediazione - Nella sua annuale relazione rivolta al consiglio comunale, quando da tempo mancava un direttore residente, nel 2013 Racchetti sottolineava che "la funzione del direttore, in una realtà multiforme e complessa come quella carceraria, svolge un fondamentale ruolo di baricentro e mediazione tra le molteplici istanze delle differenti componenti: Polizia Penitenziaria, Area educativa, detenuti, familiari, operatori sanitari, volontari e tutte le altre persone che a vario titolo svolgono la loro attività in carcere". "Se tale punto di equilibrio si sposta e si indebolisce... e la conduzione del carcere viene ad essere, nella sostanza, affidata al comandante della Polizia penitenziaria, si ha un inevitabile slittamento verso una logica custodiale, di contenimento, a detrimento di quella funzione rieducativa che dovrebbe essere il fine della detenzione". Consapevole dunque dell’importanza che riveste la presenza di un direttore, Racchetti più volte negli anni l’ha chiesta per la nostra casa circondariale, rivolgendosi anche ai vertici dell’amministrazione penitenziaria. "Ho però compreso - spiega oggi - che la tendenza è quella di voler chiudere le piccole carceri, perché avrebbero costi funzionali elevati e creerebbero problemi. Su 205 carceri che ci sono nel nostro Paese, circa la metà sono rette da direttori in missione e lo stesso è accaduto più volte nella nostra città". Attività Interrotte - Da quando, infatti, Racchetti riveste il ruolo di garante "in quasi cinque anni sono cambiati quattro direttori Questo - sottolinea - ha comportato ogni volta un’interruzione di attività perché ci sono stili diversi, idee diverse e ogni volta il direttore nuovo deve conoscere la realtà". Una continuità di presenza sarebbe perciò ideale per sviluppare i percorsi di educazione che l’ordinamento penitenziario prevede e per questo Racchetti a giugno aveva appreso positivamente la nomina della direttrice Stefania Mussio. "L’avevo accolta esprimendole la soddisfazione mia e di tutte le persone che in questi anni hanno sviluppato un concreto interesse per il carcere, i suoi problemi e le persone che vi lavorano e vi vivono, per la presenza di un direttore stabile e residente". Auspici che però la direttrice aveva risposto di non poter soddisfare, riferendo che la sua presenza nella casa circondariale di via Caimi non era motivata da stabilità. Stando così le cose, secondo il Garante "l’accorpamento con un altro istituto potrebbe essere il minore dei mali e garantirebbe quantomeno continuità. La logica del provvedimento - aggiunge - sembra quella di accorpare un istituto piccolo a uno grande perché quello ha anche un vicedirettore che di fatto, probabilmente, assumerebbe la guida dell’istituto minore. E questo darebbe una certa garanzia di continuità, anche se in quest’ottica Bergamo non sarebbe comunque la soluzione ottimale, perché non è prossimo ed è una struttura diversa da quella della nostra città". Sondrio: il cappellano don Ferruccio "decisione accorpamento a Bergamo è penalizzante" di Alberto Gianoli La Provincia di Sondrio, 22 gennaio 2016 Da due anni e mezzo don Ferruccio Citterio, vicario parrocchiale nella Comunità pastorale della città, e anche cappellano della casa circondariale di via Calmi. Il suo impegno non consiste solo nell’assistenza spirituale al detenuti con la celebrazione della messa, ma si concretizza nell’aiuto umano e materiale per i bisogni più disparati. Don Ferruccio ha potuto apprezzare la presenza stabile e continuativa della direttrice Stefania Mussio negli ultimi mesi. Per questo. Il sacerdote è preoccupato per le possibilità che si profilerebbero qualora la bozza di decreto ministeriale dovesse essere approvata. "L’Ipotesi di un eventuale accorpamento di più carceri sotto un’unica Direzione, tra cui la Casa circondariale di Sondrio con quella di Bergamo - afferma don Ferruccio - non pare avere giustificazione ne nella logistica delle sedi, né nella funzionalità organizzativa". "Anzi, la possibile decisione contrasta fortemente con un principio di buon senso e con quanto si sta cercando di migliorare nell’ambito dell’amministrazione penitenziaria". Vista la sua esperienza e le nuove Iniziative che gli è stato possibile sostenere e condurre negli ultimi mesi. Il cappellano sottolinea che "la presenza di un direttore stabile nel carcere della nostra città è un fattore positivo. Molte e varie - aggiunge - sono le questioni che quotidianamente un direttore deve affrontate, come le situazioni del singoli detenuti, la gestione amministrativa. Il coordinamento delle varie aree educativa, sanitaria e di sicurezza. Il mantenimento dell’edilizia carcerarla, l’attuazione di nuovi progetti". Insomma, don Ferruccio ne è certo: "solo un presenza stabile del direttore può garantire una gestione ottimale". Quindi l’accorpamento con Bergamo non s’ha da fare". Trento: il deputato M5S Riccardo Fraccaro "al carcere di Gardolo manca personale" Secolo Trentino, 22 gennaio 2016 "Da oltre un anno ho portato i problemi della struttura carceraria di Spini di Gardolo all’attenzione del Ministro della Giustizia, ma senza mai ottenere risposta. Non si tratta solo di un problema di sovraffollamento: i problemi interessano sia il personale di polizia penitenziaria, sia i detenuti, sia il livello di sicurezza collettivo. Il Governo ha l’obbligo di rispondere agli atti di sindacato ispettivo e se non può farlo deve indicare il motivo". Il deputato M5S Riccardo Fraccaro è intervenuto ieri in Parlamento sollecitando il Ministro della Giustizia Orlando, che tra l’altro avrebbe anche dovuto discutere di questi temi con il Governatore Rossi salvo poi disdire l’incontro, a rispondere alle numerose interrogazioni sul carcere di Spini di Gardolo depositate gli scorsi mesi. "Le questioni più urgenti sono la carenza di organico e il pericolo di sovraffollamento della struttura. Sul primo punto sono intervenuto con due interrogazioni: con la 4/07333 del 18 dicembre 2014, ho chiesto al Governo se sia previsto un adeguamento della pianta organica degli agenti impiegati nel nucleo traduzioni e piantonamenti, per rimediare al sottodimensionamento delle scorte e assicurare un adeguato livello di sicurezza, mentre con la 4/09687 del 3 luglio 2015 ho sollecitato per sapere in che tempi il Governo intenda assegnare il personale richiesto dal provveditorato, al fine di riportare la situazione sotto il livello di rischio. È chiaro che il problema della carenza di organico si fa più grave nel momento in cui si annuncia l’arrivo di altri 50 detenuti. La struttura è progettata per ospitare al massimo 240 detenuti, ma attualmente ve ne sono già 300. Stiamo già sforando i limiti e se il numero crescerà ancora, capiamo che la situazione è al limite. Di questo ho chiesto spiegazione al Governo con l’interrogazione 4/11308 del 27 novembre 2015, firmata anche dai deputati Businarolo e Ferraresi, visto che la capienza della struttura è normata da precisi accordi tra la Provincia e lo Stato italiano, sottoscritti all’epoca dal governatore Dellai. Sempre per ovviare ai problemi di organico, ma anche per migliorare l’assistenza sanitaria dei detenuti, con l’interrogazione 4/06976 del 21 novembre 2014 avevo chiesto di dotare il carcere di Trento di un apparecchio radiografico, per effettuare gli esami internamente ed evitare trasferimenti esterni, che gravano sul personale già scarso. Con l’interrogazione 4/06623 del 28 ottobre 2014, infine, ho chiesto al Ministro che nell’assegnazione degli alloggi al personale di polizia penitenziaria siano tutelate le famiglie più disagiate. Soprattutto sui problemi di sovraffollamento e di carenza di personale il Governo deve dare risposte chiare e immediate, perché un quadro del genere non è accettabile: il mancato rispetto degli accordi sottoscritti non consente al personale di svolgere il proprio lavoro e non garantisce alla collettività la necessaria sicurezza". Pisa: progetto "Misericordia Tua". Casa di accoglienza per detenuti, la Curia tira dritto di Sharon Braithwaite Il Tirreno, 22 gennaio 2016 Don Cecconi: "Toni inaccettabili e pregiudizi da alcuni cittadini, il progetto si farà". Il Comitato: "Tutto calato dall’alto". L’arcidiocesi di Pisa va avanti e difende "Misericordia Tua", il Progetto di accoglienza promosso insieme alla Caritas per carcerati in permesso ed ex detenuti impegnati nel percorso di reinserimento sociale, che sarà realizzato nella casa canonica della parrocchia di Sant’Andrea a Lama. In una lettera distribuita