L’Italia e l’Unione europea, le ostilità da superare di Massimo Franco Corriere della Sera, 20 gennaio 2016 I toni sono alti, verrebbe da dire ai limiti della spavalderia. Matteo Renzi avverte che l’Italia "è tornata". "Il suo protagonismo impaurisce" l’Europa: non come "è accaduto spesso in passato". C’è da sperare che abbia ragione. I toni sono alti, verrebbe da dire ai limiti della spavalderia. Matteo Renzi avverte che l’Italia "è tornata". "Il suo protagonismo impaurisce" l’Europa: non come "è accaduto spesso in passato". C’è da sperare che abbia ragione. Per il momento, purtroppo, il presidente del Consiglio è circondato dal silenzio apparentemente ostile degli altri Stati europei. A rispondergli con toni quasi sprezzanti è solo la Commissione Ue di Jean-Claude Juncker. E Manfred Weber, capogruppo del Ppe e di fatto portavoce continentale della cancelliera tedesca Angela Merkel, bolla in modo discutibile Renzi come una sorta di alleato oggettivo dei populisti. Il premier non sembra spaventato all’idea di collezionare tanta avversità. Eppure, il sospetto è che i suoi nemici europei comincino a essere un po’ troppi; e che l’irritazione fredda verso il suo governo nasconda lo scarto tra la convinzione renziana di dover far pesare le riforme approvate, e la determinazione altrui a ridimensionarne ambizioni e pretese. T anto che lo scontro inedito degli ultimi giorni sull’asse Roma-Bruxelles-Berlino, ma forse anche lungo altre direttrici rimaste coperte, potrebbe nascondere una decisione accarezzata silenziosamente: quella di isolare l’Italia e frustrare le sue richieste d’aiuto. Un gesto ha sconcertato: la rapidità con la quale il "ministro degli Esteri" dell’Ue, l’italiana e renziana Federica Mogherini, ha scelto di schierarsi con Juncker rispetto a Renzi. La mossa promette di indebolire insieme lei e Palazzo Chigi, offrendo l’immagine di una nazione incapace di unità a livello internazionale perfino quando si milita nello stesso partito. Renzi ricorda di avere archiviato un passato mediocre, sebbene sappia quanto alcuni dei suoi predecessori abbiano rappresentato degnamente gli interessi dell’Italia. Eppure, il suo scontro con Bruxelles e il gelo con la Mogherini trasmettono una fastidiosa eco della stagione finale della Seconda Repubblica. L’insistenza sul nuovo "protagonismo" italiano, come viene definito, sembra non tenere conto della debolezza del nostro Paese sul piano dei conti pubblici e dei numeri di una ripresa economica un po’ anemica. Ma soprattutto, sottovaluta un panorama continentale percorso da tensioni nazionaliste crescenti: sia per le percentuali della disoccupazione, sia per l’impatto di un’immigrazione epocale dal Medio Oriente e dall’Africa. Inasprire una polemica con l’Europa su questo sfondo rischia non solo di armare chi imputa strumentalmente a Renzi di favorire i partiti populisti, in Italia e altrove. Promette di inserirlo in maniera arbitraria in una filiera euroscettica dalla quale invece il governo si è sempre e meritoriamente tenuto a distanza. Deflettere da una strategia moderata ed europea nel senso migliore del termine regalerebbe argomenti e pretesti alla Lega Nord e al Movimento 5 Stelle, suoi acerrimi avversari in Italia. E, all’estero, disperderebbe una piccola ma preziosa rendita di credibilità nelle istituzioni e sui mercati finanziari. La sensazione è che, senza volerlo, o magari con un occhio ai consensi sul piano interno, Renzi stia sfiorando una trappola pericolosa: un imbuto di ritorsioni polemiche con l’Ue, destinate a minare un’impalcatura europea già traballante; ma anche a ridisegnare in peggio il ruolo e il peso italiani nel Vecchio Continente. Il problema posto da Palazzo Chigi sugli aiuti europei alla Turchia come argine contro l’assedio dei profughi, non è affatto campato in aria. Renzi ha ricordato a ragione le ambiguità di Ankara sul terrorismo del sedicente Stato Islamico. Il fatto che il suo "no" sia stato usato per metterlo nell’angolo, però, tradisce un’insofferenza europea che non può sottovalutare. Non può, perché è destinata a scaricarsi sul governo; e ad attribuirgli responsabilità e colpe che non corrispondono alla realtà. D’altronde, quando anche ieri Juncker se la prende con gli esecutivi che criticano l’Europa invece di "guardarsi allo specchio", non parla solo a Roma: in realtà si rivolge alle ventotto nazioni che stanno perdendo il senso d’appartenenza all’Ue. Insomma, si tratta di un problema politico, non tecnico. È quello che pensa lo stesso Renzi. Forse si spiega così la scelta "forte" e controversa di sostituire in corsa l’ambasciatore italiano all’Ue, mandando a Bruxelles il viceministro Carlo Calenda: un politico, non un diplomatico. È una mossa dirompente. Si capirà presto se riflette la reazione di un premier che vuole riprendere il controllo della situazione, o un nuovo fronte che gli porterà altri nemici. Carcere e civile, giustizia in ripresa di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2016 Carcere e giustizia civile: ecco i due fiori all’occhiello del governo, con cui il ministro della Giustizia Andrea Orlando si presenterà oggi alla Camera, e domani al Senato, in occasione della relazione sull’anno giudiziario. Nel penale, però, resta il buco nero dei processi che finiscono in prescrizione, in aumento nel primo semestre del 2015 (67.420) rispetto al secondo semestre dell’anno precedente (63.753). Dopo due anni di governo, dunque, Orlando incassa buoni risultati su due fronti caldi: decisamente positiva la progressiva diminuzione della popolazione carceraria, scesa da 67.971 unità del 2010 (prima condanna dell’Italia per sovraffollamento da parte della Corte di Strasburgo) alle 52.164 del dicembre 2015; nello stesso arco temporale, le misure alternative sono aumentate da 21.494 a 39.274, con un saldo, quindi, di 91.438 persone sottoposte ad esecuzione penale (erano 89.465 nel 2010): come dire che è diminuito il carcere ma la sicurezza dei cittadini è aumentata. Nel civile, poi, continua il calo delle cause: di quelle pendenti, scese a circa 4,5 milioni (370mila in meno dell’anno precedente), e di quelle in entrata, che tra il 2014 e il 2015 hanno registrato una diminuzione di oltre 100mila affari. Il nuovo anno giudiziario si apre così sulle note positive di una giustizia che continua a dare segni di ripresa, anche se negli uffici giudiziari si soffre per la mancanza di personale e per i carichi di lavoro elevati, tant’è che tra i magistrati si è appena concluso un referendum consultivo per stabilire, tra l’altro, i cosiddetti "carichi esigibili", ovvero gli standard massimi di "lavoro sostenibile dal magistrato in funzione degli obiettivi di adeguata quantità e qualità del lavoro giudiziario". Note ancora stonate, invece, nel penale. Preoccupante il numero di procedimenti prescritti, che dal 2013 non accenna a diminuire. Anzi. I dati ministeriali rivelano che nel secondo semestre del 2014 le prescrizioni sono state 63.753 (132.296 nell’intero anno) ma nel primo semestre del 2015 sono già salite a 67.420. Un dato difficile da ignorare nelle cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario in programma la settimana prossima in Cassazione (il 28) e nelle Corti d’appello (il 30), visto che nel 2014 la prescrizione è stato un tema centrale delle relazioni dei presidenti di Corte, che definirono "non più differibile" una riforma "strutturale". Che, però, resta la spina nel fianco del governo: il ddl è fermo al Senato (dopo il primo sì della Camera) per contrasti interni alla maggioranza, e non se ne prevede a breve la ripresa in commissione. Orlando potrà però rivendicare la riforma del falso in bilancio, tanto più dopo che la Cassazione ha smentito le accuse di un colpo di spugna strisciante; l’approvazione della legge anticorruzione, dell’auto-riciclaggio e la depenalizzazione (sia pure senza il reato di immigrazione clandestina, che continuerà a intasare gli uffici con scarsi risultati e creando ostacoli alla lotta al terrorismo). Ma il piatto forte resta il civile. La riduzione delle pendenze a 4,5 milioni di cause (4,2, al netto degli affari non contenziosi) non ha precedenti dal 2002 (nel 2009 le pendenze sfioravano i 6 milioni). Quanto al calo delle nuove iscrizioni, la crisi ci ha messo del suo, ma secondo il governo è anche l’effetto del crescente utilizzo dei metodi alternativi di risoluzione delle controversie (Adr), della mediazione e della negoziazione assistita in materia di separazione e divorzi. "Ottime" le performance del Tribunale delle imprese, con un tempo medio di definizione delle cause di circa 1 anno. Sul fronte organizzativo, ci sono i 150 milioni per l’informatizzazione (più del doppio degli anni precedenti), l’ingresso del processo civile telematico anche in Cassazione e la promessa che entro il 2016 arriveranno nelle cancellerie 4mila rinforzi in mobilità dalle province. Sinistra Italiana: "istituire una Commissione d’inchiesta sulla tortura di Stato" di Eleonora Martini Il Manifesto, 20 gennaio 2016 Una Commissione parlamentare d’inchiesta con "gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria" per indagare sui casi di abusi e maltrattamenti nei confronti di persone sottoposte a privazione o limitazione della libertà personale. A promuoverla e a chiederne l’istituzione è Sinistra italiana che ieri ha presentato l’iniziativa a Montecitorio alla presenza di Ilaria Cucchi e del suo avvocato Fabio Anselmo, legale storico anche delle famiglie Aldrovandi, Uva e Assarag. "Qualunque persona che finisca sotto la tutela dello Stato deve essere considerata "sacra"; ogni abuso o maltrattamento nei confronti di un uomo in carcere dovrebbe essere, quindi, vissuto come il più alto degli scandali. Eppure il fenomeno non è affatto episodico", premettono nella proposta i deputati di Si. I primi firmatari, Celeste Costantino e Nicola Fratoianni, il coordinatore nazionale di Sel, hanno anche presentato al ministro di Giustizia Andrea Orlando un’interrogazione a risposta scritta sul caso del detenuto Rachid Assarag che ha registrato le conversazioni con alcuni agenti penitenziari che ammettevano l’uso della violenza in carcere. Al Guardasigilli, Costantino e Fratoianni hanno chiesto di "avviare un’ispezione accurata per appurare i fatti e assumere i provvedimenti conseguenti", visto che nei documenti prodotti da Assarag (non ritenuti validi dal pm che ha chiesto l’archiviazione del caso) si evince, secondo i deputati di Sel, che "spesso uomini della polizia penitenziaria di diverse carceri italiane in cui Assarag è stato detenuto, esprimono pareri sulle modalità di rieducazione dei detenuti che non rispondono per nulla alla Costituzione e alle leggi". Fra le frasi riportate "c’è quella di un agente penitenziario che avrebbe detto che con i detenuti "ci vogliono il bastone e la carota" e che "così si ottengono risultati ottimi". Un caso - come peraltro molti altri compreso quello di Franco Mastrogiovanni, morto durante un Tso - sul quale potrebbe indagare la commissione d’inchiesta parlamentare proposta da Si, che si comporrebbe di venti deputati nominati dal presidente della Camera e avrebbe la durata di due anni. Una commissione alla quale, soprattutto, "non si può opporre il segreto di Stato, né quello d’ufficio, professionale o bancario" e "rappresenterebbe il primo passo per chiarire i limiti dell’esercizio della forza e dei pubblici poteri rispetto a esigenze investigative o di polizia", dal momento che, sostiene Si, "nonostante ci siano norme internazionali che lo sollecitino da tempo, il legislatore non ha peraltro ancora introdotto il reato di tortura nel codice penale: una lacuna gravissima". Oltretutto in un Paese in cui, come ricorda Ilaria Cucchi, "è inquietante sapere che per sei anni qualcuno ha taciuto, coperto, depistato", per nascondere la verità sulla morte di suo fratello Stefano. Ilaria Cucchi: "Nelle carceri cultura della violenza" (La