Amputazione delle dita e dei diritti di Antonella Tuoni (direttrice dell’Opg di Montelupo Fiorentino) Ristretti Orizzonti, 18 gennaio 2016 1990: un uomo uccide. È psicotico. Viene dichiarato totalmente infermo di mente e condannato a scontare dieci anni in un ospedale psichiatrico giudiziario. 2015: gli ospedali psichiatrico giudiziari devono chiudere il 31 marzo. 2016: l’omicida psicotico è ancora ristretto in un ospedale psichiatrico giudiziario. Altri, più fortunati, forse, sono stati trasferiti nelle cosiddette residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Altri hanno reclamato poiché sono ancora internati in un ospedale psichiatrico giudiziario e, alcuni di loro, grazie a tale reclamo, vengono trasferiti nei pochi posti resi disponibili in fretta e furia dalla regione che non ha fatto quello che la legge le imponeva; lui, lo psicotico omicida, no, non firma il reclamo, sta chiuso in cella, non esce quasi mai e, quando lo fa, sta prevalentemente da solo. Alle tre del mattino chiama l’agente di servizio. Si è bruciato le dita del piede. Le dita sono carbonizzate e gli vengono amputate. Contemporaneamente, è in corso la riforma del Ministero della Giustizia, come si legge anche sul sito. Gli Stati generali si sono riuniti (non si sa con quale esito) e alla vigilia di Natale 2015 viene licenziato lo schema di decreto ministeriale che ridisegna il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria; già nel giugno dello stesso anno, per effetto di un decreto del Presidente del Consiglio, tale dipartimento ha subito pesanti tagli. Viene stabilizzata la figura del direttore di istituto penitenziario "viaggiatore", responsabile di due, tre istituti, a volte anche molto distanti tra loro. Inizia un concitato scambio di mail fra i dirigenti penitenziari: sono consapevoli della delicatezza del loro ruolo istituzionale di servitori dello Stato, ma sono stanchi di dovere esercitare tale ruolo senza un contratto, che aspettano inutilmente da dieci anni; contratto che non significa solo "retribuzione proporzionata alla quantità e qualità" del loro lavoro, come recita l’articolo 36 della Costituzione, ma anche chiarezza delle regole e meritocrazia; come possono loro serenamente assicurare il rispetto dei diritti nelle strutture di cui sono responsabili se sono loro stessi privati di tali diritti? Sono da rottamare, ormai tutto ciò che abbia più di quarant’anni lo è e loro li hanno, considerato che l’ultimo concorso risale al 1997; inondano di mail di dissenso l’indirizzo di posta elettronica del Ministro: quel decreto, secondo loro, peggiorerà le già precarie condizioni in cui versa il sistema dell’esecuzione penale, condizioni che i direttori condividono, oltre che con le persone colpite da un provvedimento restrittivo della libertà personale, con tutti i colleghi poliziotti ed amministrativi. Anche io, dirigente penitenziario e prima ancora cittadino, come l’uomo che si è bruciato le dita in un ospedale psichiatrico giudiziario che dovrebbe essere chiuso, oggi, sono amputata. I suoi diritti sono i miei diritti e chi non li rispetta è responsabile della sua e della mia amputazione. Ma questa storia, che è una storia vera, interessa a qualcuno che non ne sia il protagonista? Carceri con direttori "dimezzati" di Ornella Favero, Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Ristretti Orizzonti, 18 gennaio 2016 Ho appena ricevuto questo testo da Antonella Tuoni, direttrice dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino, uno di quelli che dovrebbero essere chiusi e non lo sono. La lettera di Antonella Tuoni mi colpisce per due aspetti. Il primo è il destino di questo paziente, che non ha gli strumenti per "difendersi" da Istituzioni, che dovrebbero proteggere e tutelare i cittadini, anche i più disastrati, anche quelli che alla società hanno arrecato un danno, e troppo spesso non lo fanno o lo fanno male. E varrebbe la pena ricordare che gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari dovevano chiudere proprio perché ritenuti inadeguati a curare le persone in modo, da rispettare la loro umanità. Ma Antonella Tuoni solleva anche un altro problema, che riguarda