La dignità dei detenuti è più tutelata rispetto al passato, ma gli Opg sono ancora aperti di Marta Rizzo Corriere della Sera, 19 gennaio 2016 Gli eterni problemi legati ai diritti dei carcerati, nel 2015, sono stati accompagnati da iniziative interessanti per il recupero, la formazione, il reinserimento degli stessi nella società: teatro, meditazione, cucina, lavoro con animali. Accanto a ciò, nelle carceri si muore, ci si ammazza e gli Opg restano aperti. Il 2015 sembrava l’anno della chiusura degli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) ma finora soltanto quello di Secondigliano è stato chiuso davvero prima di Natale, mentre quello di Castiglione ha solo cambiato nome. Si continua a morire, i suicidi sono ancora troppi, l’inattività dei detenuti produce inerzia e vanifica ogni possibile processo di reinserimento. Eppure, le carceri sono meno affollate e ci sono casi notevoli di riabilitazione: a Roma, Gorgana, Milano e non solo, qualcosa di utile per dare un senso alla vita sospesa del carcerato si fa. Ne parlano Fabio Cavalli, che nel carcere di Rebibbia ha contribuito a portare l’Orso d’Oro di Berlino; Michele Miravalle, che denuncia la mancata trasformazione degli Opg in Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) e l’Associazione Antigone. Migliorare è sufficiente? "La prigione è il solo luogo in cui il potere può manifestarsi allo stato bruto, nelle sue dimensioni più eccessive e giustificarsi, fuori, come potere morale", scrive il solito ingegnoso Michel Foucault. Nelle carceri italiane, dove le buone leggi esistono ma di rado si applicano, la situazione complessiva migliora, ma non basta. Animali e yoga per la mente reclusa. Rieducazione, crescita culturale, reinserimento sociale, lavoro: le nuove parole del sistema carcerario, in Italia, alle volte diventano fatti. Lo dimostra l’esperienza del carcere di Gorgona, l’ultima isola-penitenziario. Qui, i 70 detenuti lavorano con gli animali per il loro sostentamento e la dignità di vita del bestiame stesso. Onda, Cani circolano a Bollate, dove si svolge un corso per dog-sitter professionali ideato e progettato appositamente per i carcerati. Con cani randagi, che qui non lo sono più. Lo yoga aiuta i detenuti a ritrovare la libertà a partire dall’introspezione. Nato negli Usa, lo yoga in carcere viene proposto dalla scuola Sathya Yoga, che porta la pratica tutte le settimane nell’istituto di Monza. Sono colorate e fatte a mano e fanno parte di un progetto sociale per dare nuove prospettive a chi si trova in carcere: le cassette per gli uccelli Fuori di Gabbia vengono realizzate dai detenuti del carcere di Treviso. nei laboratori occupazionali gestiti dalla Caritas. Il primo ristorante in carcere e il teatro. E poi c’è l’idea di portare in carcere "quelli che sono liberi" (cioè che non hanno commesso reato). Non solo concerti e teatro, ma anche cibo. InGalera è il primo ristorante con sbarre aperto al pubblico dove i detenuti trovano senso nel cucinare piatti serviti in un ambiente di indiscutibile originalità, nel carcere di Bollate. Tra i meritevoli interventi culturali e sociali nel sistema carcerario, c’è Rebibbia. Qui, da 14 anni, la Compagnia La Ribalta porta in carcere Shakespeare, Tolstoj, Brecht, Dante. Il Centro Studi Enrico Maria Salerno ha creato il Festival dell’Arte Reclusa, che si conclude al teatro Argentina; quello di Rebibbia è uno degli 8 Teatri di Roma, sempre esaurito; qui i fratelli Taviani hanno girato il film Orso d’Oro di Berlino Cesare deve morire. Antigone denuncia: suicidi e violenza. Belle le attività alternative, ma il carcere resta un incubo. "Il dato sui suicidi è ancora impressionante. 42 nel 2015, mentre 120 sono in tutto i morti: allarmante, se si pensa che il 93% dei detenuti ha meno di 60 anni - questi i dati di un documento Antigone del 10 gennaio 2016. Inadeguata rimane l’offerta di attività. Il numero dei lavoranti, intorno ai 14.500, è fermo ai dati del 2010 e quello dei detenuti impegnati in corsi di formazione è calato dai 3.584 del giugno 2010 ai 1.918 del giugno 2015. Le nostre carceri, pur meno affollate di ieri, non offrono percorsi che riescano a scoraggiare la recidiva, che resta alta. E poi, i detenuti vengono privati di autonomia, dipendono dallo staff del carcere per ogni loro bisogno: ciò crea ozio e deresponsabilizzazione, abitua a inerzia e vittimismo. In questo clima, continuano a segnalarsi gravi casi di violenza. Alcuni più noti, come quelli di Bolzaneto o di Asti, sono arrivati alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo per avere giustizia. Altri, meno noti, raggiungono ogni giorno tribunali, media e associazioni, spesso senza riuscire a ottenere giustizia. È per questo urgente che anche in Italia la tortura diventi finalmente un reato". La follia degli Opg: basta applicare la legge buona che c’è. Il 30 marzo 2015, questo quotidiano aveva intitolato un articolo: "Si conclude per sempre la barbarie degli Opg". Eccesso di fiducia: "La questione dei pazienti psichiatrici autori di reato è intricata - spiega Michele Miravalle, coordinatore nazionale Osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’Associazione Antigone - Per questo, occorre partire da cose semplici, come applicare la legge 81/2014: un buon compresso, che fissa paletti fondamentali. Vieta gli "ergastoli bianchi" (la durata indeterminata del ricovero in Opg) e dice che gli Opg devono trasformarsi in Rems: strutture con al massimo 20 posti letto, a gestione esclusivamente sanitaria. Sono passati due anni dall’entrata in vigore della legge e sono ancora aperti 4 dei 6 Opg. Castiglione delle Stiviere ha cambiato nome in Rems e Secondigliano è stato chiuso solo prima di Natale. Molte regioni non hanno provveduto a individuare le Rems e soprattutto non hanno speso (o hanno speso male) i soldi per rafforzare cure alternative agli Opg. Intanto, almeno 350 persone restano ricoverate in luoghi che per legge dovrebbero essere chiusi da anni. Gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale hanno fatto proposte serie riguardo gli Opg, a cominciare dal superamento del concetto di "pericolosità sociale". Si spera che il Parlamento possa, senza ritardo, ripartire da lì". La recidiva crolla per i detenuti che pensano. A Rebbia Fabio Cavalli lavora da 14 anni come regista e produttore ed è tra i membri degli Stati Generali del Sistema Penale: "Con 3 miliardi annui di spesa dello Stato per il sistema penitenziario - dice Cavalli - dovremmo avere stanze singole con bagno e doccia in camera. Invece, la vita reclusa si svolge in celle fredde (fornaci d’estate) e sovraffollate, con tassi di suicidio 8 volte superiori alla media dei cittadini liberi e il tasso di recidiva è del 68%. Il ministro Orlando ha convocato gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale: una consultazione di persone che hanno competenza in materia, per proporre linee guida per la riforma della pena, a 40 anni dall’ultima legge. A me è stato chiesto di occuparmi di arte e cultura nei programmi educativi offerti ai detenuti e posso testimoniare che tra i detenuti attori, tecnici, musicisti, scenografi, scrittori il tasso di recidiva sembra precipitare sotto il 10%. L’Italia è l’unica nazione al mondo ad avere uno spazio teatrale quasi in ognuna delle 198 carceri; è l’unica ad avere un sistema di volontariato che entra, collabora e segnala ciò che non funziona; è l’unica ad avere un articolo, l’art. 27 della Costituzione, che obbliga a considerare il carcere come strumento di reinserimento sociale. Seguiamo la Costituzione e applichiamo le buone leggi che oggi abbiamo". Sinistra Italiana: commissione d’inchiesta sugli abusi e sui maltrattamenti nelle carceri Dire, 19 gennaio 2016 Fratoianni: basta con trattamenti inumani e degradanti. Oggi alla Camera conferenza stampa con Ilaria Cucchi. "Dire basta ad un modello di carcere nel nostro Paese come luogo di trattamenti inumani e degradanti dove non c’è spazio per la dignità delle persone, è un obbligo che uno Stato moderno e giusto dovrebbe perseguire". Lo afferma Nicola Fratoianni, di Sinistra italiana. "Avere un quadro preciso della situazione nel nostro Paese - prosegue il coordinatore di Sel - al di là dei drammatici fatti di cronaca su cui ogni tanto la grande stampa e tv accende i riflettori, individuare responsabilità per quello che avviene, e trovare soluzioni per un futuro diverso sono obiettivi che le istituzioni democratiche e la politica devono perseguire". E "sono proprio queste alcune delle questioni che saranno affrontate nella conferenza stampa per la presentazione della proposta per l’istituzione della commissione d’inchiesta parlamentare sugli abusi e sui maltrattamenti nelle carceri e nei luoghi di detenzione che si terrà oggi martedi 19 gennaio 2016 alle ore 13". All’incontro che si terrà presso la Sala Stampa di Montecitorio, intervengono Celeste Costantino di Sinistra Italiana, il coordinatore nazionale di Sel Nicola Fratoianni, Ilaria Cucchi, e l’avv. Fabio Anselmo, legale delle famiglie Aldrovandi, Cucchi ed Uva. Orlando: coinvolgere la Polizia penitenziaria nell’esecuzione delle pene alternative Agi, 19 gennaio 2016 Non soltanto il carcere, ma forme alternative di detenzione, questo il tema della discussione avviata dal ministero della Giustizia. Per fare ciò, sostiene il ministro Andrea Orlando, occorre "un maggiore coinvolgimento della polizia penitenziaria per attuare misure alternative al carcere". "È una strada che abbiamo iniziato a intraprendere e per svilupparle è necessario far si che sia coinvolta sempre di più la polizia penitenziaria, che deve essere la polizia dell’esecuzione della pena", spiega il Guardasigilli a Napoli per un appuntamento del Sappe. Nell’arco degli ultimi due anni, "vorrei ricordare - evidenzia il ministro - che le pene alternative sono aumentate del 100%, tanto che oggi se è diminuito il numero dei detenuti non è diminuito il numero complessivo delle persone sottoposte a esecuzione penale" e "questo è un dato importante". Per Donato Capece, segretario generale del Sappe, c’è da auspicare inoltre "un carcere diverso che sia rieducativo, su cui si punti per più misure alternative alla detenzione, come quella domiciliare, lavori di pubblica utilità". L’obiettivo è anche "creare un carcere invisibile sul territorio - sostiene Capece - per chi commette un reato lieve ed un carcere piu rieducativo, quest’ultimo riservato a detenuti che commettono reati gravi". Il proselitismo terroristi in carcere c’è, ma è monitorato "La preoccupazione che in carcere si faccia proselitismo è fondata. Il fenomeno esiste e molti dei protagonisti delle vicende francesi e belghe sono passati dalle carceri. Ma noi abbiamo previsto gli anticorpi necessari". Lo ha spiegato il ministro della Giustizia Andrea Orlando intervenendo al congresso nazionale del Sappe in corso a Napoli in risposta a chi gli ha chiesto se ci fosse da preoccuparsi per la presenza di detenuti di fede islamica all’interno delle carceri, 167 dei quali classificati come terroristi. "Abbiamo garantito l’accesso al culto - ha ricordato - interloquendo con l’Unione delle Comunità musulmane ma aderendo contemporaneamente alle reti di monitoraggio. Direi - ha concluso - che abbiamo costruito gli anticorpi necessari e fondamentale è il ruolo che può e deve esercitare la polizia penitenziaria con il supporto dei mediatori culturali". Il governo toglie poteri alla Corte dei Conti, così sprechi e abusi resteranno impuniti di Valeria Di Corrado Il Tempo, 19 gennaio 2016 Il duro sfogo del presidente dell’Associazione magistrati contabili Fulvio Longavita. "Siamo molto preoccupati e a disagio per l’impatto negativo che questa modifica normativa avrà sulle funzioni giurisdizionali e di controllo in materia", fa sapere il presidente dell’Associazione magistrati della Corte dei conti, Fulvio Longavita. Cosa vi preoccupa? "Di fronte a un caso di mala-gestione di una società pubblica non è che i giudici contabili siano più bravi dei giudici ordinari. La differenza sostanziale è che la Corte dei conti, è dotata del pubblico ministero, la cui funzione è quella di tutelare i soldi pubblici. Nel giudizio ordinario, invece, il processo si attiva su iniziativa della parte, in questo caso del socio. Nelle società a partecipazione pubblica il socio è l’ente pubblico che le ha istituite: può succedere che si muova, per ottenere il risarcimento del danno subito, ma può anche decidere di non farlo. Ci troviamo infatti di fronte a società che non spendono i soldi dell’imprenditore privato, che ha un interesse intrinseco nella sua azienda". Quali saranno le conseguenze concrete? "Eliminare la presenza del pm contabile in questa materia significa diminuire il numero dei casi di danno che possono essere risarciti. Anche nei tempi siamo molto più rapidi, avvalendoci della polizia giudiziaria. Se dovesse passare questa norma, la Cassazione imporrà alla Corte dei conti di restare in panchina. È un peccato, visto che abbiamo sempre denunciato gli sprechi e i gravi abusi che si sono verificati nelle società pubbliche, con danni per diversi milioni di euro. Senza contare che molti dei settori affidati a queste società, come quello dei trasporti, dei rifiuti e del loro smaltimento, sono particolarmente esposti a fenomeni di corruzione e malaffare. È bene poi spiegare che il giudice contabile non scalza quello ordinario: i due giudizi possono procedere di pari passo, fino a quando il primo dei giudici riesce a ottenere il risarcimento". Come vi siete mossi? "Ferma restando la bontà della riforma sul piano della razionalizzazione della spesa pubblica, nei giorni scorsi ci siamo recati come associazione dei magistrati contabili dal capo di gabinetto della Funzione pubblica, Bernardo Mattarella, e abbiamo elencato quali sono i problemi che questa norma ha sul piano tecnico. Almeno sulla base del testo che siamo riusciti a reperire su internet, visto che non ci è stato dato il testo ufficiale. Nel caso in cui, la legge dovesse passare intonsa al vaglio delle commissioni parlamentari, i giudici contabili si attiveranno per porre il problema davanti alla Corte costituzionale". Senza i pm della Corte dei conti non avremmo Mafia capitale e Parentopoli di Valeria Di Corrado Il Tempo, 19 gennaio 2016 Se dovesse passare la riforma sulle società partecipate "made in Renzi", la prima a saltare sarà l’inchiesta della Procura delle Corte dei conti del Lazio su "Mafia Capitale". Questo perché, una grossa fetta del danno erariale deriva proprio dagli illeciti commessi in seno a una società "in house" del Comune di Roma: l’Ama. L’azienda romana dei rifiuti, infatti, come tutte le altre società a capitale