Repubblica) Una commissione d’inchiesta parlamentare che faccia luce sui casi di maltrattamenti e abusi che avvengono all’interno degli istituti di pena italiani. È quanto ha proposto il gruppo di Sinistra Italiana alla Camera dei Deputati nel corso di una conferenza stampa a cui erano presenti anche Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, e il suo legale Fabio Anselmo. "Cultura della violenza nelle carceri? Purtroppo è così. Un istante dopo il verificarsi degli abusi, si mette in piedi lo spirito di corpo. Le nostre carceri sono oggi una realtà terribile, dove la cultura del rispetto dei diritti umani non è per niente contemplata", ha affermato Ilaria Cucchi. "Facciamo un appello al Parlamento perché questa commissione veda la luce", ha detto Nicola Fratoianni, coordinatore nazionale di Sel. "Noi in questi anni siamo stati accanto ai familiari delle vittime, oggi ci sembra necessaria una presa di posizione più ferma" ha aggiunto Celeste Costantino, deputata di Sinistra Italiana. Il legale di Stefano Cucchi, Fabio Anselmo, ha anche fatto riferimento al caso di Rachid Assarag, marocchino quarantenne condannato per violenze sessuali che in sei anni ha girato undici carceri, registrando diverse conversazioni con gli agenti di polizia penitenziaria. Operative le nuove misure per l’assistenza e la protezione delle vittime di reato di Paolo Canaparo Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2016 Entra in vigore oggi il decreto legislativo 15 dicembre 2015, n. 212, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 5 gennaio 2016, che attua la delega normativa conferita al Governo dalla legge 6 agosto 2013, n. 96, con riferimento alla direttiva 2012/29/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, sostituendo la decisione quadro 2001/220/Gai. Il provvedimento si rivolge in modo particolare a chi, vittima di un reato, si dovesse trovare in condizione di particolare difficoltà come, ad esempio, le donne, i minori, gli stranieri con difficoltà con la lingua italiana e a chi ha subito violenza. La vulnerabilità della vittima - In particolare, nel decreto legislativo è introdotta la definizione di vulnerabilità della vittima, che ora è desunta, oltre che dall’età e dallo stato di infermità o di deficienza psichica, dal tipo di reato, dalle modalità e circostanze del fatto per cui si procede. Nella valutazione della condizione della persona offesa si deve tener conto quindi se il fatto risulta commesso con violenza alla persona o con odio razziale, se è riconducibile a criminalità organizzata, terrorismo o tratta degli esseri umani, se ha finalità di discriminazione e se la vittima è affettivamente, psicologicamente o economicamente dipendente dall’autore del reato. In caso di delitti commessi con violenza alla persona, alla vittima è riconosciuta la possibilità di essere informata della scarcerazione o dell’evasione dell’imputato o del condannato. Viene inoltre consentito al giudice di estendere alle persone offese particolarmente vulnerabili le particolari cautele oggi previste solo per i procedimenti penali relativi a specifiche tipologie di reato: l’obbligo della riproduzione audiovisiva delle dichiarazioni anche al di fuori delle ipotesi di assoluta indispensabilità; l’assicurazione che la persona particolarmente vulnerabile non abbia contatti con la persona sottoposta ad indagini e non sia chiamata più volte a rendere sommarie informazioni; la previsione che l’esame della persona offesa particolarmente vulnerabile, in incidente probatorio e in dibattimento, sia condotto con modalità protette. In caso di dubbio sulla maggiore o minore età della persona offesa, è imposto al giudice di procedere ad accertamento tecnico, sancendo al contempo che, ove il dubbio permanga pur all’esito della verifica disposta, si presuma la minore età ai soli fini della applicazione delle norme processuali (di garanzia). Inoltre, in attuazione della disposizione di cui all’articolo 2, lettera b), della direttiva che prescrive di includere nella nozione di familiari, oltre al coniuge, "la persona che convive con la vittima in una relazione intima, nello stesso nucleo familiare e in modo stabile e continuo". Viene previsto che, qualora la persona offesa sia deceduta in conseguenza del reato, le facoltà e i diritti previsti dalla legge siano esercitati, oltreché dal coniuge, dalla persona alla medesima legata da relazione affettiva e con essa stabilmente convivente. Le garanzie della persona offesa - Il decreto legislativo 212/2015 recepisce talune disposizioni della direttiva, la cui ratio è quella di consentire alla persona offesa, sin dal primo contatto con l’autorità, di ricevere, in lingua a lei comprensibile, una serie di informazioni utili ad orientarla durante lo svolgimento delle indagini e nell’eventuale fase processuale. Tali informazioni riguardano: le modalità di presentazione degli atti di denuncia o querela, il ruolo che assume nel corso delle indagini e del processo, il diritto ad avere conoscenza della data, del luogo del processo e della imputazione e, ove costituita parte civile, il diritto a ricevere notifica della sentenza, anche per estratto; la facoltà di ricevere comunicazione dello stato del procedimento e delle iscrizioni di cui all’articolo 335, commi 1 e 2 del Cpp ; la facoltà di essere avvisata della richiesta di archiviazione; la facoltà di avvalersi della consulenza legale e del patrocinio a spese dello Stato; le modalità di esercizio del diritto all’interpretazione e alla traduzione di atti del procedimento; le eventuali misure di protezione che possono essere disposte in suo favore; i diritti riconosciuti dalla legge nel caso in cui risieda in uno Stato membro dell’Unione europea diverso da quello in cui è stato commesso il reato; le modalità di contestazione di eventuali violazioni dei propri diritti; le autorità cui rivolgersi per ottenere informazioni sul procedimento; le modalità di rimborso delle spese sostenute in relazione alla partecipazione al procedimento penale; la possibilità di chiedere il risarcimento dei danni derivanti da reato; le strutture sanitarie presenti sul territorio, le case famiglia, i centri antiviolenza e le case rifugio. Qualora la competenza ad avviare il procedimento non sia esercitata dallo Stato membro in cui è stata presentata la denuncia, il procuratore della Repubblica è tenuto a trasmettere al procuratore generale presso la Corte di appello le denunce o le querele per reati commessi in altri Stati dell’Unione europea, affinché ne curi l’invio all’autorità giudiziaria competente Gli obblighi di informazione - Il decreto legislativo dà, inoltre, attuazione all’articolo 6, paragrafo 5, della Direttiva che obbliga gli Stati membri a garantire alla vittima la possibilità di essere informata senza ritardo della scarcerazione o dell’evasione della persona indagata, imputata o condannata. Sempre conformemente alla direttiva, si è introdotto l’inciso "salvo che risulti il pericolo concreto di un danno per l’autore del reato" che costituisce per il giudice motivo ostativo al compimento di tali comunicazioni qualora emergano concreti elementi da cui con evidenza desumere la possibilità di azioni ritorsive contro l’imputato, il condannato o l’internato in stato di libertà. Con la finalità di accrescere il diritto di partecipazione e le aspettative di tutela delle vittime di reati, il decreto legislativo interviene, infine, sulla materia dell’interpretariato e della traduzione, dettando specifiche disposizioni che integrano quelle recentemente modificate in sede di Dlgs n. 32/2014 di attuazione della direttiva 2010/64/Ue sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali. Per rispondere alle esigenze di celerità e di immediatezza, si consente che l’assistenza dell’interprete possa essere assicurata, ove possibile, anche mediante l’utilizzo delle tecnologie di comunicazione a distanza, sempreché la presenza fisica dell’interprete non sia necessaria per permettere alla persona offesa di esercitare correttamente i suoi diritti o comprendere il procedimento. Viene previsto specificamente, in favore della persona offesa che non conosce la lingua italiana, la facoltà di presentare la denuncia o proporre la querela utilizzando una lingua a lei conosciuta, sempre che presentazione o proposizione avvengano dinnanzi alla procura della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto. La direttiva, di cui si dà attuazione, contempla infatti l’obbligo di assicurare una tale facoltà, senza però escludere che l’esercizio della predetta, in ragione degli oneri organizzativi e finanziari che comporta, possa essere regolato in maniera tale da selezionare gli uffici giudiziari maggiormente capaci sul territorio di dotarsi della necessaria traduzione in lingua italiana. I reati a porte girevoli nell’era di Renzi di Mario Giordano Libero, 20 gennaio 2016 Per ogni crimine "telegenico" si inventano una nuova legge: ora tocca al bullismo. L’ultima idea è il "reato di bullismo". Una legge specifica, un crimine speciale. In Italia funziona così: ogni volta che c’è un allarme sociale di una qualche presa mediatica, il palazzo risponde con una nuova norma. E con reato ad hoc. Troppe donne uccise? Arriva la legge sul femminicidio. Troppi arrestati che vengono malmenali dalla polizia? Arriva la legge sul reato di tortura. Troppi assenteisti? Arriva la legge anti-fannulloni. Non importa quel che c’è dentro, non importa se i nuovi commi serviranno oppure saranno soltanto dannosi, non importa se prevedono soltanto ciò che esiste già: l’unica cosa che conta è rispondere con un atto legislativo (carta su carta) a un tema che scuote l’opinione pubblica. Così l’onorevole di turno può andare in tv e tranquillizzare la platea: "A questo proposito stiamo per l’appunto discutendo la legge...". Non si tratta di risolvere i problemi, ma di sfangare l’ultimo talk show. Ma siamo sicuri che ci voglia una legge specifica per ogni tipo particolare di violenza? Cioè: se oggi una ragazza viene picchiata o molestata, c’è bisogno del reato di bullismo per condannare i violenti o i molestatori? Davvero? Non ci sono già nel codice penale norme a sufficienza per punirli? E se uno uccide una donna c’è bisogno del femminicidio per condannarlo? Realmente? E c’è bisogno di una legge per licenziare gli assenteisti? O per processare un poliziotto che massacra un prigioniero? Non basterebbe applicare le norme che ci sono e che vengono invece spesso dimenticate? È proprio necessario produrne sempre di nuove? Avanti di questo passo, se domani scoppiasse di nuovo l’allarme per i sassi dal cavalcavia ci sarebbe senz’altro qualcuno pronto a proporre la legge di "sassicidio". E se invece scoppiasse l’allarme per i morti di gelo, ecco che spunterebbe il reato di "freddicidio" per chi non si cura di dare un riparo alle persone a rischio. E potremmo andare avanti: il "macheticidio" per chi uccide impugnando il machete (distinguere dal "roncolicidio" specifico per chi usa la roncola), il "bomboladigasicidio" per chi fa scoppiare la bombola di gas in casa, il "pastafrollicidio", fattispecie di reato che richiederà un’apposita normativa non appena scoppierà l’emergenza nazionale della pastafrolla avariata. L’impressione è che non riuscendo a garantire la difesa della persona nella sua integrità, la si voglia spezzettare in tanti frammenti, sempre più piccoli, tanti angoli di visuale minuscoli. E perciò perfettamente ignorabili. Il Diritto con la D maiuscola viene calpestato, le leggi nella loro sostanziale verità vengono stracciate, gli assassini possono girare impuniti per le nostre città. Però siamo felici perché ogni giorno c’inventiamo un nuovo reatuccio uccio uccio, che non serve a nulla ma che fa titolo sul giornale. Ah, quanto si danno da fare i nostri parlamentari. E se il loro darsi da fare combina solo pasticci, chi se ne importa? Il reato di bullismo, per