nelle parrocchie calcesane domenica 17, don Antonio Cecconi e il consiglio dell’unità pastorale della Valgraziosa hanno risposto alle polemiche dei giorni scorsi. Intanto, il comitato "Calci serenamente" ha avviato una raccolta firme per chiedere che il progetto venga ritirato. "Alcuni calcesani stanno facendo circolare un testo, contenente numerose informazioni inesatte, con il quale si oppongono a questo progetto, che nasce dall’incontro di due volontà: quella dell’unità pastorale di utilizzare i numerosi edifici posseduti dalle diverse parrocchie per attività di carattere pastorale, educativo, caritativo e sociale (cosa che per molti edifici già avviene) - si legge nella lettera; e quella della Chiesa pisana di dar luogo in questo Giubileo della Misericordia, attraverso la Caritas, a un’opera-segno destinata a persone che vivono la dura realtà carceraria". Il comitato di opposizione contesta il mancato ascolto della comunità calcesana. "La diocesi non ci ha contattato per dialogare con noi, ma ha risposto alle nostre segnalazioni con una lettera - dice il comitato, che giudica il progetto come un’imposizione dall’alto, un atto di "prepotenza". L’iniziativa è stata pubblicizzata durante le omelie di alcune sante messe, con inviti ai fedeli di partecipare attivamente tramite elargizioni o simili". Ma il ruolo della Chiesa non consiste proprio nell’occuparsi dei più deboli, nel rispetto del messaggio evangelico? Don Cecconi dice che sono comprensibili e "legittime" le preoccupazioni e richieste di chiarimenti di alcune famiglie. "Sono manifestazioni che assumono però toni e contenuti assolutamente impropri, inesatti e per alcuni aspetti inaccettabili quando arrivano a parlare della "costituzione di una succursale del carcere" e danno per certo il degrado della zona, la moltiplicazione di disagi per i residenti e addirittura "l’impatto devastante sotto l’aspetto economico - si legge ancora nella lettera del consiglio pastorale. Siamo convinti che lo sviluppo intelligente e prudente del progetto farà in modo di attenuare al massimo i disagi enfatizzati, e darà anzi ai calcesani - in primo luogo a chi si dichiara cristiano - la possibilità di contribuire a un’opera di ospitalità evangelica e di reinserimento umano e sociale". A queste frasi il comitato replica sottolineando la mancata considerazione dei disagi della frazione di Sant’Andrea: problemi idrici, viabilità e accesso che peggiorerebbero con l’arrivo di altre persone. In questa località vivono famiglie con anziani e bambini, un contesto "non adatto a questo progetto, che abbasserebbe il valore delle abitazioni e danneggerebbe il turismo. Inoltre, quali sono le garanzie relative alla sicurezza? Chiediamo un confronto sereno su questo progetto". La Spezia: senza braccialetto elettronico niente domiciliari, detenuto fa sciopero fame cittadellaspezia.com, 22 gennaio 2016 Mirko Vasoli, 45 anni, ha già perso molto peso e sta accusando problemi renali. Ritenuto idoneo ai domiciliari con braccialetto elettronico, è ancora in carcere per l’indisponibilità dello strumento. Ricevere l’idoneità agli arresti domiciliari con l’applicazione del braccialetto elettronico e dover restare in carcere perché non c’è nessun gingillo - sarebbero circa duemila, in tutta Italia - disponibile. Una storia amara, che tocca tanti detenuti italiani. E che non deve suonare come normale: infatti, recenti sentenze della Cassazione hanno permesso di scontare i domiciliari senza braccialetto, quando lo strumento mancava, evitando al detenuto di restare dietro le sbarre. Ma non sempre, come detto, va così: è il caso di Mirko Vasoli, spezzino 45enne, arrestato il 24 luglio 2015 perché se ne ipotizza il coinvolgimento in un affare di droga - lo metterebbero di mezzo delle intercettazioni, in particolare un carico di oltre cinquanta chilogrammi di cocaina arrivato in Italia dalla Colombia, sotto la supervisione di un sodalizio criminale del fiorentino al quale il 45enne sarebbe legato. E ora, recluso a Villa Andreino da sette mesi, Vasoli è in attesa di giudizio: il processo si terrà in primavera. Ma è difficile dire in quali condizioni ci arriverà: da una settimana, infatti, il detenuto ha cominciato uno sciopero della fame e della sete. Ha già perso cinque chili, scendendo sotto i cinquanta, e ieri ha accusato i primi problemi renali. Una situazione che preoccupa legali (è assistito dallo studio Defilippi) e famigliari, e che vuole essere un grido di dolore, lanciato perché una carenza dell’universo giustizia non ricada sul collo del detenuto. Nonostante le istanze fatte al tribunale del riesame di Firenze (che l’11 dicembre ne ha sancito l’idoneità ai domiciliari con braccialetto), al Ministero di grazia e giustizia, al Ministero degli interni, finora nulla è cambiato, se non il peso del 45enne. "Nessuno ci ascolta e nessuno rispetta la Costituzione. E nessuno - sottolinea Chiara, compagna di Vasoli - si preoccupa di rispettare la sentenza della Corte che sottolinea il fatto che il giudice, data l’idoneità ad una misura cautelare più lieve a quella di detenzione in carcere, e accertato il fatto dell’indisponibilità del dispositivo, ha il compito di scarcerare il detenuto, visto che la mancanza di fondi della pubblica amministrazione non deve essere di impedimento alla libertà personale". Roma: Cisl "detenuto incendia cella a Rebibbia 3 giorni prognosi ad agente penitenziario" Agenparl, 22 gennaio 2016 Ieri notte un detenuto italiano con problemi psichiatrici ubicato presso il reparto G12 alla sezione B piano terra, sezione di isolamento, del NC Rebibbia - Roma ha dato fuoco ad una cella distruggendo quanto nel suo interno e solo grazie all’ausilio del personale della pol. pen. Intervenuto con gli estintori, hanno spento il fuoco evitando il peggio. Un agente penitenziario di anni 47 è stato portato all’ospedale per inalazione di fumi a cui sono state date gg.03 di prognosi. Solidarietà al personale coinvolto. Per la Fns Cisl Lazio occorre che detenuti resosi partecipi di tali gesti siano aumentate le pene detentive oltre a far si che vi sia assistenza psichiatrica con coperture Padova: lavorare nell’Amministrazione Penitenziaria, i rischi per la salute degli operatori di Annamaria Peragine corrierepl.it, 22 gennaio 2016 Presso la sala del Consiglio della Provincia di Padova si è tenuto il convegno organizzato dalla Sipiss - Società Italiana di Psicoterapia integrata per lo Sviluppo Sociale - in collaborazione con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Triveneto, con il patrocinio del Comune e della Provincia di Padova. In tale sede è stato presentato il primo progetto europeo di ricerca sullo stato di salute dei lavoratori dell’Amministrazione Penitenziaria, che ha rappresentato una preziosa opportunità per mettere in luce aspetti ancora scoperti del lavoro degli operatori penitenziari, in relazione ai quali emerge la necessità di intervenire con competenza e puntualità. Sono state proposte, infatti, modifiche organizzative volte a migliorare l’ambiente di lavoro del Corpo di Polizia Penitenziaria e del personale civile, cominciando con l’introduzione di una funzione medica e/o psicologica incardinata nell’Amministrazione Penitenziaria, cui si riconoscano specifici compiti a supporto di tutti gli operatori e dell’organizzazione stessa. L’incipit della ricerca, condotta su un campione di circa tremila unità operanti nel Triveneto, tra polizia penitenziaria e personale del comparto ministeri, è da rinvenirsi nella consapevolezza, per dirla con le parole del Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Triveneto Dr. Enrico Sbriglia, che siamo di fronte ad una Comunità di operatori penitenziari che, per scelta matura e con senso di responsabilità, senza soluzioni di tempo, incrocia le diverse dimensioni del male, attraversando quello sociale, quello individuale, quello familiare. Un male che si manifesta intramoenia attraverso gesti di autolesionismo, proteste individuali o collettive, aggressioni, suicidi… e che Polizia Penitenziaria e tutti gli altri operatori penitenziari sono chiamati ad affrontare quotidianamente, sempre nella prospettiva di un carcere rieducativo, dove le istituzioni debbano rispondere con lo stesso male che si vuole estirpare. Viterbo: Rudy Guede in televisione "a Mammagialla studio, lavoro e dipingo quadri" viterbonews24.it, 22 gennaio 2016 Rudy Guede grida la propria innocenza dal carcere viterbese di Mammagialla, nel quale sta scontando una condanna di 16 anni per