pubblico, se dovesse passare il testo di legge elaborato dal Governo, non sarà più sottoposta alla giurisdizione della magistratura contabile. E pensare che i pm della Corte dei conti del Lazio Ugo Montella e Massimiliano Minerva sono vicini alla chiusura dell’indagine che sta quantificando il danno provocato dal "sistema Buzzi" alle casse del Campidoglio. A breve verranno notificati a dirigenti pubblici e politici gli inviti a dedurre (l’equivalente per il penale degli avvisi di garanzia), con le relative contestazioni. La ragnatela corruttiva si era estesa ai vertici dell’amministrazione, inquinando il sistema di affidamento degli appalti, a cominciare appunto da quelli gestiti dall’Ama. E proprio l’ex municipalizzata dei rifiuti di Roma, infatti, ad essere stata più permeata - secondo l’impianto accusatorio della Procura di piazzale Clodio - da questo sistema di corruzione. Nel caso in cui il testo di legge venisse definitivamente approvato, la Procura contabile, di fronte agli illeciti commessi da amministratori e dipendenti delle società in house, si ritroverebbe con le "armi spuntate". L’unico danno perseguibile sarebbe il danno all’immagine provocato all’amministrazione. Già oggi, ogni volta che sul banco degli imputati della Corte dei conti del Lazio viene chiamato un dirigente di Ama o Atac, i legali invocano il difetto di giurisdizione. Così è stato, ad esempio, per il processo sulla "parentopoli" del trasporto pubblico locale, che si è concluso lo scorso novembre con la condanna degli ex vertici di Atac, Trambus e Metro a risarcire in totale 2.254.500 euro al Comune di Roma per il danno erariale causato con le assunzioni illegittime di 25 persone. "La società Atac spa - si legge nella sentenza - ha mantenuto il requisito della totale partecipazione pubblica anche dopo la incorporazione delle altre due, Trambus e Metro". Per quanto riguarda Ama, invece, c’era stato un precedente sfavorevole alla giurisdizione della Corte dei conti. Nessuno ha pagato i circa 16 milioni di euro di danno alle casse dell’azienda dei rifiuti romana per il fallimento della commessa di raccolta, stoccaggio e smaltimento dei rifiuti di Dakar in Senegal. Questo perché il 10 dicembre 2013 le sezioni unite civili della Cassazione hanno negato la giurisdizione alla Corte dei conti. È bene però specificare che la natura privata di Ama spa, all’epoca dei fatti non era ancora identificabile in una società "in house". Per questo la Suprema Corte aveva attribuito la potestà di giudizio al giudice civile. Ora lo statuto è stato modificato: il Comune di Roma ha la totale partecipazione azionaria. Restando nei dintorni, c’è il caso della società Formia servizi, anche in questo caso è stato sollevato il problema della giurisdizione davanti alla Cassazione. È di ottobre invece la pronuncia dei giudici supremi con cui è stata esclusa definitivamente la competenza della Corte dei conti per Alitalia. La Procura regionale del Lazio aveva citato in giudizio il consiglio di amministrazione di epoca pre-Cai per un danno erariale di 2 miliardi 323 milioni di euro. Ora sarà interessante capire se per ottenere il risarcimento di quel danno si muoverà l’amministrazione competente. Il mistero di Rosa Capuozzo nel labirinto della politica di Marco Demarco Corriere della Sera, 19 gennaio 2016 Chi è davvero il primo cittadino di Quarto, che martedì risponde alle domande dell’Antimafia. Una moderna Giuditta, decisa e coraggiosa, o piuttosto colei che ha tardato a denunciare i ricatti? Un rompicapo su cui in molti si sono persi. Eroina civile, vittima dell’inciucio politico, o sughero galleggiante nella palude della provincia opportunista? Chi è davvero Rosa Capuozzo, sindaca ex grillina di Quarto, lo sapremo forse solo martedì, quando lei stessa risponderà alle domande della commissione Antimafia. Lunedì c’è stata la conferma che si tratta di una donna minuta d’aspetto e forte di carattere. Con l’aiuto di don Milani ("È inutile avere le mani pulite e tenerle in tasca") e deprecando i moralismi astratti (c’era da combattere la camorra e invece "il M5S è scappato a gambe levate") la sindaca ha infatti risposto a chi l’ha espulsa dal movimento. Ma ancora nulla che possa mettere il punto alla polemica che l’ha vista contrapposta a Grillo e ai membri del direttorio. Rosa Capuozzo resta dunque un mistero. Uno specchio in cui ognuno vede riflesso ciò che vuole. A volte, ha dato l’impressione di essere decisa e coraggiosa come una moderna Giuditta, riuscendo, come nel mito, a ignorare la timorosa élite maschile della città assediata e a decapitare l’assediante, gigantesco Oloferne. Nel caso, la camorra. Ciò è sicuramente successo quando Rosa la "pasionaria" ha lanciato i suoi appelli anti-clan, o quando non si è piegata davanti alle pressioni di Giovanni De Robbio, l’ex consigliere comunale pentastellato espulso prima di essere indagato per voto di scambio e tentata estorsione proprio ai danni della prima cittadina, residente in una casa forse non condonata. Ma altre volte la sindaca ha invece proposto di sé un’immagine del tutto diversa, come quando, per evitare complicazioni, ha tardato a denunciare i ricatti. O quando, intercettata pur non essendo "avvisata" di alcun reato, ha consigliato ai suoi di "non mettere i manifesti" su quanto stava succedendo a Quarto. Rosa Capuozzo è diventata, insomma, un rompicapo assoluto; il labirinto in cui tutti si sono persi. Compreso Roberto Saviano. In terra di camorra, appena eletta, la sindaca era diventata per lui il simbolo mancante di una politica nobile, incondizionata, per la prima volta libera da quel voto di scambio. E invece: "Deve dimettersi", ha poi sentenziato, anticipando Grillo di ventiquattro ore. Ci sono poi tutti gli altri. Quando Grillo difendeva la sindaca, e i vari Fico e Di Maio non si vergognavano di averla sostenuta, i "democrat" ne chiedevano a gran voce le dimissioni, e la renziana Picierno addirittura calava da Bruxelles a Quarto per manifestare indignata nell’aula del Consiglio comunale. Quando Grillo di colpo l’ha scaricata ("l’onesta ha un prezzo"), e vai a capire perché, visto che nulla nel frattempo era cambiato, Renzi a sorpresa l’ha invece difesa ("Rosa Capuozzo ha resistito alla camorra, non deve dimettersi"). I rispettivi quartieri generali si sono così ritrovati di punto in bianco sbandati e persi come in un 8 settembre. Nessuno, tra i colonnelli e le generalesse, era più al posto giusto. Picierno ha preso l’aereo e se n’è tornata a Bruxelles; Fico e Di Maio, nell’occasione insieme con Di Battista, sono invece finiti su una panca a discolparsi. Tutti con Rosa, tutti contro di lei. Ma mai tutti insieme. Tipico di una politica italiana gravemente malata di tatticismo. È in campo grillino, però, che le contraddizioni bruciano di più. Tra luglio e dicembre i membri napoletani del direttorio pentastellato si sono incontrati con Rosa Capuozzo almeno cinque volte: nella casa posillipina di Fico, in un bar del centro storico di Napoli, a Quarto. L’assedio al Comune era già iniziato, Oloferne già alle porte. Nessuno si era accorto di niente? O Giuditta aveva già deciso di fare tutto da sola? Martedì, forse, ne sapremo di più. Processo Mori: chiesti 4 anni e mezzo di carcere, ma cade l’aggravante per la "trattativa" La Repubblica, 19 gennaio 2016 Secondo Roberto Scarpinato gli ex ufficiali dei carabinieri avrebbero fatto sfuggire Bernardo Provenzano alla cattura 21 anni fa ma non avrebbero agito in virtù dell’accordo con Cosa nostra. Chiesti anche tre anni e mezzo per Obinu. Gli ex ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Mauro Obinu non avrebbero lasciato sfuggire alla cattura Bernardo Provenzano nell’ottobre del 1995 in virtù della trattativa Stato-mafia. Li definisce "scandalosamente inerti" il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, che ha concluso così la prima parte della requisitoria al processo contro il generale Mori e il colonnello Obinu, imputati di favoreggiamento aggravato dell’agevolazione di Cosa nostra. Nei confronti dei due imputati, Scarpinato ha rinunciato a una delle aggravanti contestate dai Pm di primo grado: quella di avere agito per commettere un reato diverso e cioè per avere ordito la complessa trama della trattativa Stato-mafia. Scarpinato ha chiesto la condanna a quattro anni e mezzo per il generale Mori e la condanna a tre anni e mezzo per il colonnello Obinu. Chiesta anche la pena accessoria all’interdizione a pubblico ufficio di cinque anni. L’udienza è stata rinviata all’8 febbraio per la difesa. Il processo, che si svolge davanti al collegio presieduto da Salvatore Di Vitale, prende in considerazione la mancata cattura di Bernardo Provenzano, possibile, secondo l’accusa già il 31 ottobre 1995, quando il boss corleonese avrebbe partecipato a un summit di mafia a Mezzojuso (Palermo). La ricostruzione della Procura, oggi confermata anche dalla procura generale, nel dibattimento in cui Mori e Obinu sono stati assolti in tribunale, vede i due ufficiali dei carabinieri responsabili di non aver voluto effettuare un blitz sebbene preavvertiti della presenza di Provenzano a Mezzojuso e successivamente di non aver voluto approfondire le indagini su coloro che erano stati notati quel giorno di ottobre di 21 anni fa assieme a Provenzano. Secondo i pm di primo grado, Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, Provenzano sarebbe stato lasciato libero in virtù di un patto risalente a due anni prima, quando lo stesso boss avrebbe agevolato la cattura di Totò Riina, nell’ambito del complesso meccanismo della trattativa, diretto a far sì che la mafia rinunciasse all’attacco violento con le bombe a uomini dello Stato, già colpiti con le stragi di capaci e via d’Amelio. La Procura generale invece rinuncia completamente a questa prospettiva, sostenendo che non è chiaro né conta il motivo per cui Mori e Obinu sarebbero stati "scandalosamente inerti", come ha detto oggi Scarpinato, riferendosi al "mancato compimento di qualsiasi attività diretta ad approfondire le investigazioni del colonnello Michele Riccio, in forza al Ros, grazie al confidente Luigi Ilardo, che gli avrebbe dato tutte le indicazioni necessarie per individuare ae catturare Provenzano ben 11 anni prima avvenuto nel 2006. Per effetto della rinuncia a questa e a un’altra aggravante, la Procura generale nel pomeriggo di oggi chiederà una condanna che sarà inferiore ai 9 anni proposti in primo grado dalla Procura. Ingiusta detenzione, per gli interessi legali serve una domanda specifica di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2016 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 18 gennaio 2016 n. 1856. No alla corresponsione degli interessi legali sulle somme corrisposte a titolo di equa riparazione per ingiusta detenzione in assenza di una formale e specifica richiesta della parte. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 1856/2016, stabilendo che l’eventuale riconoscimento operato comunque dal giudice a quo deve ritenersi avvenuto ultra petita e dunque illegittimamente. La Corte di appello di Trento aveva, infatti, liquidato 672,21 euro, "oltre agli interessi legali dalla data del provvedimento al saldo", a titolo di riparazione per l’ingiusta reclusione subita da una donna imputata per detenzione, a fini di spaccio, di sostanze stupefacenti, la cui posizione era stata successivamente archiviata. Per il ministero dell’Economia però, da un parte, gli interessi erano stati erroneamente riconosciuti nonostante la donna non ne avesse mai rivendicato il pagamento; dall’altra, la corte territoriale sbagliando per una seconda volta ne aveva fissato la decorrenza dalla data del provvedimento di liquidazione, anziché dal relativo passaggio in giudicato. La Suprema corte, per prima cosa, osserva che, secondo il consolidato orientamento di legittimità, gli interessi legali dovuti sull’indennità riconosciuta a titolo di riparazione assumono, non già natura moratoria, bensì corrispettiva, e devono essere corrisposti solo a partire dalla data del passaggio in giudicato del provvedimento attributivo, atteso che solo da tale momento il credito - avente natura non risarcitoria - può ritenersi certo, liquido ed esigibile (n. 45706/2011). Inoltre, spiega la sentenza, la domanda di pagamento di interessi corrispettivi può anche sopravvenire all’originaria introduzione del giudizio (eventualmente anche in appello), dal momento che essi hanno "natura accessoria rispetto al credito vantato, per cui la relativa statuizione, a differenza da quella riguardante il maggior danno ex articolo 1224 c.c., non presuppone un’indagine autonoma rispetto a quella concernente il credito stesso e, pertanto, non può considerarsi tardiva la domanda di interessi corrispettivi sulla somma capitale, proposta per la prima volta in grado di appello, posto che, una volta riconosciuta detta somma capitale, gli interessi decorrono ex lege" (Cass. n. 5913/2001). Al contrario, gli interessi moratori, costituendo una obbligazione distinta da quella relativa al capitale, devono formare oggetto di un’autonoma domanda espressamente proposta nel corso del giudizio primo grado. Ciò detto, conclude la Cassazione, benché la domanda di riconoscimento degli interessi legali sull’indennità a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione ben possa sopravvenire nel corso del giudizio (attesa la natura corrispettiva e non moratoria), ai fini del riconoscimento "deve ritenersi comunque indispensabile che l’istante proponga formalmente la corrispondente domanda, diversamente dovendo ritenersi che l’eventuale pronuncia di riconoscimento del giudice avvenga inammissibilmente" violando il principio processuale per cui il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa. Stupefacenti: per "l’ingente quantità" non vale il tetto a quota 2000 di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 1609/2015. Dopo la sentenza della Consulta (sentenza 32/2014) che ha cancellato la legge sugli stupefacenti Fini Giovanardi, l’aggravante dell’ingente quantità non può più scattare in automatico con il superamento di 2000 volte il valore soglia. La Cassazione, con la sentenza 1609, mette in discussione il principio, affermato dalla giurisprudenza maggioritaria e accolto dalle Sezioni unite, relativo all’aggravante prevista dal comma 2 dell’articolo 80 del Dpr 309/1990. Per i giudici si tratta di un’impostazione superata perché rapportata al sistema Fini-Giovanardi (legge 49/2006) che aveva sostituito le tabelle che distinguevano le droghe pesanti dalle leggere, con un’unica tabella relativa a tutte le sostanze stupefacenti e psicocotrope droganti. Dopo la sentenza della Consulta il legislatore ha