esempio, pare che sia studiato per perseguire d’ufficio gli "atti persecutori mediante strumenti telematici e informatici". Molto trendy, no? Davvero 2.0. Però si pone un dubbio: se uno fa il bullo ma senza usare lo smartphone, che si fa? Quella legge non si applica? Ce ne vuole un’altra? E come? Ci si inventa il "reato di bullismo archeologico"? Oppure il "reato di bullismo ante-Apple"? Ma ciò che rende ancora più surreale il tutto è che solo poche ore fa la maggioranza che ora propone il nuovo reato di bullismo, si vantava di avere depenalizzato una serie di reati, dalla guida senza patente alla coltivazione della cannabis, dall’ingiuria all’aborto oltre i limiti consentiti dalla legge. Ora non vi pare demenziale? Un giorno si festeggia l’abolizione di reati e il giorno dopo si chiede l’introduzione di nuovi reati? Che cos’è? Il bipolarismo applicato alla politica? La schizofrenia governativa? Il lascia o raddoppia del diritto? Che poi, anche nella sostanza, ci sarebbe da dire: è giusto che non sia possibile perseguire penalmente chi guida un’auto senza patente, diventando pericolo per chiunque, o chi uccide un bimbo nel grembo all’ottavo mese di gravidanza? E che senso ha, al contrario, rendere penalmente perseguibile, non una ma almeno due volte, chi molesta un compagno di scuola filmandolo con un telefonino? Diciamoci la verità: il reato di bullismo, se proprio bisogna introdurlo, dovrebbe andare a colpire non solo chi maltratta gli adolescenti. Ma, soprattutto, chi prende a calci e pugni il buon senso. Depenalizzazioni a caro prezzo di Luciano De Angelis Italia Oggi, 20 gennaio 2016 Costerà fino a 30 mila euro al professionista omettere di identificare il cliente o ritardarne la registrazione in archivio antiriciclaggio quando la prestazione svolta determina tale obbligo. Alla stessa sanzione si rischierà di essere sottoposti nei casi di tardiva o incompleta registrazione. È questo il prezzo, richiesto ai destinatari della normativa antiriciclaggio per evitare di imbattersi in situazioni penalmente rilevanti. La trasformazione delle multe in sanzioni amministrative. Tutti i soggetti tenuti al rispetto delle disposizioni antiriciclaggio, dagli intermediari finanziari di cui all’art. 11 del dlgs 231/07, ai professionisti di cui all’art. 12 (dottori commercialisti, esperti contabili, notai, avvocati d’affari, ecc.), nonché i revisori legali e le società di revisione (art. 13) e i soggetti variegati di cui all’art. 14 saranno interessati dalle novità in commento. In pratica, l’art. 1, comma 5, del cd. decreto depenalizzazioni, appena approvato dal consiglio dei ministri, successivamente alla sua pubblicazione in G.U., farà sì che alcune delle sanzioni penali di cui all’attuale art. 55 del dlgs 231/07 si trasformino in illeciti amministrativi sanzionati solo a tale livello. Tale modificazione, come dianzi anticipato riguarda, le mancate identificazioni del cliente (sia ai fini dell’adeguata verifica che della registrazione in archivio di cui al comma 1 dell’art. 55), sia le omesse, ritardate o incomplete registrazioni del cliente e della prestazione, a favore dello stesso eseguita, di cui al comma 4° del medesimo articolo. Le multe da 2.600 a 13.000 euro si trasformeranno in sanzioni amministrative da 5.000 a 30.000 euro. L’oblazione. In merito all’istituto, oblatorio, di cui all’art. 16 della l. 689/81 (pagamento in misura ridotta pari alla terza parte del massimo o al doppio del minimo della sanzione edittale, nel caso di specie 10.000 euro) viene previsto (dal combinato disposto degli artt. 4 e 5 del decreto) che la stessa non possa applicarsi nel caso di reiterazione dell’illecito depenalizzato. Infine, per le violazioni commesse anteriormente alla data in cui entrerà in vigore il decreto depenalizzazione (sempre che il procedimento penale non sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili) l’art. 9 prevede un pagamento in misura ridotta, pari alla metà della sanzione prevista (parrebbe da 2.500 a 15.000 euro). Il contrasto con la IV Direttiva. Le nuove sanzioni amministrative ai fini antiriciclaggio risultano del tutto disallineate con i criteri di delega al governo per il recepimento della IV direttiva antiriciclaggio. L’art. 14, del decreto di recepimento, infatti, prevede che siano da "sanzionare come illecito amministrativo le violazioni gravi, reiterate e con carattere di sistematicità, delle disposizioni di legge in materia di adeguata verifica della clientela, segnalazione di operazioni sospette, conservazione dei documenti e controlli interni prevedendo che la gravità delle violazioni si desuma dalla natura del soggetto responsabile, se persona fisica o giuridica, dalla gravità del danno, dall’intensità del dolo o del grado della colpa, dall’entità del profitto complessivamente ricavato". Le misure in questione dovrebbero essere adottate, quindi, in via graduata e tenere conto del soggetto a cui sono rivolte ma di tutto ciò non si ha alcuna traccia nel decreto di depenalizzazione. Fonti dei giornalisti, nessuna scorciatoia per aggirare le tutele di Carlo Melzi d’Eril e Enea Vigevani Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2016 "Assalto ai cronisti e alle fonti per normalizzare la stampa": così il titolo di un articolo de Il Fatto per sintetizzare due vicende giudiziarie simili accadute di recente. Cosa è accaduto? Un paio di programmi televisivi trasmettevano inchieste con interviste a persone la cui identità veniva celata. L’autorità giudiziaria ordinava il sequestro dei filmati originali per risalire, avendo a disposizione il girato prima dell’oscuramento, alle generalità di questi ultimi. La particolarità di tali provvedimenti era che essi erano disposti non nei confronti dei giornalisti, bensì degli editori. Una condotta di questo genere, ed è questa la ragione per cui gli episodi hanno fatto "rumore", finisce con l’aggirare la garanzia che l’ordinamento pone a favore del giornalista, che può, salvo casi eccezionali, mantenere il riserbo sulla fonte. L’articolo 200 del Codice di procedura penale, infatti, consente ai giornalisti professionisti di non rivelare il nome della persona da cui hanno tratto confidenzialmente l’informazione, a meno che il giudice non ritenga tale dato indispensabile ai fini della prova del reato per cui si procede. Non si tratta di una regola di dettaglio della professione, né di un puntiglio della categoria: simile garanzia è ancora oggi uno degli strumenti più importanti per svolgere inchieste di particolare rilievo. Soltanto la certezza di rimanere anonimi rassicura chi rivela ai giornalisti informazioni delicate in suo possesso, che possono essere di straordinario interesse pubblico. In base a questo principio, la Cassazione ha escluso la possibilità di sequestrare ai giornalisti il telefono cellulare, la memoria del computer o l’agenda allo scopo di identificare la fonte delle loro notizie, proprio perché una simile iniziativa determinerebbe l’aggiramento del segreto professionale. Nel nostro ordinamento, tuttavia, con scelta assai discutibile, la legge riserva questa tutela ai soli giornalisti professionisti, e ciò in contrasto con la tendenza delle decisioni della Corte europea e delle raccomandazioni del Consiglio d’Europa del 2000 e del 2011, a estendere la protezione a tutti coloro che lavorano nell’azienda editoriale, in quanto solo così la garanzia ha piena efficacia. E infatti, qualora, come in questi ultimi casi, la richiesta degli inquirenti non è rivolta all’iscritto all’albo ma all’imprenditore, quest’ultimo non ha "difese". Anzi, se rifiuta la consegna dei filmati rischia l’incriminazione ex articolo 650 Codice penale, ovvero per inosservanza dei provvedimenti dell’autorità. In questo modo, è facile comprendere come la tutela del segreto si sfaldi, almeno per i filmati che di solito per contratto appartengono all’editore e quindi sono detenuti nell’archivio. Quali possono essere le contromisure? La più banale è che il giornalista consegni all’editore solo filmati già oscurati. Gli editori possono poi impugnare i sequestri chiedendo un’interpretazione estensiva della norma, che tuteli non soltanto il giornalista ma la libertà della stampa. La via maestra sarebbe, comunque, un intervento del legislatore che consentisse a chi compie attività giornalistica, anche senza possedere tesserini, di opporre il segreto. L’idea di garantirlo anche ai pubblicisti, prevista nel testo di riforma della diffamazione, è un primo, piccolo passo in questa direzione. Nell’attesa, è tempo che prevalga tra i giudici un indirizzo che riconosca e rispetti, nello spirito e non solo nella forma, le regole che permettono all’informazione di esercitare pienamente il suo ruolo, anche quando tali regole possono rendere più faticoso il perseguimento di reati. Polizia penitenziaria: Donato Capece confermato segretario generale del Sindacato Sappe Adnkronos, 20 gennaio 2016 Gli oltre 100 delegati nazionali del Sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe, riuniti a Napoli per il VI congresso, hanno confermato all’unanimità Donato Capece quale segretario generale del primo sindacato dei baschi azzurri. Confermati anche i segretari generali aggiunti Gianni de Blasis, Giovanni Battista Durante, Umberto Vitale e Roberto Martinelli e il presidente del Sappe, Franco Marinucci. "Questa nuova conferma - dice Capece - mi lusinga e mi stimola a potenziare, insieme con i miei più stretti collaboratori, ogni sforzo per rivendicare l’importante ruolo sociale della Polizia Penitenziaria e per pretendere che ad essa venga riconosciuta dalle istituzioni ogni attenzione necessaria". "Il nostro appello ai vertici dell’amministrazione penitenziaria e al ministro guardasigilli -sostiene- è quello di continuare a stare vicini alle donne e agli uomini della polizia penitenziaria. Le carceri sono più sicure assumendo gli agenti di polizia penitenziaria che mancano, finanziando gli interventi per potenziare i livelli di sicurezza delle carceri". "Altro che la vigilanza dinamica - afferma Capece - che vorrebbe meno ore i detenuti in cella senza però fare alcunché. Al superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e alla maggiore apertura per i detenuti deve associarsi la necessità che questi svolgano attività lavorativa e che il personale di polizia penitenziaria sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico, che vuol dire porre in capo a un solo poliziotto quello che oggi fanno quattro o più agenti, a tutto discapito della sicurezza". "Da tempo noi del Sappe - ricorda - che rappresentiamo le donne e gli uomini del corpo di polizia penitenziaria impegnati 24 ore al giorno nella prima linea dei padiglioni e delle sezioni detentive delle oltre 200 carceri italiane, sollecitiamo le autorità competenti affinché si avvii nel nostro amato Paese una indispensabile e decisa inversione di tendenza sui modelli che caratterizzano la detenzione, modificando radicalmente le condizioni di vita dei ristretti e offrendo loro reali opportunità di recupero attraverso un potenziamento nell’area penale esterna e l’affidamento di lavori di pubblica utilità". "Garantendo, nel contempo, ai poliziotti penitenziari -auspica- più sicure e meno stressanti condizioni di lavoro, tenuto conto che le tensioni connesse alla detenzione determinano quotidianamente moltissimi eventi critici nelle carceri, atti di autolesionismo, tentati suicidi, risse, colluttazioni, che se non fosse per il nostro decisivo e risolutivo intervento avrebbero più gravi conseguenze". Pietro Maso e quella telefonata del Papa di Antonio Sanfrancesco Famiglia Cristiana, 20 gennaio 2016 Il 17 aprile del 1991, a 19 anni, massacrò il padre e la madre insieme a tre complici in un delitto tra i più efferati della storia italiana. "L’ho fatto per i soldi", disse. E diventò famoso. Il 15 aprile 2013 ha lasciato il carcere dove ha trascorso 22 anni. E ha scritto una lettera a