l’omicidio di Meredith Kercher, trovata morta nella sua stanza la mattina del 1 novembre 2007. È andata in onda ieri sera su Rai Tre, all’interno del programma "Storie Maledette", l’intervista realizzata dalla giornalista Franca Leosini all’ivoriano che, dopo otto anni da quel terribile omicidio, parla per la prima volta di quanto successo direttamente da uno spazio del carcere di Mammagialla allestito per l’occasione in studio televisivo. Proprio all’interno del penitenziario viterbese, Guede si tiene molto impegnato, come racconta lui stesso: "Aiuto le persone in difficoltà e lavoro all’infermeria centrale come addetto alle pulizie ma mi piace molto dipingere. In questi anni, inoltre, ho studiato duramente e mi sto per laureare in scienze storiche per la cooperazione internazionale e del territorio all’Università Roma Tre". Poi, un ringraziamento particolare a tutte le persone che all’interno del carcere si sono prese cura di lui con affetto e delicatezza, mentre sullo schermo scorrono numerose immagini a documentare la vita dell’ivoriano nel penitenziario viterbese. È stato proprio Guede a voler essere intervistato per raccontare quella che è la sua verità, per ribadire a gran voce la sua estraneità ai fatti per i quali è stato invece condannato dalla giustizia italiana. Un lungo racconto, un percorso a ritroso che tocca le tappe più importanti della vita di Guede: l’infanzia felice in Costa d’Avorio, la terribile separazione dalla madre e dai suoi familiari, l’arrivo in Italia all’età di 5 anni, le difficoltà. Una sorta di riabilitazione un po’ azzardata, portata avanti, probabilmente, con un po’ troppa veemenza, nei confronti di un ragazzo che, non dimentichiamocelo, è stato condannato in via definitiva per l’omicidio di una ragazza di 22 anni. È lui stesso a difendere strenuamente, e se vogliamo in modo anche un po’ sfacciato, la propria immagine, a renderla più "umana", sostenendo di essere un ragazzo come tanti altri, molto distante dal mostro descritto dagli inquirenti. Tesi sostenuta anche da chi lo conosce bene o ha avuto contatti con Guede più o meno approfonditi. Dopo aver ripercorso gli eventi che hanno portato all’uccisione di Meredith Kercher e aver scaricato l’intera responsabilità dell’omicidio della ragazza su Amanda Knox e Raffaele Sollecito, Guede racconta della fuga da quella casa dopo aver visto Meredith riversa a terra in una pozza di sangue: "Mi sono lasciato prendere dal panico e, in totale stato di shock, non ho fatto quello che avrei dovuto fare. Non ho chiamato i soccorsi, la paura ha prevalso su di me. Temevo di non essere creduto e ho deciso di scappare. Chi avrebbe creduto a un nero?". Proseguono poi le precisazioni da parte dell’ivoriano, determinato a proclamare la propria innocenza: "La sentenza che mi riguarda è decisamente contraddittoria. Come ho potuto uccidere io Meredith se sulle carte del processo è espressamente scritto che non sono stato io ad aver usato il coltello che l’ha uccisa? È stato precisato, inoltre, che non sono stato io l’esecutore materiale del delitto". Ma quindi, chi sono i reali responsabili dell’omicidio? "Amanda e Raffaele sono stati assolti ma la stessa sentenza di assoluzione afferma che la Knox era in quella casa quella sera e, dunque, non poteva non esserci anche Sollecito. Bisognerebbe chiedere a loro chi ha veramente ucciso Meredith, soprattutto alla Knox". Nette le parole di accusa che Guede pronuncia: "È curioso che io sia stato condannato per concorso in omicidio ma sia l’unico ad essere in carcere mentre gli altri sono fuori". Poi, si cerca di minimizzare anche sull’episodio dell’arresto, avvenuto mentre Guede si trovava in Germania dove si era rifugiato subito dopo la morte di Meredith: "Non mi hanno arrestato mentre stavo scappando ma durante un controllo sui biglietti del treno. Io stavo tornando in Italia" precisa l’ivoriano. Infine, un messaggio ai genitori della vittima: "A loro posso semplicemente dire che Meredith deve ancora avere giustizia. In questo momento c’è una persona in carcere che sta pagando per un delitto che in realtà non ha mai commesso" conclude Rudy Guede. Padova: la Porta della Misericordia nel carcere di Simone Baroncia korazym.org, 22 gennaio 2016 Anche a Padova il vescovo, Mons. Claudio Cipolla, ha aperto la Porta della Misericordia della Cappella del Carcere Due Palazzi di Padova alla presenza di circa 150 detenuti (tra cui anche un gruppo di detenuti del reparto dell’alta sicurezza), grazie anche alla collaborazione della parrocchia del Carcere coordinata dal cappellano don Marco Pozza, il gruppo di catechisti e catechiste, i rappresentanti delle associazioni che operano all’interno della casa di reclusione (Piccoli Passi, Ristretti Orizzonti) e delle cooperative Officina Giotto e Altracittà, insieme al direttore del carcere Ottavio Casarano, al presidente del tribunale di sorveglianza di Venezia Gianmaria Pavarin, al magistrato di sorveglianza di Padova Linda Arata ed al commissario della polizia penitenziaria Salvatore Parisi. Nel dare il benvenuto a Mons. Cipolla il cappellano del carcere ha affermato: "La vita è una sinfonia di suoni: suoni gravi e solenni, pungenti e ribelli, acuti e imponenti. Suoni che somigliano a dei tocchi, a dei rintocchi, anche ad arpeggi e palpeggi. Suoni che destano curiosità come il tintinnio di un lamento, che impauriscono come le sirene della Polizia, che consolano come un passo amico dentro la paura. Ci sono suoni che rimangono suoni, altri diventano visioni, altri ancora odorano di vita. Pochi suoni, però, superano, per attrattiva, il bussare alla porta. Bussare è un po’ come suonare, anche un annunciare ed annunciarsi, è un accendersi della memoria e dell’intuizione: "È lui. Anzi no: forse è lei. Chi è che bussa?". Tante domande dietro un bussare… Oggi inizia il Giubileo della Misericordia in questa terra di nessuno che Dio ha fortemente voluto fare propria… Che sia un Giubileo di misericordia per tutti, soprattutto per chi, come tanti di noi, nella vita ha fallito: saperci amati nel momento in cui non lo meriteremmo di meno è il vestito in borghese che Dio indossa qui dentro quando non vuol farsi riconoscere. Non è questione di vergogna, è questione di delicatezza: la misericordia è una manovra serissima. È roba da Dio". Nell’omelia Mons. Cipolla ha ricordato che ha fatto visita nel carcere per pregare insieme ai detenuti ed a chi ci lavora: "Ma soprattutto sono qui umilmente per te, Signore, che non hai mai disdegnato di confonderti con i pubblicani e le prostitute, con i peccatori e i condannati. Sono qui per riconoscere e dire che Tu sei qui, non hai paura di sporcarti né mani né reputazione e custodisci per ciascuno una parola di salvezza. So che questo è stato un anno difficile per questi nostri fratelli: un anno che ha spento in tanti di loro speranze, sogni, spiragli di luce. Per me è difficile, in questo contesto annunciare in modo credibile il tuo Vangelo di amore, di giustizia, di misericordia. Per questo Signore non voglio spiegare il tuo messaggio, ma insieme con tutti loro pregarti, semplicemente pregarti. Abbiamo bisogno di segni di consolazione, di parole di incoraggiamento, di gesti che ci diano speranza. Facceli vedere, Signore. Dà intelligenza, volontà e forza a quanti ci governano, a quanti possono modificare regolamenti e leggi perché ad ogni uomo sia sempre riconosciuta dignità di uomo, perché vengano tolte le pene di morte, anche nascoste, come quelle di una pena che termina nell’anno 9999". Il vescovo di Padova ha anche pregato "anche per quanti non sanno che cosa sia il carcere e vivono schiavi delle banalità e delle luci, ingabbiati in stili di vita utili solo al consumismo e ai suoi meccanismi disumanizzanti. Ti preghiamo per quanti, senza saperlo e per debolezza, ci procurano ulteriore male scagliandosi contro chi ha sbagliato, contro chi sa di aver sbagliato e accetta di vivere un percorso di liberazione dal suo delitto. Abbiamo di fronte agli occhi anche le persone alle quali, con le nostre azioni, abbiamo recato sofferenza e dolore. La nostra consolazione viene anche pensando che questo dolore possa essere in qualche modo risanato: forse tu, solo tu, puoi rimediare e portare consolazione dove noi abbiamo portato sofferenza". Infine ricordando che solo la misericordia potrà rendere più docile il cuore ha chiesto a Dio tre ‘miracolì: "converti il mio cuore ad accogliere la tua tenerezza; fa che io, e don Marco che resterà in questa comunità, sappiamo parlare di qualcosa