introdotto (legge 79/20014) quattro nuove tabelle fornendo una diversa impostazione dalla quale non si può prescindere. Il nuovo quadro smentisce la ratio del precedente, spezzando l’equiparazione tra le droghe. La giurisprudenza fondata sul "valore 2000" "dovrà essere rimeditata in considerazione dell’accresciuto tasso di modulazione normativa, difficilmente compatibile con una interpretazione tendenzialmente soltanto aritmetica e dunque automatica dell’aggravante dell’ingente quantità". Inoltre la Corte di merito ha impropriamente considerato anche altri elementi, come la diversa natura delle sostanze trovate al ricorrente: fattore irrilevante se si tratta di sostanze per le quali è previsto uno stesso trattamento. Nel caso di trattamento differenziato sarebbe invece necessaria una autonoma considerazione della quantità di ciascuna sostanza. Misure cautelari personali, criteri di scelta ex articolo 275 comma II bis del Cpp Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2016 Misure cautelari personali - Criteri di scelta ex articolo 275 cod. proc. pen. - Articolo 275, comma II bis cod. proc. pen. - Condanna a pena non superiore a tre anni - Condizioni per l’applicazione della custodia cautelare in carcere. Il divieto sancito dall’articolo 275, comma II bis, cod. proc. pen. di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere nel caso in cui il giudice abbia irrogato una pena detentiva inferiore a tre anni, non impedisce di adottare la più grave misura cautelare qualora ogni altra misura si riveli inadeguata e gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza del luogo di esecuzione. • Corte cassazione, sezione IV, sentenza 29 ottobre 2015 n. 43631. Misure cautelari personali - Criteri di scelta - Limiti di applicabilità della custodia cautelare in carcere previsti dall’articolo 275, comma II bis cod. proc. pen. - Condizioni per il superamento - Condizioni. I limiti di applicabilità della misura della custodia cautelare in carcere previsti dall’articolo 275, comma II bis, secondo periodo, cod. proc. pen. possono essere superati dal giudice qualora ritenga, secondo quanto previsto dal successivo comma terzo, prima parte, della norma citata, comunque inadeguata a soddisfare le esigenze cautelari ogni altra misura meno afflittiva. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 27 luglio 2015 n. 32702. Misure cautelari personali - Criteri di scelta - Articolo 275, comma secondo bis, cod. proc. pen. - Misura della custodia in carcere - Inflizione di una pena non superiore a tre anni - Divieto di adozione della misura - Esclusione - Condizioni. Il divieto, ai sensi dell’articolo 275, comma II bis, cod. proc. pen. di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere nel caso in cui il giudice abbia irrogato una pena detentiva inferiore a tre anni, non impedisce di adottare la più grave misura cautelare qualora ogni altra misura si riveli inadeguata e gli arresti domiciliari non possono essere disposti per mancanza del luogo di esecuzione. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 19 febbraio 2015 n. 7742. Misure cautelari personali - Criteri di scelta - Misure cautelari diverse dalla custodia in carcere - Prevedibile inflizione di una pena non superiore a tre anni. Il divieto, ai sensi dell’articolo 275, comma II bis, cod. proc. pen., di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere, nel caso in cui il giudice ritenga che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni, non si estende agli arresti domiciliari o alle altre più tenui misure coercitive, che, pertanto, possono essere applicate anche ove il giudice preveda l’inflizione di una pena detentiva non superiore a tre anni. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 30 gennaio 2015 n. 4418. Misure cautelari personali - Criteri di scelta - Dl n. 92/ 2014 convertito nella L. n. 117/2014 - Divieto di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari - Presupposti. In materia di misure cautelari personali, il divieto della applicazione della misura degli arresti domiciliari, previsto dall’articolo 275 comma II bis cod. proc. pen. consegue esclusivamente alla prognosi di prevedibile concessione della sospensione condizionale della pena e, non anche a quella di prevedibile irrogazione di una pena detentiva non superiore ai tre anni. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 23 dicembre 2014 n. 53541. Rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2016 Comunità europea - Giudice nazionale - Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia - Presupposti - Esclusione. Non vi sono i presupposti per il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea ex articolo 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), ove la parte si limiti a censurare direttamente l’incompatibilità con il diritto dell’Unione delle conseguenze "di fatto" derivanti dall’interpretazione del diritto interno senza sollecitare un’interpretazione generale ed astratta di una normativa interna. • Corte cassazione, sezione VI - 3, ordinanza 24 marzo 2014 n. 6862. Giudice nazionale - Provvedimenti del giudice - Rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ai sensi dell’articolo 267 Tfue - Necessità su richiesta della parte - Esclusione - Decisione esclusiva del giudice. Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea ex articolo 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue) non costituisce un rimedio giuridico esperibile automaticamente a sola richiesta delle parti, spettando solo al giudice stabilirne la necessità. • Corte cassazione, sezioni Unite, Ordinanza 10 settembre 2013 n. 20701. Giudice nazionale - Provvedimenti del giudice - Questione interpretativa di norme comunitarie - Limiti all’obbligo per la Corte di Cassazione di rimettere gli atti. L’obbligo per il giudice nazionale di ultima istanza di rimettere la causa alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’articolo 267 del Trattato sul funzionamento dell’UE (già articolo 234 del Trattato che istituisce la Comunità europea), viene meno quando non sussista la necessità di una pronuncia pregiudiziale sulla normativa comunitaria, in quanto la questione sollevata sia materialmente identica ad altra, già sottoposta alla Corte in analoga fattispecie, ovvero quando sul problema giuridico esaminato si sia formata una consolidata giurisprudenza di detta Corte. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 26 marzo 2012 n. 4776. Sentenza - Omessa pronuncia - Questione pregiudiziale di interpretazione del diritto comunitario - Richiesta di rinvio alla Corte di giustizia CE - Domanda autonoma - Configurabilità - Esclusione - Conseguenze per la richiesta formulata in grado di appello - Conseguenze per la richiesta formulata con il ricorso per cassazione - Obbligo di rinvio per la richiesta formulata nel giudizio in Cassazione. La richiesta di rinvio alla Corte di giustizia CE su una questione pregiudiziale di interpretazione del diritto comunitario, in applicazione dell’articolo 234 del Trattato CE, non è configurabile come autonoma domanda, rispetto alla quale, nel caso di omessa specifica pronuncia, possa farsi questione del rispetto del principio di cui all’articolo 112 cod. proc. civ., ponendo tale richiesta una questione di diritto preliminare alla decisione sulla domanda di merito proposta dalla parte. La richiesta può essere compiuta per la prima volta in appello e formulando ricorso per cassazione, e, solo nel giudizio di cassazione la facoltà di rinvio si trasforma - ricorrendone le condizioni di rilevanza e decisività - in un obbligo. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 10 marzo 2010 n. 5842. Lombardia: in Commissione carceri progetto per prevenire Tbc tra detenuti e personale Askanews, 19 gennaio 2016 La Commissione speciale sulla situazione carceraria in Lombardia, presieduta da Fabio Fanetti, ha sentito i rappresentanti del Cirm, il Consorzio Italiano per la Ricerca in Medicina, che hanno presentato il progetto di prevenzione della Tbc negli istituti penitenziari. A richiedere l’audizione è stata Carolina Toia, consigliere regionale del gruppo "Maroni Presidente" e membro della Commissione. "Nel nostro Paese la tubercolosi non è più endemica, ma colpisce ancora 5 mila persone l’anno. A Milano, purtroppo - ha detto la Toia - l’incidenza è tre volte superiore la media nazionale, in quanto qui, così come in altre metropoli, si concentrano più fattori che ne favoriscono la diffusione. Di fronte a questi dati ritengo che oggi più che mai sia necessario mettere in campo interventi mirati, soprattutto in realtà a rischio elevato quali sono ad esempio gli istituti penitenziari. In particolare ritengo di fondamentale importanza istruire coloro che, a vario titolo, entrano in contatto con i soggetti a rischio". "Il progetto illustrato oggi dai rappresentanti del Cirm - ha proseguito e concluso il consigliere - ha per l’obiettivo di realizzare azioni di prevenzione e contrasto nella diffusione della Tbc anche in luoghi come le carceri o in zone di transito come le stazioni e gli aeroporti, attraverso una duplice azione di formazione e informazione, con l’utilizzo di strumenti e tecnologie innovative a favore del personale delle forze armate, forze dell’ordine, operatori delle strutture carcerarie, di volontariato e di comunità di accoglienza. Si tratta di un’iniziativa che merita grande considerazione proprio perché mirata a contrastare la diffusione di una malattia che purtroppo sta tornando ad essere un’emergenza". Piemonte: 2 milioni € per progetti destinati a ex pazienti Ospedali psichiatrici giudiziari quotidianosanita.it, 19 gennaio 2016 Verrà così garantito il finanziamento nell’anno in corso per quei pazienti attualmente presenti nelle strutture detentive (gli ex ospedali psichiatrici giudiziari) di progetti terapeutico riabilitativi territoriali. Si tratta di progetti che avranno la durata di un anno e sono stati concordati con il magistrato competente. Due milioni di euro finalizzati a progetti per accompagnare i pazienti psichiatrici giudiziari non detenuti. È quanto ha deliberato la giunta regionale del Piemonte dopo il protocollo d’intesa firmato a metà dicembre dal presidente Sergio Chiamparino e dall’assessore alla sanità Antonio Saitta con la Corte d’appello e la Procura generale della Corte d’appello di Torino. "Da lunedì - spiega l’assessore Saitta - la Regione Piemonte avvia il programma per la presa in carico sanitaria di pazienti psichiatrici non detenuti ovvero non sottoposti a misure di detenzione, in misure alternative alle residenze Rems ad esempio nelle loro stesse abitazioni o nelle comunità terapeutiche. Per fare questo, la Regione destina 2 milioni di euro alle aziende sanitarie del Piemonte". La somma consentirà il finanziamento nell’anno in corso per quei pazienti attualmente presenti nelle strutture detentive (gli ex ospedali psichiatrici giudiziari) di progetti terapeutico riabilitativi territoriali. Si tratta di progetti che avranno la durata di un anno e sono stati concordati con il magistrato competente caso per caso: "una alternativa all’invio in strutture detentive nella quale la Regione Piemonte crede fortemente" conclude Saitta. Veneto: apre la nuova Rems di Nogara, ma accoglierà pochi reclusi Il Mattino di Padova, 19 gennaio 2016 I pubblici ministeri del Veneto, da Venezia a Verona, da Padova a Treviso, non sapevano più dove sbattere la testa: tra loro c’era chi ha scelto di ricoverare gli imputati ritenuti pericolosi a causa dei reati che avevano commesso nei reparti psichiatrici degli Ospedali delle rispettive città, altri invece che hanno preferito lasciarli in carcere. Soltanto pochi, quelli meno pericolosi e più mansueti, sono riusciti a farli ospitare in comunità piccole e protette. Riccardo Torta, dopo essere stato arrestato, è stato portato a Santa Maria Maggiore e, almeno per ora, dovrà rimanerci per qualche tempo e nel carcere veneziano non è l’unico a soffrire di una malattia psichica. Gli agenti della Polizia penitenziaria, quindi, sono costretti a gestire anche dei malati di mente, spesso anche gravi, e non hanno le competenze. Tutto questo accade perché il Veneto non ha costituito la Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Pochi giorni dopo essersi insediato a Venezia, il nuovo procuratore generale Antonino Condorelli ha avuto un incontro in Regione con il governatore. Zaia gli ha promesso che entro un mese avrebbe aperto la struttura a Nogara. E nei giorni scorsi in Regione hanno assicurato che i primi cinque detenuti psichiatrici verranno trasferiti dall’Ospedale psichiatrico di Reggio Emilia a Nogara il 20 gennaio, pochi altri potranno essere accolti entro febbraio (sono 46 i detenuti malati di mente veneti). La struttura di Nogara, comunque, potrà partire a pieno regime (40 posti) soltanto dal 2017. Toscana: il Garante dei detenuti Corleone "per la Rems di Volterra avvio incoraggiante" di Sandro Bartoli parlamento.toscana.it, 19 gennaio 2016 Il Garante regionale dei detenuti in visita ieri mattina: "Impressione positiva, anche se l’impatto è da struttura chiusa. Meglio non crearne qui una nuova da 40 pazienti. Più appropriato interessare altri territori". Il garante regionale dei detenuti, Franco Corleone ha visitato questa mattina la Rems di Volterra. La struttura, denominata Morel 3, è diventata la residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria e raccoglie in parte l’eredità dell’ex ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino. Il Morel 3 è una struttura residenziale intermedia parzialmente protetta dedicata a trattamenti terapeutici riabilitativi. "Quando siamo arrivati alla palazzina - racconta Corleone - gli operai erano al lavoro per il completamento della verniciatura delle inferriate: due file di sbarre alte cinque metri, un impatto da struttura chiusa, simile alle carceri, con le sbarre anche alle finestre e un servizio di sorveglianza affidato ad una società privata, che ha possibilità di controllo anche su quanto accade all’interno, attraverso l’utilizzo di videocamere". L’impressione complessiva, spiega il garante, è però positiva: "Al pianterreno ci sono attualmente dieci ospiti, la struttura sanitaria che se ne occupa è molto nutrita: 8 tra psichiatri, psicologi, infermieri, Oss, educatori, assistenti sociali, tecnici della riabilitazione. Gli ospiti provengono per sei unità dall’Opg di Montelupo, due dai servizi psichiatrici di diagnosi e cura di Pisa, uno, toscano, da Bologna e uno da una comunità. Le camere sono sette, possono dunque arrivare ad accogliere fino quattordici ospiti. Il primo piano è dedicato alla parte trattamentale, agli spazi in