papa Francesco per chiedere perdono e pregare per la pace. E Bergoglio lo ha chiamato al telefono. "Ero il male ma lui ha avuto compassione di me". Il nome di Pietro Maso evoca subito due cose: un crimine familiare tra i più efferati della storia italiana e una fama che l’ha inseguito come una condanna anche dopo aver scontato la pena: ventidue anni di carcere per aver sprangato a morte, insieme a tre amici, la madre Maria Rosa e il padre Antonio a Montecchia di Crosara, Verona, il 17 aprile del 1991. Il motivo? Mettere le mani sull’eredità paterna. Maso aveva 19 anni. C’era ancora la lira, non esisteva Internet, si era da poco insediato il settimo e ultimo governo Andreotti. Un’altra Italia, un’altra epoca. Nell’aprile 2013, appena uscito dal carcere milanese di Opera, tra le polemiche per una pena che molti avrebbero voluto più lunga, Maso ha scritto una lettera a papa Francesco per, parole sue, "scusarmi di quello che ho fatto 25 anni fa e pregare per la pace". E dopo qualche giorno è squillato il telefono: "Sono Francesco, papa Francesco". La telefonata che non t’aspetti: spiazzante come la personalità di questo Pontefice. "Io ero il Male", ha detto Maso in un’intervista al settimanale Chi in cui racconta i particolari. "Eppure Papa Francesco ha avuto compassione di me. Gli ho scritto una lettera che gli è stata consegnata dal mio padre spirituale, monsignor Guido Todeschini. E dopo pochi giorni il Papa mi ha telefonato. Lui e don Guido sono persone sante". Nel bene e nel male, la fama, per Pietro Maso, è una condanna sottile. Perché impedisce che ci si dimentichi di lui, che scenda finalmente l’oblio sul suo delitto. A lui si sono interessati scrittori e artisti, nel 1994 Luciano Manuzzi girò il film I Pavoni ispirandosi alla sua vicenda. Lui stesso, Maso, ha scritto nel 2013 un libro con la giornalista Raffaella Regoli. Titolo: Il male ero io. "Ipertrofia narcisistica", decreterà la perizia psichiatrica di Vittorino Andreoli che al Caso Maso ha dedicato poi un libro, uscito nel 1994. "Padre e madre percepiti solo come un salvadanaio da cui prelevare quando serviva, e da rompere se il bisogno lo richiedeva", spiegava lo psichiatra. Ai primi processi, l’assassino si presentava in blazer blu, camicia bianca aperta e un foulard scuro a pois bianchi portato quasi con aria di sfida. Confesserà due giorni dopo. Sguardo freddo e beffardo, raccontano le cronache dell’epoca, che gli valsero subito centinaia di lettere di fan e ammiratrici. Questa, almeno, è la superficie. E sotto? Quanto è cambiato Pietro Maso? Ora si è trasferito in Spagna, dove vuole aprire una comunità di recupero. "Voglio accogliere chi ha sbagliato ed è in mezzo a una strada", ha raccontato sempre a Chi. "Voglio dare un senso diverso alla mia vita. Solo chi è straniero capisce chi è straniero. Solo chi è in carcere capisce chi ci è stato". S’è avvicinato alla fede, Pietro. Lo ha fatto negli anni del carcere. Un diploma in ragioneria, il poster del Milan alla parete, una parte in un Jesus Christ Superstar per detenuti dove lui faceva l’angelo e un rosario al collo, simbolo di una conversione guidata dal suo padre spirituale, don Guido Todeschini, il direttore di Telepace che il 10 ottobre del 2010 lo ha unito in matrimonio con Stefania, una ragazza milanese conosciuta durante un permesso e dalla quale ora si è separato. A monsignor Todeschini, racconta lui ora, "l’unico che mi tese una mano, Papa Giovanni Paolo II disse: "Vai avanti"". Prima dell’orrore, Maso faceva il chierichetto in parrocchia a Montecchia, terra di vigneti e di ciliegi buoni. Poi un anno in seminario e tre anni nell’istituto agrario mollato per i primi lavoretti. È bello, un po’ vanesio, sa di piacere. Il 17 aprile 1991 è un mercoledì, alle 23.30 papà Antonio e mamma Maria Rosa rientrano a casa dopo una riunione in parrocchia. Li attende la morte. Ha il volto del loro figlio che ora dice: "Non li ho uccisi per i soldi perché i soldi li avrei avuti lo stesso". Tributi. La condizione di detenuto non configura "causa di forza maggiore" giustiziatributaria.gov.it, 20 gennaio 2016 È quanto emerge dalla sentenza n. 5328/2015 del 7 dicembre 2015 della Sezione 67 della CTR Lombardia. In tema di sanzioni la condizione di detenzione, invocata dal contribuente come motivo in forza del quale non ha presentato la dichiarazione Irpef per l’anno 2007, non configura in alcun modo la forza maggiore "cui resisti non potest" richiesta dalla legge. Secondo i giudici bresciani, infatti, il contribuente avrebbe certamente potuto conferire con il proprio difensore, per il tramite del quale avrebbe potuto informare il proprio consulente tributario e regolarizzare nei tempi la propria posizione. Massima - In tema di sanzioni la condizione di "detenuto" del contribuente non configura in alcun modo la forza maggiore "cui resisti non potest", richiesta dalla legge, in quanto il contribuente "detenuto" è certamente nella condizione di poter conferire con il proprio difensore, per il tramite del quale, può informare il proprio consulente tributario, al fine di ottemperare agli obblighi fiscali. Libertà di stampa. Fonti tutelate, no a perquisizioni nei giornali di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2016 Corte di Strasburgo - Affaire Görmüs Et Autres c. Turquie. Le perquisizioni nelle redazioni degli organi di stampa e il sequestro di materiale cartaceo e informatico disposto da un’autorità giudiziaria sono incompatibili con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. È la Corte di Strasburgo a stabilirlo, con una sentenza di ieri (sul caso Görmüs contro Turchia), che accende i riflettori sui rischi che corre la libertà di stampa anche a causa di provvedimenti giudiziari abnormi. Con danni per la collettività, che vede compromesso il diritto a ricevere informazioni su questioni di interesse generale che le autorità statali, nel caso di specie militari, non vogliono divulgare. La condanna è alla Turchia, ma il principio affermato è di portata generale perché serve per interpretare l’articolo 10 della Convenzione che assicura il diritto alla libertà di espressione. Sono stati sei giornalisti di un magazine turco a rivolgersi alla Corte. I cronisti avevano pubblicato un articolo che dava conto dell’esistenza di una sorta di lista di giornalisti buoni e cattivi stilata dalle autorità militari e contenuta in un dossier confidenziale. In pratica, nel documento, giornalisti e testate erano classificati a seconda che fossero a favore o contro le forze armate e questo al fine di invitarli o meno ad alcuni eventi. Il Tribunale militare, per individuare la fonte interna alle forze armate che aveva consegnato il dossier, aveva ordinato una perquisizione nel giornale e disposto il sequestro di materiale cartaceo, cd e computer. Senza fraintendimenti la conclusione della Corte europea: queste misure sono in contrasto con la Convenzione e, anzi, costituiscono uno degli atti più gravi a danno della libertà di stampa, molto più grave rispetto alla ripetuta richiesta al giornalista di svelare una fonte. E questo anche quando le perquisizioni non raggiungono alcun risultato. La Corte europea, chiarito il proprio diritto a vigilare sul fatto che le misure disposte sul piano nazionale non costituiscano una forma di censura funzionale a spingere la stampa a non esprimere critiche, ha verificato se la notizia, che aveva condotto alle perquisizioni, fosse di interesse pubblico, elemento da mettere al primo posto a differenza di quanto fatto sul piano interno. Nessun dubbio che la classificazione dei giornalisti in base alla propria attività e il comportamento delle forze armate sia una questione di interesse pubblico che la collettività deve conoscere. Poco importa, in questi casi, se il materiale è confidenziale. Infatti, su tutto prevale la libertà di stampa, che può essere limitata solo in casi eccezionali e in presenza di un bisogno sociale imperativo che deve essere dimostrato e che, nel caso di specie, per Strasburgo mancava anche se il documento era secretato e lo Stato invocava ragioni di sicurezza nazionale. La protezione delle fonti - osserva la Corte - è la pietra angolare della libertà di stampa perché, se non fosse assicurata, alcune fonti non svelerebbero notizie scottanti e la stampa, di conseguenza, non potrebbe svolgere il proprio ruolo di cane da guardia della società. Di qui la contrarietà alla Convenzione delle perquisizioni nei giornali, tanto più che l’effetto negativo è su larga scala perché può intimidire altre potenziali fonti, interne all’apparato oggetto delle notizie, che rischiano solo con la garanzia dell’anonimato, denunciando alla stampa fatti scottanti che altrimenti nessuno conoscerebbe. Lo Stato in causa è stato condannato anche a versare un indennizzo per danni morali pari a 8.250 euro. Truffa al Bancomat? La banca è responsabile di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2016 Cassazione - Sezione I civile - Sentenza 19 gennaio 2016 n. 806. La banca deve garantire la sicurezza del servizio bancomat per le manomissioni di terzi, anche quando il titolare della carta non la blocca immediatamente e non fa attenzione a nascondere il Pin quando lo digita. La Cassazione, con la sentenza 806, ribalta un doppio verdetto sfavorevole al ricorrente, riconoscendo la fondatezza dei suoi motivi. Il correntista della banca aveva tentato di eseguire un prelievo bancomat ma l’apparecchio, dopo aver trattenuto la carta, aveva visualizzato la scritta "carta illeggibile" seguita da "sportello fuori servizio". Un inconveniente che il cliente aveva segnalato al vicedirettore della filiale, che lo aveva invitato a passare il giorno dopo; consiglio seguito, senza però rientrare in possesso della carta, che non era stata trovata. Trascorsi un paio di giorni il correntista si era accorto che dal suo conto erano stati prelevati circa 7mila euro, un "salasso" del quale aveva messo al corrente per iscritto il funzionario, aspettando però ancora 24 ore prima di denunciare il tutto all’autorità giudiziaria. Per il Tribunale e per la Corte d’appello, il cliente è il solo responsabile di quanto accaduto. Lo "sprovveduto" correntista era stato vittima di una truffa da parte di uno sconosciuto che aveva prima manomesso il bancomat, poi si era avvicinato al ricorrente in difficoltà e con la scusa di aiutarlo aveva memorizzato il codice. Per i giudici di merito, a fronte di un comportamento così poco accorto - aggravato dal mancato blocco della carta - la banca non aveva colpe. Di parere diverso la Cassazione, secondo la quale l’istituto di credito è venuto meno al suo dovere di diligenza professionale (articolo 1176, secondo comma, del Codice civile). Il vice direttore che ha raccolto la denuncia sul cattivo funzionamento del bancomat, invece di mettersi in allarme per la sottrazione della carta da parte dello sportello, ha rimandato il controllo al giorno successivo. Presenta profili di colpevolezza anche l’omessa verifica, attraverso il circuito delle telecamere, della manomissione del dispositivo da parte di terzi. Elementi che la Corte d’appello non doveva sottovalutare. La Cassazione ricorda che in una caso come quello esaminato, a fronte di un’esplicita richiesta della parte, i giudici dovevano verificare che l’istituto bancario avesse adottato tutte le misure idonee a garantire la sicurezza. Per la Suprema corte, "la diligenza posta a carico del professionista ha natura tecnica e deve essere valutata tenendo conto dei rischi tipici della sfera professionale di riferimento ed assumendo quindi come parametro la figura dell’accorto banchiere". Il Codice civile non precisa la misura della diligenza nelle obbligazioni relative all’esercizio di un’attività professionale: la valutazione, di carattere tecnico, va commisurata alla natura dell’attività e, in particolare, all’obbligo di custodia di uno strumento che è esposto al pubblico ed eroga denaro. La