Giubileo: misericordia per tutti, anche per i più cattivi di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 21 gennaio 2016 Il 24 settembre 2015 avevamo lanciato una specie di appello ai funzionari del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria: ABBIATE IL CORAGGIO DI DECLASSIFICARLI. Ci riferivamo ai 35 detenuti dei circuiti di Alta Sicurezza di Padova, che rischiavano di essere trasferiti perché le sezioni AS1 e AS3 stavano chiudendo, e che però erano stati "congelati" a Padova in seguito alle nostre proteste. Da aprile 2015, quando è iniziato questo confronto duro e importante sui circuiti di Alta Sicurezza, alcune cose sono cambiate: - Questi 32 detenuti (qualcuno è stato trasferito) stanno vivendo a Padova in una specie di "normalità", andando a scuola con i detenuti comuni, frequentando la redazione di Ristretti Orizzonti e il laboratorio di scrittura, confrontandosi con gli studenti delle scuole che entrano in carcere con il nostro progetto "A scuola di libertà", studiando all’Università, facendo una vita che, come ci chiede l’Europa, deve assomigliare sempre di più alla vita libera. Cosa che non succede nelle altre carceri dove potrebbero essere trasferiti da un giorno all’altro - In questi mesi sono stata autorizzata a fare un’inchiesta nelle sezioni AS, soprattutto AS1, sono stata a Parma, Opera, Sulmona, Secondigliano, Catanzaro, Voghera, ho visto sezioni "morte" e sezioni un po’ più dignitose, ma sempre sezioni-ghetto, perché da nessuna parte avviene il confronto vero, profondo, difficile che sperimentiamo a Padova. - Nel frattempo, gli Stati Generali sull’Esecuzione Penale indetti dal Ministro hanno affrontato con forza il tema dei circuiti di Alta Sicurezza nel Tavolo 2 di cui ho fatto parte: è stata una grande occasione di approfondire temi complessi e lavorare a una autentica innovazione dell’esecuzione delle pene. Quello che ne è uscito a grande maggioranza è un percorso di graduale superamento dei circuiti, ritenuti non più idonei a far scontare la pena nel rispetto dell’articolo 27 della Costituzione. - Nel carcere di Opera, al Congresso di Nessuno Tocchi Caino, il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, dottor Santi Consolo, si è nettamente pronunciato contro l’ergastolo ostativo, facendoci sperare che quel suo importante pronunciamento apra una nuova stagione al DAP, che renda sempre più marginale la detenzione nelle sezioni-ghetto dell’Alta Sicurezza. - Per finire, il Papa ha indetto il Giubileo e ha considerato le celle delle carceri Porte Sante, a Padova è stato il Vescovo ad aprire la Porta Santa del Due Palazzi. Anche per chi, come me, non è credente, è stato un momento significativo perché, in una società sempre più rabbiosa e incattivita, il Papa ha avuto il coraggio di dare dignità e grandezza alle miserie del carcere. Sono passati 10 mesi dall’inizio della vicenda che ha visto bloccati a Padova questi 32 detenuti, prima con la speranza di ottenere finalmente, dopo anni di permanenza nei circuiti, la declassificazione (non si tratta della libertà, ma solo del passaggio da una sezione di Alta Sicurezza a una sezione di Media Sicurezza), poi con l’angoscia di essere da un momento all’altro trasferiti e di perdere così quel po’ di vita vera che erano riusciti a costruirsi. Quello che chiediamo è che l’anno del Giubileo riservi un po’ di misericordia per questi 32 detenuti, che hanno ormai ampiamente dimostrato di saper vivere nelle sezioni comuni e di aver voglia di distaccarsi davvero dal loro passato e di affrontare finalmente un percorso di crescita e di cambiamento. Qualcuno avrà finalmente il coraggio di DECLASSIFICARLI? Il progetto di confronto tra le scuole e il carcere veramente mi ha aperto la mente e il cuore di Tommaso Romeo Ristretti Orizzonti, 21 gennaio 2016 Sono detenuto interrottamente dal 1993, condannato all’ergastolo, sono stato sempre nei regimi speciali o nei circuiti AS (Alta Sicurezza). Quasi tre anni fa mi capita un colpo di fortuna e dopo venti anni di ghettizzazione in quelle sezioni grazie ad un direttore illuminato (dott. Pirruccio) che credeva nel percorso di rinserimento per tutti i detenuti ho potuto frequentare la redazione di Ristretti Orizzonti. Comincio a stare a stretto contatto con i detenuti comuni sia italiani che stranieri, seduto al tavolo della redazione comincio a parlare di argomenti che prima non avevo mai trattato, anche perché a stare confinato nelle sezioni AS c’è poco da parlare, gli argomenti sono sempre gli stessi e poco costruttivi. Ma la cosa che mi ha fatto fare passi da gigante è stato il potermi confrontare con la società esterna perché a quel tavolo si sono seduti con noi politici, magistrati, giornalisti, scrittori, e in particolare il progetto di confronto tra le scuole e il carcere veramente mi ha aperto la mente e il cuore. Il confrontarmi ogni settimana con centinaia di studenti è emozionante, con le loro domande che ti inchiodano a quella sedia, e rispondergli mi ha fatto sentire per la prima volta dopo tantissimi anni vivo e utile alla società. In questi due anni ho anche partecipato a convegni con centinaia di persone esterne, nell’ultimo convegno sono anche intervenuto davanti ad una platea di settecento persone e ancora oggi non so dove ho trovato il coraggio. Quasi un anno fa ci comunicano che la nostra sezione AS1 verrà chiusa e di conseguenza saremo trasferiti in altri istituti di pena e così comincia la nostra battaglia per poter rimanere in questo istituto e continuare il nostro percorso di reinserimento. Per la prima volta scopro il significato della parola "declassificazione", che in parole povere significa che sarei collocato nelle sezioni comuni, e di conseguenza potrei rimanere nel carcere di Padova. A maggio 2015 presento l’istanza di declassificazione ed ancora ad oggi non ho avuto risposta, questa attesa è logorante perché un rigetto significherebbe spazzare via tutto quello di positivo che ho fatto in questi due anni. Al detenuto che dimostra di impegnarsi in un percorso di reinserimento credo che dovrebbe essere garantita dalle istituzioni la possibilità di proseguire in questo suo cammino, in caso contrario sarà una sconfitta per entrambi, perciò mi auguro che chi ha in mano il nostro futuro trovi un po’ di coraggio di investire anche su quei detenuti marchiati come pericolosi per sempre. Mi sento come quell’animale che tenuto in cattività ha paura a uscir fuori dal suo perimetro di Agostino Lentini Ristretti Orizzonti, 21 gennaio 2016 Sono trascorsi più di nove mesi dalla data in cui ho chiesto di essere declassificato dalla sezione A.S.1 e sono ancora in attesa, con l’ansia di non sapere che fine farò, dove andrò. Eppure in questi quasi dieci mesi di permanenza in questa sezione ho continuato il mio percorso, mi è stata data la possibilità di studiare e mi sono diplomato, mi sono iscritto all’università, sono stato inserito stabilmente nella redazione di Ristretti Orizzonti, ma la cosa più importante è l’aver vissuto con i detenuti comuni. In nome della sicurezza infatti viene normalmente vietato ogni contatto fuori dal circuito AS, eppure l’aver vissuto momenti di vita quotidiana con i compagni dei reparti comuni è stata un’esperienza nuova, serena. Proprio con la Redazione poi ho potuto provare l’esperienza di confronto con gli studenti nel progetto "scuola-carcere" e anche in questo modo mi sono sentito più vicino alla società; l’essere messo davanti alle proprie responsabilità fa sì che la persona prenda più consapevolezza del proprio vissuto e guardi il futuro in modo diverso. Mi rendo conto che anche nel modo di relazionarmi sono cambiato. Non nascondo che una declassificazione potrebbe portarmi un po’ di timore, come quell’animale che tenuto in cattività ha paura a uscire fuori dal suo perimetro, ma sono sicuro che mi darebbe più serenità, soprattutto avrei la possibilità di avere accesso al lavoro e smetterei di pesare dopo più di venti anni sulle spalle della mia anziana madre. Già, la mia anziana madre... grazie alla Direzione in questo istituto posso effettuare la video-chiamata con Skype, per molti di noi è uno strumento utile per poter vedere la propria famiglia, che dopo una lunga permanenza in carcere lontano da casa riusciamo a vedere raramente, anche perché le risorse economiche diminuiscono e le possibilità di fare colloqui si annullano. Anche se non si ha modo di poter sentire il contatto fisico, almeno attraverso Skype si può vedere la madre, la moglie o il famigliare che non ha modo di venire a colloquio, non è una cosa da poco poter vedere la propria famiglia. I rapporti con la famiglia andrebbero valorizzati per tutti i detenuti, perché una volta finita la pena il primo reintegro nella società è proprio con loro, e a chi nel nome della sicurezza vorrebbe vietare questa possibilità dico che non esiste uno strumento così sicuro e controllabile come la video-chiamata Skype in quanto visivo e registrato. Perché non poterlo estendere e valorizzare per tutti i detenuti? Ecco, dopo aver sperimentato la mia esperienza in mezzo ai detenuti comuni, mi chiedo perché dovrei essere trasferito in un’altra sezione di Alta Sicurezza dove non troverei nessuna di queste opportunità; le persone cambiano se gli viene data la possibilità di cambiare e di integrarsi. Le mie giornate sono diventate solo un filo sottilissimo di speranza di Demetrio Sesto Rosmini Ristretti Orizzonti, 21 gennaio 2016 Esci da questo guscio, scrivi, Demetrio, e allora inizio a raccontarmi, mi sembra di ritrovarmi imbottigliato, mi vedo come un riccio in mezzo ad una tempesta di sabbia… devo esprimere i miei pensieri, devo superare la mia balbuzie, devo scrivere e far emergere il lato positivo che c’è in me, non pensando a quel passato che era pieno di aridità. Adesso sono in un’altra prospettiva, dove mi circonda la luce, quella pura, pulita, ho superato momenti tragici, ora con l’aiuto di persone che hanno creduto in me sono arrivato ad essere un’altra persona, con lo studio, che è il maestro della conoscenza, e con la cultura, che è la base fondamentale per un essere umano per vedere il mondo come è veramente, senza barriere, e ritrovare la padronanza di se stesso. Devo far venir fuori con questo scritto quello che sono, quello che sono veramente adesso, perché così posso uscire da quel ghetto infernale dove in tempi lontanissimi mi sono ritrovato a vivere. La vita diversa che faccio ora mi dà una nuova forza, anche se dal 4 Aprile 2015, quando ci è stato detto che la sezione di Alta Sicurezza dove mi trovo verrà chiusa perché il Ministero ha stabilito che il carcere di Padova diventerà tutto di Media Sicurezza, le mie giornate sono diventate solo un filo sottilissimo di speranza, giorno dopo giorno, con l’aiuto della grande fede che porto in me e con la mia forza, ma anche il calore immenso e umano che mi circonda in questo istituto ed è per me il sostegno per andare avanti. Qui infatti frequento le varie attività all’interno del carcere, la redazione di Ristretti Orizzonti, il corso di scrittura, sono iscritto all’Università di Padova alla facoltà di Storia con ottimi risultati, frequento la catechesi, lavoro come "rattoppino" nel laboratorio di cucito, dove abbiamo partecipato a diverse iniziative di beneficenza, facendo donazioni a Telefono Azzurro, tramite l’associazione Passione Patchwork che ci sostiene in questo progetto, donando delle coperte all’orfanotrofio di Dolo, partecipando alla mostra La Creatività Libera, che si è svolta a Piove di Sacco, con la collaborazione delle associazione di volontariato fra cui gli Operatori Carcerari Volontari (O.C.V). Adesso sto aspettando la declassificazione che deve essere decisa dal Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria, che vuol dire passare da un circuito di Alta Sicurezza dove mi trovo, alla Media Sicurezza sempre qui a Padova per non interrompere il percorso che sto svolgendo. Dopo tutto non sto chiedendo la libertà, bensì di continuare il mio percorso, in fondo sono detenuto dal 4 dicembre 1990 ininterrottamente e sono 25 anni. sono dentro da quando ero ancora un ragazzo, e nemmeno avevo assaporato la vera vita…. Ero un po’ come Rosso Malpelo, perché ho studiato in carcere e leggendo la letteratura mi sono rivisto in questo racconto realistico, perché lui era in una miniera, io ero in una lavorazione di ricostruzione di pneumatici… certe volte ero nero come il carbone, dato che la raspatura delle gomme sprigionava granelli di pneumatico. Ora voglio dire, a chi ha il potere di declassificarmi, di non aspettare ancora per fare questo passo dopo 13 anni di circuiti di Alta Sicurezza (E.I.V. e AS1), dove ho mantenuto un comportamento esemplare, il 41 bis mi è stato revocato nel lontanissimo 2002, io penso che ho dato dimostrazione di voler cambiare. Quando sono stato arrestato ero giovanissimo, adesso mi ritrovo con i miei 51 anni, sono davvero quasi una vita 25 anni di carcere. Sono stanco di respirare una vita insapore, senza senso di Giovanni Zito Ristretti Orizzonti, 21 gennaio 2016 Oggi qualsiasi condanna inflitta ad una persona non basta mai, non è così importante capire quale sia stata la causa o l’errore del soggetto, ma infliggere quanto più possibile dolore e sofferenza. Se si prende una condanna di 10 anni di carcere si pensa che è poca, se danno una condanna di 20 anni non si rimane soddisfatti, e quando la pena diventa di 30 anni si dice: tanto prima o poi uscirà. Perché anche quando danno l’ergastolo sono convinti che la pena non possa mai bastare? la mia domanda è, ma quanto deve essere una pena giusta? Ormai nel nostro Paese ci siamo fatti l’idea che più la condanna è alta e più viviamo sogni sereni, ma la cosa più assurda è quella di non capire che in questo terreno "sconsacrato" che è il carcere possono finirci tutti, dai buoni ai cattivi. Vorrei che si riflettesse su un punto: prendete il giorno più brutto della vostra vita e moltiplicatelo per dieci anni, in cui siete isolati e soli, questa è la galera. La pena deve rendere giustizia non solo a chi ha subito il reato, ma anche alla persona detenuta, perché se no diventa ingiustizia e questo lo prevede la nostra Costituzione. Ma sembra che ormai tutto questo non conti più nel nostro Paese, la Corte Europea ha sanzionato l’Italia più volte per trattamenti disumani e degradanti. E invece quello che è importante non è tanto la quantità della pena inflitta, ma il modo in cui la si sconta, perché la condanna deve tendere al recupero del soggetto. E il soggetto viene recuperato solo quando si applicano tutte le regole previste dal nostro Ordinamento Penitenziario. Sarò pure "cattivo" ma anche io sono un essere vivente e non posso respirare una vita insapore, senza senso, devo avere la possibilità di rifarmi una vita, ho il diritto di riscattarmi, di continuare ad amare ancora, di ricucire lo strappo causato rispettando quelle regole da me violate. Vivere in carcere 10/20/30 anni ti fa diventare un vegetale. Io per esempio non so come sia un telefonino, non l’ho mai visto se non nella pubblicità alla tv; in questo istituto per la prima volta vedo e scrivo con un computer, ho impiegato mesi per capirne le basi. E sono 20 anni che non vedo un bicchiere di vetro o un piatto di porcellana, ho perso davvero il senso della vita quotidiana; se dovessi uscire un giorno da queste mura, mi perderei, perché non saprei dove andare, non ho proprio orientamento, non so cosa possa significare essere libero, il mondo che conosco più di casa mia è il carcere. Perché non vedo altro che sbarre e cemento ogni santo giorno, in carcere non c’è una vita da vivere. Ma almeno qui a Padova un po’ di vita l’ho conosciuta, non vorrei che ora mi rubassero anche questa piccola possibilità di trovare un po’ di umanità. Che senso ha un trasferimento adesso che sento di aver ripreso a vivere? di Ignazio Bonaccorsi Ristretti Orizzonti, 21 gennaio 2016 Mi chiamo Ignazio Bonaccorsi, sono detenuto presso la Casa di Reclusione di Padova, ubicato nella sezione A.S.1. Sono detenuto da oltre 24 anni di cui dieci trascorsi in regime di 41bis, da quando poi mi è stato revocato il 41 bis sono stato trasferito su e giù per l’Italia fino a quando quattro anni fa mi portarono a Padova, dove ho iniziato un serio percorso. Mi sono dedicato soprattutto allo studio, infatti mi sono diplomato e da quest’anno sono iscritto alla facoltà di Storia di Padova, frequento inoltre da più di due anni un percorso catecumenale e partecipo al gruppo di discussione di Ristretti Orizzonti. Mi chiedo quindi quale senso ha un trasferimento adesso che sento di aver ripreso a vivere e a finalizzare il mio tempo a cose costruttive, che senso ha trasferirci in istituti dove non è concesso nulla se non oziare, che per me significherebbe tornare indietro negli anni e perdere tutto ciò che ho costruito finora? Il motivo di questa mia lettera quindi è diretto a far riflettere chi di competenza perché da quando dieci mesi fa ci hanno comunicato l’imminente trasferimento di tutti i detenuti A.S., ognuno di noi si è adoperato a chiedere al DAP la declassificazione nel circuito di media sicurezza, ad oggi però nessuna risposta ci è stata data, viviamo con l’ansia di conoscere il nostro destino e con noi i nostri familiari, che non possono neanche organizzarsi settimane prima per effettuare i colloqui, siamo in una situazione di assoluto stallo e di disagio. Siamo persone che dalla tragedia della nostra vita hanno provato a ricostruirsi di Carmelo Vetro Ristretti Orizzonti, 21 gennaio 2016 L’Italia è un paese conosciuto al mondo per le sue infinite bellezze, per menti eccelse, per l’architettura, l’impero Romano è stato creatore del diritto comune imitato in tutta Europa e arrivato fino ai nostri giorni. Oggi invece si assiste, per quanto riguarda il mondo carcerario e le pene, ad una sorta di arretratezza davvero sconvolgente, adesso è l’Unione Europea che ci detta le linee guida su come gestire queste situazioni. La vivibilità in carcere è censurabile da tutti i punti di vista, in alcuni casi non esistono forme di rieducazione, non si curano gli affetti verso i nostri cari. Non capisco poi quale sia il fine di trasferirci fuori dalle nostre regioni se non quello di compromettere qualsiasi rapporto con i nostri familiari, e quando qualcuno chiede un permesso di necessità per "avvicinamento colloqui" si assiste perennemente a rigetti di tali richieste, e bisogna pure che qualcuno cominci a riflettere su questa questione. Ma quando un padre non vede un figlio o un genitore anziano da anni e anni, quale altra ragione deve esserci perché un detenuto ottenga un permesso di necessità? Eppure nonostante le continue delusioni che viviamo e gli inevitabili momenti di solitudine, continuiamo a sperare e a lottare affinché il nostro futuro sia migliore. Chi dice che il carcere non cambia un uomo non conosce questa realtà: siamo