che abbiamo visto e toccato. E, quasi per contagio, molti altri sappiano raccontare il lieto annuncio del tuo amore misericordioso con la loro vita. Cerca chi parli di te tra i volontari, tra gli agenti di polizia, tra i carcerati e costituiscili ‘tuoi angelì in mezzo a tanto dolore, rabbia e male. Il secondo miracolo è che tutti questi uomini percepiscano che tu vuoi loro bene, che li stai attendendo come il padre attende il figlio allontanato da casa. E li attendi per abbracciarli e accompagnarli anche nelle loro pene, per confermarli, se vogliono, nella dignità di essere tuoi figli, proprio qui. Restituisci, o Signore, fin da ora coraggio e libertà di amare, di sperare, di sognare anche in una cella. Anche qui c’è spazio per la santità. E forse il tuo abbraccio è già avvenuto! Il terzo miracolo: aiuta tutti noi, preti, carcerati e liberi cittadini ad accorgerci dell’importanza fecondante e generante della tua infinita e illimitata misericordia. Aiutaci a restare fratelli e a correggerci cercando il bene e facendo il bene". Milano: nel carcere di Opera e tra i reclusi del 41bis, dove i cappellani non giudicano mai di Patrizia Caiffa agensir.it, 22 gennaio 2016 Domenica 17 gennaio durante il Giubileo dei migranti a San Pietro sono state consacrate delle ostie prodotte nel carcere milanese di Opera, il più grande in Italia, da tre detenuti che hanno commesso omicidi. Il racconto di uno dei cappellani, don Antonio Loi, sui percorsi di consapevolezza tra i detenuti e gli irriducibili condannati al "carcere duro". Anche nei criminali più incalliti possono emergere "piccole crepe che sgretolano la crosta sul cuore e fanno iniziare a ragionare". Ne sa qualcosa don Antonio Loi, uno dei due cappellani del carcere di Opera, a Milano, la più grande casa di reclusione tra le 225 presenti in Italia, con circa 1200/1300 detenuti di cui una ottantina nel cosiddetto "carcere duro" determinato dall’articolo 41 bis. Tra i reclusi più famosi: Salvatore Riina, Francesco Schiavone, Giuseppe Setola, Domenico Cutrì, Renato Vallanzasca. Milano è la diocesi con più carceri: 5 istituti per adulti e uno per minori, pari a circa 4/5.000 detenuti. La Chiesa è presente, oltre che per la celebrazione dei sacramenti, per accompagnare le persone nei percorsi di consapevolezza e redenzione personale. Percorsi tanto più significativi nell’Anno della misericordia voluto da Papa Francesco, che tanto caro ha il mondo del carcere. Le sue parole e prese di posizione, anche su temi dibattuti come la richiesta di gesti di clemenza e l’abolizione dell’ergastolo, hanno avuto un grande impatto sui detenuti. Una iniziativa simbolica è stata, domenica 17 gennaio durante il Giubileo dei migranti a San Pietro, la consacrazione delle ostie prodotte nel carcere di Opera da tre detenuti che hanno commesso omicidi. Il laboratorio di produzione delle ostie è stato ideato dalla "Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti Onlus", con il sostegno dei sacerdoti del carcere. "Non giudicare mai". "È stata una iniziativa molto significativa - commenta don Loi, perché realizzata da persone con le mani sporche di sangue. Fa parte di un percorso di riavvicinamento della persona alla coscienza di sé". Cappellano a Opera da 13 anni, don Loi non è nuovo agli ambienti del carcere, nel senso che li ha frequentati in un’altra veste: "Trent’anni fa ho fatto il servizio militare come agente di custodia". Oggi si dice "grato alla diocesi per avermi scelto. Avrei fatto più fatica a prestare servizio in un ospedale". Insieme all’altro cappellano don Francesco Palumbo, ad una religiosa e ai volontari, la sua presenza accanto ai detenuti è fatta soprattutto di ascolto, pazienza e fiducia: "Non giudico mai. Certo di costruire dei rapporti amichevoli e sposto l’attenzione delle persone sul futuro, sulla vita che intendono ricostruire. Tutti abbiamo delle cicatrici, ma guardare solo al passato non serve". Storie positive e difficoltà. Ecco perché l’accompagnamento verso la "conversione" è un percorso lento e paziente. Tante sono le storie positive che può raccontare (senza rivelare i nomi), "dovute più all’effetto Papa Francesco che al Giubileo", ammette. "C’è gente che ora tiene in tasca il Vangelo da quando lo ha chiesto il Papa - ricorda. Altri mi dicono di sentirsi perdonati, altri ancora sentono il bisogno di fare del bene, di pregare". Piccoli successi "da pilotare". Le confessioni, ad esempio, fanno parte di un percorso "che non va mai forzato", anche se, da vicario parrocchiale di una parrocchia del milanese, constata che "c’è più gente che frequenta i sacramenti in carcere che fuori". "Quando qualcuno mi chiede di confessarsi - dice don Loi - ricordo che la richiesta viene da Dio". Momenti che vengono vissuti dal sacerdote come un grande dono. "Chi ha ucciso sente spesso il peso di non essere perdonato - spiega. Un giorno è venuto da me uno che ha commesso "tonnellate" di omicidi. Gli ho detto: "Gesù è morto anche per te". Non tutto però è rose e fiori. Ci sono anche gli irriducibili della criminalità organizzata. "Al 41 bis non si smuove nulla perché sono tutti legati, nessuno parla". O i dietrofront: "Quando Papa Francesco ha dato la scomunica ai mafiosi in Calabria, da 80 persone che facevano la comunione sono diventate 25". E i dolori grandi: "L’unica cosa che mi porto dietro come un fallimento e un peso enorme sono i suicidi". Le iniziative per il Giubileo. Nella casa di reclusione di Opera sono possibili attività ricreative, culturali e sportive, tra cui quelle pastorali. Il Giubileo della Misericordia è iniziato davanti ad un maxischermo per seguire l’apertura della Porta Santa a San Pietro, affiancata dall’apertura della Porta Santa nella cappella del carcere. Il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, ha invitato sei detenuti a pranzo a casa sua. Per la Quaresima distribuiranno a tutti i detenuti il Tao, la croce di San Francesco, per simboleggiare la Porta Santa in ogni cella e inviteranno sacerdoti esterni per le confessioni. Libri: "Wanted. Esercizi spirituali francescani per ladri e briganti", di Fabio Scarsato recensione di Maria Teresa Pontara Pederiva La Stampa, 22 gennaio 2016 Spiritualità della famiglia, del creato, del lavoro… ma di spiritualità del carcere potrebbe sembrare almeno fuori luogo parlare. Perché in un contesto, come quello italiano, dove gli istituti penitenziari soffrono per una lunga lista di problemi - in cima il sovraffollamento - ma dove soprattutto l’idea stessa del ruolo educativo della pena e della necessaria riabilitazione fatica a entrare nel sentire comune per cui a molti il concetto stesso di carcere equivale a morte sociale, il solo pensiero di una qual forma di spiritualità all’interno di quelle mura potrebbe apparire ai più perlomeno originale, se non addirittura azzardato. Eppure, come spiega nel suo ultimo libro Fabio Scarsato, francescano conventuale direttore editoriale del Messaggero di Sant’Antonio e delle Edizioni Messaggero di Padova, "anche ladri e briganti sono in qualche modo portatori di una loro qual spiritualità". "Chiunque verrà da loro [dai frati], amico o avversario, ladro o brigante, sia ricevuto con bontà": aveva scritto Francesco d’Assisi nella "Regola" non bollata, tra le ammonizioni ai suoi frati e molti sono stati lungo la storia i religiosi che si sono chinati su tante persone che il mondo considerava definitivamente perdute cogliendo nei loro volti quello di Cristo sofferente. E molti sono ancora oggi i religiosi, o i laici volontari, che varcano la pesante porta del carcere per fornire anche solo uno sguardo di conforto, ascoltare un racconto, trasmettere un messaggio a chi, magari persona cara, è là fuori, perlopiù in altrettanta sofferenza. "Raccontare il proprio disastro è faticoso, spesso doloroso - scrivono alcuni detenuti del carcere di Padova nella prefazione - ma soprattutto, dietro al racconto, c’è una volontà di cambiamento, c’è la decisione di dare una svolta alla propria vita e staccarsi da un passato spesso fatto di scelte sbagliate, violente ed egoiste". Di qui la volontà di portare i propri disastri in dono nella convinzione che ogni esperienza, anche la più negativa, possa dischiudere un percorso positivo, fornire una briciola di vita, quella che siamo soliti chiamare "conversione". Tutti siamo spaventati dall’idea di un ladro che penetra di soppiatto in casa nostra e diretta conseguenza diventa quell’etichetta di "criminale" appiccicata frettolosamente, ma è solo varcando la soglia