Corte d’appello dovrà ora tenere conto non solo di ciò che l’istituto non ha fatto, come il mancato esame delle telecamere, ma anche di ciò che ha fatto sbagliando, come l’ambigua indicazione di tornare il giorno dopo senza consigliare l’immediato blocco della carta. Inoltre, la Corte aveva trascurato del tutto la questione di prelievo di molto superiore al plafond contrattuale: 7.000 euro a fronte dei 2.500 consentiti. Marche: situazione delle carceri, approvata la mozione del presidente Mastrovincenzo viveremarche.it, 20 gennaio 2016 La situazione degli istituti penitenziari marchigiani, per quanto migliorata rispetto al passato, presenta ancora alcune criticità che vanno risolte. Questo l’impegno chiesto dal Presidente del Consiglio regionale Antonio Mastrovincenzo con una mozione che è stata approvata oggi con 15 voti favorevoli e 4 astenuti (Zaffiri, Malaigia, Leonardi e Celani) dall’Assemblea legislativa. Partendo dai contenuti del report predisposto lo scorso ottobre dal Garante dei detenuti, Andrea Nobili, al termine di una serie di visite negli stessi istituti, l’atto impegna il Presidente della Giunta a sollecitare il Ministero della Giustizia ad adottare le misure necessarie per la soluzione delle diverse criticità. Tra quelle indicate nella mozione, un non adeguato numero di educatori impegnati nelle attività trattamentali; il ridotto numero dell’organico degli operatori di Polizia Penitenziaria; il sostegno e l’ampliamento dei percorsi destinati alla risocializzazione ed al reinserimento dei detenuti; una diversa attenzione nei confronti di quelli con varie forme di dipendenza; il miglioramento delle relazioni con i familiari; le barriere architettoniche e i problemi strutturali dei vari penitenziari. Accolto l’emendamento alla mozione del consigliere Maggi, sottoscritto dal Presidente Mastrovincenzo e dai gruppi consiliari di minoranza, che impegna la Giunta a valutare il rifinanziamento della legge 28/2008 al fine di garantire la continuità delle attività trattamentali negli istituti penitenziari marchigiani. Via libera anche agli emendamenti dei consiglieri Leonardi, relativo al miglioramento delle condizioni di vita e servizio degli operatori di polizia penitenziaria, e Marconi su accesso dei volontari esterni, ridotta disponibilità dei servizi sociali e sanitari di tipo psicologico e scarsa diffusione delle pene alternative. Liguria: proposta di legge per l’istituzione del Garante dei diritti dei detenuti Dire, 20 gennaio 2016 Verrà presentata ufficialmente giovedì la proposta di legge regionale per l’istituzione del garante dei diritti dei detenuti, depositata a ottobre scorso dal consigliere regionale Gianni Pastorino di Rete a Sinistra. "Purtroppo - dice Pastorino alla Dire - in Liguria non esiste alcuna funzione di garanzia per la popolazione detenuta né a livello regionale nè a livello locale". La proposta sta per iniziare il proprio iter in Commissione e si pone l’obiettivo di istituire una figura che possa intervenire, al pari dei detenuti e dei consiglieri regionali, nei confronti delle istituzioni carcerarie nei casi di maltrattamento e violenza. "La nostra proposta - prosegue il consigliere di Rete a Sinistra - è stata considerata una delle più avanzate dagli esperti delle associazioni che si occupano di tutela dei detenuti. L’intenzione è quella di creare la figura di un garante che abbia totale capacità di intervento, che sia incastonata dentro l’organigramma della Regione Liguria e che non abbia altre funzioni oltre a quella di tutelare i diritti dei carcerati". Si "tratta- conclude Pastorino- di un intervento assolutamente necessario alla luce di quanto sta avvenendo ultimamente nelle carceri liguri in termini di sovraffollamento e di episodi di violenza". Padova: omicidio Floris, due mesi dopo la morte si continua a battere la pista sarda padovaoggi.it, 20 gennaio 2016 La Barbagia, terra natia del detenuto 60enne trovato cadavere sotto una pila di legna, a Padova, continua ad essere "terreno fertile" per le indagini della squadra Mobile. Sono trascorsi più di due mesi dal ritrovamento del cadavere di Antonio Floris, il detenuto 61enne trovato sotto una pila di legna, in via Righi, a Padova, all’interno del centro Oasi (Opera assistenza scarcerati italiani) dei padri Mercedari, dove da anni lavorava la terra con altri carcerati ammessi al programma di reinserimento nella società. Barbagia. La squadra Mobile di Padova sta portando avanti le indagini ma la risoluzione del caso sembra essere ancora lontana. Il dirigente Giorgio Di Munno è rientrato in questi giorni dalla Barbagia, la terra natia di Floris, dove è stato per la seconda volta. Sono state riascoltate 9 persone tra le quali figurano anche alcuni famigliari. La pista più battuta sarebbe dunque quella sarda. Il siciliano. In un primo momento si era pensato che la mano omicida potesse essere quella di un siciliano la cui camera, all’interno dell’Oasi, si trovava quasi di fronte a quella usata da Floris per cambiarsi e riporre le proprie cose. Inoltre, in passato, lo stesso siciliano sarebbe stato accusato di avere derubato il detenuto ucciso. Ricostruzione. Antonio Floris è stato ucciso con una serie di colpi al cranio, forse con una spranga o con un bastone. L’arma con la quale è stato ucciso Floris non è ancora stata ritrovata. Floris si trovava al Due Palazzi per scontare una pena di sedici anni per due tentati omicidi. Venerdì 6 novembre non era rientrato in carcere dopo il pomeriggio trascorso al centro Oasi. Chi era. Negli anni 90 era uno degli "emergenti" della criminalità sarda, Floris era originario di Desulo. L’uomo era già scappato dal carcere, nel gennaio del 1991, dalla colonia penale all’aperto di Mamone, dove stava scontando alcune condanne, tra le quali una per rapina in banca. Una latitanza che ebbe fine cinque anni dopo. Il 10 gennaio 1996 era stato trovato dalla Criminalpol, che lo intercettava da tempo. In quell’occasione, gli agenti fecero una scoperta sorprendente: i diari scritti in codice cifrato che l’uomo teneva nei tascapane, e nei quali aveva registrato le sue attività criminali. "Codice Floris". Il materiale fu studiato, analizzato e tradotto. Gli agenti affermarono che Floris scriveva basandosi su un antico dialetto nordafricano modificato con "accezioni" personali. La decriptazione aveva consentito agli investigatori di denunciare 20 persone per favoreggiamento. Sondrio: la città perde i pezzi, Casa circondariale "targata" Bergamo di Alberto Gianoli Provincia di Sondrio, 20 gennaio 2016 Schema di decreto. Si studia un nuovo accorpamento con il rischio di avere una gestione senza direttore Progetti di apertura alla città in forse e tante incognite. Nei mesi scorsi sembrava che la Prefettura dovesse essere accorpata a quella di Bergamo. Archiviato il progetto del ministero dell’Interno, ora arriva quello della Giustizia a proporre quella che dovrebbe essere un’altra ipotesi per ridurre la spesa pubblica Un altro accorpamento con Bergamo: la casa circondariale di via Caimi, secondo uno schema di decreto predisposto dal capo di gabinetto del dicastero romano la vigilia dello scorso Natale, dovrebbe unirsi a quella del capoluogo orobico. Pare di immaginarli certi funzionari dei ministeri, che nella capitale stanno ad osservare la nostra remota provincia periferica per pensare ad accorpamenti coi territori vicini. Il tutto guardando una cartina rigorosamente politica. Perché, se almeno la usassero geografica, privilegerebbero le continuità territoriali ed eviterebbero di porre un arco di montagne tra il lavoro di un direttore di due case circondariali che, nel caso in cui il decreto fosse approvato, si troverebbe ad avere la responsabilità di oltre 500 detenuti, circa il 5 per cento nell’istituto di via Caimi e il rimanente a Bergamo. Le riflessioni - Lo sguardo ai numeri dei detenuti però non rende l’idea di quelli che sarebbero gli effetti di una riforma che non sembra tener conto delle riflessioni maturate con gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale e nemmeno di quanto seguito alla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel gennaio di tre anni fa, la cosiddetta "Sentenza Torreggiani", che ha giudicato le condizioni dei detenuti fino a quel momento in diverse carceri italiane una violazione degli standard minimi di vivibilità che determina una situazione di vita degradante. Se, infatti, nella casa circondariale di via Caimi non fosse presente con una certa frequenza un direttore, la gestione dei detenuti sarebbe affidata in via quasi esclusiva al personale di polizia penitenziaria. Questo, di fatto assolvendo correttamente al proprio compito, si troverebbe a preoccuparsi della sorveglianza più che di progetti e iniziative come quelle che, negli ultimi mesi, abbiamo imparato a conoscere da quando alla guida dell’istituto è giunta Stefania Mussio. Attività che, rendendo riabilitativo e non solo punitivo il periodo della detenzione, permettono di ridurre la percentuale di recidiva. Se venisse attuata la riforma, le carceri rischierebbero di "essere gestite nel peggiore dei modi - ha affermato nei giorni scorsi Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato e giustizia, cioè con direttori che, avendo più sedi e nessun riconoscimento, non appaiono in grado di seguire situazioni delicate e complesse, come sono di fatto gli istituti di pena, né di garantire il rispetto della dignità delle persone che ci vivono o ci lavorano dentro". Le raccomandazioni - Inoltre, si contravverrebbe alle raccomandazioni del Comitato dei ministri agli Stati membri del Consiglio d’Europa sulle Regole penitenziarie europee, che nel 2006, stabilivano che "ogni istituto deve avere un direttore" e che questo "deve essere incaricato a tempo pieno e deve dedicare tutto il suo tempo ai propri compiti istituzionali". Anche Antonio Galantine segretario nazionale della Dirigenza penitenziaria sindacalizzata, ha manifestato perplessità circa la bozza di decreto. "Le violazioni di legge, le illogicità manifeste e le carenze e contraddittorietà di motivazione - ha scritto - sono tante e tali da non poter consentire l’inserimento di tale scempio nell’alveo delle norme di uno Stato democratico" Savona: detenuti in sciopero della fame e agenti in protesta contro la chiusura del carcere Il Secolo XIX, 20 gennaio 2016 I detenuti contestano la chiusura del carcere Pentole contro le inferriate. I detenuti contestano la chiusura del carcere. La casa circondariale di Savona è stata ufficialmente cancellata dal Ministro della Giustizia, lo spezzino Andrea Orlando, che ha firmato il decreto di soppressione con cui il comune capoluogo vede scomparire la struttura di detenzione situata nel centro cittadino. Nel testo vengono specificate le motivazioni. Tra le cause, il decreto individua nella presunta "anti-economicità, in termini di costi-benefici, del mantenimento dell’attuale casa circondariale" una delle principali ragioni della soppressione, oltre alla "modesta capacità ricettiva della stessa (capienza massima pari a 49 detenuti compresa la sezione semilibertà)" e soprattutto "la grave inadeguatezza dell’immobile sotto il profilo strutturale e della sicurezza". I detenuti, per i quali è già stato avviato da tempo un percorso di trasferimenti nelle vicine strutture di Genova, Sanremo e Imperia, dovrebbero mano mano lasciare tutti la struttura alle spalle di via Paleocapa. Ma nel carcere la tensione è alta. I quaranta detenuti hanno annunciato lo sciopero della fame a partire da domani, mercoledì 20 gennaio per "protestare come noi contro il decreto del ministero di Giustizia", afferma Lorenzo Michele, segretario regionale del Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria. "La situazione è critica - prosegue Michele - La chiusura del carcere rischia di avere ripercussioni anche sull’intero sistema della sicurezza. Senza penitenziario una pattuglia dei