comune e alle stanze dei medici. Al secondo piano, stanno predisponendo le stanze per accogliere altri quattordici ospiti, da scegliere tra quelli che sono rimasti ancora a Montelupo. Il lavoro dovrà essere ultimato entro la fine di febbraio. Mi hanno parlato dell’obiettivo di accogliere nella struttura fino a 34 persone, ma ritengo che non si debba arrivare a quel numero". Corleone ha parlato anche con alcuni tra i dieci pazienti già accolti nella struttura: "Siamo in una fase iniziale, di adattamento, si trovano bene dal punto di vista del clima umano, li colpisce l’aspetto da struttura ospedaliera. Ci sono ancora pochi spazi per la socialità - tv, refettorio ci sono già, ma il giardinetto è da ripulire, altri spazi sono da allestire. I progetti però ci sono - prosegue Corleone, che ha parlato con il direttore Alberto Sbrana. il programma è abbastanza ricco: dal cineforum alla lettura di giornali e libri, fino all’uscita dalla struttura per lo svolgimento di lavori sociali. Il regolamento è quello delle comunità terapeutiche, sono possibili due colloqui settimanali con i pazienti, c’è uno spazio per i fumatori. Rispetto all’Opg di Montelupo, qui ci troviamo di fronte ad una struttura tra la comunità e la struttura sanitaria, le porte - porte normali - sono aperte sempre. I pasti si consumano ad ore civili, i pazienti si riuniscono ogni giorno per decidere il menù". Le perplessità del garante, che era già stato a Volterra quando c’erano ancora strutture intermedie, sono rivolte soprattutto agli scenari futuri: "Sul presente l’impressione è positiva, anche se il giudizio finale si dovrà dare a marzo: c’è attenzione, cura per le persone, la struttura è molto pulita, asettica, certo non c’è l’orrore di Montelupo. Quando ci saranno ventiquattro pazienti, i medici saranno otto, un numero sufficiente per svolgere un lavoro serio e approfondito sulle patologie, sarà possibile lavorare per il superamento delle condizioni detentive. Con la Regione si dovrà però discutere del fatto che questa, nelle intenzioni, dovrebbe essere una soluzione provvisoria, mentre un’altra struttura, già individuata nell’edificio Livi, dovrebbe essere abbattuta e ricostruita per ospitare fino a quaranta pazienti. Bisogna ragionarci sopra: il rischio che vedo è quello è quello di una sovrapposizione per la quale, alla fine, resteranno in piedi l’una e l’altra, nuova e vecchia struttura e a Volterra si troverebbe una concentrazione spropositata di pazienti. Oltre allo spreco di denaro nel caso in cui invece la struttura attuale, Morel 3, con tutti gli interventi che sono stati effettuati in questi mesi, fosse poi dismessa. E poi c’è la questione dei tempi - prosegue Corleone -. Montelupo non può restare aperto. Va chiuso, il processo è stato avviato, ma deve concludersi rapidamente, pena il commissariamento della Regione. Servono più posti e in tempi brevi, meglio allora pensare ad individuare una struttura analoga a quella di Volterra, ma in altro territorio, perfino in un’altra delle tre Asl in cui sarà suddivisa la Toscana: meglio diverse Asl di riferimento, meglio che tutto il territorio toscano, Firenze compresa, venga coinvolto. Tanto più che il limite per le Rems dovrebbe essere di venti". Il garante dei detenuti continuerà a seguire le questioni collegate alle Rems: "Ci occuperemo degli aspetti legati alla contenzione, che riguarda direttamente l’attività del garante, affinché vengano rispettati i diritti fondamentali sanciti dalla costituzione a salvaguardia della dignità della persona". Ancona: caserme e carceri fatiscenti, Ricciatti (Si) interroga il ministro Orlando vivereancona.it, 19 gennaio 2016 "Il personale dell’Amministrazione penitenziaria opera quotidianamente in condizioni di grande difficoltà, l’inadeguatezza in cui versano alcune caserme all’interno degli istituti penitenziari non aiutano gli agenti nello svolgimento delle funzioni di istituto". Lo afferma l’on. Lara Ricciatti, che ha depositato oggi una interrogazione parlamentare per segnalare al ministro della Giustizia le condizioni di fatiscenza degli edifici che ospitano le caserme della Polizia Penitenziaria nelle carceri di Ancona Montacuto, Pesaro e Ascoli Piceno. La deputata di Sinistra Italiana, da tempo impegnata nel segnalare le criticità delle carceri marchigiane più volte visitate, ha raccolto le proteste del Cosp (Coordinamento sindacale Penitenziario) e di alcuni agenti, chiedendo al ministro Orlando un intervento per verificare se tali condizioni siano coerenti con gli standard previsti dall’Accordo Nazionale Quadro d’Amministrazione per il corpo di polizia penitenziaria del 2004, che prevede il "diritto ad una decorosa sistemazione alloggiativa" per gli agenti presso le caserme o altre strutture dell’Amministrazione. "Il mondo carcerario vive da anni situazioni di grande complessità, dovute soprattutto a piante organiche sotto dimensionate, ma anche all’evidente stato di degrado di alcune strutture. Il personale è sottoposto a continue pressioni dovute alle oggettive condizioni ambientali, il minimo che si possa fare è fornire agli agenti una condizione alloggiativa decente, considerato anche che agli stessi viene chiesto spesso un contributo economico per sostenere le spese dei servizi di alloggio", conclude Ricciatti. Rimini: il riscatto di Natale che va oltre le sbarre newsrimini.it, 19 gennaio 2016 Un gruppo di detenuti ha realizzato articoli da regalo e altri oggetti artigianali, poi messi in vendita alla Festa del Cral del Comune. L’iniziativa ai "Casetti", coordinata dall’Associazione Madonna della Carità, prosegue con altre attività. Centri tavola, ghirlande, bigliettini di auguri, decori per l’albero… Le feste appena trascorse sono state motivo di grande soddisfazione per gli ospiti della Casa Circondariale di Rimini. Dalle loro mani hanno preso vita articoli da regalo e altri prodotti artigianali che hanno potuto trovare visibilità durante la tradizionale "Festa degli Auguri" organizzata dal Cral, il Circolo Ricreativo Aziendale del Comune di Rimini. Un premio importante all’impegno e alla partecipazione che i detenuti hanno mostrato nel dedicarsi a questa nuova esperienza. Protagonisti, gli ospiti della sezione ordinaria Vega (per detenuti transessuali) e dalla sezione Se.A.T.T (denominata anche "Andromeda"), una sezione speciale a custodia attenuata e destinata al trattamento di persone con tossicodipendenze che esprimono la volontà di affrontare un percorso riabilitativo. Il progetto, promosso dal Piano di Zona del Distretto Rimini Nord e cofinanziato dal Comune di Rimini, vede la collaborazione di tutta l’Area Educativa di Istituto con il supporto dei volontari dell’Associazione di Volontariato Madonna della Carità e dei docenti che affrontano con i detenuti un percorso non solo finalizzato alla produzione di piccoli oggetti per il Natale, ma ad un cammino di scambio umano e relazionale. Un’attività settimanale che permette alle persone "dietro le sbarre" di socializzare e condividere idee e pensieri con figure esterne alla realtà strettamente penitenziaria, di mettersi in gioco con chi rappresenta un mondo esterno equilibrato e non porta con sé pregiudizi ma solo tanta voglia di accogliere l’altro e divertirsi insieme, trovando un po’ di entusiasmo anche in una situazione di reclusione. Un’esperienza molto positiva per le tre donne - Vilma, Elisa e Manuela - che con impegno e freschezza hanno valicato per la prima volta la block house dei "Casetti" e condotto con cura e disinvoltura i laboratori in previsione del Natale. I lavori presentati dai detenuti hanno ricevuto una donazione di 100 euro dal Cral e hanno incassato altri 100 euro dai molti che hanno voluto supportare volontariamente questa preziosa iniziativa benefica. Un ricavato che l’Associazione di volontariato Madonna della Carità devolverà totalmente al carcere per acquistare prodotti utili alla vita quotidiana e vivande per allietare i momenti di convivialità e di festa che al suo interno i volontari e gli educatori organizzano periodicamente per i detenuti. Oltre ai prodotti artigianali è stato realizzato anche quest’anno, grazie al supporto del Comune di Rimini, il "Calendario 2016" della Casa Circondariale: un anno di foto, illustrazioni e poesie che raccontano esperienze e riflessioni di chi vive in condizione di restrizione. Un lavoro che ha visto la collaborazione del corpo di Polizia Penitenziaria, della Direzione, di tutta l’Area Educativa di Istituto e dei volontari Caritas assieme a tutti coloro che a vario titolo seguono le attività all’interno del carcere. Si ringraziano anche realtà esterne al carcere come il Rigas (gruppo di acquisto solidale di Rimini) e la cooperativa La Formica per la solidarietà e la disponibilità nella distribuzione di numerose copie. Genova: "Il sapere dentro", un’iniziativa che coniuga Università e carcere mentelocale.it, 19 gennaio 2016 Un progetto che ha lo scopo di promuovere l’istruzione universitaria tra la popolazione detenuta e diplomata nelle case circondariali di Marassi e Pontedecimo. Si tratta di un primo passo verso la realizzazione di un Polo Universitario Penitenziario già da tempo presente in altre città italiane. Nella convinzione che la privazione delle libertà della cosiddetta popolazione ristretta non debba comportare anche quella delle conoscenze, l’iniziativa si propone di offrire, in maniera affabile e rispondente alle esigenze espresse dai detenuti, qualche elementare nozione di sapere dentro le mura del carcere. A Genova il Dipartimento di Italianistica, romanistica, antichistica, arti e spettacolo (Diraas), il Dipartimento di Antichità, Filosofia, Storia (Dafist) della Scuola di Scienze Umanistiche e il Dipartimento di Giurisprudenza della Scuola di Scienze Sociali, nell’ottobre 2015 hanno approvato una convenzione con il Prap (Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria) con gli obiettivi di favorire - come previsto dalla legge - il diritto allo studio e di sollecitarne le opportunità e quello di sviluppare personali percorsi di riflessione e di formazione personali. Il Rettore dell’Università di Genova, Paolo Comanducci, presentando l’iniziativa ne ha voluto sottolineare "lo scopo non solo formativo ma anche l’alto valore sociale per una crescita non solo delle conoscenze, ma anche delle opportunità, migliorando la possibilità per i detenuti di un efficace reinserimento nella realtà sociale. Questa come altre iniziative passate e mi auguro future si configurano come importanti momenti di incontro e di collaborazione fra le istituzioni e il territorio della nostra città e della nostra regione che vede l’Università protagonista". Il progetto prende avvio da martedì 19 gennaio attraverso un ciclo di 11 incontri, condotti dai docenti dell’ateneo genovese e svolti all’interno delle strutture penitenziarie di Marassi e Pontedecimo. Milano: Papa Francesco applaude il carcere di Opera "sono ostie donate dai detenuti" di Paola Fucilieri Il Giornale, 19 gennaio 2016 Due ergastolani e un condannato a una lunga pena da tre mesi realizzano 1.200 particole al giorno. Ciro, Giuseppe e Cristiano - rispettivamente 54, 46 e 29 anni - non sono detenuti qualunque. Da tre mesi, infatti, sono impegnati a realizzare 1200 ostie al giorno all’interno del laboratorio di Opera, la più grande delle 225 carceri italiane. Prodotti artigianali fatti con amore e dedizione da chi, come loro, credeva di non avere più speranza. Invece queste ostie, insieme alla passione che li anima e al percorso di fede che hanno compiuto, sono arrivate sin nelle mani di papa Francesco. Che domenica mattina, dal suo balcone romano di piazza San Pietro, durante l’Angelus che ha preceduto la Messa celebrata in occasione della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (il Giubileo dei Migranti), ha spiegato alla folla di fedeli che per quella speciale cerimonia avrebbe utilizzato proprio le particole prodotte nel carcere milanese. "In questa Messa, io vorrei ringraziare, e anche voi ringraziate con me, i detenuti del carcere di Opera, per il dono delle ostie confezionate da loro stessi e che saranno utilizzate in questa celebrazione - ha detto papa Bergoglio. Li salutiamo con un applauso da qui, tutti insieme. Parole che suonano come caldi e prolungati abbracci. Per Ciro e Giuseppe, che stanno pagando il loro debito con la giustizia con un "fine pena mai", sono cioè ergastolani. E anche per Cristiano, pure impegnato a scontare una lunga condanna. I tre si sono conosciuti proprio a Opera. Tutti autori di fatti di sangue, si sono rivelati così disposti a cambiare la loro esistenza, il loro cammino, da partecipare al progetto internazionale "Sicomoro", che prevede che chi ha commesso un omicidio venga a contatto con parenti di vittime di quel tipo di reato. "Lavorano alla produzione delle particole sei ore al giorno e ne sono entusiasti al punto che non solo hanno smesso di fare quello di cui si occupavano in precedenza, ma sono stati loro stessi a scrivere a papa Francesco per offrire le ostie. Si erano rivolti, con successo, anche al cardinale Angelo Scola per la messa di Natale in Duomo. In carcere le persone spesso cambiano, anche quelle che sono state molto pericolose. E le attività che svolgiamo, come quelle teatrali, servono a capire chi risponde agli impulsi. Da lì si può cominciare un nuovo percorso" spiega con evidente soddisfazione Giacinto Siciliano, 49 anni, da quasi nove direttore del carcere di Opera dove ci sono al momento 1.300 detenuti (la stragrande maggioranza ha condanne definitive) dei quali 300 lavorano per l’amministrazione della casa circondariale, altri 90 per cooperative esterne (ma all’interno dell’istituto di pena), mentre altri 80 hanno un’occupazione che li porta a lasciare Opera la mattina per farvi rientro la sera. A rendere possibile quel che è accaduto ieri sono 4 amici che, "capitanati" da Arnoldo Mosca Mondadori, hanno fondato la Onlus milanese di via Calatafimi "Casa dello spirito delle arti". Mosca Mondadori ieri era a Roma e ha assistito all’entrata in San Pietro delle ostie di Opera portate da uomini di tutte le razze che danzavano. "Il percorso di redenzione di questi detenuti è autentico - assicura. Le ostie? Ce le chiedono decine e decine di parrocchie. Noi le doniamo a patto che si parli ai fedeli del progetto da cui scaturiscono". Foggia: il Cosp denuncia due aggressioni nei confronti di agenti di Polizia penitenziaria antennasud.com, 19 gennaio 2016 Il Cosp (Coordinamento sindacale penitenziaria) segnala due aggressioni avvenute oggi nei confronti di agenti di polizia penitenziaria dentro e fuori il carcere di Foggia. Il primo episodio - rileva una nota - sarebbe avvenuto