persone che dalla tragedia della nostra vita hanno provato a ricostruirsi coccio dopo coccio attraverso lo studio, l’impegno quotidiano ad ingegnarci nel modo più proficuo e soprattutto abbiamo imparato ad apprezzare il valore della libertà e quanto è importante donare agli altri tutto il bene che vorremmo fosse fatto a noi stessi. Questi siamo noi, detenuti "sospesi", che viviamo nella sofferenza quotidiana, ci impegniamo come ogni giorno, nonostante da dieci mesi siamo in balia di un possibile trasferimento per via della chiusura dell’A.S. di Padova, consapevoli che andando via di qua perderemo quello che di buono e umano in questo carcere abbiamo trovato. Un altro tema fondamentale per la rieducazione è l’affettività che deve essere perseguita in tutte le forme possibili, aumentando il numero delle telefonate, introducendo stabilmente per tutti i detenuti, senza esclusione alcuna, i colloqui tramite Skype e permettendo i colloqui con persone terze (e non solo con i propri animali domestici). Oggi ho trent’anni, ho vissuto il 41bis e da due anni e mezzo sono nella sezione AS1, vivendo di persona questo mondo, adesso mi accorgo ancor di più di quanta superficialità, a volte ipocrisia, ci sia, di quanto poco la gente conosce questa realtà e quanto velocemente però giudica o condanna senza immedesimarsi, neanche per pochi minuti, senza capire cosa significa svegliarsi e convivere giorno dopo giorno con un mondo così irreale e tragico come è il carcere. Di certo ci saranno correnti di pensiero che sostengono che chi sbaglia deve restare in galera quanto più possibile e in certi casi anche per tutta la vita, ma la pena deve avere come scopo unico quello di far capire alla persona il suo eventuale errore, facendole conoscere con quale strumento raddrizzare la propria vita. Si può anche cambiare, quando qualcuno ti tende la mano di Aurelio Quattroluni Ristretti Orizzonti, 21 gennaio 2016 Mi chiamo Aurelio Quattroluni e sono detenuto da vent’anni con una condanna all’ergastolo ostativo. Da circa tre anni mi trovo nel carcere di Padova, dove ho ritrovato la voglia di "sopravvivere"; dico questo perché è stato l’unico istituto a ridarmi uno stimolo di vita. Sono assegnato al circuito AS1 da circa undici anni e prima ero in regime di 41bis. Dieci mesi addietro ci è stato comunicato che l’alta sicurezza sarebbe stata trasferita altrove, tutti abbiamo esternato la nostra delusione e la grande amarezza nel dover andar via e nel perdere ciò che abbiamo costruito giorno dopo giorno con fatica e impegno. Molte persone si sono battute per la nostra situazione, ma tutto è stato congelato fino ad oggi, questa lunga attesa sicuramente non ci aiuta e non ci dà serenità. Per noi è difficile capire perché il DAP non voglia concedere la declassificazione a nessuno dei trentadue detenuti rimasti, visto che svolgiamo quasi tutte le attività, scolastiche e culturali, con i detenuti comuni. Questo a mio modesto parere mostra che si può anche cambiare quando qualcuno ti tende la mano, come nel caso del carcere di Padova. Allo stesso modo vorrei chiedere al DAP un gesto di umanità, concederci la declassificazione, che non vuol dire uscire dal carcere, ma per noi sarebbe tanto per continuare a sentirci utili, anche considerato che siamo nell’anno Santo e anche il Papa invoca da tempo pace e perdono. Qualora non vogliate darci questa possibilità, vi prego di decidere sul nostro futuro, anche se la risposta sarà negativa, e di non farci più sperare che i miracoli esistono. Io proprio non riesco a capire perché non vengo declassificato di Antonio Papalia Ristretti Orizzonti, 21 gennaio 2016 Mi chiamo Antonio Papalia, condannato alla pena dell’ergastolo, sono uno dei 24 detenuti sospesi nella sezione AS1, della Casa di Reclusione di Padova. Da circa un anno il DAP ha deciso che la sezione AS1 di questo istituto dev’essere chiusa, e tutti noi se non declassificati dovremmo essere trasferiti altrove, vanificando tutto il percorso rieducativo fino ad oggi fatto. Il sottoscritto è detenuto dal lontano 1992, cioè da 24 anni, trascorsi i primi 6 anni in un reparto speciale di San Vittore Milano, poi per 8 anni al regime del 41 bis, revocato nel 2006 con la motivazione che il sottoscritto non ha più collegamenti con la criminalità esterna, e da circa 10 anni mi trovo nella sezione AS1 (ex e.i.v), in queste sezioni fin da subito ho cercato di partecipare all’opera rieducativa, lavorando quando mi è stata data la possibilità. Mi trovo in questo istituto dal giugno 2009, e da subito ho iniziato a frequentare un corso di scrittura, per poi iscrivermi alle scuole superiori Einaudi-Gramsci di Padova studiando con impegno, per 5 anni, infatti nel 2015 mi sono diplomato in ragioneria, e mi sono iscritto all’università di Padova alla Facoltà di Storia Lettere e Filosofia, in questi anni ho scoperto un talento per scrivere poesie, testi teatrali e favole, ho pubblicato due libri uno di poesie e uno di favole e commedie, partecipo ai vari concorsi organizzati dagli istituti penitenziari ed a quelli esterni, più volte sono stato premiato per essere arrivato tra i primi tre, tutto ciò lo devo al carcere di Padova che mi ha dato la possibilità di studiare. Frequento assieme agli altri detenuti comuni in pianta stabile la redazione di "Ristretti Orizzonti" e partecipo agli incontri con gli studenti, e ai vari convegni organizzati, senza mai creare alcun problema. A questo punto mi domando: se posso frequentare la redazione di "Ristretti Orizzonti", gli incontri con gli studenti e i vari convegni assieme ai detenuti comuni, perché non vengo declassificato? Da quasi due anni sto frequentando incontri di formazione cattolica del cammino neocatecumenale, con un gruppo di fratelli esterni. Da quando sono in questo istituto ho potuto effettuare più colloqui con i miei familiari sia visivi che telefonici, che mi hanno aiutato a mantenere più rapporti affettivi, cosa che in altri istituti non facevo, se ciò avviene, questo è dovuto alla sensibilità dell’ex direttore Salvatore Pirruccio e alla redazione di "Ristretti Orizzonti" che si è battuta per ottenere più colloqui e telefonate. Nel caso di un mio trasferimento il mio trattamento verrebbe a regredire, vanificando anche tutto l’impegno e il tempo che hanno speso volontari, professori e quanti si sono impegnati per la mia persona, in quanto si verrebbe a interrompere il mio percorso trattamentale, poiché in altri istituti dovrei iniziare tutto da capo, e il rapporto con i familiari si verrebbe ad indebolire. Io proprio non riesco a capire perché non vengo declassificato, visto che è già stato accertato che non ho collegamenti con le organizzazioni criminali esterne, inoltre nella sintesi dell’osservazione datata 23-09-2011e in quella dell’11-12-2014 il Gruppo d’osservazione scrive "Da quanto emerso dall’osservazione condotta finora e considerata la lunga detenzione subita, si ritiene opportuno favorire la declassificazione per trasferire il detenuto in sezione comune dalla quale poter accedere a esperienze di lavoro continuativo". Ma nonostante ciò ancora mi trovo in questa sezione AS1. Quant’è che devo rimanerci ancora? È dal 27 gennaio 2014 che ho fatto richiesta di declassificazione e a tutt’oggi non ho avuto risposta. Chiedo a chi di dovere di volermi declassificare in modo da poter proseguire il mio percorso rieducativo già da anni intrapreso, qualora mi si ritenesse non meritevole di questa declassificazione chiedo quanto meno che mi sia data una risposta e non mi lascino sospeso senza conoscere qual è il mio destino e quale è la mia prossima destinazione. Riforme, un Paese che si può cambiare di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 21 gennaio 2016 E così il Paese irriformabile, l’eterna palude, la landa desolata delle bicamerali, in realtà si può riformare. Ieri sera il Senato ha approvato di fatto la propria estinzione, o meglio la trasformazione in qualcosa di più piccolo e, si spera, più efficiente. Il percorso è stato molto diverso da quello tracciato sulla carta: le nuove norme costituzionali non nascono da un ampio accordo tra destra e sinistra, come sarebbe stato auspicabile, ma da un compromesso interno alla maggioranza, con un aiutino esterno di dubbia valenza politica. Sono diverse sia da quelle che voleva il governo, che pensava all’elezione di secondo grado di senatori dai poteri ridotti al minimo, sia da quelle che chiedeva la minoranza interna del Pd. Molti nodi restano da sciogliere: i criteri di nomina dei senatori; il rapporto tra le Regioni e il nuovo Senato, che rischia di diventare un incubatore di nuovi conflitti anziché una camera di compensazione tra i poteri. Occorre ancora attendere il voto definitivo della Camera e poi il referendum, che sarebbe sbagliato trasformare in un giudizio popolare su un uomo; come se la riscrittura della Costituzione fosse un fatto personale e contingente. Fin da ora, però, si può dire che una democrazia considerata immobile, dopo decenni di discussioni, ha dimostrato di poter adeguare le proprie regole alla rapidità richiesta dal tempo accelerato e drammatico che ci è dato in sorte. Inutile nascondere che il voto di Palazzo Madama arriva in un momento molto difficile per l’Italia. Il Paese è scosso da una tempesta borsistica e finanziaria di violenza inattesa, da una crisi bancaria su cui è urgente intervenire, da uno scontro con l’Europa che i toni lirici di Juncker hanno rinviato più che risolto; e da un confronto duro con il vero leader del continente, Angela Merkel. La capacità di riformare le istituzioni e il mercato del lavoro rafforza la credibilità e il peso specifico del nostro Paese. Ma non giustifica un atteggiamento di rottura da cui abbiamo tutto da perdere. L’Europa nordica del mini-euro e della mini Schengen, di cui si comincia a discutere seriamente anche a Berlino, ci taglierebbe fuori. Se le difficoltà interne della cancelliera porteranno a un cambio della politica tedesca, come hanno chiesto in una lettera molto esplicita 44 parlamentari dell’ala dura della Cdu, questo non andrà nella direzione sollecitata da Renzi, ma porterà a minore solidarietà, minore condivisione dei rischi, minore ripartizione dei migranti. Un Paese che sa fare le riforme può a maggior ragione dialogare con la Merkel e con Juncker, mostrando rispetto e facendosi rispettare. Perché, se è vero che l’Italia non ha alcun interesse a perdere contatto con l’Europa a trazione tedesca, è vero pure che l’Europa perderebbe forza, senso e missione isolando l’Italia; proprio mentre l’Est è in piena deriva nazionalista, e sui confini occidentali dell’Unione la Spagna sembra aver imboccato la via portoghese che conduce a un governo delle sinistre tradizionali e populiste in chiave anti Berlino e anti Bruxelles. Come sempre, i raffronti con il passato non aiutano a capire. È vero che l’Europa e la Merkel ebbero un ruolo decisivo nella caduta di Berlusconi del novembre 2011, molto citata in questi giorni; ma quel governo non aveva più la maggioranza in Parlamento (per quanto non fosse mai stato sfiduciato), si era mostrato incapace di fare le riforme, a cominciare da quella delle pensioni, e doveva fronteggiare una situazione di pre fallimento, con lo spread oltre i 500 punti. Se una lezione va tratta dagli avvenimenti del 2011, è che in una fase tanto complessa nessun esecutivo può avere vita lunga se non riesce a fare le riforme sul fronte interno, e a dialogare con l’Europa da posizioni di forza tranquilla. Relazione del ministro Orlando al Parlamento: "si torna a investire sulla giustizia" di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2016 Rivendica al governo il merito di aver chiuso la fase degli scontri sulla giustizia, di aver creato un "clima diverso" grazie a una "costante ricerca del confronto", di aver sottratto il Paese all’"inconcludenza" degli ultimi decenni e di aver creato "un senso diverso e più vivo della responsabilità" di tutti per una giustizia più efficiente. Con il risultato che "l’Italia è tornata a investire sulla giustizia", dice il guardasigilli Andrea Orlando davanti all’Assemblea della Camera, in occasione delle comunicazioni sull’anno giudiziario. Rispetto al 2014, la giustizia potrà contare su risorse aggiuntive superiori al "miliardo di euro", disponibili per il 2015 ma anche per il biennio 2016-2017. Un dato "oggettivamente eccezionale, tenuto conto dei vincoli di bilancio", osserva. "Tanto più importante" di fronte a nuove minacce, come quella del terrorismo di matrice jihadista. Perché il recupero di efficienza della giustizia è "una decisiva risorsa politica per uno Stato che voglia adempiere ai suoi compiti fondamentali", primo fra tutti "la sicurezza dei cittadini", ma "senza cedere di un solo millimetro sul terreno dei principi costituzionali di libertà". "Non stiamo uscendo (faticosamente) da un periodo di crisi economica e sociale per cacciarci in una crisi di civiltà", dice il ministro, ma vogliamo continuare ad essere "la regione del mondo in cui più profondo, e più radicato, è il riconoscimento dei diritti dell’uomo". E vogliamo che l’Europa continui "ad essere i suoi caffè", come diceva George Steiner, e che nessuno cambi "abiti, acconciature o stile di vita". È una relazione di taglio prevalentemente politico quella che Orlando legge nell’emiciclo di Montecitorio, peraltro poco affollato. Forse proprio il "diverso clima" lascia fuori dalla porta dell’Aula molti deputati, anche se l’occasione è solenne. Il bilancio di Orlando è positivo. Più volte il ministro parla di "progressi", soprattutto sul civile e sul carcere, dove la fase emergenziale sembra ormai superata. Segnali "positivi" vengono anche dal penale dove le statistiche registrano una lieve diminuzione delle pendenze (da 3.484.530 processi del 2014 ai 3.467.896 del 2015), anche se a fare da "contraltare - ammette Orlando - c’è la preoccupazione per i dati sulle prescrizioni" (si veda Il Sole 24 ore di ieri). Il ministro ne approfitta quindi per ricordare il ddl di riforma fermo al Senato e si augura che venga presto approvato. Se su civile e carcere Orlando raccoglie i frutti di misure già seminate dai governi Monti e Letta e implementate da quello attuale, in altri settori il ministro rivendica una reattività nuova dell’azione politica. Sul fronte del terrorismo è stata riconosciuta la pericolosità di condotte propedeutiche e funzionali all’attività terroristica, è stata anticipata la soglia di punibilità di condotte orientate al reclutamento passivo, all’auto-addestramento, al finanziamento e all’organizzazione di viaggi per il compimento di atti terroristici, è stata introdotta l’aggravante dell’utilizzazione del web e l’Italia si è impegnata in Europa per una più forte cooperazione giudiziaria (seppure non realizzata né con il Pm europeo né con il potenziamento di Eurojust). Orlando tuttavia mette in guardia dal pericolo dei grandi centri finanziari ed economici, delle grandi reti informatiche che, per loro natura, "tendono a sottrarsi al controllo di legittimità" e che perciò impongono un "rafforzamento delle giurisdizioni sovranazionali". Sul fronte organizzativo, ricorda che, "per la prima volta dopo 20 anni", sono state avviate per il personale amministrativo politiche di ricollocamento e riqualificazione (più di 4000 unità saranno assunte nel prossimo biennio); cita la drastica riduzione del 40% delle posizioni dirigenziali del ministero ma loda il personale della giustizia che, nonostante le gravi carenze di organico, ha "garantito il funzionamento del servizio"; ricorda che nel prossimo mese saranno operativi 311 magistrati, che per 340 è in atto un concorso e che sta per esserne bandito un altro per 340 posti. Chiama il Csm a guidare "il cambiamento, non solo generazionale", della magistratura, e considera "incoraggiante" l’aver finalmente aperto le porte dei vertici degli uffici alle donne, ormai la metà della magistratura italiana. Promette che la nuova legge elettorale del Csm garantirà la parità di genere e insiste sulla necessità di una riforma del Csm, della magistratura onoraria e del sistema forense. La giustizia civile "resta al centro dell’azione riformatrice del governo", aggiunge, affermando che la digitalizzazione ha consentito di varare il dataware-house della giustizia civile, la completa targatura di tutto il contenzioso italiano e la misurazione delle performance di ogni ufficio, fruibile al pubblico online: "la più grande operazione di trasparenza di un’amministrazione pubblica italiana". L’arretrato è in costante calo: nel 2015 si è scesi a 4,2 milioni di cause e a fine 2016 si scenderà sotto i 4 milioni, assicura; e sarà un "punto di svolta" perché "significa allineare l’arretrato alla capacità di definizione annuale, che si attesta intorno ai 3,8 milioni di affari". Ormai, dice Orlando, nelle classifiche internazionali, l’Italia è in "netto miglioramento: nel rapporto Doing Business della Banca mondiale, abbiamo guadagnato 13 posizioni in un solo anno sul versante del contenzioso commerciale. Merito soprattutto dell’informatizzazione del servizio, "una priorità" per il ministero, che quest’anno vi investe 150 milioni di euro. Ma anche grazie al processo civile telematico "il servizio giustizia si pone oggettivamente all’avanguardia in Europa". In prospettiva c’è la riforma del processo civile, il potenziamento del Tribunale delle imprese (con l’80% degli affari pervenuti definiti nei primi due anni), quello della famiglia, la riforma fallimentare (a cominciare dalla cancellazione della parola fallimento) in funzione di prevenzione della crisi di impresa. Sul fronte del penale, dove si finisce spesso per cedere a "semplificazioni, strumentalizzazioni e al populismo, il governo ha introdotto "molte significative novità", dall’anticorruzione al falso in bilancio al voto di scambio. Idem nella lotta alla criminalità organizzata che "rimane un punto cardine dell’attività di governo" (Orlando sarà a Palermo per l’inaugurazione dell’anno giudiziario). E poi la particolare tenuità del fatto, la depenalizzazione, la messa alla prova: misure volte a deflazionare il carico penale e che "contribuiranno a far scendere significativamente quel dato ancora negativo sulle prescrizioni". Infine, la tutela delle vittime dei reati e la riduzione della rilevanza penale dell’immigrazione clandestina nell’ambito di un intervento complessivo su rimpatri e tempi per il riconoscimento dello status di rifugiato. Ultimo, ma non ultimo, il carcere, con la riduzione a 52.164 unità dei detenuti a fronte di 49.574 posti regolamentari. Un quasi traguardo, anche se l’Italia resta "uno dei Paesi a più alto tasso di recidività in Europa". La conclusione di Orlando è che la giustizia italiana "sta cambiando". Ma, aggiunge, il ministero vuole essere anche il ministero dei diritti delle persone offese e nel 2016 su questo fronte "si faranno passi