del carcere, o leggendo le testimonianze raccolte da padre Fabio che si dischiude un mondo sconosciuto, ancora permeato da un’ingiustizia sociale vergognosa dove le storie di povertà si associano spesso a quelle di violenza domestica, perpetuata in ambienti di estremo degrado inimmaginabile nei quartieri "bene". "La galera è il luogo in cui difficilmente recuperi la tua umanità, messa a rischio ogni giorno dalle scelte sbagliate che hai compiuto e dal fatto che la vita detentiva ti infantilizza e ti inchioda al reato, ti trasforma da uomo in un "reato che cammina"". Come riemergere da questo "luogo desolato", come recuperare una qualche forma di dignità umana? Frate Francesco avvicinava i briganti in punta di piedi e i giovani, perlopiù studenti, entrano in carcere con lo stesso spirito del Poverello. "È grazie alla loro curiosità e alle loro domande spesso scomode e dure che oggi vedo un’alternativa, una strada diversa e non solo: è grazie a loro che ho imparato ad ascoltare", racconta Lorenzo. Ma è il tema del corso di esercizi spirituali che svela la chiave di lettura: "La misura dell’amore di Dio è di essere senza misura". È l’amore infinitamente grande, la Misericordia gratuita che papa Francesco ha posto alla base del Giubileo e anche del suo pontificato, che è in grado di trasformare in santo anche il peggiore dei briganti mostrando speranza là dove nessuno sarebbe capace neppure di sognarla. E dire che alla radice della scelta di farsi ladri e briganti spesso si celano nobili motivi, quasi un riequilibrio dell’ingiustizia sociale: in altre parole di Robin Hood ce ne sono stati molti nella storia. E se tra i cristiani c’è un santo per ogni stagione e categoria, è anche vero che esistono i loro protettori, come san Disma (il Buon Ladrone crocifisso con Gesù) o san Leonardo. È una lettura originale, densa di notizie storiche e aneddoti, quella che si snoda tra le pagine di padre Scarsato, ma essenzialmente una lettura che induce a una conversione. Non solo la conversione del brigante, bensì la scoperta dell’infinita misericordia del Padre. Edizioni Messaggero Padova, 2015, pp. 224, euro 16.00. "E tu slegalo subito", una campagna di civiltà di Valentina Calderone Il Manifesto, 22 gennaio 2016 "E tu slegalo subito", un imperativo categorico scelto come titolo dalla neonata campagna per l’abolizione della contenzione, presentata ieri nella sala del Senato di Santa Maria in Aquiro. Un imperativo ma anche una risposta, quella che Franco Basaglia soleva dare agli operatori che gli chiedevano cosa fare di fronte a un paziente legato al letto. E tu slegalo subito, appunto. Moltissime le sigle, le associazioni e i singoli riuniti ieri a Roma per l’avvio di un progetto ambizioso, quello di far conoscere, per poi abolire, un istituto tra i più disumani ancora praticati nel nostro paese. La contenzione meccanica consiste nell’imprigionare gli arti della persona (il paziente) al fine di limitarne i movimenti, e la modalità più comune è quella di legare con delle fascette polsi e caviglie ai quattro angoli dal letto. Una moderna crocefissione, per impedire gesti di autolesionismo, comportamenti violenti, o anche semplicemente per "placare" stati di agitazione. Gisella Trincas, presidente di Unasam, ha affermato che la contenzione rappresenta la "sopravvivenza di una pratica manicomiale dopo la chiusura dei manicomi" e insieme a lei sono intervenuti Vito D’Anza del Forum salute mentale, Giovanna del Giudice della Conferenza permanente per la salute nel mondo Franco Basaglia, Stefano Cecconi della Cgil, solo per citare alcuni dei promotori della campagna. Tutti hanno espresso forte preoccupazione per una pratica quasi sconosciuta e utilizzata quotidianamente nei reparti psichiatrici, nelle residenza per anziani, all’interno della neuropsichiatria infantile. Anche il senatore Luigi Manconi ha voluto evidenziare come "sia le violazioni dei diritti sia le violenze sono ben visibili dentro istituzioni come carcere e Cie, mentre in quei reparti diventano fisiologia oscura e occultata". Per questo, propone Manconi, sarebbe importante avviare una Commissione di inchiesta parlamentare per valutare e monitorare un fenomeno così diffuso. Firmatarie dell’appello e presenti alla conferenza anche le senatrici Nerina Dirindin, Manuela Granaiola e la deputata Marisa Nicchi. In Italia esistono trecentoventi servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc), e in trecento di questi è tutt’ora in vigore la pratica di legare i pazienti. Se non si vede con i propri occhi è difficile capire, e a questo scopo può aiutare lo straordinario lavoro della regista Costanza Quatriglio che con il suo 87Ore racconta, attraverso le immagini di alcune telecamere di videosorveglianza, la lenta agonia di Francesco Mastrogiovanni. Un maestro elementare, Mastrogiovanni, che nel 2011 ha perso la vita a seguito di una interrotta contenzione durata quasi quattro giorni, o Giuseppe Casu, che nel 2006 è morto dopo essere stato legato al letto per una settimana. Si tratta, quindi, di vicende estremamente attuali, di cui ci portano dolorosa testimonianza Grazie Serra, nipote di Mastrogiovanni e Natasha Casu, figlia di Giuseppe, entrambe firmatarie dell’appello. Per questo è difficile comprendere come sia possibile che l’ultima (e unica) ricerca scientifica promossa dal ministero della Salute sul tema risalga al 2004, soprattutto quando il risultato di quell’indagine dimostrava come si legasse in più del 80% dei reparti. Lo ha affermato, per l’ennesima volta e senza alcuna ambiguità, il Comitato Nazionale di Bioetica, che in un parere dell’aprile 2015 concludeva ribadendo "la necessità del superamento della contenzione, nell’ambito della promozione di una cultura della cura rispettosa dei diritti e della dignità delle persone, in specie le più vulnerabili". Certo, superare la contenzione sarà impresa ardua se è vero che nelle scuole di specializzazione in psichiatria viene insegnato a legare. È una questione culturale, e il processo di cambiamento può essere aiutato anche da piccoli, e grandi, gesti di disobbedienza da parte degli operatori, perché abolire questa pratica significa anche avere a cuore le sorti di chi è costretto a legare. Come affermava lo psichiatra Piero Cipriano nell’intervento conclusivo, parafrasando Basaglia, abolire la contenzione è un fatto urgentemente necessario, se non semplicemente ovvio. Per aderire alla campagna: etuslegalosubito@gmail.com, e su Facebook: "E tu slegalo subito". Quanto ci costa l’addio a Schengen di Marco Zatterin La Stampa, 22 gennaio 2016 Sei Paesi hanno ripreso i controlli e la difficoltà nella gestione dei profughi ha messo in crisi la libera circolazione. Il premier olandese: otto settimane per salvare il Trattato. Cominciamo in trasferta, col Fondo monetario. Quando furono aboliti i controlli alle frontiere interne dei Paesi europei, Washington informò il mondo che l’effetto positivo per l’interscambio comunitario sarebbe stato di 1-3 punti percentuali. Nell’ipotesi più conservatrice, ai numeri di oggi sono 28 miliardi di maggiori affari favoriti dalla possibilità di filar via senza fermarsi al confine, ma è una somma che potrebbe aver serenamente superato quota 50. Sono i soldi confluiti in una maggiore attività economica che potrebbero essere bruciati da un ritorno in campo dei doganieri. E anche se fosse verificata solo in parte, sarebbe comunque una bolletta salatissima. L’accordo di Schengen può sfumare davvero. Pressate dall’onda dei migranti in fuga dalle guerre e in cerca di una speranza, sei capitali hanno reintrodotto temporaneamente la vigilanza alle frontiere interne dell’Ue. Mancava da vent’anni. In assenza di soluzioni dai conclavi ministeriali che decidono la vita dell’Europa altri Stati potrebbe seguire l’esempio. Mark Rutte, premier olandese e guida di turno dell’Ue per questo semestre, avverte che restano un paio di mesi per salvare il patto che ci ha regalato la libera circolazione. Ammette anche di ragionare su un "Piano B", lo considera un’ultima risorsa ma ne parla spesso: una mini Schengen a cinque o sei, con la Germania che gli occorre per non far fallire il porto di Rotterdam, ma senza l’Italia che considera un colabrodo. Il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, assicura che la fine di Schengen sarebbe la fine dell’euro. Forse esagera. Però è certo che costerebbe un sacco di denari. A tutti. Basta qualche conto per capirlo. Il ripristino dei controlli riguarderebbe i cittadini privati