lei e tanti direttori di carceri, e dovrebbe riguardare tutti noi che con le carceri abbiamo a che fare, volontari, operatori sociali, e quella società che dal carcere dovrebbe aspettarsi che non escano persone peggiori, ma se possibile persone responsabili, consapevoli del male fatto. Cosa sta succedendo allora in questi mesi nelle carceri? Succede quello di cui parla Antonella, che "viene stabilizzata la figura del direttore di istituto penitenziario "viaggiatore", responsabile di due, tre istituti, a volte anche molto distanti tra loro", succede che le carceri rischiano di essere gestite nel peggiore dei modi, cioè con direttori che, avendo più sedi e nessun riconoscimento, non appaiono in grado di seguire situazioni delicate e complesse, come sono di fatto gli Istituti di pena, né di garantire il rispetto della dignità delle persone che ci vivono o ci lavorano dentro. E tutto questo avviene senza che nessuno, o quasi, ne parli seriamente, ponga il problema, metta in guardia da una situazione pesantemente a rischio. A me sembra francamente un po’ paradossale che da una parte gli Stati Generali, straordinaria iniziativa indetta dal Ministro per coinvolgere esperti e addetti ai lavori, ma anche la società tutta in un profondo rinnovamento dell’esecuzione delle pene, abbiano prodotto, tra l’altro, idee e proposte per un cambiamento significativo nella gestione delle carceri; dall’altra chi quelle carceri dovrebbe gestirle, i direttori, non hanno più né le risorse né condizioni decenti per farlo, dovendo spesso saltare da un carcere all’altro, o gestire grossi istituti praticamente senza collaboratori che gli permettano di fare il proprio, difficile lavoro in modo efficace. E questo non è ritenuto importante, semplicemente perché la società non ha ancora capito che se vuole vivere più sicura deve investire su carceri più umane, non su galere che diventano, se mal governate, autentiche "università del crimine". Anche noi, che nelle carceri di tutta Italia ci entriamo ogni giorno, invitiamo tutti quelli che come noi operano, lavorano, fanno volontariato in carcere a chiedere che lo schema di decreto ministeriale che ridisegna il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria sia modificato, e che vengano riaffermate le Raccomandazioni R (2006)2 del Comitato dei ministri agli Stati membri del Consiglio d’Europa sulle Regole penitenziarie europee (…) che stabiliscono: "Regola 1 Ogni Istituto deve avere un direttore. Regola 2 Il direttore deve essere incaricato a tempo pieno e deve dedicare tutto il suo tempo ai propri compiti istituzionali". Se un direttore non c’è, non puoi dialogare, non puoi neppure scontrarti, e rischi di essere prigioniero di quella rete di divieti, di quella montagna di proibizioni che opprimono tante carceri se nessuno ha la forza di prendere le decisioni coraggiose che servono. Aspettando la firma di Mattarella per il Garante dei diritti dei detenuti di Franco Corleone L’Espresso, 18 gennaio 2016 Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha diffuso i dati sulle presenze in carcere alla fine del 2015 e viene confermato un quadro già ben conosciuto: le prigioni sono una discarica sociale. Grazie alla condanna della Corte Europea dei diritti umani (Cedu) per trattamenti crudeli e degradanti, ai moniti del Presidente Napolitano e ai provvedimenti parlamentari e governativi e soprattutto alla sentenza della Corte Costituzionale del febbraio 2014 sull’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi sulle droghe, il sovraffollamento come emergenza intollerabile in cui i corpi venivano schiacciati e torturati, si è ridimensionato, ma non risolto. Infatti le presenze dei detenuti dono passate da 68.000 a 52.164 persone con una capienza regolamentare di 49.592 posti (non tutti fruibili) per cui in realtà mancano ancora almeno seimila posti. Purtroppo al successo quantitativo non ha corrisposto un miglioramento delle condizioni di vita quotidiane. Il caso delle detenute del carcere di Sollicciano a Firenze, morsicate dai topi, non è purtroppo un caso isolato: la mancanza di servizi igienici decenti, la carenza di acqua calda, il vitto scadente, l’acqua