ulteriori". Lo sfogo di Orlando sugli "intralci", il duello sulla giustizia con Alfano di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 21 gennaio 2016 Frenato l’addio al reato di clandestinità. Le due visioni sul terrorismo. La retromarcia del governo sulla depenalizzazione del reato di immigrazione clandestina sembrava ormai digerita, le polemiche alle spalle, ma il ministro Guardasigilli Andrea Orlando è voluto tornare sulla questione, per la seconda volta in pochi giorni, davanti al Parlamento: "Resto convinto che quel reato vada abolito", dice illustrando la sua relazione annuale sullo stato della giustizia. Ma non è stato possibile perché "purtroppo l’attività di riforma è spesso intralciata da preoccupazioni a volte infondate, a volte giustificate ma agitate strumentalmente, altre volte da percezioni distorte dei fenomeni". Dunque rinvio a tempi migliori, che dovrebbero partorire "un intervento complessivo che riguardi anche i rimpatri più celeri, i tempi per il riconoscimento dello status di rifugiato". Una promessa che serve a mascherare una sconfitta, imposta a Orlando dal premier Renzi e dal ministro dell’Interno Alfano. Che con il suo Ncd continua a essere, in materia di giustizia, l’antagonista del Guardasigilli nella maggioranza. Frenando laddove Orlando vorrebbe accelerare; sull’immigrazione clandestina, ma non solo. Del resto, alle elezioni di due anni fa Pd e Ncd si presentarono con programmi diversi se non alternativi, e la coabitazione forzata sconta inevitabilmente quelle differenze. "La giustizia è stata a lungo il terreno di uno scontro a tratti persino drammatico e oggi non è più così", rivendica Orlando. Non perdendo occasione, come quella di ieri, per illustrare i passi avanti comunque compiuti (ad esempio sulla corruzione, altro terreno di iniziali divisioni) e ribadire che su alcune questioni lui non intende mollare. O arretrare troppo. In questa chiave si può interpretare un altro passaggio della relazione al Parlamento, a proposito di terrorismo internazionale. Aver "anticipato la soglia di punibilità di condotte già palesemente orientate al compimento di atti terroristici" va bene, spiega il Guardasigilli, ma l’impegno contro questo fenomeno "non deve comunque significare, giova ribadirlo, cedere anche solo un millimetro sul terreno dei principi costituzionali". Avanti con la "lotta alla criminalità internazionale", quindi, ma "senza rinunciare alle maggiori acquisizioni di civiltà in materia di garanzie e tutela dei diritti". Frasi che suonano da controcanto a recenti dichiarazioni del ministro dell’Interno, firmatario dei decreti di allontanamento degli stranieri dall’Italia anche se non hanno commesso reati: "Preferisco correre il rischio di un’espulsione un po’ rude piuttosto che trovarmi in Italia un fanatico che aspira alla violenza". È come se Orlando volesse disseminare qualche paletto, anche in vista delle prossime scadenze. Per esempio la riforma del Consiglio superiore della magistratura. Il ministro ha ribadito che si deve fare, attende il lavoro delle commissioni di studio appositamente istituite, ma sul sistema elettorale "anti-correnti" altre divisioni sono prevedibili. Come quelle che hanno finora bloccato le modifiche sulla prescrizione. Erano nel programma annunciato da Renzi in persona, e nella relazione di un anno fa Orlando illustrò un progetto che "senza alcun detrimento delle garanzie difensive", aumentasse la possibilità di concludere i processi prima della scadenza dei tempi accorciati ai tempi dei governi Berlusconi. Ebbene, quel piano per ora è rimasto sulla carta, a causa a della "opposizione interna" del Ncd. Un anno dopo - ieri - Orlando ha potuto elencare alcuni successi e rinnovare l’augurio che il Senato approvi presto la "riforma complessiva del processo penale per coniugare il rafforzamento delle garanzie difensive con la ragionevole durata del processo". Ferma, tra l’altro, proprio sulla prescrizione, parola che il Guardasigilli non ha nemmeno pronunciato. Intervista al ministro della Giustizia Orlando "clandestinità, un reato da cancellare" di Annachiara Valle Famiglia Cristiana, 21 gennaio 2016 Sul tavolino basso dello studio tante rassegne stampa e il libro di Franco La Torre su suo padre Pio La Torre, l’ispiratore del reato di associazione mafiosa ucciso da Cosa Nostra. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando arriva all’appuntamento in via Arenula direttamente dal question time che lo ha impegnato in Parlamento. "L’abolizione del reato di clandestinità", come ha detto in aula, "slitta, ma non è un impegno annullato". Quindi il prossimo decreto non prevede che si affronti questo tema? "Abbiamo deciso di affrontarlo all’interno di un quadro più ampio che disciplini la materia complessiva dei procedimenti di riconoscimento dell’asilo e dei rimpatri. Non credo che ci vorrà molto per decidere in merito, anche se non c’è ancora una data". I fatti di Colonia vi hanno consigliato maggior prudenza? "Non c’entrano nulla. Né in un verso né nell’altro. Siamo stati rimproverati per aver sollevato la questione proprio dopo le notizie che arrivavano dalla Germania, quasi fosse una provocazione. In realtà la data era obbligata. Da novembre avevamo portato gli schemi alle commissioni parlamentari e dovevamo attendere i pareri, con un termine ultimo oltre il quale la delega sarebbe scaduta. Dopo i fatti di Colonia ci siamo ancora confrontati, ma non è stato quello l’elemento per togliere dal decreto la depenalizzazione del reato. Anzi, su questo andiamo avanti facendo anche lo sforzo di spiegare ai cittadini, al di là dell’emotività, che la sanzione penale non è lo strumento più adeguato per affrontare questo tema". Perché non è lo strumento più adeguato? "Perché abbiamo visto in questi anni che l’elemento di deterrenza è stato praticamente nullo. Per chi mette in conto di perdere la vita per arrivare qui una sanzione tra i 5 e i io mila euro che giunge al termine di tre gradi di giudizio non è un deterrente. In compenso ha creato una serie di problemi". Per esempio? "Per esempio nelle attività investigative, come ha ricordato anche di recente il procuratore nazionale antiterrorismo. Il clandestino a cui viene contestato questo reato diviene immediatamente imputato e come tale non può testimoniare contro chi ha organizzato il traffico di essere umani. In più si sovrappongono azioni amministrative per cui la richiesta di sanzioni può comportare la sospensione dell’azione di rimpatrio. Il paradosso è che una previsione normativa che avrebbe dovuto contenere l’immigrazione con la deterrenza e rafforzare le misure di rimpatrio ha finito per non raggiungere il primo scopo e per entrare in conflitto con il percorso del secondo". E in più ingolfa anche il lavoro delia magistratura. È così? "C’è questo aspetto, ma non è il vero punto. Se il reato di clandestinità fosse un elemento utile a raggiungere alcuni obiettivi ci muoveremmo nella direzione di rafforzare gli organici. Il problema invece è che questi obiettivi non sono stati raggiunti e quindi si ingolfa la procura, ma non si ha un ritorno né in termini di sicurezza né di deterrenza rispetto ai flussi migratori". Come pensate di agire? "Il tema fondamentale è quello di rendere più rapide le procedure di identificazione, di concessione o di diniego dello status di rifugiato e poi le procedure di rimpatrio. Bisogna concentrarsi molto sul fronte amministrativo e su quello dei ricorsi risolvendo anche il sovraccarico dei tribunali contro i mancati riconoscimenti dello status di rifugiato. Depenalizzare non significa essere più leggeri, significa essere più efficienti". Cosa pensa della condanna dell’Europa del reato? "L’Europa, che solleva un aspetto giuridico fondato perché questo è un reato che muove più da una condizione esistenziale piuttosto che da un comportamento che offende un interesse di carattere pubblico, dovrebbe però anche essere più presente. L’immagine è quella di una maestra distante che impartisce delle bacchettate. Forse, se accanto a questa condanna, nel corso di questi anni, si fosse fatta carico del fenomeno, sarebbe più credibile". Immigrazione clandestina, cosa fare di Piero De Luca (Avvocato Corte di Giustizia dell’Ue) L’Unità, 21 gennaio 2016 Il governo intervenga depenalizzando e trasformando il reato in illecito amministrativo. Si sta facendo grande confusione sul tema del reato di "immigrazione clandestina" e sui futuri provvedimenti che ii Governo dovrà adottare al riguardo. Al fine di rispondere a polemiche e prese di posizione puramente strumentali, è bene ricostruire per brevi cenni l’evoluzione del quadro normativo in materia. Come noto, la Legge Bossi-Fini (L. 30 luglio 2002 n° 189) ha modificato ii Testo Unico in materia di immigrazione (D.Lgs. 286/1998), istituendo: i) il reato di violazione dell’ordine di allontanamento del questore, punito con la reclusione da sei mesi ad un anno (art. 14, comma 5-ter); e ii) il reato di violazione del divieto di reingresso illegale nel territorio italiano, punito anch’esso con l’arresto da sei mesi ad un anno (art. 13, comma 13). Il cosiddetto pacchetto sicurezza approvato con la L. 15 luglio 2009 n° 94 (Premier Berlusconi e Ministro dell’Interno Maroni) ha apportato due ulteriori modifiche al Testo Unico. Da un lato, ha inserito al suo interno il cosiddetto reato di immigrazione clandestina (art. 10-bis), prevedendo un’ammenda da 5.000 a 10.000 euro per i cittadini di paesi terzi che entravano e soggiornavano illegalmente in Italia. Dall’altro, ha inasprito le pene legate al reato di cui all’art.14, comma 5-ter, che veniva punito con la reclusione da uno a quattro anni se l’espulsione o il respingimento erano stati disposti per ingresso illegale nel territorio nazionale. Il 28 aprile 2011, però, nella sentenza El Dridi (C-61/11 PPU) la Corte di giustizia ha dichiarato incompatibile con il diritto UE la pena detentiva prevista dall’art. 14, comma 5-ter per la violazione dell’ordine di allontanamento, in quanto comprometteva la realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla direttiva "rimpatri" 2008/115, laddove non consentiva di espellere il prima possibile i cittadini extra UE irregolari. Proprio a seguito di tale pronuncia, il Governo Berlusconi ha adottato il D.L. 23 giugno 2011 n° 89, trasformando la suddetta pena detentiva in una sanzione pecuniaria. Sanzione che la Corte di giustizia ha ritenuto conforme al diritto UE nella successiva sentenza del 6 dicembre 2012, Sagor (C-430/11), ribadendo ancora una volta la contrarietà alle norme europee di ogni forma di detenzione (anche domiciliare) che rallenti o ostacoli l’allontanamento dal territorio nazionale di un migrante irregolare. Come emerge dall’ultima sentenza della Corte di giustizia del 10 ottobre 2015, Cela) (C-290/14), la pena della reclusione si rivela dunque compatibile con il diritto UE solo in relazione al reato di violazione del divieto di reingresso illegale di cui all’art. 13, comma 13, del Testo Unico. Pertanto, allo stato attuale della legislazione, sebbene l’ingresso e il soggiorno irregolare in Italia (art. 10-bis), così come il mancato rispetto dell’ordine di allontanamento (art. 14, comma 5-ter), siano formalmente qualificati come "reati penali", tali figure di reato sono punite tuttavia con mere sanzioni pecuniarie, le quali sono destinate peraltro a restare nella maggior parte del casi ineseguite sia per l’insolvibilità dei condannati, sia per la patologica situazione di difficoltà in cui versa la riscossione di tali ammende nel nostro Paese (il recupero effettuato si aggira intorno al 2,6% del dovuto). Se tale sistema sanzionatorio pecuniario è "imposto" in un certo senso dalle norme europee in materia di immigrazione irregolare, ciò che rende però inefficace la nostra regolamentazione in materia è proprio la qualifica penale dell’illecito. Ed invero, ogni procedimento penale (in ragione delle necessarie garanzie processuali connesse) è estremamente complesso ed articolato, e necessita di tempi alquanto lunghi per giungere ad una condanna definitiva, che corre peraltro il rischio di restare ineseguita per le ragioni suesposte. Pertanto, il risultato cui si assiste in Italia è quello di un congestionamento delle aule di Tribunale e di un collasso delle risorse giudiziarie per procedimenti che non conducono ad alcun risultato pratico concreto. D’altro canto, anche la paventata efficacia deterrente della qualifica di reato penale assicurata all’ingresso e al soggiorno irregolare è del tutto inesistente, se consideriamo che nonostante questa qualifica siamo passati da 43.000 migranti giunti sulle coste italiane nel 2013, a circa 170.000 nel 2014 e ad oltre 150.000 nel 2015; a testimonianza del fatto che il trend degli sbarchi è legato ai flussi migratori e alle crisi internazionali piuttosto che alla natura giuridica assicurata all’illecito in questione. Allo stato, quindi, ii Governo ha due opzioni davanti a sé. Può decidere di salvare la forma, a dispetto dell’efficacia concreta delle soluzioni normative esistenti per la gestione del fenomeno migratorio, e mantenere in vita il titolo di "reato". Oppure, può affrontate la sostanza del problema, e decidere così di dar seguito alla delega contenuta nella L. 28 aprile 2014 n° 67 depenalizzando e trasformando in illecito amministrativo il reato previsto all’art. 10-bis del Testo Unico. Tale operazione pare senz’altro da preferire in quanto consente di ottenere, a mio avviso, due risultati positivi. Da un lato, aumenta l’efficacia della sanzione pecuniaria stessa, se consideriamo che le multe di carattere amministrativo sono erogate e spesso riscosse con maggiore celerità rispetto alle ammende conseguenti ad una condanna penale. Dall’altro lato, decongestiona e alleggerisce ii carico di lavoro in capo agli organi giurisdizionali penali per procedimenti che in sostanza non portano a nulla, consentendo di concentrare risorse ed energie sia nella repressione di casi specifici di violazione delle norme di ordine pubblico che singole persone dovessero porre in essere prima, durante, o dopo le fasi di identificazione e rimpatrio, sia nella preparazione ed esecuzione delle procedure di espulsione. Diminuiti i suicidi tra i detenuti, lodevole impregno della Polizia Penitenziaria Comunicato stampa Dap, 21 gennaio 2016 Il 2015 è stato un anno di forte impegno per l’Amministrazione Penitenziaria che ha messo in campo strategie e progetti di cambiamento per migliorare le condizioni detentive. Il dato di partenza, misurato quotidianamente da un sistema di monitoraggio informativo, è il superamento del problema del sovraffollamento che, unitamente alla ristrutturazione delle strutture, agevola l’implementazione di progetti di reinserimento sociale e lavorativo. Il contributo decisivo per il cambiamento è stato garantito dagli operatori penitenziari che hanno fronteggiato le criticità degli ultimi anni con impagabile senso del dovere, condividendo e facendo propri gli impulsi e le direttive dell’Amministrazione centrale. La Polizia Penitenziaria ha dimostrato di reggere la pressione dell’emergenza con sacrificio e professionalità, operando una lodevole svolta nelle modalità delle sue stesse funzioni. Pur garantendo i livelli di sicurezza, messi a dura prova dalle criticità degli anni passati, gli appartenenti al Corpo hanno svolto i propri compiti assumendo la cura e la custodia delle persone detenute. Tra gli indicatori che consentono di misurare l’efficacia degli interventi possono essere annoverati i numerosi tentativi di suicidio sventati e il dato positivo della diminuzione dei suicidi stessi, soprattutto nei periodi di maggiore fragilità emotiva come, ad esempio, i periodi di festività. È un dato oggettivo che durante le ultime festività natalizie non si sono verificati casi di suicidio, rilevando che l’ultimo episodio si è verificato lo scorso 21 dicembre e che il numero complessivo di eventi suicidari nel decorso anno è stato di 39 casi, il più basso dal 1992. L’Amministrazione Penitenziaria, con condivisione e impulso del Ministro della Giustizia Andrea Orlando, ha agevolato la massima trasparenza e la controllabilità dell’operato della Polizia Penitenziaria, favorendo ingressi e controlli negli istituti penitenziari da parte dei rappresentanti della società civile. Sappe: in 10 anni la polizia penitenziaria ha sventato il suicidio a più di 9.300 detenuti "Il Parlamento è sovrano e può dunque decidere quel che ritiene più opportuno e necessario. Ma sostenere che le carceri italiane siano caratterizzate da una ‘cultura di violenzà è una colossale baggianata. Lo dice chi non sa nulla di quel che avviene nelle carceri italiane, dove ad esempio negli ultimi 10 anni sono stati più di 9.300 i detenuti ai quali gli uomini e le donne della Polizia Penitenziaria hanno salvato la vita da morte certa per tentati suicidi. Queste valutazioni grossolane fanno male a coloro che il carcere lo vivono quotidianamente nella prima linea delle sezioni detentive, come le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria che svolgono quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità in un contesto assai complicato per l’esasperante sovraffollamento". Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri riunita in questi giorni a Napoli per il VI° Congresso nazionale del Sindacato, commentando la proposta di Sinistra italiana ha deciso di proporre l’istituzione di una Commissione d’inchiesta parlamentare sugli abusi e sui maltrattamenti nelle carceri e nei luoghi di detenzione. "L’impegno del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria - ha aggiunto Capece - è sempre stato ed è quello di rendere il carcere una casa di vetro, cioè un luogo trasparente dove la società civile può e deve vederci "chiaro", perché nulla abbiamo da nascondere ed anzi questo permetterà di far apprezzare il prezioso e fondamentale - ma ancora sconosciuto - lavoro svolto quotidianamente, lo ripeto, con professionalità, abnegazione e umanità dalle donne e dagli uomini della Polizia Penitenziaria". Uccise 4 ragazzi guidando ubriaco in autostrada, condannato per omicidio volontario di Elisa Sola Corriere della Sera, 21 gennaio 2016 La strage sulla A26, nel 2011. Confermata la condanna a 18 anni e 4 mesi per Ilir Beti. La Cassazione aveva annullato la sentenza. I familiari: "Grazie alla giustizia italiana". Dopo cinque anni giustizia è stata fatta per le famiglie dei quattro ragazzi francesi morti nella notte del 13 agosto 2011 sull’autostrada A26, poco dopo il casello, all’altezza di Rocca Grimalda (Alessandria), travolti da un’auto guidata da Ilir Beti, albanese che guidava ubriaco in contromano. La Corte d’Assise d’Appello di Torino ha condannato l’imputato a 18 anni e 4 mesi per omicidio volontario. Si tratta di una sentenza che potrebbe fare storia, anche se non ancora definitiva, sia per l’entità della pena inflitta sia per il capo di imputazione contestato: l’aver provocato la morte volontariamente. La sentenza - La lettura del dispositivo, avvenuta a porte chiuse, è stata seguita da momenti di forte commozione tra i parenti delle vittime. Baci e abbracci e lacrime di gioia hanno accompagnato l’esultanza dei genitori dei ragazzi che hanno seguito molte udienze di una lunga vicenda processuale. Durante la notte della tragedia erano deceduti sul colpo Julien Jean Raymond, di 26 anni, Vincent Lorin, di 22, Audrey Reynard, di 24. Elsa Desliens, 22enne, era morta alcune ore dopo in ospedale. Era rimasto un unico superstite, un ragazzo che da quel giorno non si è più ripreso totalmente dal trauma, dopo aver perso i suoi quattro migliori amici. Inizialmente Beti era stato condannato a 21 anni per omicidio volontario. Una sentenza poi ribaltata dalla Cassazione, che nel mese di marzo del 2015 l’aveva annullata, stabilendo che il reato da contestare dovesse essere l’omicidio colposo e non quello con dolo. Familiari soddisfatti - Il 20 gennaio 2016 la Corte d’Assise d’Appello di Torino ha invece nuovamente deciso che Beti debba essere condannato per omicidio volontario. Il legale dell’uomo, l’avvocato Mario Boccassi, ha commentato: "È una sfida alla sentenza della Cassazione, che ci lascia perplessi, tra 45 giorni leggeremo il perché di questa decisione e decideremo se fare ricorso". I familiari delle vittime si ritengono pienamente soddisfatti. Jean Claude e Christine Lorin, genitori di Vincent, prima di lasciare il Palagiustizia, parlando con alcuni giornalisti hanno detto commossi: "Diciamo grazie alla giustizia italiana". "Mi sono ammalata di cancro dopo la tragedia - spiega Christine, la madre - e mio marito ha avuto la forza di starmi accanto nella mia battaglia. Nel frattempo ne abbiamo portata avanti un’altra, affinché giustizia venisse fatta. Abbiamo fatto bene a lottare e a non mollare mai. Diciamo grazie all’Italia". Contromano - Secondo la ricostruzione dell’accusa, durante la notte del 13 agosto 2011 Ilir Beti all’altezza del casello aveva imboccato contromano la A26. La sua corsa era proseguita per almeno venti chilometri. La polizia stradale aveva ricevute numerose telefonate da automobilisti increduli che avevano lanciato l’allarme vedendo schizzare il Suv in direzione contraria. Alla fine, Beti si era fermato soltanto dopo aver centrato in pieno l’auto dei francesi. Un impatto fortissimo. In molti, riferiscono i coniugi Laurin, "avevano usato i fari per riportarlo alla ragione, ma lui aveva continuato senza fermarsi. L’avevano tutti visto proseguire la corsa come se niente fosse..anche dopo la prima collisione con un veicolo che lasciò al suo Suv un solo faro". La vicenda aveva suscitato polemiche in tutta Italia, e non solo. Dopo la sentenza della Cassazione che aveva contestato l’omicidio colposo e non doloso, l’Asaps (Amici Polstrada) era insorta: "Dimostra chiaramente un vuoto legislativo che fa sì che chi uccide sulla strada resti di fatto impunito". I giudici che sfidano la Cassazione per punire il pirata della strage sull’A26 di Marco Menduni Secolo XIX, 21 gennaio 2016 Non ci sono se, non ci sono ma. Lanciarsi contromano in autostrada in una gara di abilità, viaggiare 30 chilometri dribblando i veicoli in senso contrario, schiantarsi uccidendo quattro ragazzi è omicidio volontario. Non è la prima volta che la magistratura precorre le leggi e le scavalca, che s’impunta per superare vuoti e distorsioni normative. Questo è il caso. Una legge sull’omicidio stradale non c’è ancora, anche se ormai è alle battute finali per la definitiva approvazione. Ma i giudici della Corte d’assise d’appello di Torino ingaggiano un braccio di ferro persino con la Cassazione per condannare Ilir Beti a 18 anni e 4 mesi (e con lo sconto di un terzo della pena per il giudizio abbreviato) per quell’accusa: omicidio volontario. Beti è l’imprenditore albanese che il 13 agosto 2011 con il suo suv, dopo una serata in discoteca ad Arenzano, inverte la marcia sull’A26. A Ovada lo schianto con una Opel Astra. A bordo cinque giovani francesi a in marcia per un tour della Slovenia. Muoiono in quattro, Beti ne esce illeso. Nel primo processo d’appello l’albanese viene condannato a 21 anni. Ma la Cassazione annulla: si poteva contestare solo l’omicidio colposo. Si rifà il processo e arriva la sorpresa. I giudici, di solito, si adeguano alle indicazioni romane. Stavolta no. Ribadiscono: è stato omicidio volontario. La sentenza, probabilmente, verrà ribaltata un’altra volta, perché una nuova legge ancora non c’era all’epoca della tragedia. Ma è uno scatto, un’impuntatura. Segnala un cambio di sensibilità: chi uccide guidando in maniera scriteriata deve pagare. Molto di più di quant’è accaduto fino a oggi. Alle sezioni unite i dubbi sulla rilevabilità d’ufficio della violazione della Convenzione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2016 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 20 gennaio 2016 n. 2259. Saranno le Sezioni unite a stabilire se si può rilevare d’ufficio la violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo quando in appello si ribalta l’assoluzione perché si giudica in altro modo l’attendibilità di testimoni ascoltati solo in primo grado. La Cassazione, con l’ordinanza 2259, prende atto del contrasto sulla possibilità di agire d’ufficio quando la questione del mancato rispetto dell’articolo 6 della Convenzione, in particolare il diritto di difesa, non viene sollevata dalla parte. Nel caso esaminato, il ricorrente era stato condannato in appello per estorsione perché il giudice aveva valutato attendibile, senza sentire di nuovo il teste, la deposizione della persona offesa, giudicata contraddittoria in primo grado. La Cassazione ricorda che la Corte europea dei diritti dell’uomo consente di fondare le sentenze di condanna su dichiarazioni cartolari quando accompagnate da adeguate garanzie procedurali. Un’altra attenuazione delle garanzie è consentita se occorre salvaguardare un teste vulnerabile. La Cedu censura però, con un principio consolidato, la rivalutazione in appello di una dichiarazione decisiva per ribaltare il verdetto. I giudici di Strasburgo sottolineano che il sacrificio dell’"oralità" è incompatibile con la Convenzione. In contrasto con la Cedu non è tanto l’uso della testimonianza "su carta", quanto l’operazione di over-turning che avviene su un compendio probatorio "deprivato" rispetto a quello esaminato dai giudici di prima istanza. Nel giudicare l’attendibilità del teste, infatti, oltre alle dichiarazioni pesa anche il suo contegno. La Corte di cassazione, con un orientamento condiviso dal collegio remittente, si è allineata a Strasburgo affermando che, per rispettare l’articolo 6 della Cedu, il giudice d’appello per riformare in peius la sentenza di assoluzione deve rinnovare l’istruzione dibattimentale. Ma la giurisprudenza è decisamente spaccata sul da farsi quando, come nel caso esaminato, la questione del mancato rispetto della Convenzione non viene sollevata in Cassazione dal ricorrente. Secondo un primo orientamento, in sede di legittimità la violazione dell’articolo 6 non è rilevabile d’ufficio. Per i sostenitori del no, va valorizzata la mancanza dell’impulso della parte, utile a focalizzare le ragioni non solo di diritto ma, soprattutto, di fatto a sostegno della necessità di rinnovare il dibattimento. La scelta dell’imputato di non proporre la rinnovazione renderebbe impossibile attivare il rimedio Cedu, il cui presupposto è la "consumazione" di tutti i rimedi del sistema processuale interno. Opposto il ragionamento di chi sostiene la rilevabilità d’ufficio perché, diversamente, si rischia di immettere nell’ordinamento un prodotto che non reggerebbe il vaglio di un ricorso alla Cedu. Secondo Strasburgo, infatti, il requisito dell’esaurimento dei ricorsi interni è soddisfatto dalla semplice impugnazione della decisione sfavorevole. Un orientamento supportato anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo la quale il giudice deve procedere alla nuova escussione d’ufficio perché "le Corti nazionali hanno l’obbligo di adottare misure positive a tal fine anche se il ricorrente non ne ha fatto richiesta". Diritto al rinvio dell’udienza camerale per adesione all’astensione di categoria Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2016 Difesa e difensori - Astensione dalle udienze proclamata dalla categoria - Udienze camerali - Diritto al rinvio dell’udienza camerale a seguito di rituale adesione all’astensione di categoria - Sussistenza - Nullità a regime intermedio della sentenza per mancata assistenza dell’imputato ai sensi degli articoli 178, comma 1, lett. c) e 180 cod. proc. pen. In relazione alle udienze camerali, in cui la partecipazione delle parti non ha carattere obbligatorio, il giudice è tenuto a rinviare la trattazione della causa, qualora il difensore abbia comunicato la propria adesione all’astensione dalle udienze, proclamata dalle associazioni di categoria nel rispetto delle norme vigenti in materia. Trattandosi di un’ipotesi in cui l’assistenza del difensore non è obbligatoria, il mancato accoglimento della richiesta di rinvio comporta una nullità della sentenza per mancata assistenza dell’imputato ai sensi degli articoli 178, comma 1, lett. c) e 180 cod. proc. pen.: nullità da considerarsi a regime intermedio e non assoluta ex articolo 179, I comma, cod. proc. pen. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 18 gennaio 2016 n. 1835. Difesa e difensori - Astensione dalle udienze proclamata dalla categoria - Udienze camerali - Diritto al rinvio dell’udienza camerale a seguito di rituale adesione all’astensione di categoria - Sussistenza - Trattazione del procedimento in assenza del difensore aderente all’astensione - Nullità assoluta o a regime intermedio, in funzione della necessità o meno della partecipazione. In tema di dichiarazione di adesione del difensore all’iniziativa dell’astensione dalla partecipazione alle udienze legittimamente proclamata dagli organismi rappresentativi della categoria, la mancata concessione da parte del giudice del rinvio della trattazione dell’udienza camerale in presenza di una dichiarazione effettuata o comunicata dal difensore nelle forme e nei termini previsti dall’articolo 3, primo comma, del vigente codice di autoregolamentazione, determina una nullità per la mancata assistenza dell’imputato, ai sensi dell’articolo 178, primo comma, lett. c), cod. proc. pen., che ha natura assoluta ove si tratti di udienza camerale a partecipazione necessaria del difensore, ovvero natura intermedia negli altri casi. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 11 novembre 2015 n. 45158. Difesa e difensori - Astensione dalle udienze - Procedimenti camerali - Dovere del giudice di rinviare l’udienza. In tema di astensione del difensore dalle udienze, il giudice anche nei procedimenti camerali deve rinviare l’udienza qualora il difensore, che aderisce allo sciopero proclamato dagli organismi rappresentativi di categoria, abbia manifestato in maniera univoca la volontà di presenziare. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 6 maggio 2015 n. 18681. Difesa e difensori - Astensione dalle udienze - Esercizio di un diritto di libertà - Sussistenza - Rinvio dell’udienza camerale a partecipazione necessaria. L’astensione del difensore dalle udienze non è riconducibile nell’ambito dell’istituto del legittimo impedimento, costituendo espressione di un diritto di libertà, il quale, se esercitato nel rispetto e nei limiti indicati dalla legge e dal codice di autoregolamentazione, impone il rinvio anche dell’udienza camerale, in tutti i casi in cui il procedimento preveda la partecipazione necessaria del difensore. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 22 gennaio 2015 n. 3113. Per le frodi Iva la prescrizione riparte dopo agni atto interruttivo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2016 Corte di cassazione, Terza sezione penale, sentenza 20 gennaio 2016 n. 2210. Va disapplicata la disciplina italiana sulla prescrizione delle frodi Iva. Non in assoluto però, ma solo quando l’estinzione del giudizio avverrebbe per effetto delle norme sull’interruzione dei termini. Lo stabilisce la Corte di cassazione con un’importante sentenza, la n. 2210 depositata ieri, della Terza sezione penale. La pronuncia era già stata oggetto di un’informazione provvisoria nel settembre scorso, all’esito dell’udienza ed ora ne sono note le motivazioni. Va ricordato, prima di scendere nel dettaglio delle argomentazioni dei giudici, che sul punto dovrà pronunciarsi anche la Corte costituzionale. Che però a questo punto potrà tenere conto della lettura data dalla Cassazione. Quest’ultima infatti ha ritenuto di non dovere sollevare la questione di legittimità, considerando possibile un’interpretazione alternativa. Tutto nasce l’8 settembre scorso con il deposito della sentenza Taricco della Corte di giustizia europea, con la quale la Corte di giustizia ha affermato l’obbligo per il giudice italiano di disapplicare le disposizioni di cui agli articoli 160 e 161 del Codice penale nella parte in cui fissano un termine assoluto di prescrizione anche in presenza di atti interruttivi, in relazione a reati gravi che offendono gli interessi finanziari dell’Unione europea. Alla tesi della disapplicazione si è però opposta la Corte d’appello di Milano che, sempre nello scorso settembre, ha rimesso gli atti alla Corte costituzionale, invitandola, per la prima volta nella storia della giurisprudenza italiana, a opporre l’arma dei contro-limiti alle limitazioni di sovranità dettate dal rispetto dell’ordinamento europeo. Insomma, una questione di ampia portata, le cui conseguenze sono ancora tutte da valutare. Intanto, la strada scelta dalla Corte di cassazione è nel segno di una disapplicazione sì, ma moderata. Innanzitutto, la disapplicazione non ha come conseguenza la resurrezione della disciplina antecedente la legge ex Cirielli, la n. 251 del 2005, "perché non incide sulla norma abrogatrice (e sull’effetto abrogativo)" ma, appunto, secondo la esplicita indicazione della sentenza europea, comporta solo l’applicazione alla grave frode Iva del termine massimo previsto per i reati di cui all’articolo 51 commi 3 bis e 3 quater del Codice di procedura penale (per esempio, terrorismo e mafia). Nessuna possibilità, poi, di rimettere in discussione la dichiarazione di estinzione del reato già emessa, perché la persona interessata, se il reato è dichiarato estinto, diventa titolare di un diritto soggettivo che prevale sulla volontà punitiva dello Stato. La questione è invece cruciale per i reati tuttora non estinti per prescrizione. In questo caso, sottolinea la Cassazione, bisogna distinguere due casi: se la eventuale futura dichiarazione di prescrizione dipende dal mancato rispetto dei termini ordinari di prescrizione non c’è problema visto che questo punto non è stato investito dalla sentenza Taricco. Se invece, come peraltro avviene nella stragrande maggioranza dei casi, la futura dichiarazione di estinzione per prescrizione dipende dall’applicazione delle norme del Codice penale sugli atti interruttivi, allora scatta la disapplicazione. Con quali effetti? Nella parte conclusiva della sentenza, la Cassazione li chiarisce: dovranno essere applicate alle rilevanti frodi Iva le regole già previste per i reati più gravi. Quelle cioè che stabiliscono come il termine ordinario di prescrizione - che al tempo del caso preso in esame dalla Corte era di sei anni, ma adesso è stato innalzato a otto - ricomincia a decorrere da capo, dopo il verificarsi degli atti interruttivi elencati dal Codice. Senza oltretutto che questo decorso si articoli in maniera diversa per incensurati o recidivi. La Cassazione, nel corroborare questa conclusione, ricorda che la persona interessata, in questo caso, non può vantare un diritto soggettivo prevalente sulla pretesa di sanzione da parte dello Stato: va infatti esclusa la violazione di un diritto di difesa che non può espandersi sino a comprendere anche l’aspettativa dell’imputato alla maturazione della prescrizione. Viene valorizzata in questa prospettiva l’ordinanza n. 452 della Corte costituzionale, che nega appunto rilevanza giuridica all’attesa dell’imputato di un futuro compimento dei termini di prescrizione. Cancellati i premi ai dipendenti per le segnalazioni anticorruzione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2016 Segnalazioni anticorruzione nella pubblica amministrazione senza premi, ma con tutele rafforzate. Nelle aziende private conferma dell’inserimento degli obblighi nel contesto dei modelli organizzativi previsti dal decreto 231 sulla responsabilità amministrativa delle imprese. L’Aula della Camera ha concluso l’esame nel merito del disegno di legge sul whistle-blowing e questa mattina il provvedimento verrà approvato con un largo consenso per poi passare all’esame del Senato. Assicura il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri, che ha seguito la discussione del disegno di legge: "Ci sarà massima tutela di riservatezza del segnalante in buona fede. Denunciare un illecito deve essere inteso come un dovere civico. L’intervento normativo vuole contemperare diversi interessi: se denunciare un illecito è un dovere civico, quando a essere interessato è il lavoratore esso non può collidere con il diritto al lavoro. La rivelazione protetta - sottolinea Ferri - tutela anche l’interesse dell’impresa a conoscere e risolvere le situazioni di irregolarità con un sistema idoneo a recepire le segnalazioni dall’interno e l’interesse della collettività ad acquisire notizie di cattiva gestione di aziende o di enti pubblici (particolarmente avvertito in occasione di scandali, nazionali e internazionali, legati a fatti ramificati di corruzione nella Pa)". Il testo è stato sottoposto a modifiche significative, ben più che di semplice maquillage, che ne hanno rivisto l’impianto. A partire da quella che ha cancellato i premi che venivano riconosciuti al dipendente della pubblica amministrazione nel caso la segnalazione di condotte si riveli fondata. A venire rafforzate sono, invece, le tutele che dovranno fare da scudo al lavoratore che si espone con la segnalazione (non è puramente lessicale la sostituzione sin dalla prima riga del primo articolo del verbo segnalare a quello denunciare). In particolare il dipendente non potrà essere demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa che abbia effetti negativi, diretti o indiretti a causa della segnalazione. Più circostanziata anche la buona fede che "copre" il dipendente pubblico che effettua una segnalazione circostanziata, nella ragionevole convinzione fondata su elementi di fatto, che la condotta illecita segnalata si sia verificata. La segretezza dell’identità del segnalante è sempre assicurata sia nel procedimento penale sia in quello contabile e in quello disciplinare è comunque previsto, in caso di necessità, il consenso dell’interessato prima di proseguire. Sul versante delle aziende private si prevede l’obbligo, a carico di dipendenti e collaboratori, inserendolo nel contenuto dei modelli organizzativi, a tutela dell’integrità dell’ente, di presentare "segnalazioni circostanziate di condotte illecite che in buona fede, sulla base della ragionevole convinzione fondata su elementi di fatto, ritengano si siano verificate, rilevanti ai sensi del presente decreto o le violazioni del modello di organizzazione e gestione dell’ente di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte". Truffa aggravata per i dipendenti Tar arricchiti con migliaia di telefoni e sim di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2016 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 20 gennaio 2016 n. 2281. Truffa aggravata e abuso di ufficio per i dipendenti del Tar che - in assenza specifici poteri - stipulino convenzioni telefoniche con le compagnie sul mercato, in nome e per conto del tribunale. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 2281/2016. La Corte, in particolare, ha accolto il ricorso della procura contro la sentenza del tribunale di Salerno che aveva ridimensionato i due reati per difetto di gravità indiziaria finendo per condannare i soggetti con la semplice interdizione dai pubblici uffici con la sospensione dall’esercizio del pubblico servizio cui entrambi gli indagati erano adibiti. I fatti in realtà - secondo la Corte - erano assolutamente certi e di indubbia gravità. La vicenda - Due soggetti appartenenti al Tar di Salerno, nella qualità rispettivamente di dirigente e dipendente amministrativo avevano stipulato con diverse compagnie telefoniche delle convenzioni in base alle quali avevano ricevuto apparecchi telefonici e schede sim in un numero assolutamente sproporzionato rispetto alle effettive esigenze. Si trattava di mille apparecchi a fronte degli appena trenta dipendenti che facevano capo al tribunale campano. Il tutto ovviamente con la complicità dei promoters delle compagnie telefoniche che avevano ricevuto ingenti somme per gli accordi raggiunti. I Supremi giudici, in particolare, non hanno ritenuto meritevole la spiegazione della minore gravità fornita dal Tribunale che poggiava sulla presunta circostanza che l’operato avesse avuto delle ripercussioni negative solo per le compagnie telefoniche e non per il Tar. Sul punto la spiegazione fornita dalla Cassazione è stata molto chiara in quanto gli indagati avevano ricevuto personalmente gli apparecchi telefonici e le schede Sim, quindi era del tutto inveritiera l’affermazione che essi non avevano conseguito un ingiusto profitto dalle truffe. Il danno non era subito solo dalle compagnie telefoniche, ma anche dall’ente pubblico che inconsapevolmente aveva assunto obbligazioni per effetto delle convenzioni stipulate a suo nome. Profitto e deminutio patrimoni - Andavano pertanto considerati i due elementi propri del reato di truffa ossia l’ingiusto profitto e la deminutio patrimoni. Condizioni che esistevano indiscutibilmente, perché se da un lato i dipendenti avevano conseguito un profitto attraverso gli apparecchi e le schede sim ricevuti, il tribunale dall’operazione aveva subito un’esposizione debitoria per una somma superiore a 490mila euro. Accolto, pertanto, il ricorso della Procura sulla sussistenza della gravità indiziaria nei confronti dei ricorrenti anche in ordine al delitto di truffa aggravata ex articolo 640, comma 2, n. 1 del Cp con riferimento alla somma richiesta al tribunale con alterazione reale e non solo potenziale, in evidente senso peggiorativo, della condizione patrimoniale preesistente. Tra giustizia e nuovi diritti. Il dovere dell’equilibrio, il rischio dell’ideologia di Paolo Borgna Avvenire, 21 gennaio 2016 "È poco rispondente ai fini della giustizia sostanziale la condizione di chi debba giudicare di un fenomeno della vita fuori del mondo reale, fuori della vita e con la sola guida della logica concettuale". Per questo il magistrato che pretenda di emanare le sentenze applicando "il vecchio metodo tradizionale dell’indagine giuridica, tutto esteriore e meccanico", rimanendo "estraniato" dal mondo che lo circonda, non sarà in grado di rendere giustizia. Chi parla così? Un giurista che, negli anni 70 del secolo scorso, teorizzava la "giurisprudenza alternativa" e la necessità di discostarsi dalla lettera della legge per essere più aderente alla realtà sociale? O forse sono parole di oggi? Di un odierno fautore del ruolo del magistrato non più "giudice della legge" ma "giudice dei diritti"? Di uno di quei moderni teorici secondo cui i diritti vanno ricostruiti in modo "rapsodico" in un sistema di fonti sempre più ampio e intricato, per cui il giudice è oggi un "coprotagonista del legislatore, nella ricomposizione di una trama normativa che appare ormai come un semilavorato nelle mani di chi deve applicarlo"? ( Vittorio Manes, Il giudice nel labirinto, p. 3 ‘Dikè, 2012). No. A parlare in quel modo, a rivendicare l’affermazione della "giustizia sostanziale", in polemica con i magistrati troppo rispettosi della lettera della legge è, nel discorso inaugurale dell’anno giudiziario 1927, il fascistissimo procuratore generale della cassazione Giovanni Appiani. La cui critica verso "il magistrato dottrinario" che "con presunzione di sufficienza" si chiude "in una torre di avorio", sarà ripresa, nel 1935, dal "Bollettino del sindacato fascista degli avvocati". E dunque, cominciamo da una considerazione storica: l’idea del giudice che, nell’applicare la legge, non è schiavo della lettera della norma ma si fa interprete delle esigenze di giustizia e dello spirito del tempo, non è una prerogativa del pensiero progressista ma riappare, in modo carsico, in tutte le epoche, vestendo panni diversi. E, per contro, il carattere un po’ sacerdotale del magistrato e la sua fedeltà assoluta alla volontà del Legislatore cristallizzata nella norma scritta, non sono sempre stati fattori di conservazione. È un fatto che la rigorosa difesa della funzione del giudice, come momento applicativo e non di creazione della norma, fu, sul finire degli anni 30 del Novecento, la migliore difesa contro la dittatura: con cui si poté impedire l’ingresso nel sistema di meccanismi capaci di consegnare alla sfera della politica l’amministrazione della giustizia. Ben lo sapeva Piero Calamandrei che, nel gennaio 1940, nella conferenza ai giovani fiorentini della Fuci (pubblicata da Laterza nel 2008 con il felice titolo Fede nel diritto) polemizzava contro la "formulazione giudiziaria del diritto", secondo cui il giudice, nell’applicare la norma scritta, la deve rinvigorire con le esigenze della società, attingendo alle regole sociali da lui stesso rilevate, lasciandosi investire dal "vento che irrompe dalle finestre". In quel gennaio 1940, con l’Italia che sta per entrare in guerra al fianco di una Germania che allora pare invincibile, Calamandrei è un uomo angosciato dal timore che le dittature affermatesi negli anni 20 e 30, dopo aver plasmato culturalmente una nuova generazione, stiano per travolgere gli ultimi residui di una civiltà che, agli occhi dei giovani, apparivano come vecchi arnesi di un "passato in dissoluzione". Per questo, il giurista fiorentino contrasta con forza quasi disperata "il diritto libero" che "fa della norma una scatola vuota" che viene riempita arbitrariamente dalle scelte personali dei giudici o, quando soffia forte il vento della politica, dallo "spirito del tempo". E si aggrappa al "sistema della legalità" in cui vige "la ripartizione tra giustizia e politica", in forza della quale "al giudice (e in generale al giurista) non spetta discutere la bontà politica delle leggi; spetta soltanto, in quanto giudice e in quanto giurista, osservarle e farle osservare". Sappiamo che anche questo rispetto sacrale della "lettera della legge" può generare barbarie. Lo stesso Calamandrei lo riconoscerà: indicando come magistrati esemplari alcuni giudici che, chiamati ad applicare le leggi razziali del 1938 e 1939, cercarono di attenuarne il più possibile le conseguenze ricorrendo ad "artifici interpretativi giuridicamente discutibili". Quei magistrati (tra cui ricordo Domenico Riccardo Peretti Griva), fedeli allo spirito di tolleranza dello Statuto albertino, aggirarono la legge. Sostenendo, ad esempio, in favore dei nati da matrimoni misti e dei catecumeni, la competenza dei giudici ordinari a stabilire l’appartenenza dei cittadini a una determinata razza: tesi che cozzava palesemente contro precise disposizioni della legge n. 1024 del 1939, che arrogava alla "esclusiva competenza del ministero dell’interno ogni decisione in materia razziale". Dunque, quei giudici tradirono la "lettera della legge". E ancora oggi gliene siamo grati. Da sempre il diritto ha due volti: quello formale (la forza che diventa legge scritta) e quello sostanziale (l’equità, i mores, i valori variabili nel tempo, intorno ai quali un agglomerato di persone diventa società). Da sempre il rendere giustizia è in bilico tra queste due sponde. Grandi delitti sono stati commessi, nel corso della storia, sbandando verso una di esse. Sia invocando la sovranità della legge: "la legge è legge, l’abbiamo solo applicata", si giustificavano i criminali nazisti processati a Norimberga. Sia invocando, oltre la sua lettera, la giustizia sostanziale, i valori del popolo: "si deve punire seguendo il sano sentimento del popolo, oltre il pregiudizio borghese del nullum crimen sine lege", proclamavano i giudici della Russia staliniana che ordinavano la fucilazione della madre colpevole di aver raccolto il cadavere del figlio ribelle. Dunque, bisogna stare all’erta: il diritto come forma può diventare strumento del più forte, che non persuade bensì prevarica sul debole; ma anche i valori (le "leggi non scritte" invocate da Antigone) a volte generano mostri: quando, per essere realizzati, ci chiedono di non badare alle regole. Il problema è sempre l’equilibrio. Trovare il punto di equilibrio tra rispetto della legalità e giustizia nel caso concreto. Come avrebbe detto proprio Peretti Griva, evitare le due soluzioni più comode: quella dell’applicazione meccanica della legge, che fa del giudice un burocrate e della sua professione una routine; e quella dell’arbitrio presuntuoso che ritenendo di "rendere una giustizia che egli, soggettivamente, creda migliore" - fa assumere al giudice "una parte che non gli spetta, quella del legislatore" (Peretti Griva, Esperienze di un magistrato, Einaudi, 1956, pp. 169-170, 263). La magistratura italiana, nel suo complesso, negli anni del Dopoguerra, ha cercato (sia pure con qualche sbandamento) di essere fedele a questo insegnamento, avendo come faro la Costituzione. La storia dell’evoluzione dei diritti nell’età repubblicana è la storia del lento e faticoso affermarsi dei princìpi costituzionali sulle tante scorie autoritarie che gli apparati statali e la società avevano ereditato dagli anni del Regime e che furono spazzate via, a partire dal 1956, proprio grazie al ruolo propulsivo delle sentenze della Corte costituzionale, sollecitate dalle ordinanze di tanti giudici e dal loro confronto culturale con l’avvocatura. Fu così che si arrivò alla cancellazione delle norme più arcaiche del codice penale e del Testo unico di pubblica sicurezza e al superamento della legge che vietava alla donne l’ingresso in magistratura (che si avrà solo nel 1963). Ma quel tipo di intervento operava in modo limpido: registrando l’irriducibile contrasto tra leggi vigenti ed espliciti princìpi sanciti in Costituzione. Pensiamo all’evidenza del contrasto tra un’istruttoria penale in cui la difesa era totalmente assente (l’avvocato può esser presente all’interrogatorio dell’imputato soltanto dal 1971!) e il principio dell’art. 24 secondo cui "la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento". Anche l’applicazione "costituzionalmente orientata" delle leggi ordinarie (per cui, tra due interpretazioni possibili di una norma, va preferita quella più fedele ai princìpi costituzionali) si colloca in questo solco e rispetta la tradizionale divisione dei poteri: perché la fonte che consente al magistrato di risolvere il contrasto tra norma scritta e giustizia nel caso concreto promana comunque dalla volontà popolare. In Italia negli ultimi anni si è aperta una nuova fase nell’amministrazione della giustizia: con la tendenza - rivendicata dalle teorie "neocostituzionaliste" - a fare del giudice non solo il garante ma il "creatore dei diritti". Sullo sfondo di questo nuovo ruolo del giudice sta, in primo luogo, la dilatazione di ciò che si debba intendere come "diritto". L’ampliamento della tavolozza dei "diritti" è tendenza, culturale prima ancora che giuridica, che nasce dall’esigenza di "rimediare alla stanchezza delle democrazie" e frenare la prepotenza delle regole del mercato. Ma - come dimostra in un’acuta analisi Luciano Violante ( Il dovere di avere doveri, Einaudi, 2014) - essa tende ormai a definire come diritto soggettivo (o addirittura diritto fondamentale) "tutto ciò che appare desiderabile". Giungendo a un effetto paradossale: di provocare una frantumazione individualistica della società e di favorire le tendenze egoistiche del singolo cittadino, che sono la sconfinata prateria in cui il mercato può galoppare senza briglie. Tipica espressione di questa tendenza è la pratica dell’utero in affitto. E, per rimanere in Italia, la sentenza 162 del 2014 della Corte costituzionale che riconosce la possibilità della coppia anche sterile di ricorrere alla fecondazione eterologa, ancorandola alla "fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi" e al diritto "incoercibile" di diventare genitori. Questa sentenza è esemplare di quella che Violante chiama la "insaziabilità" dei diritti fondamentali: perché il diritto alla genitorialità, non certo scritto in Costituzione, viene fatto discendere da princìpi di carattere generale (diritti inviolabili dell’uomo, principio di uguaglianza, tutela della famiglia e della maternità, di cui agli articoli 2, 3 e 31), dando di essi un’interpretazione talmente opinabile e creativa da sconfinare nella discrezionalità politica che, in democrazia, dovrebbe essere il "giardino proibito" riservato al Legislatore. A dare forza a questa nuova "teoria dei diritti" c’è poi l’inarrestabile espansione delle fonti del diritto: non solo le leggi e le Costituzioni nazionali ma, sempre più, anche le Convenzioni internazionali e la giurisprudenza delle Corti europee. Si noti che questa dilatazione non è solo frutto di elaborazioni dottrinali, ma ha trovato esplicito riconoscimento anche in leggi nazionali. Si pensi, ad esempio, all’articolo 35 ter inserito (nel 2014) nel nostro ordinamento penitenziario: secondo cui il giudice di sorveglianza, nel valutare, a fini risarcitori, la sussistenza di "trattamenti inumani e degradanti" (art. 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo) deve far riferimento agli orientamenti giurisprudenziali della Corte di Strasburgo. Con il che si assiste a un singolare capovolgimento: per cui la maggioranza degli elettori, rappresentata dal Legislatore, rinuncia a definire contenuti e contorni di un diritto fondamentale, lasciando questo compito ai giudici di una Corte. Il punto è che le Convenzioni internazionali si limitano, perlopiù, ad affermare princìpi, senza che sussistano norme giuridiche che ne disciplinino l’esercizio e ne definiscano il limite. Ma se si attribuisce natura giuridica a questi princìpi e se si ritiene che debba essere il giudice a disciplinarli e a declinarli in diritti, ecco allora che la nuova definizione del giudice come "creatore di diritti" ha una sua logica. Se a tutto ciò si aggiunge che l’affermazione dei princìpi (contenuta nelle varie Carte) non è sempre chiara e univoca ma appare spesso generica e (a volte) contraddittoria, allora si dovrà riconoscere che il giudice, chiamato a misurarsi con un sistema di fonti sempre più intricato, eserciterà, nella scelta della fonte e nella modulazione del diritto, una discrezionalità enorme. Le opzioni che avrà di fronte - privilegiare questa o quella fonte, darle questa o quella interpretazione - saranno così ampie da trasformare la discrezionalità, giustamente riconosciuta al giudice nell’applicare la legge, in vero e proprio arbitrio affidato quasi esclusivamente alle sue preferenze e ai suoi orientamenti culturali. Il caso più eclatante è la vicenda "Stamina": per cui una Procura ha incriminato per associazione a delinquere ed altri reati i responsabili della fondazione che offriva quel trattamento e, contemporaneamente, un Tribunale ordinava di proseguire la cura per garantire il "diritto alla salute e alla vita individuale" e per evitare che venisse soffocato "il diritto all’autodeterminazione" e il "fondamentale diritto umano a effettuare scelte lecite più consone alle esigenze della propria sfera individuale". Verrebbe da dire: ecco a cosa porta l’idea che ogni desiderio sia un diritto! Ma c’è un ultimo punto su cui dobbiamo riflettere: se l’operazione che il magistrato è chiamato a compiere nell’affermazione dei diritti fosse veramente quella che abbiamo descritto, allora si dovrebbe inevitabilmente riconoscere che il suo compito è cosa completamente diversa da quella del "giudice della Costituzione" che avevano in mente i nostri Padri costituenti. A questo punto, tutti i presìdi posti dalla Costituzione a tutela dell’indipendenza della magistratura - reclutamento burocratico tramite concorso, autogoverno attraverso un Csm eletto per due terzi dagli stessi magistrati, inamovibilità - non avrebbero più senso. L’architrave dell’indipendenza dei magistrati è il capoverso dell’articolo 101 della Costituzione: "I giudici sono soggetti soltanto alla legge". Ma se la legge non conta più nulla, a cosa serve l’indipendenza dei giudici? Perché dei giudici, cui venga attribuito il potere di compiere scelte discrezionali che tipicamente appartengono alla politica, dovrebbero essere privi di legittimazione democratica? Ci sono grandi democrazie in cui il diritto giurisprudenziale conta più della legge. Ma in quelle democrazie i pubblici accusatori sono elettivi e i giudici nominati dal governo. Il modello di giudice che piace tanto ai fautori della "teoria dei diritti" prima o poi, inevitabilmente, dovrebbe essere collegato (direttamente o indirettamente) con il principio della sovranità popolare. Come non accorgersene? Si potrebbe obiettare: ma perché non accettare l’elettività? Non ho dubbi nel rispondere: perché la realtà è diversa dai sogni. Come idea astratta, l’elettività di un magistrato raggiunge la perfezione. Cosa c’è di più democraticamente puro di un popolo che sceglie i suoi