come i trasporti commerciali che dovrebbero fermarsi a valichi e transiti. Quanto? "Dipende da cosa cercano - spiega Guntram Wolff, direttore della think tank Bruegel: se devono aprire tutti i Tir per verificare che non vi siano clandestini non è roba da pochi minuti". Juncker ha detto a Strasburgo che un’ora di ritardo equivale a un esborso extra di 55 euro per ogni veicolo. Ogni anno i veicoli che attraversano una frontiera sono circa 60 milioni. Se ognuno perde mezz’ora per farsi verificare, abbiamo già buttato al vento 1,6 miliardi, dato pure prudentissimo. I soli polacchi, che hanno appena eletto un governo euro-critico, mandano 3,1 milioni di Tir ogni dodici mesi in Germania: fermarli 30 minuti equivale a tassarsi di quasi 100 milioni. Impossibile stimare gli effetti sulle merci, soprattutto le deperibili. La frutta spagnola destinata alla Danimarca deve attraversare almeno quattro frontiere. Quante ore può perdere in un giorno congestionato? Si metterebbe a rischio il concetto di fatturato "just in time", si richiederebbe una revisione globale delle strategie di distribuzione. "I danni per la produzione sono un multiplo di quelli per i consumatori", immagina Wolff, dopo aver riferito che i transfrontalieri, cioè quelli che vivono in un Paese e lavorano in un altro, sono 1,7 milioni. "Per loro i controlli valgono fra i 3 e 4 miliardi l’anno", stima. Cifra che sale, sino a una forchetta col tetto a 5 miliardi, per i 200 milioni di cittadini che passano almeno una notte all’estero. Costi per il tempo e l’opportunità, soprattutto. Si aggiunge il conto degli Stati. Per vigilare sul ponte che porta a Malmö, la Danimarca spende 150 mila euro al giorno (fanno 50 milioni l’anno), senza contare che chi viaggia in treno (in 16 mila arrivano ogni giorno dalla Svezia) deve mettere in conto almeno mezz’ora di ritardo per lasciare che la sicurezza faccia il proprio lavoro. I tedeschi parlano di 100 milioni l’anno almeno per le loro nove frontiere, di nuovo un calcolo per difetto. Come tutti gli altri, i 10, i 30 e i 50 miliardi. Comunque vada sono tanti, minacciano un’economia continentale ancora debole e invocano alternative che non tocchino le grandi libertà e il benessere diffuso. Circoscrivere vite e affari rinunciando a Schengen sarebbe peggio che dichiarare una guerra vera e coordinata ai foreign fighters. Cioè a qualche migliaio di cittadini europei perlopiù schedati. Su 500 milioni che siamo. Il pericolo che corre l’Italia: migranti bloccati da noi senza varchi verso l’Europa di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 22 gennaio 2016 Il rischio per l’Italia è fin troppo evidente: tutti i migranti che arriveranno via mare rimarranno bloccati nel nostro Paese. Siamo infatti gli unici, insieme alla Grecia, a non poter chiudere uno dei confini più ampi, vale a dire il Mediterraneo. Ecco perché lunedì, durante la riunione dei ministri dell’Interno e della Giustizia che si svolgerà ad Amsterdam, il titolare del Viminale Angelino Alfano ribadirà che "la fine di Schengen rappresenterebbe la fine dell’Europa mentre cosa ben diversa è prevedere un rafforzamento dei controlli ai confini esterni dell’Unione che è il modo più efficace per salvare il trattato e dunque l’accordo tra gli Stati". I segnali che arrivano in queste ore non appaiono affatto positivi. Da giorni numerosi Paesi hanno annunciato la decisione di bloccare gli ingressi liberi ai propri confini introducendo nuovamente il controllo dei documenti. Una misura per tentare di fermare un flusso migratorio che continua a crescere e cerca ogni strada possibile per arrivare in Europa. Si tratta di migliaia e migliaia di profughi, moltissime donne con bambini, che fuggono dalla Siria, ma anche da terre più lontane, martoriate dalle guerre e dalle persecuzioni. Persone che hanno diritto all’asilo politico, come del resto aveva riconosciuto nei mesi scorsi la cancelliera tedesca Angela Merkel, quando aveva invitato gli stranieri ad andare in Germania. Una mossa ritenuta avventata sin da subito, che secondo gli analisti avrebbe spinto moltissimi profughi a mettersi in viaggio con il miraggio dell’accoglienza. L’Italia è stata certamente una delle mete privilegiate non soltanto da chi arrivava via terra, ma anche e soprattutto da chi ha scelto la via marittima. E adesso una nuova rotta rischia di aprirsi, anche prima che si decida di sospendere Schengen. È quella che passa per l’Albania e il Montenegro, strada alternativa che potrebbe essere scelta dagli scafisti per ricominciare a guadagnare sulla pelle dei disperati, proprio come avvenne quindici anni fa. L’Italia chiederà dunque di mantenere aperti i valichi, puntando proprio sul rischio di un’invasione che non sarebbe in grado di sostenere. Perché, come ribadisce Alfano, "la norma che prevede di sospendere il trattato fino a due anni in caso di flusso straordinario è un tema che fu lasciato aperto con lungimiranza, ma avere questa clausola non significa che sia un bene adoperarla, soprattutto in un momento delicato come quello che stiamo affrontando". Il nodo non appare comunque facile da sciogliere, anche perché i rapporti dell’Italia con i partner europei e anche con la Commissione guidata da Jean-Claude Juncker attraversano una fase di grave difficoltà e non è affatto escluso che questa ipotesi di ripristinare i controlli rappresenti una forma di pressione nei nostri confronti proprio per cercare di ottenere collaborazione su altri dossier. O comunque di isolare il nostro Paese, proprio come è già accaduto quando è stato chiesto di rivedere l’accordo di Dublino o la distribuzione dei profughi. Le case dei migranti marchiate con porte rosse "è l’apartheid inglese" di Enrico Franceschini La Repubblica, 22 gennaio 2016 A Middlesbrough e in altre città. Esplode la polemica Fa un errore nel tema, bimbo scambiato per terrorista. Le porte rosse come la "lettera scarlatta" della letteratura, ovvero come marchio di infamia. Oppure, peggio ancora, come la stella di David gialla con cui i nazisti identificavano gli ebrei. È la terribile accusa sollevata da un’inchiesta del Times di Londra, secondo cui la società privata che si occupa per conto del governo di fornire accoglienza ai rifugiati, inclusi i migranti arrivati dalla Siria, li fa deliberatamente alloggiare in abitazioni con una porta rossa, affinché possano essere identificati facilmente dall’esterno. Con il risultato che i profughi subiscono abusi, molestie, violenze. La compagnia responsabile nega. Il ministero degli Interni tuttavia esprime profonda preoccupazione e ha aperto un’indagine. Intanto il quotidiano londinese titola in prima pagina: "Apartheid nelle strade della Gran Bretagna". Di sicuro ieri non è stata una buona giornata per le autorità che devono far rispettare l’ordine in questo paese. I giornali hanno riportato un’altra notizia a dir poco raccapricciante. Un bambino musulmano di 10 anni, alunno di una scuola elementare del Lancashire, ha scritto per errore in un tema: "Vivo in una casa di terroristi". Invece di "terrorist house", voleva scrivere "terraced house", le case a schiera, tipiche del panorama urbano inglese. Lo sbaglio nell’ortografia gli è costato caro: gli insegnanti hanno chiamato la polizia, in conformità con la controversa legge anti-terrorismo introdotta nel 2015, gli agenti hanno interrogato il ragazzino, perquisito la sua abitazione e confiscato un computer, prima di accorgersi del malinteso. Il piccolo scolaro e la sua famiglia ne sono usciti traumatizzati. L’Associazione Musulmani Britannici parla di decine di casi del genere in tutto il paese e protesta contro lo stereotipo che vede in ogni musulmano un potenziale terrorista. L’apparente politica "delle porte rosse" sembra l’altra faccia della stessa medaglia. Forse anche peggiore, perché in questo caso non ci sono paure di attentati a rendere l’atteggiamento dello stato, se non giustificabile, almeno in parte comprensibile. Le case di Middlesbrough e altre località in cui vengono alloggiati i rifugiati (molti dei quali sono musulmani come il bambino ingiustamente sospettato di terrorismo per un errore di spelling) appartengono a Stuart Monk, un costruttore con un patrimonio di 175 milioni di sterline, assoldato per l’occasione dalla G4s, azienda privata che fornisce sicurezza pubblica, a pagamento s’intende (e che fu già al centro di uno scandalo per non avere assunto abbastanza guardie per le Olimpiadi di Londra del 2012). Su 168 case di rifugiati controllate dal Times, 155 hanno un