carabinieri, per fare un esempio, sarebbe costretta a trasportare un detenuto da Albenga al carcere di Marassi a Genova. Il Sappe, da tempo, chiede invece al Comune di Savona di pronunciarsi illustrando, se questo esiste, un progetto dove potrebbe essere realizzata una nuova casa circondariale. A oggi, l’unica certezza invece, è quella che quello attuale che ospita quaranta detenuti e cinquanta agenti, chiuderà senza ma e senza forse". Cuneo: Tavolo tecnico per il carcere di Alba "un presidio permanente di agenti" La Stampa, 20 gennaio 2016 Il tavolo tecnico è convocato per domani (giovedì 21 gennaio). Il Provveditorato regionale incontrerà le parti sul futuro degli agenti di Polizia penitenziaria durante la chiusura "per bonifica" della casa di reclusione di Alba dopo i casi di legionella. Si va verso un presidio permanente con una ventina di addetti. Gli altri agenti saranno temporaneamente destinati, con servizio navetta, tra Asti, Saluzzo e Fossano. Cinquanta agenti hanno incontrato l’avvocato albese Roberto Ponzio. "Il primo punto è che non cali la saracinesca sulla struttura - spiega il legale -. Una soluzione sarebbe rimettere in funzione, con impianto di caldaia autonomo al costo di poche migliaia di euro, l’ala separata, rimessa a nuovo con oltre un milione e che accoglie fino a 40 detenuti". Il segretario provinciale Giorgio Bergesio e l’esponente della Lega Federico Gregorio hanno incontrato la Direzione: "Ci vuole volontà politica. Regione e Governo si assumano le responsabilità e chiariscano. Dopo il tribunale, rischia di chiudere un altro presidio per la sicurezza, il più recente fra gli istituti della Granda". Europa. L’allarme di Juncker e Tusk per la scelta di alcuni stati di chiudere i confini di Carlo Lania Il Manifesto, 20 gennaio 2016 "Dopo Schengen toccherà all’euro". Due mesi, non un giorno di più. A marzo sapremo se l’Unione europea esisterà ancora, almeno così come la conosciamo oggi, oppure se la vedremo crollare sotto i colpi inferti dagli interessi nazionali. A lanciare l’allarme non è certo l’ultimo arrivato, ma il presidente del consiglio europeo Donald Tusk parlando ieri al parlamento di Strasburgo. "Abbiamo due mesi per rimettere la situazione migratoria sotto controllo - ha avvertito -: il consiglio di marzo sarà l’ultima occasione per vedere se la nostra strategia funziona. Altrimenti affronteremo una crisi come il crollo di Schengen". Dietro le parole di Tusk c’è la scelta presa da sempre più Stati di ripristinare i controlli alle proprie frontiere. Ha cominciato la Germania, poi è toccato a Svezia e Danimarca. Sabato scorso è stata la volta dell’Austria e nelle prossime ore la stessa cosa la faranno anche Slovenia e Croazia. Uno dietro l’altro stanno segnando la fine della libera circolazione delle persone (e delle merci), fino a oggi baluardo e vanto dell’Unione europea messo in ginocchio dalla crisi dei migranti ma anche dalla determinazione di molte capitali a non accoglierli. "L’Unione europea è minacciata alla base e forse non ce ne rendiamo conto" ha rincarato la dose Jean Claude Juncker, per il quale se non si inverte in fretta la rotta a essere messi in dubbio ben presto non saranno solo i confini. "Oggi si reintroducono i controlli alle frontiere, domani ci accorgeremo che il colpo economico è considerevole e dopodomani ci chiederemo perché c’è ancora una moneta unica se non c’è più la libertà di movimento" ha ammonito il presidente della commissione Ue. Non è certo la prima volta che da Bruxelles, e in particolare proprio da Juncker, si sottolineano i rischi per l’Europa. Mai, però, la situazione è stata così grave. Ai paesi dell’est, si è infatti aggiunto un blocco di Stati tradizionalmente fedeli alle regoli europee e che oggi invece scelgono altre strade. Segnali di una crisi che forse va oltre l’emergenza migranti. "Ormai l’Ue è minacciata nei fondamenti", avverte non a caso Juncker. Che non si tratti del solito grido "al lupo, al lupo" lo provano come al solito i fatti. Bruxelles spinge da mesi perché gli Stati accettino al loro quota di migranti? ben oggi il governo austriaco presenta una serie di misure per ridurre il numero dei migranti e rendere più sicuri i confini. "Ci saranno misure su come rendere l’Austria meno attraente" per i rifugiati, ha spiegato il ministro delle Finanze, il conservatore Hans Joerg Schelling. Ieri invece a Praga si sono visi i ministri degli Interi di Slovacchia, Ungheria, Polonia e repubblica ceca per un vertice, il cosiddetto gruppo di Visegrad, che hanno ribadito la loro opposizione al sistema di quote obbligatorie per la distribuzione dei rifugiati proposta dalla commissione Ue. Alla riunione hanno partecipato anche i ministri dei di Slovenia, Serbia e Macedonia, con i quali è stato stretto un patto di collaborazione per i controllo dei confini dei Balcani occidentali. Messa di fronte alle sua incapacità di gestire il fenomeno migratorio, terrorizzata da quanto potrebbe accadere a primavera, quando il bel tempo incoraggerà nuove partenze di massa dalla Siria, l’Unione europea torna a riproporre l’unica ricetta che considera utile per non affondare: rafforzare i controlli lungo le frontiere esterne. Tradotto vuol dire: investire soldi, uomini e mezzi non per salvare i migranti, ma per impedirgli di partire. Per raggiungere il suo scopo Bruxelles spinge soprattutto sulla Turchia e sulla sua capacità di fermare i profughi. "Ankara è la chiave per fermare i migranti", ha spiegato il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmaier. Berlino ha anche criticato l’Italia per le obiezioni sollevato riguardo ai criteri di pagamento dei tre miliardi di euro decisi a novembre dall’Ue come contributo ad Ankara. Mentre l’Europa litiga, lungo i suoi confini ogni giorno si consumano tragedie, rese più probabili dalle basse temperature di questi giorni. L’Unicef ha lanciato l’allarme per i tanti bambini in arrivo nell’Europa sudorientale. Piccoli stremati dal viaggio, impauriti, stressati e spesso che necessitano di assistenza medica, denuncia l’organizzazione, secondo la quale almeno uno ogni tre rifugiati arrivati nei Balcani è minorenne. Costretti a camminare per ore in mezzo alla neve senza avere, denuncia sempre l’Unicef, né abiti adatti né cibo a sufficienza. Accoglienza condivisa dei profughi, Renzi strappa un punto all’Europa di Marco Zatterin La Stampa, 20 gennaio 2016 Ma Weber (Ppe) attacca il premier: "Mette a rischio la credibilità". Oggi lo Stato di approdo dei rifugiati deve custodirli fino all’identificazione. Il meccanismo cambierà per assicurare una redistribuzione immediata. La rivoluzione promessa ha un contenuto. La Commissione Ue fa trapelare l’intenzione di rivedere, nella riforma del regolamento di Dublino annunciata per marzo, il principio secondo cui lo Stato di approdo dei rifugiati è quello che ha la responsabilità di custodirli fino a identificazione conclusa. La disposizione, secondo fonti citate dal Financial Times che trovano conferma, verrà modificata per assicurare una redistribuzione immediata di chi arriva in Europa ed evitare che un migrante resti là dove è sbarcato per mesi e mesi. Si richiederà un automatismo complesso per ripartire fra tutti l’onere dell’accoglienza. Buona notizia per chi, come l’Italia lo chiedeva da tempo. Pessima per altri, come il Regno Unito, che non vogliono un solo ospite in più. "Una vittoria per Renzi", scrive il quotidiano anglosassone. Un segnale di apertura in uno dei momenti più difficili per le relazioni fra Roma e Bruxelles, che negli ultimi giorni si sono scambiati accuse pesanti. Palazzo Chigi ha reso più muscolare il suo rapporto con l’Europa che ha rispedito le accuse al mittente. I toni si sono fatti pungenti. Al punto che anche la squadra del Pd all’Europarlamento si è concessa ieri un’ora di autocoscienza a dodici stelle, interrotta solo dall’irruzione d’un altro gruppo di parlamentari che aveva prenotato la stessa sala strasburghese. Stava parlando Simona Bonafé, l’eurodeputata che guida i fedelissimi a un segretario/premier di cui nessuno mette davvero in dubbio la strategia europea, ma di cui non tutti condividono le alzate di voce. "Ricordiamoci che siamo qui per il 40,8% ottenuto promettendo di cambiare verso anche all’Ue", diceva la più votata del 2014. "Evitiamo di esagerare coi toni", replicavano altri, Paolucci, Viotti, Bresso. "Renzi ha interpretato col suo stile un’insofferenza diffusa - riassumeva la capodelegazione Patrizia Toia. Ora è importante capire come proseguire". C’erano gli spifferi e c’erano le correnti. Fra i trenta europei del premier, ieri si sono visti i "più federalisti" confrontarsi con quelli de "l’Italia anzitutto". Classica dialettica fra minoranza e maggioranza, inasprita da personalizzazioni e da scambi duri sul ruolo di Federica Mogherini, alto rappresentante per la politica estera oggetto di critiche che ora sembrano rientrare. Confronto acceso. Sino a che la solita sbrodolata di Manfred Weber, il capogruppo popolari, ha compattato il fronte. Il tedesco ha detto in aula che "Renzi sta mettendo a repentaglio la credibilità dell’Europa a vantaggio del populismo". Ce l’aveva con lo stop che Roma oppone al fondo da 3 miliardi per i progetti di accoglienza dei rifugiati in Turchia. "Tutto ciò va a svantaggio dell’Europa", ha tuonato Weber, non nuovo alle stilettate anti-Renzi. Immediata la reazione dei pretoriani Pd. Mentre dall’opposizione si perdeva l’occasione per non ripetere che quando c’era Berlusconi l’Italia era maggiormente considerata. Poco prima Juncker aveva lanciato una frase sibillina inseribile nella polemica renziana - "alcuni governi sono veloci ad attaccare Bruxelles, ma si guardino allo specchio, anche loro sono Bruxelles" -, ma aveva evitato la trappola tesa dagli interventi italiani in aula. "Sono esperti, troveranno una composizione, sanno che è pericoloso alzare la voce", concedeva Mercedes Bresso. "Mi interessa la sostanza - tagliava corto Pittella - Juncker ha suggerito ricette che possono risollevare un’Europa in affanno". Nella riunione della delegazione Pd, che continuerà oggi, gli scambi sono stati croccanti. Sotto tiro la Bonafè e le critiche (riformulate) a Federica Mogherini. "Infantilismo politico", s’è sentito dire. Panzeri, Mosca e Viotti hanno difeso Lady Pesc. "Il suo lavoro ha dato risultati importanti, ad esempio in Libia - sottolineava Brando Benifei - Sono anche interessi italiani". "Pensiamo che sia giusto porre le nostre questioni in modo netto, ricordando però che siamo un paese che crede nell’Europa più di altri", confessa Renato Soru. Lo ridiranno venerdì, a Roma di Renzi. "Per farla finita con l’Ue orwelliana in cui alcuni sono più uguali degli altri", attacca Nicola Danti. Non un ramoscello di ulivo per Bruxelles e Berlino, questo no. Al buio e con le porte bloccate. Quel treno spettrale che porta i profughi in Austria di Niccolò Zancan La Stampa, 20 gennaio 2016 Ogni giorno dalla Slovenia partono due convogli speciali. I profughi in arrivo dalla Croazia vengono portati nel centro di raccolta di Dobova. Da lì alla stazione di Brezice, dove vengono caricati sui treni diretti in Austria. Il treno speciale dei profughi arriva al binario 3 ogni sera. L’orario non è molto preciso. "Dipende da quanti sono e da quanto ci mettono a caricarli tutti", dice il capostazione. "Ma lo riconoscerete senza dubbio. Perché lo fanno fermare sempre un po’ oltre, in modo da non dare fastidio ai passeggeri degli altri treni. E poi vedrete arrivare i poliziotti. Vengono apposta per loro". I poliziotti arrivano alle 6 di sera, posteggiano la camionetta davanti alle transenne. Dieci minuti più tardi, dalla curva dell’ultimo paese sloveno prima del confine austriaco spunta lento un convoglio spettrale. Slovenske Zeleznice, c’è scritto sulla fiancata lercia. Sta viaggiando da quattro ore. Tutte le luci sono spente, tranne quella del locomotore. Sembra vuoto. Invece