magistrati, affidando ai migliori e ai più saggi il compito di vigilare sulle proprie libertà? Ma la realtà ci dice che le forme concrete con cui la politica si realizza farebbero in modo che la maggioranze politiche del momento controllerebbero anche l’elezione dei magistrati: imporrebbero i loro candidati, quelli più pronti a promettere e servire. Inoltre, nella nostra civiltà dell’immagine, in cui l’esposizione mediatica vale più del merito, i meccanismi di formazione del consenso elettorale premierebbero non i migliori ma i più capaci ad apparire, a farsi sentire. E, per un magistrato, apparire e farsi sentire significa dare pubblicità al proprio lavoro in forme spettacolari che quasi mai sono compatibili con il rendere giustizia. Sono certi di volere proprio questo i teorici del "giudice che crea i diritti"? Veneto: chiusura Opg, da oggi attiva la Rems provvisoria all’ex ospedale di Nogara ilfarmacistaonline.it, 21 gennaio 2016 Sedici posti letto, che ospiteranno pazienti provenienti, per la gran parte, dalla struttura di Reggio Emilia. Troverà così soluzione, almeno provvisoriamente, la complicata vicenda che vedeva 14 internati veneti ospitati irregolarmente dall’Opg di Reggio Emilia per mancanza di una Rems in Veneto dove trasferirli. È stata attivata oggi, presso l’ex ospedale Stellini di Nogara (Verona), la Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza - Rems provvisoria che ospiterà i malati psichiatrici veneti in regìme di detenzione, prima ricoverati negli Ospedali Psichiatrici giudiziari - OPG, ora chiusi per decisione del Governo nazionale. A darne notizia è una nota della Regione Veneto, in cui si spiega che la struttura provvisoria è dotata di 16 posti letto che ospiteranno pazienti, per la gran parte provenienti dalla struttura di Reggio Emilia. Troverà così soluzione, almeno provvisoriamente, la complicata vicenda che vedeva 14 internati veneti ospitati irregolarmente dall’Opg di Reggio Emilia per mancanza di una Rems in Veneto dove trasferirli (altri 5 paziente rimasti nell’Opg di Reggio Emilia provenivano dalla Lombardia e 1 dalla Toscana). "In spirito di totale collaborazione con la magistratura - commenta nella nota l’assessore regionale alla Sanità Luca Coletto - abbiamo realizzato in tempi brevissimi questa struttura, provvisoria come chiesto dal Governo, ma dotata di tutte le necessarie caratteristiche di efficienza e sicurezza. La Rems definitiva troverà posto all’interno di un fabbricato di nuova costruzione, che sarà completato entro fine 2017 sempre nel lotto dello Stellini e sarà dotato di 40 posti letto". "Sin da oggi - garantisce Coletto - sono garantiti i migliori standard sia dal punto di vista strutturale che da quello della sicurezza, interna ed esterna. È attivo un sistema di videosorveglianza con 40 telecamere che coprono l’intera struttura e un servizio di vigilanza privata sarà presente H24 all’esterno e negli spazi limitrofi". Lo staff di assistenza è composto da medici psichiatri, psicologi criminologi, educatori professionali, terapisti della riabilitazione, infermieri, operatori socio sanitari ed assistenti sociali. Il team sarà coordinato da un responsabile psichiatra esperto. "Su questa vicenda - conclude Coletto - sono state fatte tante inutili polemiche, accusando la Regione di presunti ritardi che non ci sono stati. Ricordo che la legge nazionale specifica fu approvata nel 2012, che la Regione inviò il proprio progetto, approvato dal Governo, già nel 2013, che però i fondi necessari alla realizzazione, che per legge devono essere nazionali, sono stati resi disponibili solo a marzo 2015". Piemonte: chiusura Opg, manca ancora il contratto tra Asl e Rems San Michele di Bra di Erica Asselle La Stampa, 21 gennaio 2016 I capigruppo del Consiglio comunale di Bra, con il sindaco Bruna Sibille, hanno incontrato l’altra sera la proprietà della Casa di Cura San Michele che ospita 18 pazienti psichiatrici giudiziari nel reparto Rems. "I titolari della clinica - spiega il sindaco Sibille - ribadiscono di aver fatto interventi sulla sicurezza e di aver superato un primo periodo difficile, trattandosi anche della prima struttura in Italia che svolge questa funzione. I capigruppo hanno fatto alcune domande per capire meglio la situazione, io ribadisco che le verifiche periodiche da fare sull’adeguatezza della struttura sono in capo ad altri enti (Asl e Regione), dai quali ci aspettiamo informazioni precise che come Comune non siamo in grado di verificare". Questioni aperte - Tra i nodi ancora da sciogliere, c’è la firma del contratto tra la San Michele e l’Asl: rispetto a una prima bozza subordinata alle indicazioni previste da una determina della Regione sono state apportate alcune modifiche. Tra queste, il limite massimo a 18 pazienti alla Rems di Bra e la scadenza del contratto al 31 dicembre 2018, senza, per ora, possibilità di proroghe. Di fatto la mancata stipula del contratto blocca anche il pagamento della "degenza" dei detenuti degli ex ospedali psichiatrici giudiziari: denaro che dovrebbe arrivare alla San Michele dalla Regione attraverso le casse dell’Asl Cn2. A complicare i rapporti economici tra la casa di cura braidese e l’ente sanitario anche una serie di contenziosi, alcuni passati in giudicato, altri ancora in corso o definiti con un accordo tra le parti: l’Asl Cuneo2 ha sospeso negli anni passati, il pagamento di quanto dovuto alla San Michele per l’accoglienza di pazienti "ordinari", contestando errori nell’interpretazione degli accordi contrattuali in convenzione. Le cifre, differenti anno per anno, ammontano a centinaia di migliaia di euro che, nel caso dei procedimenti già conclusi, il tribunale di Asti ha condannato l’Asl a risarcire alla casa di cura. Lunedì, la Giunta regionale con una delibera da 2 milioni di ero, ha avviato un programma a sostegno delle Asl e dei malati colpevoli di reato per interventi di cura alternativi alle Rems. "Maggiore chiarezza" - "A breve saranno definiti i punti della bozza di contratto - dice il direttore amministrativo della Cuneo2, Gianfranco Cassissa - e auspichiamo che vengano chiusi presto anche i contenziosi ancora aperti". "Attendiamo l’incontro con la Regione - spiega il capogruppo dei 5 Stelle, Claudio Allasia, ma vorremo maggiore chiarezza su chi ha in capo la responsabilità delle procedure di sicurezza e dei controlli e una traccia scritta che vincoli ciascuno a rispettare certe prescrizioni". Intanto sono pronte le telecamere per il controllo esterno che erano state richieste alla clinica, mentre è al vaglio il progetto di destinare il secondo modulo, previsto inizialmente per altri 12 pazienti Rems, ad ampliare gli spazi a disposizione degli attuali ex Opg. Umbria: Garante dei detenuti, in 5 si presentano per succedere a Carlo Fiorio di Daniele Bovi umbria24.it, 21 gennaio 2016 Si tratta di Simona Materia, Stefano Anastasia, Fabiana Massarella, Alessia Nataloni e Ludovica Khraisat. In consiglio regionale per i primi tre voti servirà la maggioranza dei due terzi. Dopo la scadenza del mandato affidato al professor Carlo Fiorio, docente dell’Università di Perugia, in consiglio regionale riprende l’iter che porterà all’elezione del nuovo garante dei detenuti. Nei giorni scorsi infatti l’Ufficio di presidenza dell’assemblea legislativa umbra, che a ottobre aveva dato vita a un avviso pubblico finalizzato alla ricerca del nuovo garante, ha preso atto delle cinque candidature presentate entro i termini. La cinquina è formata da Simona Materia, Stefano Anastasia, Fabiana Massarella, Alessia Nataloni e Ludovica Khraisat. Nomi che ora saranno messi sul tavolo della Prima commissione, dove si valuteranno i requisiti e il rispetto delle modalità di presentazione della domanda. Poi, una volta stilato l’elenco, questo verrà portato in consiglio regionale dove per eleggere il nuovo garante nelle prime tre votazioni servirà una maggioranza dei due terzi. Chi sono Simona Materia, una laurea in giurisprudenza conseguita nel 2005, è assistente di cattedra all’Università di Perugia ed è anche un membro dell’associazione Antigone, che si occupa di diritti e garanzie nel sistema penale. Stefano Anastasia è invece un ricercatore che lavora al Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Perugia nella sezione di storia e filosofia del diritto. Fabiana Massarella è una giovane avvocatessa che lavora in uno studio legale perugino mentre Alessia Nataloni, anche lei una laurea in giurisprudenza, ha fatto parte così come Massarella dello staff di Fiorio. Idem per quanto riguarda Ludovica Khraisat, giovane avvocatessa che è stata responsabile dell’area legale dell’ufficio del garante. Compiti e indennità - Il compito principale del successore di Fiorio sarà garantire i diritti delle persone detenute (ma non solo, si pensi ad esempio a chi ha dovuto subire un Tso), il suo mandato durerà cinque anni e sarà scelto tra persone "con comprovata esperienza nel campo delle scienze giuridiche, sociali, dei diritti umani e con esperienza in ambito penitenziario". Al garante spetterà anche un’indennità mensile che non potrà essere più del 20 per cento di quella lorda che spetta a un consigliere regionale. Il mandato di Fiorio è stato molto più breve di quanto previsto: il professore infatti è stato eletto nell’aprile 2014 dopo ben otto anni di inadempienza da parte del consiglio regionale, che aveva istituito la figura del garante attraverso una legge approvata del 2006. Nel 2014 però il consiglio ha deciso che il mandato di Fiorio sarebbe terminato con la fine della legislatura, cioè un anno dopo. Porto Azzurro: detenuti della Casa di Reclusione impiegati per lavori di pubblica utilità gonews.it, 21 gennaio 2016 Per 6 mesi sei volontari della Casa di reclusione di Porto Azzurro si occuperanno della pulizia e del decoro urbano nel territorio comunale di Rio nell’Elba, grazie ad una convenzione attivata con il Comune. Si tratta di uno dei primi progetti attivati a livello nazionale nei Comuni. La convenzione ha la finalità di promuovere azioni concordi di sensibilizzazione nei confronti della comunità locale rispetto al sostegno e al reinserimento di persone in esecuzione penale; promuovere la conoscenza e lo sviluppo di attività a favore della collettività; favorire la costituzione di una rete di risorse che accolgano i soggetti detenuti ammessi al lavoro esterno (art. 21 O.P.) o ammessi a misura alternativa che hanno aderito ad un progetto riparativo. "Si tratta di un esperimento molto importante e di grande valore sociale - ha dichiarato il dr. Francesco D’Anselmo, direttore della Casa di reclusione di Porto Azzurro - in quanto i detenuti svolgeranno servizio volontario al di fuori del carcere con prestazioni di pubblica utilità. Trattandosi di volontariato non saranno retribuiti ma avranno comunque un rimborso spese. È una misura importante anche a titolo di riparazione verso la collettività per i reati commessi da parte dei detenuti. Questa attività è resa possibile grazie ad una innovazione, inserita nel 2013 nella Legge sull’Ordinamento penitenziario, che prevede che i detenuti possano essere assegnati a prestare la propria attività a titolo volontario e gratuit’ in favore della collettività. Ovviamente sono stati selezionati anche in base alle attività già svolte all’interno del carcere. I detenuti sono molto soddisfatti per questa iniziativa. C’è ancora molto da fare per sensibilizzare su questo tipo di attività e su questa misura ad oggi poco applicata perché poco conosciuta. A questo proposito, desidero ringraziare il sindaco di Rio nell’Elba, Claudio De Santi per la sensibilità e vicinanza dimostrata al carcere e a questa iniziativa molto importante che è fra le prime attuate in Italia nei Comuni. Una iniziativa fortemente voluta dal sindaco di Rio nell’Elba, Claudio De Santi, che ha così commentato: "Per il Comune di Rio nell’Elba è molto importante aver avviato un progetto sperimentale di questo tipo, che permetterà alle persone coinvolte di avere una opportunità, sia per mitigare la loro condizione di recluse, sia di partecipare ad un percorso di inclusione sociale, attraverso il loro impegno attivo a favore della collettività. Per il nostro territorio ciò rappresenta anche un importante sostegno, data la scarsità di personale per le attività previste. Inoltre tutto ciò non graverà ulteriormente sulle attuali spese dei cittadini rispetto ai relativi tributi. Tutto ciò è stato possibile grazie alla collaborazione con il direttore D’Anselmo, attraverso il cui sostegno abbiamo potuto attivare le procedure per attivare questo progetto". Nuoro: il senatore Cucca dopo la visita al carcere "percorso virtuoso, esempio da imitare" La Nuova Sardegna, 21 gennaio 2016 Il senatore Giuseppe Luigi Cucca, componente della Commissione giustizia, insieme alla consigliera regionale Daniela Forma ha visitato il carcere di Badu e Carros. L’obiettivo della visita era quello di verificare lo stato del penitenziario e constatare le condizioni di vita dei detenuti. Il senatore nuorese del Pd ha anche approfittato della visita per ringraziare la direttrice Carla Ciavarella, che ha lasciato ufficialmente l’incarico da qualche giorno ma che sta comunque continuando a coordinare tutta l’attività in attesa della nomine del nuovo direttore. "Ha svolto un lavoro prezioso nell’interesse pubblico e del sistema penitenziario - ha sottolineato Giuseppe Luigi Cucca. Se gestire un carcere è sempre un attività molto complessa, credo che sia ancora più difficile farlo in una struttura dalla quale emergono chiaramente i segni del tempo e, soprattutto, la mancanza di risorse per far fronte all’urgente recupero di diversi comparti. Ma anche su questo fronte - ha continuato il senatore - la direzione ha provveduto ad attivare i lavori più urgenti in economia, con la collaborazione degli stessi detenuti. Un esempio da imitare". L’iniziativa organizzata dalla direttrice ha permesso l’adeguamento di aree importanti del penitenziario, con un considerevole risparmio per le casse del ministero della Giustizia. Una ristrutturazione che ha permesso il recupero di spazi per ulteriori attività rieducative dei detenuti. "Il carcere di Badu e Carros è una comunità di persone che, al di la delle misure restrittive, si adoperano quotidianamente per rendere accogliente l’ambiente in cui vivono - ha sottolineato Cucca -. È lampante il contrasto tra le precarie condizioni strutturali generali dell’edificio e il modo accogliente in cui sono decorati gli ambienti per il ricevimento dei familiari, le mura del cortile interno e le varie aree comuni. Inoltre - ha aggiunto con soddisfazione il senatore, nonostante la grave carenza di organici della polizia penitenziaria e con il personale amministrativo ridotto all’osso, il carcere è amministrato in maniera egregia. Ed è palese - ha concluso il componente della Commissione giustizia del Senato - il clima sereno che si respira nel penitenziario e l’unanime apprezzamento dei detenuti e del personale nei confronti della direttrice Carla Ciavarella che ha avviato un interessante percorso virtuoso". Genova: condizioni "umilianti e degradanti", 2 detenuti risarciti per celle troppo anguste La Repubblica, 21 gennaio 2016 A uno sono andati 4.300 euro, ad un altro 4.900. Riconosciute le condizioni "umilianti e degradanti". Due ex-detenuti hanno ottenuto dal Tribunale di Genova, in sede civile, risarcimenti per 4.300 e 4.900 euro da parte del Ministero di Grazia e giustizia, per essere stati reclusi in celle troppo piccole. I due usufruivano di uno spazio inferiore ai 3 metri quadri ciascuno, limite minimo fissato da sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. Lo rivela l’avvocato del Foro di Genova Alessandra Ballerini. Le due sentenze arrivate a giudizio, anche grazie a una nuova normativa italiana, prevedono un risarcimento di 8 euro per ogni giorno passato in una cellula troppo piccola. La condanna quindi prevede 4.300 euro di risarcimento per un detenuto recluso nel carcere milanese di San Vittore (Milano) e in quello di Cremona per un totale di 541 giorni; e 4.900 euro per un altro detenuto per 615 giorni, nelle carceri liguri di Marassi (Genova) e Chiavari. Le sentenze prevedono anche la condanna alla copertura delle spese legali. "I giudici civili hanno riconosciuto che gli spazi angusti in cui sono costretti a vivere molti reclusi sono contrari al senso di umanità e diventano condizioni umilianti e degradanti", spiega l’avvocato Ballerini che sta seguendo altri sei casi di questo tipo. Firenze: Sollicciano al gelo da sei giorni, impianto di riscaldamento guasto da venerdì di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 21 gennaio 2016 I Radicali: "Vergogna italiana". La nuova direttrice dà l’allarme. Il cappellano: è una tortura. Fuori uso il riscaldamento, fuori uso l’acqua calda. Temperature glaciali nelle celle, lungo i corridoi, nelle stanze. Alcuni detenuti dormono vestiti, tentano di arginare il freddo con le coperte, ma spesso ne hanno soltanto una. Alcuni agenti penitenziari lavorano col giubbotto, i doppi calzini, le sciarpe. Quasi impossibile farsi la doccia, difficile perfino dormire. Quasi mille persone al freddo, ogni giorno. Condizioni di vita durissime all’interno del carcere fiorentino, dove venerdì scorso si è guastato il grande impianto di riscaldamento. Non tutto l’istituto è interessato al guasto, ma sono diverse le aree rimaste al gelo. Nessuno, almeno finora, è riuscito a risolvere il problema. I tecnici sono stati a Sollicciano, ma il guasto è ancora lì. La Uil penitenziari parla di "condizioni durissime", il cappellano del carcere, don Vincenzo Russo, dice che "in queste condizioni il carcere diventa una tortura". Il provveditore regionale alla giustizia, Carmelo Cantone, ridimensiona il problema: "I guasti sono in via di risoluzione, le condizioni del reparto maschile sono buone, nel reparto femminile ci sono zone in cui l’erogazione del calore non è buona". E poi: "La direzione ha diffidato la ditta che gestisce l’impianto, dovremo avere risposte entro 24 ore". Non è la prima volta che succede, guasti del genere si erano verificati anche negli scorsi anni. Ma stavolta è peggio, perché la temperatura esterna scende sotto lo zero e quella interna, in alcune zone, è più o meno la stessa. "Non possiamo vivere così, rischiamo la salute". Lo dicono i reclusi, gli agenti penitenziari e molti di quelli che vivono quotidianamente il carcere, dai volontari ai mediatori culturali. Zero gradi in vari punti del carcere, freddo nella caserma degli agenti, incontri tra reclusi e parenti col cappotto. Alcuni detenuti si sono ammalati. E così gli agenti. Qualcuno di loro si è attrezzato con piccole stufe elettriche (non in dotazione ai reclusi), in alcuni casi portandosele da casa. "Allarme freddo" lanciato anche dalla nuova direttrice, Marta Costantino (già membro dello staff del Dipartimento