portoncino rosso. I migranti interpellati dal quotidiano raccontano di porte imbrattate con escrementi o simboli del National Front, un movimento di estrema destra, insulti e minacce. E un ex-deputato laburista paragona la porta rossa alla stella gialla fatta indossare agli ebrei dai nazisti. Intanto, per affrontare l’emergenza migranti il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker chiede un prolungamento del vertice straordinario Ue di febbraio per approfondire il problema dei rifugiati. Mentre ieri la Macedonia ha chiuso la sua frontiera per i migranti provenienti dalla Grecia. Una misura temporanea, fa sapere Skopje, in attesa di risolvere problemi insorti sulla rete ferroviaria. Confische ai migranti anche in Baviera di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 22 gennaio 2016 Attacchi del governatore Seehofer (Csu) alla Merkel: ha fatto da calamita, ora metta un tetto come in Austria. Altri 12 morti nell’Egeo, 4 sono bambini. La Macedonia apre i confini per evitare moria di assiderati. Ha iniziato la Danimarca con un disegno di legge che andrà in votazione a fine mese nel Parlamento di Copenaghen, poi si è accodata la Svizzera e adesso la "moda" di sequestrare gli averi ai migranti come concorso alle spese di accoglienza ha contagiato due länder tedeschi: la Baviera e il Baden-Württemberg. Le cifre dei sequestri sono diverse ma il principio, che ricorda tanto i prelievi forzati operati dalle truppe del Terzo Reich agli ebrei, è lo stesso. Anche se la denuncia del quotidiano tedesco Bild non sembra aver provocato significative reazioni in una nazione dove il passato nazista è ancora sulle prime pagine dei quotidiani. Il ministro dell’Interno bavarese Joachim Hermann ha confermato candidamente che "i richiedenti asilo vengono controllati al loro ingresso nei centri di accoglienza su documenti, oggetti di valore e contanti. E questi ultimi possono essere requisiti se il valore supera i 750 euro". Nel vicino Baden-Württemberg ai migranti è invece possibile tenere solo fino a 350 euro. In Svizzera la confisca scatta oltre i mille franchi, circa 913 euro, mentre in Danimarca il prelievo statuale dovrebbe essere applicato a valori, inclusi oggetti preziosi, oltre i 1.300 euro. Nel contempo i danesi, sempre con l’obiettivo dichiarato di scoraggiare i migranti dal far rotta verso il paese della Sirenetta, che secondo le stime Ocse gode di uno degli standard di vita più elevati dell’Occidente, hanno pensato ieri di introdurre il maiale obbligatoriamente in tutti menù delle mense di scuole, asili e ostelli. La scelta obbligatoria per ora riguarda solo la città di Randers ma i politici danesi la difendono come un vessillo, un atto necessario a preservare le tradizioni alimentari di un paese a maggioranza luterano respingendo le accuse di islamofobia. Un consigliere della città, Frank Nørgaard, ha difeso il provvedimento del maiale obbligatorio in quanto questa carne sarebbe "un elemento centrale della cultura alimentare della Danimarca". Insomma, ai rifugiati toccherà pagare per avere, oltretutto, un cibo non halal, che non possono mangiare perché contrario alle loro prescrizioni religiose. Si tratta di gesti, segnali della tenuta democratica, o meno, della convivenza civile europea. Ai migranti medesimi interessano certamente di più le notizie che vengono dalla chiusura dei varchi d’accesso all’Europa. E da questo punto di vista, anche se continua la strage sull’Egeo, tra tante chiusure è da segnalare una timida apertura: quella della frontiera tra Macedonia e Grecia. Le autorità macedoni hanno infatti riaperto i passaggi frontalieri anche se soltanto ai richiedenti asilo che hanno fatto domanda per la Germania o l’Austria come destinazione finale. A Idomeni, sul confine con la Grecia sono attualmente accampate circa 1.700 persone con temperature che vanno anche a meno dieci e meno venti gradi e poco più di una coperta per difendersi. I rischi di una moria per assideramento, almeno un po’ imbarazzante, sono assai concreti. Le morti continuano per il momento soprattutto nel tratto di mare tra la costa turca di Smirne e l’isola greca di Lesbo. È lì che ieri mattina hanno perso la vita almeno 12 migranti, tra i quali quattro bambini. I primi tre facevano parte di un barcone, partito dal paesino di Foca, che si è ribaltato. Quattro adulti sono stati salvati dalla guardia costiera turca che ha impegnato nelle operazioni tre motovedette e un elicottero. Due erano donne, una in stato di ipodermia e l’altra con un braccio rotto. Sul versante greco la guardia costiera ha recuperato 73 migranti sbarcati a Lesbo. Tra loro, un bambino piccolo che non è riuscito a sopravvivere al freddo della traversata. Il contingente era composto da iracheni, siriani e afghani che avendo chiesto asilo in Germania e Austria potranno proseguire non appena identificati nell’unico hot spot funzionante, quello di Moria, mentre i pachistani del gruppo dovranno seguire un altro percorso per essere rimpatriati. La cancelliera tedesca Angela Merkel che a settembre ha aperto le porte ai siriani e ai profughi dei paesi in guerra, è sempre più oggetto di critiche per questo, anche dai suoi stessi colleghi di partito. In particolare il governatore della Baviera - uno dei due länder che ha introdotto le confische - Horst Seehofer, potente leader della Csu, l’ha attaccata ieri dalla città di Kreuth accusandola di aver creato una "forte attrazione magnetica" di profughi verso la Germania. Seehofer insiste perché il governo di Berlino metta un tetto ai rifugiati ammessi sul suolo tedesco, sul modello di quanto ha appena deciso la vicina Austria. Un modello che ora vorrebbero adottare anche i Paesi Bassi. Il premier olandese Mark Rutte ieri da Davos ha detto di essere disposto - "un accordo è un accordo" - a trovare posto a 6 mila rifugiati per alleggerire la pressione su Grecia e Italia. Secondo Rutte l’Europa ha al massimo 6-8 settimane per trovare una soluzione alla crisi dei migranti. Finora, in base ai dati aggiornati della Commissione, i posti "virtuali" per i ricollocamenti sarebbero 62 mila su 160 mila. Ma gli arrivi continuano. Turchia: Amnesty attacca Ankara "sprezzante uso della forza contro i kurdi" di Chiara Cruciati Il Manifesto, 22 gennaio 2016 Medio Oriente. La risposta di Erdogan: no al negoziato con il Pkk e magistratura contro i sindaci dell’Hdp, accusati di golpe. Probabile rinvio del negoziato siriano: l’Onu non sa ancora quali opposizioni invitare a Ginevra. Qualcuno si è accorto del massacro di civili kurdi: nel silenzio di Usa e Ue, ad accusare la Turchia è Amnesty International che in un rapporto pubblicato ieri analizza l’attuale campagna militare. "Una punizione collettiva" contro 200mila persone soffocate da coprifuoco, operazioni militari e assenza di servizi base, dall’acqua alla sanità. "Tra le vittime ci sono bambini, donne, anziani che non sono coinvolti negli scontri con le forze di sicurezza - si legge nel rapporto - Le operazioni di polizia sono caratterizzate dall’abuso di forza, incluse armi pesanti in quartieri residenziali. Le autorità turche mettono a rischio vite umane usando forza eccessiva in modo sprezzante". I casi si moltiplicano, i numeri parlano da soli: oltre 160 civili uccisi dalla fine di luglio. E chi è ancora vivo è costretto ad una vita sotto assedio, chiuso in casa, a volte accanto ai cadaveri dei propri cari, impossibili da seppellire a causa del fuoco ininterrotto da parte turca. Succede ovunque, a Cizre, Silopi, Diyarbakir, città in stallo dove ogni servizio si è fermato e scarseggiano i mezzi per sopravvivere, acqua potabile e cibo. Il presidente turco Erdogan fa orecchie da mercante e, forte dell’impunità dell’Occidente, si fa scudo con la lotta al Pkk. Mercoledì ha tuonato di nuovo e promesso un pugno di ferro ancora più brutale contro il popolo kurdo: il negoziato non sarà riaperto, il governo "liquiderà" il Pkk. Non solo non discuterà con il Partito Kurdo dei Lavoratori (di cui ieri l’esercito vantava di aver ucciso 610 combattenti dalla fine di luglio), ma neppure con l’Hdp, opposizione turca di sinistra democraticamente eletta ma accusata dal governo di essere portavoce dei "terroristi": "D’ora in poi né l’organizzazione separatista né il partito sotto il suo controllo saranno accettati come controparti. I loro sindaci, i loro comuni, i loro parlamentari risponderanno alla giustizia per quanto hanno fatto". Nella visione accentratrice di Erdogan tutti sono nemici: attivisti, civili, intellettuali, giornalisti. E