attorno alle 13.30 "nella IV sezione del Nuovo Complesso dove sono rinchiusi oltre 160 detenuti vigilati questa mattina, per carenza di polizia, solo da due agenti". Da quanto si è appreso - è detto nella nota - un detenuto si è scagliato contro un agente che gli stava impendendo di circolare da una sezione all’altra del carcere, colpendolo con una violenta testata tra gli occhi e facendolo cadere a terra privo di sensi. La squadra di pronto intervento della polizia penitenziaria ha soccorso l’agente e isolato il detenuto tarantino che ha 25 anni e sta scontando una pena (fino al giugno 2019) per danneggiamento, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale e che non sarebbe nuovo ad atteggiamenti aggressivi. Il poliziotto è stato portato al pronto soccorso di Foggia dove è tenuto sotto controllo per le lesioni riportate. L’altro episodio, non legato al primo - è detto ancora nella nota - si è verificato poco prima all’esterno del carcere dove un poliziotto penitenziario che aveva finito il suo turno, sarebbe stato aggredito da tre persone risultate poi essere famigliari di un detenuto. In difesa del poliziotto, che è stato portato al pronto soccorso, sono intervenuti altri agenti. Siena: carcere di Santo Spirito, parte il campionato di calcio sul campo di gomma riciclata e-gazette.it, 19 gennaio 2016 L’Istituto Santo Spirito ha organizzato un torneo di calcio tra detenuti, rappresentanti del Comune e dell’Unione Italiana Sport per tutti. Sono incominciate le attività sul campo da calcio realizzato in gomma riciclata nel carcere senese dell’Istituto Santo Spirito. Inaugurato il 24 settembre, il campo inizierà a ospitare le attività organizzate per i detenuti dall’Uisp Siena. Il campo è stato realizzato grazie alla collaborazione tra Uisp - Unione Italiana Sport Per tutti - ed Ecopneus, uno dei principali responsabili della gestione degli pneumatici fuori uso in Italia, che ha messo a disposizione la gomma riciclata necessaria alla realizzazione. Nei giorni scorsi si è tenuto un quadrangolare di calcio tra due squadre di detenuti, una rappresentativa dell’Uisp Siena e una del Comune di Siena, formata da vigili urbani e consiglieri comunali: la vittoria è andata a una delle squadre di detenuti. Tra le varie proposte c’è un corso di formazione per arbitri di calcio, a cui hanno aderito 15 carcerati, che avrà inizio il 1 febbraio. Tra le materie di formazione è prevista una parte tecnica e lo studio delle aree comuni, come quella dell’educazione ai valori dello sport. "La realizzazione del campo da calcio in gomma riciclata per i detenuti del Santo Spirito rappresenta un concreto esempio di economia circolare, capace di generare impatti positivi a livello economico, ambientale e sociale - ha affermato Giovanni Corbetta, direttore generale di Ecopneus. È questa la circular economy che Ecopneus vuole favorire, incentivando il recupero dei pneumatici arrivati a fine vita come materia destinata a nuovi usi. Lo sport - ha sottolineato il direttore del carcere di Siena Sergio Lamontagna - è importantissimo nel progetto di recupero dei detenuti, per far comprendere come questo luogo, tradizionalmente separato, sia al contrario parte della società e della città". Radio Carcere (Radio Radicale): "La giustizia tardiva. La storia di Gabriele…" Ristretti Orizzonti, 19 gennaio 2016 "La giustizia tardiva" - La storia di Gabriele che è stato portato in carcere 16 anni dopo aver commesso il reato. Link: http://www.radioradicale.it/scheda/463963/radio-carcere-la-giustizia-tardiva-la-storia-di-gabriele-che-e-stato-portato-in Televisione: Leosini (Storie maledette) "al processo tacciono, a me raccontano tutto" di Antonio Sanfrancesco Famiglia Cristiana, 19 gennaio 2016 Da giovedì 21 gennaio la giornalista torna su Raitre ma in prima serata con le sue "Storie maledette". Sarà faccia a faccia con Rudy Guede, l’unico condannato per il delitto di Perugia, e poi con Luca Varani, il mandante dell’agguato con l’acido che ha sfigurato Lucia Annibali. Sui suoi interlocutori dice: "Non sono professionisti del crimine ma persone normali che ad un certo punto cadono nel baratro di una maledetta storia". E rivela perché a lei raccontano quello che nelle aule di giustizia non hanno detto. Franca Leosini arriva sempre dopo, alla fine. Quando il sipario sui processi è definitivamente calato e nel sottoscala ingombrante della memoria restano solo i fili dei ricordi, da riannodare con cura, i dubbi e i sensi di colpa da levigare piano. Abbandonata la pista che conduce alla notte, da giovedì 21 gennaio l’autrice di Storie maledette torna su Raitre in prima serata per una nuova tappa del suo periplo nelle carceri italiane che dura da vent’anni e ha visto sfilare, davanti ai suoi occhi, abissi morali e ammissioni dolorose, dichiarazioni ostinate di innocenza e realtà parallele, nomi entrati nell’immaginario collettivo dell’italica storica del crimine: da Angelo Izzo, l’ex ragazzo nero dei Parioli protagonista del massacro del Circeo, a Pino Pelosi, l’ultimo incontro di Pier Paolo Pasolini prima di morire nel 1975. Al cospetto di questa giornalista napoletana che detesta essere chiamata "signora" ("le signore stanno in salotto, noi giornalisti siamo gente da marciapiede che raccoglie le notizie e le racconta"), è un’artigiana della tv ("faccio una vita da metalmeccanico, lavoro 25 ore su 24 perché devo leggere tutte le carte e questo lavoro richiede energia e dedizioni assolute"),e usa un eloquio raffinato, i suoi interlocutori parlano, dicono molto. Compreso quello che nelle aule di giustizia hanno ostinatamente taciuto. Ci spiega come fa? "Non li giudico, cerco solo di capire. Loro lo sanno, per questo si fidano. E poi so ascoltare, non li interrompo mai. Ho profondo rispetto per la loro scelta di ripercorrere davanti a me un passato doloroso dal quale non è possibile tornare più indietro". A lei, spesso, dicono più di quanto abbiano fatto al processo. "Sì. Stefania Albertani (condannata a vent’anni per l’omicidio della sorella e il tentato omicidio dei genitori, ndr) in aula non spiaccicò parola. A me spiegò tutto: perché aveva ucciso, come e in che modo aveva ordito la sua macchinazione. Fu lei a cercarmi". A quali storie si sottrae? "Non m’interessano i pedofili, perché ho troppo rispetto per i bambini, i malavitosi e i serial killer. Anche se alcuni mi cercano con insistenza". Nomi. "Donato Bilancia mi ha scritto tantissime lettere. Anche Pietro Pacciani mi ha cercato prima che venisse assolto". Chi sono allora i protagonisti delle sue storie? "Persone che hanno commesso un crimine, non criminali, che passano da una normale quotidianità all’orrore di un gesto estremo che quasi mai somiglia a loro e alla loro vita di prima". "Nero trovato, colpevole trovato" è il titolo della prima puntata con Rudy Guede, unico condannato per l’omicidio di Meredith Kercher a Perugia. Che significa? "Rudy Guede è stato condannato con rito abbreviato, al processo non ha detto nulla. Mai una dichiarazione o un’intervista, né prima, né dopo. La sua condanna è anche uno spaccato culturale di questo momento storico del nostro Paese dove il colpevole, per definizione, è sempre l’altro, specie se ha il colore della pelle diverso dal nostro". Il contesto conta. "Eccome. Storie maledette non è una semplice intervista ma una struttura narrativa perché partendo dal caso di cronaca restituisce uno spaccato ambientale, culturale, sociale e anche storico in cui quel caso è avvenuto". Il delitto di Perugia è stato un affaire internazionale. "Una patata che ancora scotta. Pensi che dopo una trattativa di mesi la Cnn ha negato alla Rai l’acquisto di un filmato di trenta secondi in cui Amanda Knox ringraziava l’Italia dopo la sua assoluzione". Si chiama censura. "Esatto". Cos’è che rende una storia maledetta? "L’ambiente in cui si è svolto, la dose di mistero, il livello culturale e sociale dei protagonisti coinvolti". Nella seconda puntata cosa vedremo? "Una storia che sembra uscita dritta dalla penna di Camilleri. Riguarda Celeste Sajeva, una bellissima ragazza di Sciacca condannata a trent’anni di reclusione con l’accusa di aver ucciso il marito Michele insieme all’amante". Il protagonista della terza puntata non ha commesso un omicidio. "Ma il caso è ancora più terribile, è peggio di un delitto. Sul piano umano è una delle storie che personalmente mi è costata di più". Chi è il protagonista? "Luca Varani, l’avvocato di Pesaro che ha assoldato due albanesi per far sfregiare con l’acido Lucia Annibali il 16 aprile 2013. Il volto straziato di Lucia l’abbiamo visto tutti, il presidente Napolitano l’ha pure premiata per il suo grande coraggio come simbolo della lotta alla violenza sulle donne". Com’è andata? "Ho ricostruito con lui nei minimi dettagli la relazione con Lucia che s’innesta in un’altra relazione, stabile, che Varani aveva con un’altra donna. Non ha mai confessato. È stato condannato a vent’anni di carcere per tentato omicidio, lesioni gravissime e stalking". Condanna lieve, ha detto qualcuno. "Varani all’inizio del colloquio era molto teso. Gli ho detto: "Lei è stato condannato a vent’anni, Lucia Annibali all’ergastolo perché nessuno le potrà restituire il volto che aveva prima". La vicenda di Luca Varani segna qualcosa di nuovo nella storia criminologica italiana". In che senso? "Sfregiare con l’acido una donna non fa parte della cultura occidentale. È un tipo di violenza presente nei Paesi orientali, nelle vendette tribali". Che significa approdare in prima serata? "Significa avere molto coraggio. Anche perché il giovedì sera mi scontro con la corazzata di Don Matteo su Raiuno". I suoi fan le rimproverano solo una cosa: di fare sempre poche puntate. "È una mia scelta. Ogni puntata è come se scrivessi un libro o girassi un film. Prima dell’intervista leggo tutti gli atti del processo inclusi i verbali di sommarie informazioni. E poi mi faccio un’idea dei personaggi raccogliendo il "dicono di loro" e leggendo i giornali di provincia perché lì c’è il colore, l’ambiente, l’atmosfera". Alla fine prepara il copione che le vediamo sfogliare. "Nelle carte c’è l’algida struttura di atti processuali, la narrazione devi sapertela costruire da solo. Io solfeggio il testo come uno spartito musicale: faccio le pause, inserisco le lunghe, le brevi. La stessa parola assume una valenza diversa a seconda dell’intonazione scelta". Perché di Storie maledette non vanno mai in onda repliche? "È una mia scelta etica. Le persone mi raccontano la loro storia in quel momento storico, poi basta. La vita anche dietro le sbarre per loro cambia, non ha senso riproporre la stessa intervista anni dopo, quando magari hanno scontato la pena o ristabilito un rapporto con i familiari. Faccio un danno alla rete, lo so, però eticamente è meglio così". La cronaca nera è sempre più di moda in tv. Perché lei non va mai nei talk show? "Non mi piace commentare casi giudiziari ancora aperti, mi invitano in tanti ma declino sempre". Le sue storie accadono quasi tutte in provincia e non nelle grandi città. Come mai? "In provincia c’è più tempo per le passioni, non solo amorose. E le passioni, tutte, sono un innesco potentissimo". Il suo italiano è aulico, non disdegna metafore ardite. Riesce a farsi comprendere da tutti? "Credo di sì altrimenti il verduraio vicino casa mia non avrebbe la mia foto autografata tra peperoni e zucchine. Se ti segue anche chi ha un lessico più semplice del tuo vuol dire che sei sulla strada giusta. Noi che facciamo tv abbiamo il dovere del linguaggio". La tv deve educare? "Non deve diseducare. Se usiamo un linguaggio elegante e di qualità lo persone lo assimilano e lo usano". C’è una storia che avrebbe voluto raccontare e non c’è riuscita? "Sì, quella di un magistrato che era consigliere giuridico presso la Corte Costituzionale e dove s’innamora, ricambiato, di una donna che lavorava lì come segretaria e moglie a sua volta di un altro impiegato della Consulta. Quando la donna decide di troncare la loro relazione extraconiugale, l’uomo uccide con un colpo di pistola il marito di lei, ne seppellisce il cadavere nel giardino della sua villa e poi partecipa alle ricerche. È stato condannato a ventitré anni di carcere. L’ho incontrato nel carcere di Rebibbia, alla fine lui si è tirato indietro e non ha voluto farsi intervistare. E poi c’è un altro caso che avrei raccontato volentieri". Quale? "Quello di Pietro De Negri detto ‘er canaro della Magliana (condannato per aver seviziato e ucciso nel 1988 Giancarlo Ricci, ex pugile dilettante e piccolo boss di quartiere, ndr). Disse al suo avvocato: "Sono un grande ammiratore della Leosini, se la incontro di persona so già che cederò e le dirò di sì". Ovviamente non ci siamo mai incontrati". Europa sempre più chiusa ai migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 19 gennaio 2016 Dopo l’Austria anche Slovenia, Croazia e Serbia si preparano a ripristinare icontrolli ai confini. Dopo l’Austria, la Slovenia. E poi a ruota, anche se non appartengono all’area Schengen, anche Croazia e Serbia si preparano a chiudere i propri confini per fermare i migranti. Cosa che potrebbe accadere già nei prossimi giorni. Il temuto effetto domino che porta al ripristino dei controlli ai confini nazionali - rendendo così sempre più precaria la libera circolazione - si sta verificando sotto lo sguardo preoccupato di una Bruxelles che appare incapace di arginare la voglia di chiusura dei singoli Stati. Sabato era stato il cancelliere austriaco Werner Faymann ad attaccare l’Ue accusandola di non essere capace di proteggere le sue frontiere esterne e costringendo per questo Vienna a chiudere le sue per mettere fine al flusso di rifugiati. Ieri è stata la Slovenia ad annunciare di essere pronta a fare la stessa cosa se i suoi "interessi nazionali venissero messi a rischio". Subito seguita dalla Croazia. L’ingresso di Zagabria nell’area Schengen sarebbe previsto per il 1 luglio, ma il nuovo governo di centrodestra che si insedierà a giorni si è già detto pronto a seguire l’esempio di Lubiana. "Non permetterò che la Croazia diventi un hot spot per i migranti" ha proclamato Tomislav Karamarko, probabile prossimo vicepremier. Infine, in serata, stesso annuncio è arrivato anche dalla Serbia, seppure con toni più moderati. "Continueremo a rispettare i diritti umani dei migranti e a garantire i massimi standard possibili - ha spiegato il ministro delle politiche sociali Aleksandar Vulin - ma ci comporteremo a seconda di come si comporteranno gli altri paesi nella rotta migratoria". Tutto questo mentre la Macedonia ha quasi finito la costruzione del suo muro metallico ai confini con la Grecia. È un’Europa sempre più spaventata nel vedere