della Giustizia), insediatasi a Sollicciano in sostituzione di Mariagrazia Giampiccolo proprio tre giorni fa. Ha girato il carcere e ha trovato condizioni drammatiche, rendendosi conto sulla propria pelle del freddo dentro tutto l’istituto penitenziario. "Sollicciano è una vergogna italiana" tuona l’esponente radicale Rita Bernardini, che si domanda: "Dove sta il Provveditore regionale? Dove sta il Magistrato di Sorveglianza?" Poi aggiunge: "Il freddo gelido di questi giorni colpisce in primo luogo i detenuti ma anche il personale e i parenti in visita, spesso anziani". Domenica scorsa, il cappellano don Russo ha celebrato la messa davanti a una platea infreddolita: "C’erano cinque gradi nella chiesa". Poi aggiunge: "I guasti all’impianto di riscaldamento si verificano spesso, alcune parti del carcere restano al freddo, in altre va un po’ meglio. È urgente risolvere il problema una volta per tutte". Savona: chiusura del carcere, scoppia la polemica politica e Vaccarezza (Fi) punge il Pd ivg.it, 21 gennaio 2016 Dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Ligure arriva la conferma sulla chiusura del carcere Sant’Agostino di Savona, ma vengono respinte le accuse su criticità della struttura e di un clima di alta tensione per le condizioni del carcere. La struttura si sta già preparando alla dismissione e nell’ultimo periodo è diminuito il numero di carcerati, ricevendo solo gli arrestati a disposizione della magistratura e di detenuti semiliberi e lavoranti. E dal Dipartimento arriva secca la smentita di manifestazioni di protesta. Ma la chiusura del Sant’Agostino alimenta anche il dibattito politico, anche perché il tema del carcere, e del nuovo carcere, sarà tra i punti di scontro della campagna elettorale per le prossime elezioni comunali. Oggi pomeriggio l’intervento del capogruppo FI in Regione Angelo Vaccarezza: "Ancora una volta il governo Renzi ha dimostrato di non aver a cuore uno dei valori fondamentali del vivere civile nel nostro paese: la sicurezza. Il Guarda sigilli ligure Piddino Orlando (che in quanto tale dovrebbe ben conoscere il territorio…alla prova dei fatti così non è) ha deciso per la chiusura della casa circondariale di Savona, senza trovare una soluzione alternativa". "La città è l’intero territorio si trovano qui di privati di un a struttura che oltre ad essere stata da poco oggetto di lavori di ristrutturazione (quindi, devo pensare una spesa inutile a danno dei contribuenti?) e pur con le difficoltà è sempre stata una struttura di sostegno al Carcere di Marassi. Quindi, non potendo anzi, non volendo trovare una diversa soluzione (pare anche che la ventilata ipotesi di costruzione di una struttura a Cairo sia appunto solo un’ipotesi) uno dei massimi rappresentanti del PD al governo altra soluzione non trovi se non cancellare una realtà lavorativa per molti e di sicurezza per moltissimi" dice Vaccarezza. "Bene. Dopo il fallito tentativo di eliminare la Prefettura, dopo aver azzerato inutilmente ed in maniera totalmente priva di ogni criterio costruttivo la Provincia, dopo aver cancellato l’Autorità Portuale il Governo dei non eletti ha assestato un altro colpo da maestro: l’eliminazione di un carcere in un momento storico in cui la sicurezza dovrebbe essere il primo degli obiettivi. Se queste sono le premesse, se questo mondo di valori al contrario è il cavallo di battaglia del centrosinistra, ci vorrà un candidato sindaco davvero impavido". "Chi abbia il coraggio di affermare che la sicurezza, nostra e dei nostri figli sia solo piccola cosa, che abbia la forza di sostenere che questa città non vada cambiata nel suo profondo, ma che spieghi anche i motivi per cui i suoi colleghi, che lo (la?) sostengono di partito siano coloro ai quali di questo imbarbarimento poco importa. A patto di star seduti su una poltrona. Una qualunque. È per questo che noi siamo pronti a dar battaglia a chiunque, per primo a Di Tullio" conclude Vaccarezza. Intanto arriva anche una puntualizzazione del Sappe. "L’annunciato sciopero della fame dei detenuti del Sant’Agostino di Savona, soppresso dal ministero di Giustizia, non c’è stato perché una dozzina di detenuti oggi sono stati trasferiti in altri penitenziari. I detenuti si sono limitati a protestare dalle 12.30 alle 13 picchiando le stoviglie nelle sbarre. Quindi è stato tolto il potenziale problema della protesta così come fecero nel mese di ottobre quando si annunciò la chiusura del carcere". Lo afferma Lorenzo Michele, segretario regionale del sindacato che ricorda anche che "gli stessi detenuti inviarono una lettera al ministero sulla vicenda savonese. A tutto ciò aggiungiamo il fatto che nessuno degli agenti della polizia penitenziaria dell’istituto savonese conosce il suo futuro. Siamo a conoscenza della comunicazione della soppressione del Sant’Agostino, ma chiediamo di essere convocati al più presto dal Dipartimento per capire che cosa ne sarà dei colleghi che attualmente sono ancora in servizio a Savona, in tutto una cinquantina. Quale futuro e quale destinazione li attende". Lo stesso Lorenzo Michele ricorda anche che "secondo una ricerca del quotidiano Il Piccolo il carcere savonese è risultato essere il quinto istituto in Italia con il 116 % di tasso di sovraffollamento per numero di detenuti ospitati". Bari: droga in carcere trasportata con i droni, il Pd chiede l’intervento del governo di Francesca Russi La Repubblica, 21 gennaio 2016 L’interrogazione del deputato dem Ginefra al ministro Orlando. Al centro dell’interrogazione, però, c’è tutto il sistema di sicurezza del carcere di Bari, collocato al centro della città. C’erano una volta i lanci oltre il muro di cinta: dalle abitazioni vicine di via Giovanni XXIII piovevano all’interno del carcere di Bari pacchettini di droga. Poi le donne dei clan, mogli e fidanzate dei detenuti, aguzzarono l’ingegno e con lunghi baci appassionati sulla bocca riuscirono a far passare bustine di cocaina durante gli incontri ma furono scoperte dai carabinieri. Per far entrare le sostanze stupefacenti all’interno del penitenziario, allora, qualcuno ha provato a occultare cocaina e hashish cucendo le bustine all’interno dei pantaloni inviati con i pacchi abbigliamento quasi sempre scoperte dalla polizia penitenziaria. Adesso, però, tutto questo sembra essere preistoria. Perché con i modernissimi droni, in grado di sorvolare gli edifici, introdurre la droga in carcere diventa un gioco da ragazzi. E, soprattutto, è molto meno rischioso. Il timore che qualcuno possa essersi dotato delle ultimissime tecnologie c’è e lo dimostra l’interrogazione parlamentare del deputato barese del pd Dario Ginefra depositata al ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Tra le richieste di chiarimento e i quesiti posti al ministro, Ginefra lo mette nero su bianco. "Si chiede di conoscere l’attuale stato di funzionamento del sistema di videosorveglianza del carcere di Bari, se sono previste dal ministero e dal Dap forme di sostegno per l’efficientamento delle telecamere interne ed esterne per fronteggiare l’uso avanzato di tecnologie, a partire dai droni, nell’immissione di eventuali sostanze stupefacenti o altro". Una considerazione che nasce all’indomani della visita alla struttura di corso Alcide De Gasperi fatta dal deputato dem. Ginefra, dopo i fuochi d’artificio esplosi a ridosso del muro di cinta del penitenziario e la violenta rissa tra clan scoppiata nella terza sezione, ha voluto rendersi conto di persona della situazione. "Durante la visita ho visto funzionare soltanto le telecamere della seconda sezione - spiega - e ho ricevuto la denuncia da parte di un funzionare del Sappe del mancato funzionamento della videosorveglianza. Eppure rispetto a tecniche avanzate, come può essere quella dell’utilizzo dei droni, bisogna disporre di sistemi di sicurezza all’avanguardia". Al centro dell’interrogazione, però, c’è tutto il sistema di sicurezza del carcere di Bari, che per la sua collocazione al centro della città, come spesso denunciato dai sindacati, si presenta molto più vulnerabile all’introduzione di droga o coltelli. I lanci di una volta non sono stati affatto archiviati. Un anno fa era stato sempre il Sappe la "caduta di polvere bianca dal cielo"."Si chiede se per carceri come quello di Bari e Milano che hanno ubicazione in città, al centro dell’abitato e con gravi disagi per la popolazione, e che avrebbero un alto valore dal punto di vista di valorizzazione immobiliare - prosegue Ginefra - il ministro intenda promuovere percorsi per nuovi e più moderni istituti penitenziari anche periferici e più rispettosi delle normative comunitarie che prevedono spazi più ampi per i detenuti". E ancora, "a seguito dei ricorrenti episodi di fuochi e festeggiamenti fuori dal carcere si chiede se siano stati accertati i responsabili". Ma il problema riguarda anche la carenza di organico tra gli agenti della penitenziaria che, fra una traduzione di un detenuto e le ronde interne, non riescono a presidiare tutta l’area del muro di cinta 24 ore su 24. "Voglio capire come si intende affrontare il tema della carenza di organico che a Bari è sotto di 30 unità con previsione di altre 20 che andranno via per anzianità", conclude il parlamentare. Parma: corrompono un agente per farsi portare un cellulare in carcere, due arrestati parmatoday.it, 21 gennaio 2016 Gli accertamenti hanno permesso di dimostrare che i due arrestati erano riusciti a corrompere un agente della Polizia Penitenziaria in servizio a Parma convincendolo, con la promessa di benefici economici e di altre utilità, a far recapitare, all’interno della casa circondariale, un telefono cellulare ed un registratore audio. I Carabinieri del Nucleo Investigativo di Parma, a seguito di una complessa attività d’indagine coordinata dalla Procura di Parma, hanno dato esecuzione a due provvedimenti cautelari emessi dal Tribunale locale per il reato di corruzione. Le indagini hanno coinvolto un pregiudicato 58enne di origine calabrese, già detenuto per altri reati, ed il figlio 32enne abitante in provincia di Genova. Gli accertamenti, coordinati dal Pubblico Ministero, hanno permesso di dimostrare che i due arrestati, in concorso tra loro, erano riusciti a corrompere un agente della Polizia Penitenziaria in servizio a Parma convincendolo, con la promessa di benefici economici e di altre utilità, a far recapitare, all’interno della casa circondariale, un telefono cellulare ed un registratore audio al 58enne. L’uomo, tra i mesi di novembre e dicembre 2014, ha potuto così aggirare le limitazioni impostegli dalla detenzione avendo contatti con persone esterne al carcere. A seguito di tutti gli elementi raccolti l’A.G. ha disposto la misura cautelare in carcere per il 58enne, gli arresti domiciliari per il 32enne e la sospensione dal pubblico impiego per 12 mesi nei confronti dell’agente che, in via cautelare, era stato già sospeso dal servizio dall’Amministrazione di appartenenza. Torino: agente penitenziario messo a fare il custode, il Sindacato Osapp scrive a Orlando La Repubblica, 21 gennaio 2016 Il caso al carcere minorile Ferrante Aporti. L’Osapp: "Personale dirottato mentre i colleghi sono costretti a turni massacranti, c’è da ridere per non piangere". "Al Ferrante Aporti mancano agenti e si decide pure di distaccarli altrove". Il sindacato di polizia penitenziaria Osapp scrive al ministro della Giustizia Andrea Orlando per denunciare una situazione "che dura da moltissimi mesi". La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata le decisione di distaccare un agente dell’istituto minorile al Tribunale dei Minori di Torino "in qualità di custode degli uffici giudiziari - scrive il segretario generale Osapp Leo Beneduci - Come se le condizioni di lavoro al Ferrante Aporti non fossero già abbastanza precarie, senza contare che per legge questi compiti di vigilanza non spettano alla polizia penitenziaria". L’agente in questione dovrebbe prendere servizio al Tribunale a partire dall’1 febbraio per un periodo di tre mesi. "Ma all’istituto minorile il personale è già sottoposto a turni che eccedono l’orario giornaliero concordato perché c’è una penuria di organico. Si mette a rischio la sicurezza e la salute degli stessi lavoratori". Per l’Osapp ha chiesto l’intervento dell’autorità giudiziaria e della Corte dei Conti. Libri: "Storia di un giudice nel far west della ‘Ndrangheta", di Francesco Cascini recensione di Carmelo Musumeci (ergastolano) Ristretti Orizzonti, 21 gennaio 2016 Da tempo sono convinto che i libri ti possono aiutare a trovare nuovi modi di pensare. Forse per questo spesso quando mi chiudono il cancello della mia cella non accendo neppure la televisione e mi sdraio nella mia branda leggendo un libro dalla mia scorta personale che mi mandano dal mondo dei vivi. Ieri sera ho preso fra le mani uno strano libro dal titolo "Storia di un giudice", sottotitolo: "Nel far west della ‘Ndrangheta" di Francesco Cascini (edito da Einaudi). E l’ho letto in tre ore. Talmente era interessante che mi sono interrotto solo per fumarmi quattro sigarette e una volta per andare in bagno perché mi stavo pisciando addosso. Sinceramente ho sempre pensato che i giudici, nella stragrande maggioranza dei casi, non fossero migliori dei delinquenti. Forse perché fin da bambino quando mia nonna mi portava a fare la spesa nella piazzetta del paese e vedeva un uomo in divisa (poteva essere anche un vigile urbano) mi diceva: "Stai attento a quello … è l’uomo nero". Sinceramente, sono sempre stato convinto che la differenza fra giudici e criminali era solo che i primi applicassero delle leggi scritte e i secondi delle leggi non scritte. E in tutti i casi ho sempre creduto che anche i criminali hanno dentro di loro dell’umanità,+ solo che alcuni di loro non lo sanno e altri non sanno come usarla. Incredibilmente, questo libro mi ha fatto capire che nella vita avrei potuto anche essere un buon giudice. Ecco alcuni brani che mi hanno particolarmente colpito di questo libro: - È indispensabile affrontare la lettura di ciascun fascicolo, anche quello relativo a eventi di scarsa gravità, con competenza e professionalità, ma soprattutto con la sensibilità per comprendere l’importanza personale, morale e patrimoniale che quei fatti hanno per ciascuna delle persone coinvolte in un procedimento penale. Penso però che fin quando non si curano i cuori delle persone un certo tipo di criminalità non potrà mai essere sconfitta. - Noi non siamo, non siamo depositari della verità e non siamo chiamati a salvare il mondo. Siamo funzionari dello stato che devono applicare con rigore le regole e la legge. Io aggiungerei anche con il cuore. - Quando ammazzavano qualcuno, erano tante le persone che si autoassolvevano per il loro disinteresse: "Se è finito in quel modo qualcosa avrà pur fatto". Spesso si punisce il reato, ma non interessa a nessuno il perché una persona commette un reato. - Perché dovrebbero fidarsi di noi? Perché le persone dovrebbero ragionare in modo diverso dallo Stato che si nasconde? Credo che molti delinquenti non sono cattivi, ma fanno solo i cattivi commettendo dei brutti reati. - La ‘ndrangheta vera non è solo quella che spara o che fa le estorsioni. La ‘ndrangheta vera è quella dei soldi, degli investimenti, della politica, dell’economia, del potere. In carcere ci vanno solo i pesci piccoli e spesso ce li mandano gli stessi pescecani per rimanere pescecani. - Mi fece una grande tenerezza e mi pentii di non essere riuscito a ringraziarla e dirle quanto le volevo bene. Mi capitava anche a me quando ero sottoposto al regime di tortura del 41 bis di non riuscire a dire ai miei figli e alla mia compagna quanto li amavo in quell’unica ora di colloquio al mese tramite un vetro divisorio. - Parlai per sei ore consecutive senza essere sicuro di avere il coraggio di richiedere una condanna all’ergastolo. Avevo sempre pensato che l’ergastolo fosse una sanzione ingiusta. Contraria ai nostri principi costituzionali. La pena deve tendere alla rieducazione e un fine pena mai non può consentire di raggiungere questo risultato. Senza speranza è difficile rimanere umani. L’arma più grande che abbiamo per sconfiggere la criminalità non è il carcere, neppure il regime di tortura del 41 bis, ma è la nostra Carta Costituzionale. È difficile migliorare quando capisci che non esisti più e non conti più nulla. Ogni essere umano per migliorare e riflettere sul male che ha commesso ha bisogno di sperare e di essere condannato ad amare ed essere amato, perché solo l’amore sociale ti fa uscire il senso di colpa. Giudice Francesco Cascini, penso che l’educazione e l’ambiente sono fattori molto importanti e determinanti nelle scelte di una persona dato, che spesso è difficile distinguere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato perché questo di solito viene deciso dall’ambiente in cui sei cresciuto. Molti studiosi invece affermano che la ragione e il coraggio sono più determinanti dell’ambiente sociale, culturale e familiari di dove sei nato e chiunque può uscire fuori dalla "caverna". Non so chi abbia ragione. So però che io non ce l’ho fatta. E anche se sono nato colpevole ho deciso di diventarlo. Le confido che però dopo aver letto il suo libro non la vedo più come un nemico o come un uomo nero (e che "vada al diavolo" anche quella brava donna che era mia nonna) ma solo come un uomo che ha fatto delle scelte diverse dalle mie. E sono convinto che il suo libro (le consiglio di farlo girare nelle biblioteche delle carceri) può dare un duro colpo alla ‘Ndrangheta più di tanti ergastoli o inutili anni di carceri. Buona vita. Un sorriso fra le sbarre. Gran Bretagna. La mossa che spiazza la Ue, un "brexit" anticipato per fermare i profughi di Leonardo Clausi Il Manifesto, 21 gennaio 2016 La gestione del flusso migratorio in Europa sta causando più di un problema all’equilibrismo con cui David Cameron cerca di impostare le proprie richieste di rinegoziazione della partecipazione della Gran Bretagna all’Unione Europea, e potrebbe finire per anticipare la data del referendum sulla cosiddetta Brexit, l’uscita definitiva del paese dall’Unione. Bruxelles intende infatti eliminare, con una proposta che sarà presentata in primavera, la norma che obbliga i migranti a cercare asilo nel primo paese in cui arrivano, grazie indirettamente al quale la Gran Bretagna rispedisce circa un migliaio di profughi l’anno. Si tratta di un riequilibrio sociale e geografico dei doveri di accoglienza, che li ridistribuisce in modo più conforme a direttrici di flusso che si muovono tradizionalmente da sud a nord dell’Europa e che vedono la Gran Bretagna come destinazione ambita ed ideale per migliaia di persone. Molte delle quali rispedite a casa finora proprio grazie a detto regolamento, detto di Dublino perché ivi ratificato nel 1990 (ed entrato in vigore nel 1997). La norma sarà cancellata perché in realtà quasi mai