è pieno di migranti. E adesso, abbassano i finestrini nel gelo. "Amico, hanno chiuso le porte. Tutte chiuse. Non possiamo scendere. Siamo bloccati. Dove siamo? Quanto manca all’Austria? Ci fanno passare?". Ogni giorno partono due treni come questo. Due treni carichi di persone da sbolognare alla prossima frontiera d’Europa. Il primo viaggia all’alba, l’altro a tarda sera. Treni senza ritorno. Almeno nelle intenzioni di chi li ha istituiti. "Noi siamo un Paese di transito", dice con un po’ di imbarazzo lo studente pendolare Alexander Ebner, mentre aspetta un regionale in direzione opposta per Lubiana. "È raro incontrare un profugo per le nostre strade", dice. Te lo ripetono tutti: "Passano e vanno via". Prima di arrivare qui, siamo stati al valico di Sentilj, 200 chilometri a est verso l’Ungheria. A novembre si vedevano foto impressionanti da quella frontiera. Lunghe file di profughi in cammino, scortati da soldati sloveni a cavallo, in mezzo alle coltivazioni e alle foreste di confine. Ma adesso il centro di accoglienza di Sentilj voluto dal governo - tendoni bianchi, bagni chimici, cucine da campo, 2 mila posti - è vuoto. "Non c’è neanche un migrante", dice il coordinatore Rok Kurnik. Da quando? "Dall’inizio dell’anno nuovo. Quando la politica del governo è cambiata. Da quando hanno organizzato i treni speciali per l’Austria". Il Grande Esodo lungo la rotta balcanica è tutt’ora in corso. I passaggi sono più che dimezzati per il freddo, ma il cammino dei profughi dalla Turchia, attraverso la Grecia, in direzione Nord, non si è mai interrotto. Second Rok Kurnik sarebbero quasi 2 mila i passaggi giornalieri in Slovenia. Ma i migranti sono invisibili. E un motivo c’è. Appena superano la frontiera con la Croazia, al confine sud, vengono portati nel centro di raccolta di Dobova. Da lì, dopo un breve viaggio in pullman fino alla stazione di Brezice, caricati sui treni speciali con le porte chiuse. Destinazione Austria. Forse questo può spiegare le dichiarazioni del cancelliere austriaco Werner Faymann, che ha minacciato di sospendere Schengen alla fine della settimana. E intanto, ha già ordinato di rafforzare i controlli ai confini proprio con Slovenia e Ungheria. "Siamo in attesa di notizie", dice il coordinatore del centro di Sentilj, Ror Kunik. "Se l’Austria dovesse chiudere a nord, anche noi potremmo fare altrettanto a sud. Deciderà il governo. Ma l’orientamento sembra questo". Prima i profughi passavano dall’Ungheria. Poi l’Ungheria ha alzato il muro di filo spinato. Quindi anche la Slovenia ha rinforzato i propri confini nello stesso modo. E ora, questo gioco terribile a rimpallarsi i profughi, potrebbe coinvolgere l’Italia. Il valico di Coccau è proprio qui, a 20 chilometri. Dai finestrini del convoglio spettrale rimbalzano voci e domande. "È vero che vogliono chiudere le frontiere?". "Io sono di Kobane". "Io sono di Beirut". "Io sono di Sham, Damasco". È pieno di ragazzini, mani di bambini sui vetri. Un professore di Baghdad chiede notizie sulla cancelliera Merkel: "L’unica che ci abbia trattati come esseri umani". Le donne stanno negli scompartimenti bui, intravedi cannucce colorate e succhi di frutta. "Ci hanno dato da mangiare nel campo di Dobova - spiega un ragazzo siriano - sul treno non c’è nemmeno l’acqua". "Sappiamo che la Germania non ci vuole più. La mia idea è di provare in Olanda. Cosa ne pensi?". Nessuno ha lasciato le sue impronte digitali durante il viaggio, potranno quindi chiedere asilo politico altrove. Almeno così giurano i profughi del treno speciale. I poliziotti sloveni sono tranquilli, sono qui per controllare che nessuno scenda. E quando arriva l’ok, dopo mezz’ora, il treno riprende il suo viaggio. "Finora l’Austria li ha sempre lasciati passare", dice il capostazione. "Non so dire quanto durerà". Taglieggiare i profughi, l’abiezione di un’Europa finita di Filippo Miraglia (vicepresidente nazionale Arci) Il Manifesto, 20 gennaio 2016 Confini, barriere, Schengen. Ogni giorno di più, l’Unione Europea procede verso la strada che porta al disfacimento. L’Europa è arrivata oramai a un bivio e sta imboccando, ogni giorno di più, la strada sbagliata, quella che porta al suo disfacimento. È quanto suggeriscono le recenti notizie riguardanti la sospensione di Schengen da parte di un numero crescente di Paesi. Dopo Scandinavia, Danimarca e Germania, anche l’Austria e la Slovenia hanno espresso la volontà di chiudere le frontiere interne, ripristinando i controlli e quindi impedendo la libera circolazione, che è uno dei pilastri dell’Unione Europea. Se guardiamo alla dinamica dei flussi di profughi negli ultimi due anni e a quel che succede in Medio Oriente e in Africa, non c’è ragione per pensare che l’arrivo di persone in cerca di protezione possa diminuire. La sospensione di Schengen potrebbe quindi essere talmente lunga da diventare pressoché definitiva, e non straordinaria come prevede il Trattato Europeo. L’intenzione dichiarata dai governi di Germania e Austria di "filtrare" i profughi, consentendo il passaggio solo a quelli intenzionati a fermarsi nei loro Paesi e respingendo chi vuole arrivare più a nord, ad esempio in Svezia, è contraria alla legislazione europea e al regolamento Dublino, che dimostra sempre di più la sua inadeguatezza. Infatti, il regolamento Dublino obbliga lo stato di primo approdo a farsi carico di esaminare la domanda d’asilo del richiedente e della relativa accoglienza. Se un richiedente arriva alla frontiera con uno qualsiasi dei Paesi dell’Ue è questo che deve farsene carico, oppure, se dimostra con prove solide che la responsabilità spetti a un altro membro dell’UE, rimandarlo a quest’ultimo. Non è chiaro quindi verso quale Paese e secondo quali regole Austria e Germania respingerebbero i profughi intenzionati a proseguire il loro viaggio in Europa. La logica della selezione alle frontiere tra chi l’Europa considera "profughi" meritevoli di protezione e chi è considerato "migrante economico" da respingere risponde all’approccio hotspot promosso dalle istituzioni europee. Cosi come avviene negli hotspot di Grecia ed Italia, anche alle frontiere austriache e slovene si decide il destino delle persone senza rispettare la procedura prevista dalle direttive. La scelta di selezionare i profughi, combinata alla sospensione di Schengen, produrranno molte difficoltà anche ai cittadini e alle cittadine europee, e molte controversie tra Paesi, oltre che tante ingiustizie nei confronti dei richiedenti asilo. Ma non sarà certo l’egoismo di Austria e Slovenia o il razzismo di Stato a fermare chi vuole mettersi in salvo insieme alla propria famiglia. I motivi delle fughe si moltiplicano. Le stragi terroristiche si moltiplicano in tante parti del mondo, così come è successo nel cuore del nostro continente. Gli stessi governi europei, mentre discutono di come fermare Daesh e il terrorismo, impegnano uomini, mezzi e ingenti risorse per impedire che le persone in fuga possano arrivare in Europa a chiedere protezione. La conseguenza è che alle stragi di civili provocate dal terrorismo e dalla guerra al terrorismo, si aggiungono quelle causate dalle politiche di gestione delle frontiere: quasi 60 morti solo nei primi giorni di gennaio. Come se non bastasse, i governi adesso puntano anche a lucrare su chi fugge dalle guerre. La Svizzera e la Danimarca sembrano intenzionate a chiedere ai rifugiati di pagare per essere accolti. Dopo i trafficanti, arrivano i governi a taglieggiare i rifugiati! Un’ulteriore lesione dei diritti umani, che getta benzina sul fuoco del razzismo dilagante e che contribuisce alla demolizione dei valori fondanti dell’Unione Europea. Pena di morte : per 1 teenager su 2 la pena deve essere capitale ed esemplare di Serena Rosticci skuola.net, 20 gennaio 2016 Una società senza immigrati e con la minaccia della pena di morte che pende sulle teste di tutti, comprese quelle di minorenni e incapaci di intendere e di volere. Unioni civili e WiFi per tutti: ecco cosa accadrebbe se anche i 16enni potessero votare. Piccoli, teneri e carini. Di certo non parliamo dei nostri 16enni. No, loro quando si tratta di dire quel che pensano sul mondo che li circonda non fanno gli occhi dolci a nessuno, anzi. Diventano duri e intransigenti. E allora cosa accadrebbe se potessero addirittura votare, come qualcuno ha proposto? Skuola.net ha provato a immaginarlo, ma senza lavorare di fantasia. Partendo dai dati di alcune web survey recenti che hanno avuto come campione i teenager, il portale ha realizzato un’infografica che illustra uno scenario molto diverso da quello attuale. Perché se ci fosse una vera repubblica dei 16enni, la pena di morte potrebbe tornare e a "ristabilire l’ordine", gli immigrati forse entrerebbero in Italia con molta meno facilità e le droghe leggere rischierebbero di essere legalizzate. In compenso il matrimonio gay non sarebbe utopia e potremmo dire addio per sempre ai problemi di connessione. Ritorno alla pena di morte - Insomma, altro che processi lunghissimi dove spesso e volentieri il carnefice la fa franca. Per 1 teenager su 2 la pena deve essere capitale ed esemplare. E tutti devono temerla, perché 2 favorevoli su 5 l’applicherebbero persino ai minorenni, e un altro 43% agli incapaci di intendere e di volere. Una minaccia vera e propria che penderebbe sulle teste anche di chi non si è macchiato del sangue di nessuno. Perché il 14% di chi è d’accordo con questa pena, la infliggerebbe anche a pedofili e stupratori. Droghe leggere legalizzate - Gli spacciatori invece la passerebbero liscia, almeno se parliamo di quelli di droghe leggere. E per il semplice fatto che in una repubblica governata da 16enni non commetterebbero più reato in quanto, con tutta probabilità, Cannabis, Hashish e Marijuana verrebbero legalizzate. A Skuola.net il 41% dei teen ha raccontato di essere favorevole alla sua legalizzazione, dato che si compone di un 38% convinto che questa potrebbe dare una mano a sconfiggere la criminalità organizzate e di un altro 3% che invece pensa solo ai suoi interessi: in questo modo potrebbe farne uso senza problemi. Approvati i matrimoni omosessuali - Sul piano sociale probabilmente ci sarebbero molti meno matrimoni religiosi e più unioni civili: il 74% degli adolescenti ha raccontato a Skuola.net di esserne favorevole e indipendentemente dal fatto che la coppia interessata sia etero o no. Anzi, il 76% direbbe sì ai matrimoni omosessuali, percentuale di adesione che scende notevolmente se parliamo di adozioni gay. In questo caso 1 studente su 3 racconta di essere fermamente contrario. Meno immigrati - In ogni caso, i teenager sembrano avere la soluzione in tasca a ogni problema. Troppi clandestini affollano ogni giorno le nostre coste? Che problema c’è: mandiamoli via. Troppo intransigenti? Forse, eppure il rischio di uno scenario simile in uno Stato governato da adolescenti ci sarebbe eccome: il 51% ha raccontato a Skuola.net di considerare gli immigrati solo un problema. E allora che si fa? Il 19% propone di non accoglierli proprio, il 30% di far entrare solo chi ha documenti regolari e in maniera temporanea, e un più morbido 24% di accogliere tutti riservandosi poi la possibilità di decidere caso per caso. Più connessione per tutti - Ma niente paura, la vita non sarebbe tanto male per chi non è un delinquente o un immigrato. Per esempio, quel che è certo è che ci sarebbe più connessione per tutti. Perché i ragazzi ne sono praticamente dipendenti. Peggio, 1 su 2 teme che non essere sempre connesso possa fargli perdere relazioni importanti. E probabilmente questo è il motivo per il quale il 70% dei teen sente il bisogno di connettersi appena sveglio, mentre un altro 78% perde ore di sonno pur di stare online. Tutti al servizio del prossimo? - Nota positiva: nella repubblica dei 16enni immaginata da Skuola.net potrebbe esserci più attenzione verso l’altro. 