sbriciolarsi giorno dopo giorno ogni parvenza di unità, quella che si prepara ad affrontare un 2016 irto di pericoli. Il prossimo 25 gennaio a Bruxelles è previsto un nuovo vertice di ministri degli interni in cui la questione migranti terrà ancora una volta banco. Ma le divisioni sono forti. L’Italia si presenterà con una sua proposta sui ricollocamenti dei richiedenti asilo, visto il fallimento del sistema messo a punto dalla commissione Ue (meno di 200 profughi ricollocati su 160 mila). In particolare si chiederà di sveltire le procedure burocratiche, oggi particolarmente complesse e per questo usate come scusa da quegli stati che non intendono accogliere i migranti. Ma si proverà anche a far entrare che arriva dall’Afghanistan tra coloro da ricollocare (insieme a siriani, eritrei e iracheni) visto che si tratta comunque è un paese ancora in guerra. Sarà dura. La sopravvivenza di Schengen è anche uno dei punti del dossier messo a punto dalle europarlamentari Cecile Kyenge (Pd) e Roberta Metsola (Pp) presentato ieri sera a Strasburgo e in cui si torna chiedere un rafforzamento dei confini esterni dell’Ue e l’istituzione di corridoi umanitari per i migranti. L’atteggiamento di molti governi è però sempre più teso alla chiusura e non è escluso che a discutere del destino di centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini in fuga dalla guerra saranno due, o forse tre fronti contrapposti. Da una parte c’è infatti il blocco di Visegrad (Polonia, Ungheria, repubblica Ceca e Slovacchia) il più tenace sostenitore di una politica di chiusura verso i migranti. Ma si profila anche la possibilità di un nuovo gruppo di paesi - che si è già battezzato dei "volenterosi" -, che sull’onda di quanto proposto prima dall’Olanda e più recentemente dalla Germania, punta a costituire una mini-Schengen. Ne farebbero parte Germania, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Francia e Austria. Blocco che lascerebbe fuori Italia e Grecia, considerate responsabili di non aver attivato gli hot spot. Un’ipotesi che a Palazzo Chigi viene vista come il fumo negli occhi anche se per ora si evita ogni commento. Volendo, infine, si potrebbero aggiungere Macedonia, Slovenia, Croazia e Serbia, i paesi della rotta balcanica che già si vedono in separata sede. Più che l’Unione europea, un puzzle in cui tutti si guardano con sospetto. Il paradosso è che chi, come la Gran Bretagna, fino a ieri era criticato per le sue misure contro i migranti, adesso appare quasi come un modello da seguire. La cancelliera tedesca Angela Merkel non sarebbe infatti più contraria ad adottare alcune delle proposte del premier Cameron come la sospensione per quattro anni di ogni forma di welfare per i migranti che arrivano nel Regno unito. E come lei sarebbero favorevoli anche altre capitali. L’agonia di Schengen: senza libero transito no a mercato unico ed euro di Danilo Taino Corriere della Sera, 19 gennaio 2016 Da quando è stato aperto nel 2000, il ponte Øresund tra Copenaghen e Malmö si è attraversato senza bisogno di mostrare un documento d’identità. Per oltre mezzo secolo, d’altra parte, Danimarca e Svezia non hanno avuto controlli tra le loro frontiere. Lo scorso 4 gennaio, il governo di Stoccolma ha però radicalmente cambiato politica: sotto la pressione di più di 160 mila rifugiati arrivati l’anno scorso, ha deciso che da subito avrebbe controllato i documenti di chi arriva dalla Danimarca per treno, auto o nave. Effetto domino. Poche ore dopo, anche Copenaghen ha deciso di introdurre restrizioni alla sua frontiera terrestre, con la Germania: controlli a campione per respingere i profughi senza i requisiti di passaggio. Scopo, evitare che la Danimarca diventasse il parcheggio per i migranti in arrivo da Sud e bloccati dal collo di bottiglia creato dalla Svezia. È così che il rischio della disgregazione dell’area Schengen ha preso qualche forma concreta e il dibattito sulla fine della zona di libero movimento dei cittadini europei si è sollevato da terra. Nessuno la vuole, ma la realtà è che il flusso dei rifugiati fa vacillare Schengen. Sabato scorso, l’Austria ha annunciato la "sospensione temporanea" della libertà di movimento ai suoi confini. Anche Vienna teme che il Paese possa diventare un accampamento per chi arriva dal Medio Oriente lungo la via dei Balcani e viene respinto al confine tedesco. La Germania, infatti, aveva introdotto alcune restrizioni alle regole di Schengen già lo scorso 13 settembre, per cercare di rallentare il flusso di chi chiede asilo. Il confine più caldo. Nell’effetto domino, anche la Slovenia prenderà misure di contenimento sulla frontiera con la Croazia, la quale però non fa parte di Schengen. Un comitato di studio tra Austria, Slovenia e Germania sta anzi studiando il modo per rafforzare quel confine, fondamentale nel cammino dei rifugiati che entrano in Europa dalla Grecia. All’estremo Nord, anche la Norvegia, che non fa parte della Ue ma aderisce a Schengen (come la Svizzera), effettua controlli sulla sua lunga frontiera con la Svezia, dopo avere, lo scorso 30 novembre, bloccato l’ingresso dei profughi a Storskog, il check-point con la Russia da dove l’estate scorsa erano entrati migliaia di rifugiati. Misure temporanee. Dunque, Germania, Svezia, Danimarca, Norvegia, Austria hanno in qualche modo limitato o sospeso Schengen (oltre alla Francia dopo gli attentati di Parigi). Detto in questi termini, sembra che il cuore dell’Europa si stia definitivamente chiudendo a fortezza. Non è ancora così. Questi Paesi hanno preso iniziative che sono previste dal Codice di Frontiera Schengen (Bsc). Gli articoli 23, 24 e 25 prevedono che misure straordinarie (sospensione del libero movimento) possano essere prese per rispondere a pericoli interni a un Paese (per un massimo che va dai dieci ai trenta giorni, a seconda dei casi, prolungabili fino a sei mesi). Soprattutto, l’articolo 26 dice che, "in circostanze eccezionali e quando il funzionamento generale dell’area Schengen è messo a rischio come risultato di deficienze serie e persistenti correlato al controllo delle frontiere esterne, misure di sospensione degli accordi di libero movimento ai confini interni dell’area Schengen possono essere introdotte da uno o più Paesi. I rischi. Il problema fondamentale, dunque, è il controllo delle frontiere esterne. Se non sarà garantito, le misure temporanee rischiano di diventare permanenti, il che significherebbe la fine, probabilmente lenta, di Schengen, quella conquista che un po’ tutti i governi considerano una delle maggiori in Europa e che, se dovesse cadere, metterebbe a rischio - secondo il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker e Angela Merkel - lo stesso mercato unico e infine l’euro. Il piano di Bruxelles. La Commissione di Bruxelles ha preparato, sostenuta da Berlino e da Parigi, un piano per la creazione di una Guardia europea delle frontiere e delle coste comunitaria, che dovrebbe avere la legittimità e la forza di intervenire sui confini esterni al di là della sovranità di ogni singolo Stato. Il Consiglio europeo di febbraio sarà probabilmente decisivo per capire se si andrà in questa direzione oppure se la Ue farà un passo verso una crisi gravissima: con l’arrivo della primavera, il flusso di rifugiati tornerà massiccio e, senza controlli veri alle frontiere esterne, molti Paesi continueranno ad alzare barriere interne. In altre parole, l’accordo di Schengen è vivo. Però è anche in pessima salute. Difficile, anche se non impossibile, che frani dalla mattina alla sera: è però immaginabile una lunga agonia tra sospensioni multiple. Anche la prospettiva fatta circolare l’anno scorso dal governo olandese (che ora ha la presidenza semestrale della Ue) della creazione di una mini Schengen sembra più una minaccia negoziale rivolta ai Paesi ai confini esterni del blocco che una possibilità reale, almeno fino a quando l’accordo non è morto: in più non è pensabile che comprenda, come nell’idea dei Paesi Bassi, solo Germania, Austria e Benelux ed escluda la Francia (oltre che l’Italia). Allarme dell’Onu: "profughi, emergenza permanente" di Andrea Bonanni La Repubblica, 19 gennaio 2016 Dal 2000 quadruplicati i bisognosi di sostegno internazionale: 125 milioni, la metà sono rifugiati. Il numero di persone che nel mondo necessitano di aiuti umanitari è quadruplicato dal Duemila, arrivando alla cifra di 125 milioni. Di questi, 60 milioni sono profughi che hanno dovuto abbandonare le proprie case: una popolazione pari a quella dell’intera Italia. Per costoro, le possibilità di far ritorno sono modeste e comunque lontane nel tempo: la durata media dell’ "esilio", per i rifugiati, è di 17 anni. La comunità mondiale ha reagito a questa situazione con generosità crescente, ma ancora insufficiente. Per aiutare i milioni di persone vittime di guerre, carestie e disastri naturali, l’anno scorso sono stati spesi 25 miliardi dollari. Si tratta di una cifra 12 volte superiore a quella stanziata nel Duemila. E tuttavia non basta. Se vogliamo far pienamente fronte all’emergenza, mancano all’appello ancora 15 miliardi di dollari. Per risolvere questa situazione e colmare il divario, il segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha creato un panel di esperti presieduto dalla vicepresidente della Commissione, Kristalina Georgieva, e dal sultano di Perak, che ha reso ora pubblico il suo rapporto. Il documento sarà discusso alla riunione mondiale dei donatori che si terrà ad Istanbul a fine maggio. Tra i suggerimenti presentati, c’è quello di creare forme di "prelievo volontario" da parte dei governi per finanziare una emergenza che è ormai considerata strutturale e permanente. Inoltre il rapporto suggerisce di creare un " responsibility index" per misurare se, all’aumento del Pil di molti Paesi emergenti, corrisponde un equivalente aumento dei contributi versati per gli aiuti umanitari. Altra voce importante è la razionalizzazione degli aiuti, sia per quanto riguarda le spese logistiche, che oggi coprono circa il 10% dei costi totali, sia per quanto riguarda la logica degli interventi. "Oggi il mondo degli aiuti umanitari assomiglia ad una partita di pallone tra bambini di otto anni - commenta la Georgieva - tutti corrono dietro alla palla, cioè all’ultima emergenza, mentre ci sono interi settori del campo che restano scoperti". Tra le raccomandazioni c’è anche quella di fornire aiuti diretti preferibilmente alle donne: questo non solo garantisce che i soldi spesi siano meglio utilizzati, ma contribuisce anche a rialzare lo status delle donne. Medici senza frontiere: "stupri, violenze e arresti, così la Ue ha fallito sui rifugiati" di Elena Tebano Corriere della Sera, 19 gennaio 2016 Gli abusi nei confronti di profughi e migranti, anche in Europa, nel rapporto di Medici senza frontiere. Le testimonianze: "Gommoni affondati da uomini in divisa in Grecia". "Siamo fuggiti per dare un po’ di sicurezza ai bambini, perché potessero avere da mangiare e andare a scuola. In Siria non c’è più niente: la mia città è stata interamente distrutta. Ma se avessi saputo che era così difficile arrivare in Europa, non li avrei mai fatti partire: piuttosto sarei morto in Siria. Pensavo che la gente qui ci avrebbe trattato bene. Ma sono stato arrestato 33 volte. Mi hanno messo in prigione in Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria. Perché? Non lo capisco: non ho fatto niente di male. Non ho ucciso nessuno. Non ho rubato. Sono sfuggito alla morte solo per trovare altra morte. Il mio futuro è nel futuro dei miei figli. Ma non so dove sono". A parlare è un profugo siriano: l’associazione umanitaria Medici senza frontiere (Msf) ha raccolto la sua testimonianza in una foresta della Serbia, l’inverno scorso. Era solo: aveva perso ogni contatto con la moglie e i suoi 4 bambini. Insieme avevano cercato di arrivare in Europa attraverso la cosiddetta "rotta balcanica", che dalla Grecia conduce in Austria, ma dopo gli arresti non ha più notizie di loro. L’uomo fa parte dei rifugiati e migranti (centomila solo tra il 1° gennaio e il 15 dicembre) curati da Msf in Europa. La sua non è una storia isolata: lo scorso anno 1.008.616 di persone hanno cercato scampo in Europa. L’84% proviene da Paesi con alto numero di rifugiati, di cui 49% Siria, 21% Afghanistan e 9% Iraq - il 17% sono donne e il 25% bambini sotto i 18 anni. La maggioranza avrebbe diritto a protezione umanitaria, ma la chiusura della frontiere e le attuali regole per le richieste di asilo li espongono a una serie infinite di abusi e di violenze, di cui Medici senza frontiere - associazione premiata con il Nobel per la pace nel 1999 - rende conte in un dossier raccolto dai suoi operatori sul campo (alcune testimonianze sono in forma anonima per evitare rischi di ritorsione sulle persone coinvolte). Molti di questi abusi avvengono proprio in Europa. "Non solo l’Unione europea e i governi hanno fallito collettivamente nell’affrontare la crisi, ma con le loro politiche di deterrenza e una risposta caotica ai bisogni umanitari delle persone in fuga hanno di fatto peggiorato le condizioni di migliaia di uomini, donne e bambini già vulnerabili" denuncia Brice de le Vingne, direttore delle operazioni di Msf. "L’asilo è un diritto umano universale, non è un lusso. Se una persona rischia la vita o è perseguitata ha diritto di essere accolta, protetta e messa nella condizione di ricostruire un proprio benessere psicofisico - aggiunge Stefano Argenziano, coordinatore delle operazioni sulla migrazione di Msf. In teoria l’Ue riconosce il diritto all’asilo, ma per accedervi bisogna arrivare sul suo territorio e fare domanda lì. Visto però che le frontiere con i Paesi non comunitari sono chiuse, per poter chiedere protezione i profughi rischiano la vita". Spesso la perdono (3.7771 i morti accertati solo lo scorso anno nel Mediterraneo). O sopravvivono solo a prezzo di traumi pesantissimi. Uno dei luoghi più pericolosi per migranti e profughi è la Libia, passaggio privilegiato per chi cerca di arrivare sulle coste italiane (secondo l’Agenzia Onu per i rifugiati sono 153 mila le persone sbarcate in Italia, provenienti per lo più da Eritrea, Siria, Somalia e altri Paesi dell’Africa Subsahariana). "Delle 125 persone intervistate dagli operatori di Msf solo in ottobre, il 92% ci ha detto di essere stata vittima di violenze in Libia - si legge nel rapporto dell’associazione umanitaria. Praticamente tutte hanno assistito ad atti di violenza contro richiedenti asilo e migranti. Ci sono stati raccontati pestaggi, uccisioni, violenze sessuali. Metà delle persone intervistate ci ha riferito di essere stata sequestrata per brevi o lunghi periodi". Fresghy, 20 