ovviamente anche i rappresentanti dell’opposizione. Con una campagna repressiva senza precedenti la magistratura turca - burattino nelle mani autoritarie del capo Erdogan - ha aperto fascicoli di inchiesta contro 36 sindaci (alcuni già in custodia cautelare) e circa 50 consiglieri municipali dell’Hdp, con la folle accusa di tentato golpe. Il primo giudizio è già stato sfornato: il sindaco di Van sconterà 15 anni di prigione per sospetta appartenenza al Pkk. Questa è la Turchia plasmata da un Erdogan ormai fuori controllo. E a poco serve la timida proposta del commissario Ue all’Allargamento e alla Politica di Vicinato, Johannes Hahn, che mercoledì ha indicato nel "processo di pace (con il Pkk) la migliore opportunità per risolvere un conflitto costato già troppe vite". Serve a poco perché a soffocarne le parole sono i tre miliardi di euro promessi dall’Europa ad Ankara per bloccare i rifugiati e la necessità degli Stati uniti di avere la Turchia al proprio fianco a pochi giorni dal negoziato siriano. Siria, dialogo rinviato? A raffreddare gli accesi animi turchi sulla Siria sarà il vice presidente Joe Biden che domani incontrerà il premier Davutoglu e il presidente Erdogan: obiettivo è disegnare la comune strategia sul dialogo siriano, ancora traballante. Il tavolo di Ginevra tra governo e opposizioni dovrebbe aprirsi lunedì. Fino a mercoledì il segretario di Stato Kerry e il ministro degli Esteri russo Lavrov millantavano puntualità ma ieri l’Onu ha prospettato il probabile rinvio: uno o due giorni di ritardo per recapitare gli inviti alle parti. E poi si inizia? Difficile dirlo proprio a causa dei famigerati inviti. Ancora non è chiaro chi volerà in Svizzera, viste le distanze che restano tra l’asse Russia-Iran e il fronte Usa-Golfo-Turchia. Ieri Ankara tornava ad accusare la Russia di ostacolare il negoziato perché vuole al tavolo anche le Ypg, le unità di difesa dei kurdi siriani di Rojava, ma secondo Ankara terroriste perché legate al Pkk. Mosca (che ieri ha dispiegato navi da guerra lungo la costa siriana) risponde a tono accusando i turchi di inviare ad Aleppo armi e rinforzi ai gruppi islamisti al-Nusra e Ahrar al-Sham. Punta i piedi anche il governo di Damasco: fuori dal negoziato gli islamisti, da Ahrar al-Sham a Jaysh al-Islam, sostenuti dal Golfo. Proprio ieri, però, Riad Hijab, capo della commissione delle opposizioni nata a Riyadh a dicembre nel noto meeting delle opposizioni, ha nominato tra i capi negoziatori Mohammed Alloush, nuovo leader dei salafiti di Jaysh al-Islam (alleati dei qaedisti di al-Nusra). Così, mentre minacciano di boicottare il dialogo se Mosca ci infilerà il naso, le opposizioni moderate si presentano a braccetto con gruppi radicali pretendendo di dettare l’agenda. L’Iran fra i sorrisi di Rohani e la morsa del regime di Antonio Stango (*) L’Opinione, 22 gennaio 2016 In occasione della visita in Italia del presidente della Repubblica Islamica - che è come dire dello Stato Islamico - dell’Iran, Hassan Rohani, la macchina di propaganda di quel regime, presentata come "informazione" con la complicità di molti media europei e nordamericani, si impegna con nuovo vigore per occupare telegiornali e carta stampata esaltandone improbabili virtù e mascherandone fallimenti e crimini. Più sorridente del consueto per la fine della maggior parte delle sanzioni, grazie all’entrata in vigore dell’accordo sul nucleare, Rohani incontrerà politici e imprenditori che ignoreranno o faranno finta di ignorare alcuni tratti essenziali della sua storia: che per molti anni è stato segretario del "Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale", che ha promosso e guidato durissime ondate di repressione contro la società civile, che si è vantato pubblicamente più volte di avere ingannato gli interlocutori occidentali e che è stato membro del comitato incaricato di organizzare operazioni speciali, compresi atti terroristici in diversi Paesi. Nel tentativo legittimo di ricavare qualcosa di rilevante dal nuovo ciclo di relazioni internazionali, nonostante la crisi da eccessivo abbassamento del prezzo del petrolio provocata dall’annuncio di immissione sul mercato di grandi quantitativi di greggio iraniano, quegli stessi imprenditori e politici dovranno anche dimenticare il ruolo dell’Iran nell’esportazione del terrorismo e tenere per irrilevanti i dati sulle sistematiche violazioni dei diritti umani connaturate a quel regime, e che negli ultimi due anni si sono ancora intensificate e aggravate. In particolare, come documentato da Nessuno tocchi Caino, dall’inizio della presidenza Rohani si sono avute oltre duemila esecuzioni, con una tendenza in aumento negli ultimi mesi: in maggioranza per reati connessi al traffico o al consumo di droghe, in molti casi per attività di opposizione politica, per la vaga colpa di "moharebeh", cioè "inimicizia verso Dio", o semplicemente per comportamenti considerati immorali senza vittime, come rapporti omosessuali, adulterio o consumo di alcolici. Durante la trentesima sessione del Consiglio sui Diritti Umani dell’Onu, nel settembre 2015, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Zeid Ràad Al Hussein ha dichiarato che in Iran "il sempre maggior utilizzo della pena di morte, i timori sul diritto ad un giusto processo ed il continuo arresto di giornalisti, blogger e difensori dei diritti umani restano le prime cause di preoccupazione". In dicembre, una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha criticato l’Iran per le pene disumane come fustigazione e amputazioni, per l’aumento delle esecuzioni anche pubbliche e per le esecuzioni di minorenni. L’Iran, del resto, pratica anche l’escissione del globo oculare, applicando letteralmente il principio dell’occhio per occhio, per chi abbia provocato l’accecamento di qualcuno. Secondo Ahmed Shaheed, Inviato Speciale dell’Onu sui diritti umani in Iran, durante la presidenza Rohani "la situazione complessiva è peggiorata" e il governo iraniano "dimostra un ostinato disprezzo sia per la dignità umana che per le leggi internazionali sui diritti umani". Le autorità in Iran, come ricorda Shaheed, "continuano a imprigionare membri della società civile che esprimono critiche nei confronti del governo o che affermano pubblicamente cose in contrasto con le comunicazioni ufficiali. La posizione del governo è che giornalisti, avvocati o attivisti per i diritti umani non vengono arrestati per il loro attivismo in sé, ma per "reati contro la sicurezza nazionale". Questa logica ha condotto alla detenzione di più giornalisti che quasi in qualsiasi altro Paese al mondo, spesso con imputazioni che non rispettano i requisiti internazionali per i limiti giustificabili alla libertà di espressione, come "propaganda contro il sistema", "assemblea e associazione contro il sistema" e "insulto a personalità del governo". La perdurante discriminazione delle donne e il rigido sistema di segregazione fra i sessi completano il quadro della repressione interna. Emblematico il caso della giovane disegnatrice Atena Farghadani, detenuta per una vignetta contro membri dell’Assemblea islamica consultiva, che nel settembre scorso è stata anche imputata di "relazione sessuale illegittima" e "condotta indecente" per avere, in prigione, stretto la mano al suo avvocato. Chi dunque a Roma, per esigenze di Stato o per prospettive di affari, avrà - se maschio - la discutibile opportunità di stringere la mano di Rohani, ricordi che il suo essere un hojatoleslam (nell’islam sciita, un rango clericale di poco inferiore a quello di ayatollah) non ne fa affatto un rispettabile sant’uomo, ma ne evidenzia la piena appartenenza al sistema di potere di una dittatura spietata, arroccata in una formula politica teocratica. I riflettori illumineranno i suoi sorrisi; ma sarebbe ormai il tempo di puntarli su quei milioni di iraniani che del regime sono vittime, e soprattutto su quanti, con un coraggio esemplare, lo sfidano consapevoli di rischiare la propria vita. A loro dobbiamo rispetto, attiva solidarietà e gratitudine: anche perché i loro ideali di libertà sono gli stessi su cui altre generazioni, delle quali dovremmo cercare di essere degni, hanno fondato la nostra Repubblica e l’Unione europea. (*) Antonio Stango è membro della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo, segretario del Comitato Italiano Helsinki per i diritti umani e coordinatore del Congresso mondiale contro la pena di morte per Ensemble Contre la Peine de Mort, con sede a Parigi.