applicata, visto l’enorme influsso migratorio sulle spiagge italiane e greche che poi prosegue via terra sempre verso i paesi del nord. Fu la Germania di Angela Merkel (la stessa Merkel ha definito le regole "obsolete") la prima a trascurarne i divieti, quando consentì libero ingresso a migliaia di profughi siriani lo scorso settembre, mettendone così drammaticamente a nudo l’inadeguatezza, peraltro già ampiamente evidenziata dalla condizione geomorfologica di Italia e Grecia, paesi con chilometri di coste impossibili da monitorare. Ma quello che Juncker vede forse come un approccio più realistico alla drammatica questione di masse enormi di persone in marci a verso un futuro senza guerra, fame e disperazione, per il governo conservatore britannico in carica significa il crollo del più solido argomento con cui cercare di vendere agli euroscettici dentro e fuori del partito i vantaggi di una permanenza riformata nel consesso europeo: la possibilità di rispedire al mittente i profughi indesiderati, appunto. Insomma, il timore è che i rifugiati già approdati su suolo britannico possano godere del diritto a rimanere, incoraggiando evidentemente molti altri a fare altrettanto. L’indiscrezione su questo cambio di passo è stata pubblicata dal Financial Times, secondo cui il piano sarà presentato alla commissione a marzo, obbligando così David Cameron - la cui mancata stretta sugli ingressi dei migranti nel paese rappresenta forse il più imbarazzante degli obiettivi sbandierati e mai raggiunti dal manifesto elettorale dei Tories - a una frenetica serie di incontri all’imminente World Economic Forum di Davos con varie contro parti europee, in una controffensiva diplomatica che dovrebbe garantire la rinegoziazione della partecipazione britannica che possa poi permettergli di fare una campagna referendaria apertamente schierata a favore della permanenza. L’obiettivo di Cameron è di presentare il pacchetto di richieste britanniche in tempo per il prossimo 18 febbraio, quando si terrà a Bruxelles il prossimo vertice della Ue. Se la scadenza non fosse rispettata, il suo programma di indire il referendum il prossimo giugno ne risulterebbe vanificato. La notizia rappresenta anche un’ovvia arma in più nell’arsenale della campagna per l’uscita dall’Eu, denominata "Vote Leave". Dal canto loro, tra i funzionari europei è diffusa l’opinione che fosse necessario cestinare Dublino per salvare Schengen, un altro trattato senza il quale, stavolta, è il progetto euro-europeo in se stesso a vacillare vistosamente. La Norvegia "deporta" i profughi in Russia di Monica Perosino La Stampa, 21 gennaio 2016 Oslo vuole rispedire 5 mila migranti oltre confine: "Arrivano da un Paese sicuro". Il Finnmark è una regione dalla bellezza disarmante. La contea norvegese 400 chilometri a nord dal circolo polare artico risplende di ghiacci, fiordi e aurore boreali. Difficile però che i migranti infagottati in giacche troppo leggere e scarpe inadatte possano apprezzare la natura, a 31 gradi sotto zero. Sono quelli che hanno raggiunto la Scandinavia a piedi lungo la rotta balcanica. Molti di loro, per lo più siriani hanno attraversato il confine russo in bicicletta. Tanto che le autorità norvegesi ormai basano il conteggio degli ingressi irregolari sul numero di biciclette abbandonate al confine. Quella attraverso la Russia è una delle rotte alterative dei profughi in fuga dal Medio Oriente: entrano con semplice visto turistico (che la Russia concede senza problemi, soprattutto ai siriani) per poi raggiungere l’Europa da Nord. Mosca vieta di varcare le frontiere a piedi e Oslo vieta di dare passaggi ai migranti, così in molti hanno scelto la bicicletta. Ma le cose sono diventate ancora più difficili dopo la decisione norvegese di sospendere Schengen. E ora, oltre al freddo, i profughi temono la "deportazione". Già 13 di loro sono stati rispediti in Russia dopo la decisione del governo norvegese di espellere 5000 profughi oltre il confine. Sono entrati senza documenti da un "Paese sicuro", quindi devono tornare da dove sono arrivati. Il primo autobus è partito ieri da Kirkenes verso l’aeroporto della città portuale russa di Murmansk. E mentre un centinaio di profughi si sono messi in sciopero della fame dopo essere stati trasferiti nel centro di accoglienza a pochi chilometri dal confine, altri - quotidianamente - tentano la fuga nel gelo artico per sfuggire all’espulsione. L’inizio della "deportazione di massa" dei profughi è stata condannata da diverse associazioni per i diritti umani, ma Tor Espen Haga, portavoce del servizio immigrazione della polizia norvegese, ha detto che "le espulsioni non si fermano e che quello che succederà ai migranti una volta oltrepassato il confine norvegese è affare dei russi". Le autorità di Oslo dicono che 5.500 persone sono arrivate dalla Russia attraverso il valico di confine a Kirkenes solo nella seconda metà del 2015. "Troppi". Alla mossa norvegese, rispondo le autorità di Murmansk, che hanno avvertito i migranti che dal Medio Oriente scelgono questa rotta per entrare in Finlandia e Norvegia di non fermarsi vicino ai valichi di frontiera in auto o all’aperto, in attesa di passare il confine, perché in questo momento rischiano l’assideramento. Il posto di controllo di Salla, attraverso il quale molti rifugiati attraversano il confine, rimane una delle aeree più fredde di tutta la regione. Oggi si registrano -35°. In Austria asilo solo per pochi, il cancelliere Faymann fissa un limite ai rifugiati: 37.500. di Angela Mayr Il Manifesto, 21 gennaio 2016 E senza reddito minimo. Da ieri più controlli alle frontiere: chi non fa richiesta subito, verrà rispedito indietro. Alla fine in Austria ha prevalso la linea che il partito popolare (Oevp) agita da mesi, "basta con la cultura dell’invito e del benvenuto" la stessa della Csu bavarese, sfociata infatti la settimana scorsa in un documento comune dei due partiti. Il nocciolo, stabilire un tetto massimo alle richieste d’asilo, concetto che il cancelliere austriaco socialdemocratico Werner Faymann, vicino su questo punto alla cancelliera tedesca Angela Merkel, aveva finora rifiutato, in attesa anche di soluzioni su scala europea. Ieri invece il vertice sull’asilo tra governo, Regioni e comuni ha deciso il limite di 127 500 domande d’asilo nei prossimi 3 anni, compresi i ricongiungimenti familiari, 37. 500 nel 2016, 1,5 % in relazione alla popolazione che è di 8 milioni e mezzo. Una forte riduzione rispetto ai 90 mila rifugiati accolti in Austria nel 2015. Di tetto massimo, che è in contrasto col diritto internazionale che prevede un accesso illimitato, non si parla direttamente. Ufficialmente si chiamano "valori di riferimento", come ha spiegato Faymann, misure politiche, non di legge, secondo le quali i comuni devono prevedere offerte di alloggi, di lavoro e iniziative di integrazione per i rifugiati. "Si tratta di un piano B, di misure di emergenza, in attesa che si realizzi un piano europeo", ha precisato il cancelliere. Cosa accadrà se ai confini le domande d’asilo saranno molto di più dei tetti previsti? Misure concrete non sono state decise. Alle domande, anche insistite, dei giornalisti, si è rinviato a uno studio di fattibilità commissionato a due professori di diritto: "Ogni misura dovrà essere conforme alla costituzione e ai diritti umani", ha insistito Faymann. Intanto aumenterà il controllo dei confini. I rifugiati che non intendono chiedere asilo in Austria o in Germania verranno respinti al confine, misura già praticata dalla Germania che rispedisce in Austria i rifugiati che vogliono raggiungere Svezia o Danimarca, circa 200 al giorno. Al confine con la Slovenia, a Spielfeld, sono state create nuove strutture con percorsi transennati che permettono un controllo a tappetto di ogni singolo richiedente asilo. Il sistema è entrato in funzione ieri. Sono state le immagini nei mesi scorsi di Spielfeld, dove migliaia di rifugiati insieme bypassavano poliziotti o militari impotenti, a creare l’allarme "dello Stato incapace a controllare chi entra nei suoi confini", un refrain montato dall’estrema destra della Fpoe di Strache che accusa il cancelliere Werner Faymann di essere "un nemico dello Stato". In programma, anche l’accelerazione delle espulsioni di chi non ha diritto all’asilo, un incremento della lista dei paesi ritenuti sicuri. "Obiettivo delle misure è anche fare pressione sull’Ue", ha ribadito il vice cancelliere Oevp Mitterlehner, impegnato a rendere l’Austria meno attraente per i rifugiati. Per sua iniziativa il governo valuta la possibilità di ridurre la Mindestsicherung, il reddito minimo di cittadinanza, ai rifugiati riconosciuti, ora uguale a quello che spetta agli austriaci, cioè 830 euro netti mensili. "Una violazione di diritto e un atto populista", ha giudicato il nuovo piano Amnesty International. Tutt’altro vertice e mondo si apre a Vienna oggi e si conclude venerdì, "N-O-W". È il vertice di quelli che hanno praticato la cultura del benvenuto, in Europa e oltre, i sindaci che sono in prima linea, i volontari, gli esperti e ong. Tra i partecipanti, nel panel "I vicini-Libanon e Giordania", i sindaci di Sahel El Zahrani e di Marej del Libano e di Amman in Giordania. Nel panel "Per strada - stazioni di fuga-Turchia, Grecia, Italia" con i sindaci di Kos, Lesbos, Chios, di tante città turche, mentre dall’ Italia non potevano mancare i sindaci di Lampedusa, Pozzallo, Riace e un rappresentante del comune di Milano. L’iniziativa è partita dall’artista multimediale Andrè Heller, che ha una biografia di genitori in fuga dal nazismo, da Patricia Kahane, del Forum Kreisky per il dialogo internazionale, che è anche tra gli sponsor dell’iniziativa ed è figlia di Alexander Kahane, milliardario amico intimo dell’ex cancelliere austriaco, più Andreas Babler, sindaco di Traiskirchen, vicino a Vienna, sede di un discusso centro di accoglienza. L’obiettivo per tutti è quello di trovare insieme soluzioni praticabili. India: marò dimenticati, arrivederci al 2018 di Antonio Angeli Il Tempo, 21 gennaio 2016 Il Tribunale Internazionale non fa sconti: ha annunciato che si pronuncerà sul caso marò tra due anni e mezzo: nell’agosto del 2018, sei anni dopo quel mai chiarito incidente nel bel mezzo del Mare Arabico. Guarda caso il 2018 è l’ultimo anno del piano straordinario per salvare l’economia greca. Un tempo lunghissimo, interminabile, che segnerà ulteriormente le vite di due fedeli difensori della pace e della libertà. E intanto dall’ordine del giorno del Parlamento europeo svanisce la risoluzione che doveva condannare il calvario a cui sono, e saranno ancora per molti anni, sottoposti Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, due militari italiani ed europei colpevoli solo di aver fatto il loro dovere durante una missione internazionale di pace. La Corte Permanente di Arbitrato dell’Aja ha pubblicato, senza troppe cerimonie, il suo calendario procedurale dal quale appare chiaro che la pronuncia sul caso dei nostri due marò arriverà a metà del 2018. Il documento conferma inoltre che il 30 e 31 marzo si terrà l’udienza sulle misure provvisorie, in merito al rientro in Italia di Salvatore Girone in attesa che termini la procedura di arbitrato. Il calendario fissa una serie di date entro le quali India e Italia devono presentare diverse serie di documenti. L’ultimo di questi adempimenti, rivolto all’Italia, è fissato per il 2 febbraio 2018. La Corte ha infine stabilito che la decisione finale sarà raggiunta entro sei mesi dalla chiusura della procedura, più o meno, perciò, ad agosto. Numerosi osservatori avevano ricordato che la velocità non è la principale qualità del Tribunale Internazionale, che le procedure sono lunghe. Era chiaramente necessario avviare prima l’arbitrato, vista la posizione dell’India. Intanto dal calendario del Parlamento europeo è svanita la risoluzione relativa ai due marò, in programma per oggi. Si trattava di un documento sulla detenzione di cittadini dell’Unione in India, nel quale erano espressamente citati Girone e Latorre, tolto perché non è stato raggiunto un testo concordato. "Servirebbe una talpa nelle alte sfere del Partito Popolare Europeo per capire cosa è successo - spiega l’europarlamentare della Lega Mario Borghezio - La cosa più logica da pensare è che ci siano state delle pressioni da parte della Mogherini e di Juncker. Questo dimostra che anche per una questione così importante, che ormai sta a cuore a tutta la Repubblica, senza distinzioni di parte, anche se la battaglia l’ha iniziata il centrodestra, i poteri europei possono indurre i rappresentanti italiani a fare marcia indietro. Oggi era in programma una risoluzione unitaria, di tutti i gruppi, che noi della Lega malvolentieri appoggiavamo, perché era molliccia, ma, in mancanza di meglio... Si trattava di una felice combinazione, perché il documento si occupava anche di altri cittadini europei detenuti in India. La risoluzione l’avevano firmata tutti, compreso il capitoletto riguardante i marò. Improvvisamente è stato tutto ritirato, non solo, ci è stato chiesto di fare altrettanto. Noi a questo punto riprenderemo la nostra risoluzione originaria. La vera domanda è che cosa, se non il desiderio di non turbare i buoni rapporti con l’India, oppure di non eccedere nella polemica Italia-Ue, può aver provocato questa decisione?" Certo è che la precedente risoluzione Ue in favore dei marò perché, non dimentichiamolo, sono soldati che hanno difeso l’Europa, fece infuriare gli indiani. Si era nell’agosto dello scorso anno, l’India commentò l’esplicita richiesta dell’Ue di liberare Latorre e Girone definendola "una presa di posizione inopportuna". "Sulla vicenda marò l’Europa torna a balbettare - commenta l’europarlamentare di Fdi-An Carlo Fidanza, da sempre attentissimo alle vicende dei fucilieri - Troppi interessi oscuri e troppa debolezza da parte del nostro governo impediscono di avere l’Europa schierata con forza al nostro fianco, proprio nel momento in cui l’arbitrato internazionale entra nel vivo". Massimiliano Latorre è ora in Italia, in convalescenza dopo l’ictus che lo colpì il 31 agosto 2014, mentre Salvatore Girone è agli arresti domiciliari a Nuova Delhi. Molte speranze per un suo rapido rientro in patria sono riposte nell’udienza di fine marzo, durante la quale, naturalmente, non si deciderà sulla loro innocenza, ma su dove e come i due debbano attendere in attesa che qualcuno li giudichi. Un iter molto lungo per due persone delle quali è già stata ampiamente dimostrata l’innocenza. Tunisia: si riaccendono le rivolte sociali con l’incubo di infiltrazioni jihadiste La Stampa, 21 gennaio 2016 La protesta partita dall’ovest si è estesa ad altre zone. I giovani rivendicano il diritto al lavoro e denunciano le diseguaglianze. Dal governo raid preventivi contro covi jihadisti. Torna ad accendersi la protesta sociale in Tunisia a pochi giorni dalla celebrazione del quinto anniversario della cacciata di Zine al Abidine Ben Alì, il presidente costretto a fuggire nel gennaio 2011 in seguito alla cosiddetta "rivoluzione dei gelsomini". A dare fuoco alle polveri, nella regione di Kasserine al confine con l’Algeria, è stata sabato scorso la morte di un giovane disoccupato, Ridha Yahyaoui, fulminato su un pilone dell’alta tensione da dove minacciava di buttarsi perché il suo nome non rientrava più nella lista dei nuovi assunti dal dipartimento regionale dell’Istruzione. Stamattina nuovi disordini hanno costretto scuole e licei a chiudere i battenti in città, mentre i manifestanti sono arrivati a due passi dalla sede del governatorato. Qui anche nei giorni scorsi si erano radunati centinaia di giovani per rivendicare il diritto al lavoro. Da ieri sono cominciati gli scontri: lancio di pietre da una parte, lacrimogeni dall’altra. In serata il ministero dell’Interno ha dichiarato il coprifuoco dalle 18 alle 5 del mattino. E il governatore di Kasserine ha affermato a radio Jawhara FM che alcuni agitatori professionisti si sono infiltrati tra i manifestanti. Intanto però le proteste si sono estese: oltre alle scuole molti edifici pubblici e negozi sono stati chiusi e l’esercito è stato dispiegato a difesa della sede del governatorato. I disoccupati hanno infatti il sostegno di altri cittadini che lamentano la marginalizzazione della regione e chiedono più trasparenza. Il bilancio degli scontri di ieri è piuttosto pesante: 23 feriti di cui 4 delle forze dell’ordine e 246 intossicati dai gas lacrimogeni. La regione di Kasserine è fra le più sfavorite della Tunisia ed è in questa zona che si trova il Monte Chambi, noto per essere rifugio di gruppi jihadisti. Oggi il ministero della Difesa ha annunciato di aver compiuto un intenso bombardamento aereo dei sentieri abitualmente utilizzati dai terroristi. Raid preventivi - è stato spiegato - proprio per impedire ai jihadisti di approfittare delle manifestazioni "sociali" (qui il tasso di disoccupazione è al 27% a fronte del 15,3% a livello nazionale) per introdursi in città. In ogni caso le proteste si sono già estese, raggiungendo Tala, Feriana e Meknassi, nel governatorato di Sidi Bouzid. Un copione che ricorda le rivolte del 2010-2011 che portarono alla cacciata di Ben Alì, accusato di non fare nulla contro le disuguaglianze sociali, economiche e territoriali della Tunisia. Una situazione che anche le attuali autorità non hanno sostanzialmente modificato. Ora si cerca di correre ai ripari: rimosso l’estensore della lista dei nuovi assunti, annunciata la visita a Kasserine di una delegazione di deputati originari del luogo, promessa una seduta plenaria straordinaria del Parlamento dedicata alla situazione socioeconomica generale del Paese e soprattutto alla disoccupazione dei giovani laureati o diplomati. Stati Uniti: giustiziato in Texas Masterson, il Papa seguiva da vicino le sue sorti Askanews, 21 gennaio 2016 Accusato di aver strangolato un travestito, il 43enne ha sempre negato. Lo Stato americano del Texas ha giustiziato ieri un condannato a morte, Richard Masterson, malgrado un ricorso dell’ultima ora presentato dai suoi legali e il sostegno apportato da Papa Francesco. Masterson, 43 anni, è morto a seguito di un’iniezione letale alle 18.53 di ieri, ha annunciato un portavoce dell’amministrazione penitenziaria locale. L’uomo era stato riconosciuto colpevole di avere strangolato Darin Honeycutt, un travestito, nel 2001 a Houston, nel Sud del Paese. Masterson ha sempre negato le accuse, sostenendo che Honeycutt è deceduto per un arresto cardiaco durante un rapporto sessuale consenziente. Papa Francesco, grande oppositore della pena di morte, seguiva da vicino le sorti di Masterson, secondo quanto riferito lunedì in conferenza stampa dal cardinale austriaco Christoph Schenborn. Gli Stati Uniti hanno giustiziato 28 persone nel 2015, il bilancio più basso dal 1991, secondo il Centro d’informazione sulla pena capitale.