anni, eritreo, è rimasto per mesi prigioniero in Libia finché la famiglia non ha pagato per la sua liberazione: "Mi hanno chiuso in uno stabile rovente, senza aria condizionata, né servizi - dice. Se ti ammalavi, nessuno ti dava medicine o si curava di te. L’unica cosa a ci erano interessati erano i soldi. Molte donne che erano con noi sono state violentate". Le più esposte agli abusi sono le donne. "Sono rimasta per tre mesi a Tripoli. Non ci sono parole epr descrivere la mia vita laggiù. È il posto peggiore al mondo - ha testimoniato una donna eritrea salvata nel canale di Sicilia dalla nave Bourbon Argos di Msf. Ci trattavano come animali. Hanno separato le donne dagli uomini e ogni giorno prendevano una di noi per soddisfare le loro voglie". Nel corso del 2015 la maggior parte degli ingressi in Europa si è spostata sulla rotta orientale, tra Turchia e Grecia: sono 851,319 gli arrivi registrati tra il primo gennaio e il 31 dicembre. Ad agosto e settembre sulle isole greche sono sbarcate in media quattromila persone al giorno. A ottobre sono diventate seimila. La traversata via mare tra Turchia e Grecia può durare dai 45 minuti a poche ore (molto meno di quella dalla Libia all’Italia, che varia dalle 30 alle 70 ore), dovrebbe quindi essere meno rischiosa. Ma Medici senza frontiere denuncia l’assoluta mancanza di soccorsi e addirittura atti di sabotaggio. "A luglio 2015 i nostri operatori a Lesbo e Kos sono stati avvicinati da rifugiati che hanno riferito storie preoccupanti di violenze in mare da parte di uomini mascherati che li hanno derubati o hanno buttato i loro averi in mare - si legge nel rapporto dell’associazione. Alcuni hanno parlato di barche che si sono avvicinate ai gommoni e hanno tentato di affondarli con lunghe pertiche". Ecco cosa ha raccontato un siriano arrivato a Kos: "Siamo stati attaccati tra la Turchia e l’isola di Farmakonisi da tre uomini in uniforme a bordo di una grande barca grigia di metallo. I tre indossavano divise blue scure con una bandiera greca sulla spalla. Ci siamo avvicinati, abbiamo mostrato che c’erano i bambini, perché ci aiutassero. Non dimenticherò mai quello che è successo: hanno usato un arpione per bucare la nostra imbarcazione a prua. Hanno fatto due fori e a bordo si è scatenato il panico. Ci volevano uccidere". In altri casi le navi sarebbero state trainate di nuovo nelle acque turche. Le autorità greche hanno sempre negato che la Guardia Costiera del Paese sia stata coinvolta in simili episodi. "Ma noi abbiamo registrato a più riprese testimonianze di attacchi di violenza gratuita e disumana - dice il coordinatore delle operazioni sulla migrazione di Msf Stefano Argenziano. Abbiamo chiesto alla Grecia di intervenire, ma a nostra conoscenza non ci sono state investigazioni avviate e concluse su questi fatti". In generale Msf denuncia una pessima gestione degli arrivi: "In Grecia, non solo le autorità non hanno organizzato un sistema di accoglienza adeguato e umano, ma hanno anche impedito attivamente alle organizzazioni umanitarie di intervenire per coprire le lacune - sostiene il rapporto. Negli ultimi mesi, le equipe di Msf a Kos, Lesbo e Leros hanno lottato senza tregua per ottenere l’autorizzazione a fornire assistenza umanitaria ai nuovi arrivati". Msf denuncia carenze e inefficienze nell’accoglienza anche in Italia "dove l’arrivo di profughi e migranti viene trattato sempre con dinamiche emergenziali, nonostante sia un fenomeno ormai attestato" spiega Argenziano. Il mese scorso Msf ha deciso di lasciare il centro di prima accoglienza di Pozzallo, in Sicilia, perché ha giudicato inaccettabili "sovraffollamento, scarsa informazione legale e scarsa tutela dei diritti" e le "condizioni precarie e poco dignitose in cui vengono accolti migranti e rifugiati appena sbarcati". L’ultimo fronte è quello dei Balcani: anche qui i profughi denunciano violenze sistematiche da parte delle forze dell’ordine: "Mi sono spostato dalla Grecia alla Macedonia ma sono stato arrestato 4 volte e riportato in Grecia - ha raccontato agli operatori di Msf un siriano trovato nella foresta di Bogovadja, in Serbia -. La polizia macedone mi ha preso tuti i soldi. Sulla strada per la Serbia sono stato fermato dalla mafia. Hanno preso tutto quello che avevo e mi hanno lasciato in una zona isolata. Ho chiesto aiuto alla polizia serba ma mi hanno messo in carcere per 10 giorni e poi mi hanno deportato in Macedonia. Sono tornato in Serbia e da lì ho continuato per l’Ungheria. Dove mi hanno arrestato, ammanettato e buttato in una cella senza acqua e cibo. Ero malato e avevo sete, ma quando ho chiesto dell’acqua, un poliziotto mi ha detto: "Piscio in un bicchiere e te lo faccio bere". Altrettanto dura la testimonianza di un iracheno incontrato da Msf in Serbia, poco oltre il confine con la Bulgaria: "Non posso credere che la Bulgaria sia un Paese dell’Unione europea. La polizia lì non è polizia, ma una mafia - ha denunciato-. Ci hanno preso i soldi e i cellulari. Ci hanno picchiato: anche le donne. Stavamo scappando dallo Stato Islamico: non sapevo che ci fosse uno Stato Islamico in Bulgaria", ha aggiunto. Secondo Medici senza frontiere simili abusi sono soprattutto il frutto della chiusura delle frontiere: "Per questo chiediamo la creazione di vie sicure e legali per chi ha bisogno di chiudere protezione umanitaria - spiega Argenziano. Deve essere possibile chiedere asilo nei Paesi di origine, ma anche in quelli di transito (come la Libia). Le attuali politiche restrittive dell’Unione europea aumentano solo sofferenze che potrebbero essere facilmente risparmiate". Emergenza immigrazione. Tasse sul calcio per sfamare i profughi di Alessandra Zavatta Il Tempo, 19 gennaio 2016 L’Onu propone nuove imposte su partite di football, concerti e biglietti aerei Con l’assistenza ai siriani soldi finiti. I rifugiati nel mondo saliti a 125 milioni. Saranno i tifosi di calcio a dar da mangiare ai profughi. Ai siriani che sciamano in Europa per fuggire alla guerra, agli africani che vogliono lasciarsi alle spalle fame e miseria, a cinesi, bengalesi e pakistani in cerca di lavoro e libertà. L’Onu non ha più soldi per finanziare gli aiuti umanitari, dagli Stati membri dell’organizzazione arriva sempre meno denaro mentre i rifugiati aumentano. Nel 2015 sono saliti a 125 milioni. Per garantire loro cibo e farmaci sarebbero serviti 40 miliardi di dollari ma ne sono stati trovati poco meno di venticinque. E così dallo studio "Too important to fail" (Troppo importante per fallire), redatto per le Nazioni Unite da un pool di esperti coordinati da Kristalina Georgieva, vicepresidente al Bilancio della Commissione europea, è saltata fuori l’ipotesi di tassare gli eventi. A partire dagli incontri di football e dai concerti. Un’imposta "leggera", dieci-venti centesimi a biglietto, definita contributo "volontario". Ma di fatto obbligatorio, destinato a raccogliere quelle somme che ora mancano all’appello. Difficile che i tifosi di Roma e Lazio, Real Madrid, Paris Saint-Germain e Bayern Monaco possano tirarsi indietro. Loro allo stadio, a divertirsi ai goal dei giocatori, mentre a Damasco e Kabul si muore. Chi avrà il coraggio di dire di no? Fa leva sulla pietà cristiana l’Onu ma anche sulla carità patrimonio di ogni musulmano. Tanto che prevede di tassare una quota della zakat (l’elemosina ai bisognosi) che, insieme alla testimonianza di fede, alla preghiera, al pellegrinaggio a La Mecca e al rispetto del Ramadan, costituisce uno dei cinque pilastri dell’Islam. Visto che 30 dei 33 conflitti in corso, che appunto producono emergenze umanitarie e profughi, riguardano Paesi musulmani. "Mai il mondo è stato così generoso e mai questa generosità è stata così inadeguata", sottolinea Kristalina Georgieva, candidata a sostituire il Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon che a fine anno dovrà lasciare il Palazzo di vetro. "Assistere le vittime di conflitti e disastri è moralmente giusto, e anche nel nostro interesse, come dimostra la crisi migratoria". Se la raccolta fondi è aumentata da 2 a 24,5 miliardi di dollari tra il 2000 e il 2014, le Nazioni Unite lamentano come solo la metà delle necessità possa essere soddisfatta. Tanto che lo scorso anno sono state ridotte le razioni di cibo per un milione 600mila siriani. E questo "ha contribuito al massiccio esodo verso l’Europa". Colpisce nel dossier che l’ipotesi di una Tobin Tax per tassare le rendite finanziarie, e cioè i ricchi, venga archiviata in otto righe: "È ancora oggetto di dibattito ed è improbabile si raggiunga un accordo globale in futuro". Seppure viene riconosciuto che "potrebbe produrre tra 25 e 34 milardi l’anno soltanto in Europa". Quindi meglio far pagare tutti gli altri: chi va allo stadio, al concerto, in vacanza. E ricorda come l’associazione no profit Unitaid ha convinto dieci nazioni ad istituire una "tassa di solidarietà" di due dollari sui biglietti aerei contro la lotta all’Aids e alla malaria: in cinque anni ha permesso di raccogliere 1,6 miliardi. Per far funzionare la macchina degli aiuti umanitari c’è da allargare la base imponibile, come si direbbe in gergo fiscale. Venti Stati garantiscono il 95% degli aiuti umanitari. Se i poveri possono dare assai meno dei ricchi, sono infinitamente di più e, alla fine, il conto torna. Con questo sistema l’Italia, che devolve ogni anno 378 milioni in assistenza, potrebbe dare il doppio. Bullismo, nella legge anche il Daspo dei telefonini di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 19 gennaio 2016 La norma in discussione alla Camera: "La prevenzione serve ma non basta - dice la presidente della Commissione Giustizia della Camera. Necessario introdurre un reato specifico e corsi di prevenzione". "La prevenzione e l’educazione per il bullismo del web serve, ma non basta. Ci vogliono misure incisive graduate a seconda dell’età: dal Daspo di telefonini e la confisca di computer, alla sanzione penale". Ha appena tentato il suicidio la ragazzina di Pordenone bullizzata, quando Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della Camera, si appresta a concludere il giro di audizioni - fortunatamente senza dover aggiornare il computo dei morti - su un fenomeno che per l’Istat riguarda un adolescente su due, in particolare giovanissimi e soprattutto ragazze. La svolta è annunciata: da "fenomeno", si inizierà a definirlo "crimine". Il Senato ha già approvato un testo. E proprio ieri il presidente Pietro Grasso ha auspicato che la Camera lo converta presto: "È soprattutto a scuola che dobbiamo creare una rete di protezione verso i ragazzi e le ragazze più fragili, spiegare a ogni studente quanti danni si possono fare con parole e comportamenti che sembrano innocui". Ma l’intenzione di molti è di restringere ancora le maglie. Lunedì lo chiedeva Michela Vittoria Brambilla, presidente della commissione Infanzia: "Ormai è un fenomeno di massa. Urge una legge che, come nella mia proposta, lo renda reato specifico, da definire distinguendo tra la posizione dei minorenni, bisognosi soprattutto di interventi educativi, e la responsabilità dei maggiorenni che richiede una risposta sanzionatoria". Anche secondo Donatella Ferranti serve "qualcosa di più incisivo". E annuncia che, forse già dalla settimana prossima, quando verrà calendarizzata la discussione della norma, si andrà in questa direzione. "Il lavoro svolto al Senato - spiega l’esponente pd - è molto importante: un piano straordinario di educazione e prevenzione è urgente. Ma l’invasività di questo genere di molestia, resa capillare dalla tecnologia digitale, è tale che si deve intervenire anche sul fronte della repressione penale. Modulata in modo diverso se c’è un minore vittima o come indagato. Nelle audizioni ci hanno parlato di un ragazzino di poco meno di 14 anni che aveva avuto un rapporto con una ragazzina più piccola di lui. L’aveva ripresa con il telefonino e poi, ridendo, aveva mostrato il video agli amici. Lei aveva tentato per tre volte il suicidio". Ragazzi talmente giovani da rendere ogni arma penale spuntata. Invece durante i lavori della commissione, da investigatori e magistrati, è giunta la richiesta di uno strumento che racchiuda in sé le varie fattispecie (lasciando aperta la lista a nuovi comportamenti). Sarebbe un deterrente per convincere i ragazzi a evitare questi comportamenti che non sono mai singoli. E spesso variano dalla diffamazione, alle molestie, allo stalking, persino alla diffusione di materiale pedopornografico (i video e le foto). Che fare? L’idea, anticipa l’esponente del Pd, che potrebbe essere presentata come emendamento al testo base del Senato, è quella di creare un reato specifico, perseguibile d’ufficio: "Atti per-secutori mediante strumenti telematici e informatici". Con pene graduate. Per i minori di 14 anni un intervento educativo, magari coinvolgendo i servizi sociali e un pool nella scuola. Dai 14 anni in avanti, la confisca degli apparecchi utilizzati e l’obbligo di frequentare corsi di riqualificazione della personalità. A partire dai 18 anni, invece, dovranno intervenire le procure. Ne discuteremo. Comunque a marzo sarà in aula". "La cannabis sarà legalizzata anche in Italia… noi siamo già pronti a venderla" di Paolo Baroni La Stampa, 19 gennaio 2016 Una società sonda il mercato per intercettare i gusti dei consumatori "Per aprire un negozio servono 50 mila euro: abbiamo 600 richieste". "Io nemmeno fumo, men che meno marijuana. Però è arrivata l’ora di smetterla di prenderci in giro sulla cannabis. Nei fatti è già legalizzata: la si può trovare facilmente ovunque" spiega Sergio, 50 anni, romano, imprenditore nel ramo delle tlc, attività che negli anni lo ha portato spesso ad essere "un anticipatore di tendenze". A Sergio, l’anno scorso, conversando una sera con alcuni amici con cui è in affari, è venuta un’idea: quella di testare il mercato potenziale della marijuana. Ben sapendo che queste sono attività illegali. "Oggi. Domani non è detto", sostiene l’imprenditore romano. "Io appartengo ad una generazione che nel tempo ha visto fenomeni illegali diventare perfettamente legali". "Da ragazzino, ad esempio, andavo di nascosto a giocare con le slot machine in posti assolutamente non raccomandabili. Oggi non è più così: le slot sono diventate legali. Dunque siamo fiduciosi che prima o poi anche questo mercato venga legalizzato". Un primo test di mercato - E così, dopo aver studiato a lungo i mercati di quei Paesi dove la cannabis è legalizzata anche a scopo ricreativo, nelle settimane scorse è nata "Nativa". Una società che da pochi giorni ha lanciato una campagna di comunicazione per capire quale può essere l’interesse ad investire in questo "mercato". Significativo il "claim" della nuova impresa: "Nativa. Fatta per essere buona". La marijuana, si intende. "Io non fumo - racconta ancora Sergio - ma non escludo che qualcuno di miei figli ogni tanto lo faccia. Per me non è un problema. Ma da liberale quale sono preferirei che questo mercato fosse regolamentato, con tanto di certificazioni di qualità, in modo tale da sapere che cosa compro". L’essenza del nuovo business sta tutto qui. Capire l’interesse del mercato, anticipare gli altri player ed entrare così per primi nell’immaginario dei consumatori "con un brand forte, elegante, e legato alla tradizione dell’eccellenza agroalimentare che da sempre caratterizza il nostro Paese agli occhi di tutto il mondo". Aprendo una catena di negozi monomarca in franchising. Il modello preso a riferimento è quello di Eataly, "per quello che è riuscita a fare coi prodotti di natura agricola". 