1 ragazzo su 3 ha raccontato al sito di fare o aver fatto esperienze di volontariato, nel 28% dei casi verso minori in difficoltà. E il 73% dei teenager si è messo al servizio del prossimo per puro desiderio di dare una mano a chi è meno fortunato. Insomma, non tutto il mal vien per nuocere. L’ipocrisia linguistica sulle unioni civili gay di Michele Ainis Corriere della Sera, 20 gennaio 2016 Sia i favorevoli sia i contrari si nascondono dietro parole inglesi (stepchild adoption) o strani giri di parole oscure. Matrimonio non si può dire? Chiamiamolo "gaytrimonio". Tutto gira intorno a una parola: matrimonio, guai a chi lo bestemmia. Sicché l’ultima trincea contro il didielle Cirinnà bis (uno scioglilingua) sta nell’uso della lingua. Vietato riferirsi alle nozze fra uno sposo e una sposina nella nuova legge sulle unioni omosessuali, vietato ogni rinvio alla disciplina che il codice civile ritaglia per i coniugi. Non si può: sarebbe incostituzionale, anzi immorale, anzi criminale. E infatti stuoli d’imbianchini sono già all’opera per cancellare quelle scritte che feriscono l’iride del nostro Parlamento. Domanda: ma se è un tabù l’analogia coi matrimoni, a cosa dovrebbe rimandare questa legge, ai funerali? Eppure non vi risuona uno stile troppo esplicito e diretto, non si direbbe insomma che quei 23 articoli escano dalla penna di Tacito. Semmai di Gadda, o di Céline, campioni del funambolismo letterario. Difatti la famiglia gay viene immediatamente definita (articolo 1) come "specifica formazione sociale". Ma da quale specie si è specializzata questa speciale formazione? Non dalla specie umana, dal momento che la legge non menziona l’uomo, né la donna, né il papà o la mamma. No, in questo caso ciascun nubendo è "parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso". Appellativo chilometrico, come i titoli d’un nobile spagnolo; però in linea con la nostra tradizione, quando le leggi italiane sono costrette a misurarsi con le gioie del sesso. Negli anni Settanta fu la volta della legge sull’aborto (n. 194 del 1978), dove si parla di contraccettivi. E come vengono denominati? "Mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile". Prova a chiederne una confezione al farmacista, bene che vada ne otterrai in cambio qualche pasticca contro l’emicrania. E a proposito di procreazione, di figli, di figliastri. L’istituto maggiormente divisivo, la norma che può incendiare il Parlamento, consiste per l’appunto nell’adozione del figliastro, ossia del figlio naturale del partner. Siccome il fumo dell’incendio s’avvertiva già nell’aria, i difensori della legge hanno provato a battezzare l’istituto stepchild adoption, confidando nella scarsa conoscenza dell’inglese da parte dei loro oppositori. Niente da fare, qualche oscuro interprete deve averli smascherati. Allora hanno scritto la norma in lettere ostrogote. Occultandola nell’articolo 5, intitolato "Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184", che s’apre con queste parole: "All’articolo 44, comma 1, lettera b), della legge…". Un altro buco nell’acqua, li avrà traditi qualche esperto di lingue orientali. L’ultima risorsa, a quanto pare, consiste nel sostituire l’adozione con un affido rinforzato, istituto sconosciuto al nostro ordinamento. Più che una norma, un aperitivo. Tre secoli fa Ludovico Muratori (Dei difetti della giurisprudenza) puntava l’indice contro le oscurità legislative, denunziando un vizio etico, prima ancora che giuridico. Aveva ragione: l’ipocrisia verbale, oggi come allora, è il cancro dei nostri costumi nazionali, e non soltanto nella sfera del diritto. Mentre l’uso di "parole precise" comporta un impegno d’onestà, come ha osservato in ultimo Gianrico Carofiglio. D’altronde, in caso contrario, resta impossibile lo stesso confronto delle idee. Dovrebbero saperlo proprio i politici cattolici, che in questi giorni si stanno dando un gran daffare per edulcorare il testo della legge sulle unioni civili, per annacquarne le parole. "Sia il vostro dire: sì sì, no no; il di più viene dal maligno", recita la massima evangelica (Matteo, 5, 37). Ma c’è sempre un di più, c’è sempre un aggettivo accozzato alla rinfusa al solo scopo di confondere le menti, nel linguaggio col quale ci governano i politici italiani. Oppure c’è un tabù, in questo caso il matrimonio gay. Chiamiamolo "gaytrimonio", e non ne parliamo più. Iraq: rapporto Onu racconta l’orrore da cui fuggono gli iracheni Il Manifesto, 20 gennaio 2016 Crimini contro l’umanità. 19mila civili uccisi e 40 mila feriti tra l’inizio del 2014 e il 31 ottobre 2015, oltre a 3,2 milioni di sfollati interni. Stato islamico ma non solo. Circa 19mila civili uccisi e 40 mila feriti tra l’inizio del 2014 e il 31 ottobre 2015, oltre a 3,2 milioni di sfollati interni. Sono stime al ribasso, che tengono conto solo delle vittime causate da qua o servizi medici essenziali. Ma bastano a dare il quadro e la misura della violenza "sconvolgente", come la definisce un nuovo rapporto delle Nazioni unite, come quella che flagella il già martoriato Iraq. L’Onu punta il dito sullo Stato islamico per le violenze sistematiche inflitte ai civili e in particolare per i 3.500 prigionieri, in maggioranza donne e bambini, trattenuti in stato di schiavitù dai miliziani del Daesh. Ma non manca di rilevare e stigmatizzare abusi commessi dall’esercito iracheno, dalle varie milizie in campo e dalle forze kurde. Il report dell’Unami (United Nations Assistance Mission for Iraq) ha raccolto un po’ in tutto il paese le testimonianze di profughi e sopravvissuti. Secondo l’alto commissario per i diritti umani dell’Onu Zeid Raad Al Hussein, è un lavoro che "illustra con chiarezza da cosa fuggono i rifugiati iracheni che cercano di raggiungere l’Europa e altre regioni. È l’orrore - aggiunge Al Hussein - con cui devono confrontarsi nella loro terra". Iran: reporter dell’Washington Post Rezaian racconta i suoi 18 mesi di prigione lettera43.it, 20 gennaio 2016 Il reporter dell’Washington Post, liberato dopo la revoca delle sanzioni, descrive la sua detenzione in un carcere di Teheran. Tra periodi in isolamento e malattie. Jason Rezaian, il giornalista del Washington Post liberato il 16 gennaio dopo la revoca delle sanzioni all’Iran, ha vissuto in una prigione di Teheran per circa 18 mesi. La sua scarcerazione è arrivata solo ed esclusivamente grazie al buon esito dell’accordo con gli Usa, ma sarebbe stata rimandata a lungo in caso di un suo fallimento. Di passaggio nella base americana di Ramstein (in Germania) prima di tornare negli Usa, Rezaian ha raccontato al direttore del Post e al capo servizi Esteri la sua esperienza nella prigione di Evin, nella capitale iraniana. Detenuto con l’accusa di spionaggio, il giornalista descrive mesi caratterizzati da interazioni umane molto limitate e condizioni di vita estreme. 49 giorni in isolamento. Il ricordo peggiore, ha spiegato Rezaian, è quello dei 49 giorni passati in isolamento. Finiti quelli, è iniziato il confinamento in una cella di quattro metri per sei con tre brande e nessun materasso. Per mantenersi attivo, il giornalista passava fino a cinque ore al giorno a camminare in circolo. La maggior parte della sua detenzione, ha spiegato Rezaian, è trascorsa sotto il controllo delle Guardie della rivoluzione, il potente corpo militare allineato con i falchi della politica iraniana, che risponde direttamente alla Guida suprema - l’Ayatollah Khamenei - e agisce indipendentemente dalla presidenza, guidata dal moderato Hassan Rohani. Salute a repentaglio. Anche gli ospedali in cui veniva portato - è successo in tre occasioni, due volte per infezioni agli occhi e una per un problema all’inguine - erano strutture gestite dai Pasdaran. Rezaian racconta che nei 18 mesi le uniche sue fonti di conforto sono state le notizie, che di tanto in tanto gli arrivavano dal mondo esterno, e i romanzi che gli era concesso di leggere mentre attendeva gli sviluppi di un processo che l’avrebbe condannato a una detenzione a tempo indeterminato. I medici hanno stabilito che la salute del giornalista è stata messa a repentaglio per le misere condizioni di vita e per la mancanza di medicine che avrebbe dovuto assumere a causa dell’alta pressione sanguigna. Nella prigione di Evin, usata in passato anche dal governo rivoluzionario iraniano, per decenni sono stati rinchiusi i prigionieri politici. E la sentenza contro il giornalista del Post, che non stabiliva un termine preciso, aveva tutto il sapore della condanna politica. Inizialmente, Washington aveva paura che la detenzione di Rezaian potesse essere utilizzata dai militari iraniani per boicottare le trattative sul nucleare. Questi timori sono stati messi da parte quando la giurisdizione sul prigioniero è stata trasferita al ministero dell’Intelligence, un corpo molto vicino al presidente Rohani. La vicenda mette ancora una volta in rilievo uno dei principali problemi dell’Iran: la divisione tra i "falchi" dell’apparato militare (e nel caso di alcuni Ayatollah, religioso), e le "colombe", nella fattispecie guidate dal presidente Rohani. Nuove sanzioni Usa. Non appena Rezaian, insieme agli altri prigionieri americani liberati, ha lasciato l’Iran, l’amministrazione Obama ha annunciato nuove sanzioni legate al programma missilistico nazionale. Le misure sono state applicate a 11 soggetti, tra compagnie e privati, e il capo della diplomazia Zarif ha annunciato che "l’Iran risponderà in modo "proporzionale" alle nuove sanzioni". Gli Usa vogliono far capire di avere ben saldo il coltello dalla parte del manico. E vogliono che sia chiaro all’Iran come ai suoi tradizionali alleati, Arabia saudita in primis, scontenti del ritorno del gigante persiano nel "concerto delle nazioni". Regno Unito: i contribuenti pagheranno l’operazione di cambio sesso ai detenuti fanpage.it, 20 gennaio 2016 Una spesa di circa 100 mila sterline (oltre 130mila euro) che consentirà a 9 detenuti, attualmente in carcere nel penitenziario sull’Isola di Wight, di effettuare la tanto agognata operazione chirurgica. Sta facendo molto discutere in Regno Unito la decisione del governo di pagare l’operazione per il cambio di sesso a nove detenuti del carcere dell’Isola di Wight, nell’ambito del programma chiamato Transgender Pathway che aiuterà loro nella "nuova vita da donna". Gli interessati devono superare rigorosi test psicologici per mostrare la loro reale intenzione di cambiare sesso. "Non si tratta solo di un’iniziativa per ragazzi che vanno in giro in gonna, stiamo parlando di qualcosa di serio, pensato per delle persone che non vogliono più essere uomini" ha detto una fonte al Mirror. C’è da dire che ai nove detenuti in carcere è già consentito vestire con abiti femminili, compresa la biancheria intima. Sono inoltre autorizzati a spendere £25 a settimana per prodotti di bellezza. "Questa intervento è dedicato a chi si senta donna intrappolata nel corpo di un uomo e vuole davvero questo cambiamento" aggiunge la fonte. "Si tratta di persone che hanno gli stessi diritti di tutte le altre, anche se spesso siamo abituati a pensare che li hanno persi dopo aver messo piede in prigione". Dell’operazione si occuperà direttamente l’NHS, il sistema sanitario nazionale in vigore nel Regno Unito. Ogni intervento dovrebbe costare tra le 10.000 e le 14.000 sterline (tra i 13 ei 18 mila euro). "I prigionieri hanno diritto allo stesso servizio sanitario nazionale di cui godono tutti gli altri" ha detto un portavoce del governo. "Ogni persona che chiede di essere inserita nel programma viene valutata da una serie di professionisti del settore sanitario, indipendentemente dal fatto che è in prigione o no". I detenuti che hanno cambiato sesso potranno essere successivamente trasferiti in un carcere femminile. L’anno scorso, la transgender Tara Hudson, 26 anni, è stata spostata dal penitenziario maschile di Bristol a quello femminile di Eastwood Park, Glos, dopo che 140.000 persone hanno firmato una petizione in suo sostegno.