20 soci italiani e stranieri - In tutto sono una ventina i soci coinvolti: romani, milanesi, qualche pugliese e pure alcuni stranieri. Per ora hanno messo sul piatto solamente qualche decina di migliaia di euro, visto che nella fase iniziale si trattava solo di far partire una campagna di marketing attraverso un sito web che in vetrina espone una prima linea di prodotti, tutti ribattezzati con nomi femminili: Violetta, Susanna, Carmela, Bianca e Jacqueline. Il mercato italiano della cannabis, secondo il management di Nativa, vale circa 3 milioni di chilogrammi di prodotto. Di qualità non sempre eccelsa, se è vero che in base ad una sondaggio su 500 fumatori abituali di marijuana il 65% dice di non essere per niente soddisfatto di quello che trova su piazza. Ai potenziali partner è richiesto un investimento di 50mila euro compreso arredamento, sistema di cassa e bilancia e corsi di training, oltre alla disponibilità di un locale di almeno 40 metri quadri. Nel giro di due settimane, da quando è stato messo on line il sito www.cannabisnativa.it, sono oltre 600 le persone che hanno contattato Nativa. Compresi molti agricoltori pronti a mettere a disposizione i loro terreni. Sergio dice di non essere "in cerca di pubblicità facile" e per questo chiede di non apparire. "La nostra - sostiene - è anche una battaglia culturale su un fronte dove anche la politica negli ultimi tempi è diventata un po’ più attiva". Sul filo del rasoio - Vi accuseranno di voler favorire la diffusione delle droghe leggere? "Non credo che la nostra iniziativa aumenti la diffusione della droga - risponde. Al contrario credo che risolva un problema che in ogni caso c’è, quello di regolamentare un mercato che comunque esiste. E che assicurerebbe allo Stato ricchi introiti. È vero siamo sul filo del rasoio, ma siamo assolutamente convinti che tutto quello che stiamo facendo sia assolutamente legale. E a chi ci accusa di essere degli sciacalli - conclude - rispondo che quando questo mercato sarà liberalizzato non saremo i soli a operare, ma ci sarà certo tanta concorrenza". La pax americana e il doppio standard di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2016 Ma ora con la fine di una parte delle sanzioni sono tutti ventre a terra per fare affari con Teheran. Secondo l’Economist nei prossimi dieci anni il Pil iraniano potrebbe superare quello di sauditi e turchi. C’è un nuovo ordine in Medio Oriente dopo l’accordo con l’Iran? L’antico detto del principe Talleyrand che gli stati non hanno amici ma solo interessi è più valido che mai, soprattutto nel caso dei rapporti tra Washington, l’Iran e le altre potenze della regione. Non solo: qui tutto è doppio. Doppio è lo standard con cui gli americani trattano i Paesi non alleati, duplici e anche triplici gli effetti della diplomazia e della guerre, basti pensare alla Siria e all’Iraq. "Doppio contenimento" è il nome da 30 anni della politica Usa nei confronti di sciiti e sunniti: dalla guerra Iran-Iraq degli anni 80, a quella del 1991 contro Saddam, alla disastrosa invasione dell’Iraq nel 2003. Salvo poi misurare ogni mutamento di equilibrio in centinaia di migliaia di morti. Ma una versione aggiornata della pax americana si deve ancora vedere: Barack Obama e gli Usa sembrano ispirarsi alla realpolitik di Metternich e di Talleyrand giostrando in maniera precaria sulle rivalità locali ed evitando, fino dove è possibile, un coinvolgimento diretto. Dilemma libico compreso, il che forse non è del tutto una buona notizia per gli europei e gli italiani. Quanto al doppio gioco, questo non è un’eccezione ma la regola, al punto che Obama, dopo avere compiuto il passo più importante della sua presidenza, quello per cui forse passerà alla storia come Nixon e Kissinger con la Cina, ha innestato la retromarcia, quel tanto che basta per tenere buoni vecchi alleati assai irritati dall’intesa con Teheran, come Israele, l’Arabia Saudita e la Turchia. Non può quindi stupire che dopo avere tolto le sanzioni relative al nucleare, gli Usa ne abbiamo imposte altre per l’arsenale missilistico con conseguenti e invelenite reazioni degli iraniani. Le scintille tra le due parti non mancano adesso né mancheranno in futuro. Ma sarebbe più sorprendente se Obama, o un qualunque leader americano, si rivolgesse alla Turchia di Erdogan o all’Arabia saudita con lo stesso tono con cui apostrofa l’Iran. Il presidente americano ha raccomandato a Teheran, con un eccesso di enfasi retorica, di "aprirsi al mondo", come se la repubblica islamica fosse più chiusa e intrattabile della pessima monarchia dei Saud, che taglia teste tutti i giorni a colpi di sciabola e impedisce alle donne persino di guidare. Oltre al fatto che sostiene i gruppi islamici più radicali e conduce una guerra devastante in Yemen, che per altro non riesce a vincere per manifesta incapacità. Obama è bravo a bacchettare gli iraniani ma ai sauditi non intende rimproverare mai nulla. Anche l’Europa farebbe bene ogni tanto a raccomandare al presidente Erdogan di non mettere in galera intellettuali e giornalisti se vuole davvero entrare nell’Unione, o per lo meno avere la libera circolazione per i suoi cittadini in cambio dell’ospitalità a due milioni di rifugiati siriani. E invece da un parte gli Usa sono sempre pronti a vendere armi e a proteggere la retrograda dinastia dei Saud, dall’altra gli europei stanno zitti davanti a ogni violazione dei diritti umani di Erdogan nei confronti dei turchi e dei curdi. E tanto meno, sia in Europa che negli Stati Uniti, nessuno osa più parlare di un negoziato tra israeliani e palestinesi, inghiottiti nel dimenticatoio della diplomazia grazie anche ai loro "amici" arabi. Forse solo il Califfato a Gaza potrebbe improvvisamente risollevare l’attenzione per la Palestina. Non che la repubblica islamica sia molto meglio dei sauditi in tema di diritti umani e condanne a morte - anche in Iran il boia lavora a tutto spiano e le carceri rigurgitano - ma almeno si oppone ai jihadisti del Califfato e non ha quell’aria truce e inaffidabile dei governi di Riad e di Ankara che si dicono amici dell’Occidente. Del resto chi fa la guerra all’Isis sono l’Iran, la Russia di Putin sotto sanzioni, gli Hezbollah, che ancora compaiono nella lista nera Usa, e i curdi, che per la Turchia sono tutti pessimi tranne quelli di Massud Barzani, eccellente fornitore di petrolio di Ankara e di Israele. Ma ora con la fine di una parte delle sanzioni sono tutti ventre a terra per fare affari con Teheran. Secondo l’"Economist" nei prossimi dieci anni il Pil iraniano potrebbe superare quello di sauditi e turchi. È probabile che con i dollari e gli euro migliorerà anche l’immagine dell’Iran e si attenuerà il doppio standard delle relazioni internazionali che rende ipocrita oltre che inefficace la politica estera occidentale. Con il portafoglio gonfio e la calcolatrice in mano, è ovvio, si diventa più di manica larga su diritti umani, pena di morte e libertà civili. Iran: scambio prigionieri con gli Usa, 14 mesi negoziati segreti di Ugo Caltagirone Ansa, 19 gennaio 2016 Quattordici mesi di negoziati segretissimi, condotti a Ginevra all’ombra del tavolo ufficiale sul nucleare iraniano. Così si è arrivati allo storico scambio di prigionieri tra Washington e Teheran. Ma l’operazione - rivelano i media Usa - ha rischiato di saltare all’ultimo minuto, quando l’aereo svizzero sulla pista dell’Imam Khomeini International Airport di Teheran aveva già acceso i motori, con gli ex prigionieri Usa pronti a decollare verso la libertà. All’appello mancavano due persone: la moglie e la madre di Jason Rezaian, il reporter del Washington Post rimasto nelle carceri iraniane per 18 mesi. Gli accordi non erano questi, e il quotidiano della capitale americana parla di momenti di altissima tensione, di linee telefoniche roventi. Di un gran nervosismo alla Casa Bianca, che aveva già annunciato con toni trionfalistici l’attuazione finale dell’accordo sul programma nucleare dell’Iran. Durissima la telefonata tra John Kerry e Javad Zarif, con il segretario di Stato americano che si è mostrato irremovibile col suo collega iraniano: gli impegni vanno rispettati. Per trovare le due donne si è attivato dalla Germania anche il fratello di Rezaian. Alla fine tutto risolto, con il volo partito con 12 ore di ritardo. Anche se resta il giallo su cosa sia realmente successo: un’incomprensione oppure l’ennesimo dispetto da parte delle autorità iraniane? Intanto, il New York Times ricostruisce i lunghi mesi in cui le due parti si sono incontrate clandestinamente per tentare di risolvere una questione, quella sui prigionieri, che l’amministrazione Obama ha sempre voluto tenere scollegata dalle trattative sul nucleare. Ma che di fatto è stata sbloccata proprio dalla storica intesa raggiunta nel luglio scorso. Era l’ottobre del 2014 quando la Casa Bianca autorizzò in gran segreto di avviare i negoziati per tentare di riportare a casa gli americani detenuti in Iran. Trattative affidate a uno specialista, Brett McGurk, uno dei più alti funzionari del Dipartimento di stato Usa che aveva appena finito di gestire la delicatissima uscita di scena a Baghdad dell’ingombrante primo ministro, Nouri al-Maliki. Al tavolo con McGurk ruvidi negoziatori iraniani appartenenti all’apparato della sicurezza, con scarsa propensione - sottolinea il Nyt - alla trattativa. Altri personaggi rispetto alla delegazione guidata dal ministro Zarif al tavolo sul nucleare. E che in più di un’occasione, l’ultima lo scorso autunno, hanno rischiato di mandare all’aria un accordo che sembrava già raggiunto. Obama ha incontrato anche difficoltà interne. Con il suo ministro della giustizia Loretta Lynch che ha più volte frenato sull’operazione, sostenendo come non si potevano mettere sullo stesso piano americani innocenti, di fatto sequestrati, e cittadini iraniani condannati secondo le leggi penali americane. Alla fine Obama ha deciso per lo scambio. Mantenendo quella promessa alle famiglie dei prigionieri che mai al mondo avrebbe lasciato cadere. Anche a costo di critiche. Come quelle dei repubblicani: "Ha creato un pericolosissimo precedente", tuona il candidato alla Casa Bianca, Ted Cruz. Parole che non sembrano poter intaccare un pezzo importante di eredità lasciata dal presidente. Arabia Saudita: arrestata Samar Badawi, sorella del bogger detenuto per apostasia di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 19 gennaio 2016 Ancora un duro colpo per la libertà di espressione nel regno saudita. A poche ore dalla pubblica fustigazione dell’attivista Raif Badawi, il governo di Riyad ha deciso di incarcerare anche la sorella per aver curato l’account Twitter dell’ex marito, noto avvocato per i diritti umani. Una morsa letale che tenta di soffocare i diritti umani del regno saudita. Questa volta a esser presa di mira è stata Samar Badawi, sorella del blogger Raif condannato da Riyad a mille frustate e dieci anni di prigione per aver fondato "Free Saudi Liberals", un forum ideato per discutere del ruolo della religione in Arabia Saudita. A denunciare l’arresto della sorella dell’attivista è stata Amnesty International, che pochi giorni fa aveva già lanciato un appello per la liberazione di Raif. L’arresto. Secondo quanto riportato dalla ong, Samar Badawi è stata arrestata a Gedda assieme alla figlia di due anni, dopo quattro ore di interrogatorio. Subito è stata trasferita nel carcere di Dhabhan. Ensaf Haidar, moglie di Raif Badawi dal suo account Twitter, fa sapere che nella stessa prigione sono reclusi anche Raif e l’ex marito di Samar, Waleed Abu al-Khair noto avvocato per i diritti umani. L’attivista saudita è accusata di aver curato l’account Twitter dedicato alla campagna per la scarcerazione dell’avvocato condannato a scontare 15 anni di reclusione per aver danneggiato la reputazione del regno saudita. Una famiglia per la libertà. L’arresto di Samar segue di pochi giorni il primo anniversario della fustigazione pubblica subita dal fratello Raif. La moglie di quest’ultimo è stata costretta a trasferirsi in Canada assieme ai due figli per sfuggire dalla morsa del governo saudita contro la famiglia Badawi. Un simbolo della lotta per la libertà d’espressione e per i diritti umani che Riyad sta cercando di mettere a tacere una volta per tutte. "Questo arresto - ha detto Philip Luther, responsabile per il Medio Oriente di Amnesty International - rappresenta un nuovo allarmante arretramento nel rispetto dei diritti umani in Arabia Saudita e dimostra l’estrema determinazione delle autorità a condurre la loro campagna spietata di vessazioni e intimidazioni nei confronti dei difensori dei diritti umani per costringerli al silenzio". La lotta di Samar. Da tempo Badawi lotta per migliorare la condizione delle donne nello stato saudita. Samar infatti è stata tra le prime a sfidare la cultura patriarcale che vieta alle donne di guidare, votare o presentarsi come candidate alle elezioni. Atti che hanno attirato l’attenzione di Riyad. Nel dicembre 2014 il governo ha vietato alla giovane araba di lasciare il paese dopo la sua partecipazione al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite di Ginevra. Ma oltre agli attacchi dello stato, Samar ha dovuto difendersi anche dalla propria famiglia. Nel 2009 il padre l’ha denunciata per "disobbedienza" dopo esser fuggita di casa per porre fine agli abusi subiti per anni. Samar ha passato sette mesi nel carcere di Briman a Gedda per poi essere liberata grazie alle pressioni della comunità internazionale. "Lei - afferma Michael Dora, rappresentate del Center for Inquiry alle Nazioni Unite - è un fulgido esempio del significativo impatto che una persona può avere l’incredibile disuguaglianza e l’impensabile oppressione. La sua detenzione ora mostra quanto inumana sia l’Arabia Saudita nell’intimidire e punire i critici".