non potabile sono all’ordine del giorno. Evidentemente in queste condizioni il principio costituzionale del reinserimento sociale diventa un miraggio. Il senso della pena diventa un oggetto misterioso e i detenuti si sentono essi vittime, della violenza dello Stato. Si perdono le caratteristiche del diritto, dello stato di diritto, e in ultima analisi della democrazia. Ecco la ragione per cui la frase che l’Italia è il paese di Cesare Beccaria si trasforma in una grottesca parodia. Pare sia imminente la nomina del Garante nazionale dei diritti dei detenuti, nella persona di Mauro Palma che è stato presidente del Comitato europeo contro la tortura. Si aspetta la firma del decreto del Presidente Mattarella e ogni minuto, ora, giorno di ritardo è incomprensibile. Quale è la composizione sociale della popolazione detenuta? Si tratta di giovani, infatti 10.448 sono sotto i trenta anni, 18.253 sono celibi e 17.340 (33%) sono stranieri; la stragrande maggioranza ha una bassa scolarità, solo l’1% ha una laurea e il 6% un titolo di scuola media superiore. I colletti bianchi sono dunque una esigua minoranza. È interessante il dato sui figli dei detenuti. 22.361 hanno figli e il totale dei figli dei detenuti sono 43.824 che costituiscono un problema sociale che prefigura un futuro a rischio. Il primato della presenza di detenuti appartiene alla Campania (9.635), seguita dalla Sicilia (6.734) e dalla Calabria (3.437); dunque la questione criminale si declina come questione meridionale. Il dato delle detenute donne dimostra che la detenzione è prettamente maschile, infatti le donne sono solo 2.107, il 4%. Il libro di Grazia Zuffa e Susanna Ronconi "Recluse", stimola una riflessione sulla condizione femminile imprigionata per cui si può dire che il carcere non è per le donne e che si dovrebbero immaginare luoghi diversi dal carcere maschile. È in diminuzione il numero dei detenuti in attesa di giudizio, sono 8.523 le persone costituzionalmente non colpevoli. I detenuti definiti sono 33.896 pari al 65%. Gli internati, cioè gli ospiti di quell’orrore civile che sono gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari che dovrebbero essere chiusi dal 31 marzo 2014 sono 440. Sono ristretti illegalmente e la cosa non suscita scandalo! C’è un dato che deve far riflettere. Il 34% delle presenze in carcere è per violazione della legge sulle droga e quasi totalmente per violazione dell’art. 73 del Dpr 309/90, la legge Iervolino-Vassalli voluta fortemente da Bettino Craxi che prevede alte pene per la detenzione di sostanze stupefacenti. Sono consumatori o piccoli spacciatori. Questo dato imporrebbe una riforma profonda della legge, con una depenalizzazione del consumo e una regolamentazione della canapa. Su questi temi va segnalato il 6° Libro Bianco sulla legge sulle droghe curato dalla associazione La società della ragione. A questi soggetti vanno aggiunti circa 13.000 tossicodipendenti che tutti, anche i più feroci proibizionisti, sostengono che non dovrebbero stare in carcere. Sono condannati all’ergastolo 1.633 soggetti e molti di loro subiscono il cosiddetto ergastolo ostativo, la cui incostituzionalità è fortemente sostenuta da costituzionalisti come Andrea Pugiotto, dall’ex ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick e addirittura dal Capo del Dap, Santi Consolo. Il 36% della popolazione detenuta ha una pena residua inferiore a tre anni e potrebbe godere di misure alternative che assicurerebbero una più bassa recidiva. Il carcere potrebbe vedere una presenza quasi dimezzata e concentrata solo sugli autori di gravi delitti, quelli contro la persona e gli appartenenti alle organizzazioni criminali. Un nuovo Codice Penale costituisce l’assoluta priorità. Dovrebbe finalmente sostituire il codice fascista di Alfredo Rocco e dovrebbe riscrivere i nuovi reati, finanziari, informatici, ambientali. Un ultimo dato eloquente. In Italia il numero degli omicidi è sceso sotto i 475 del 2014 e rappresenta il tasso più basso d’Europa. Se prevalesse la ragione e non la percezione, gli imprenditori della paura sarebbero zittiti e la riforma della giustizia fondata su un diritto minimo e mite potrebbe prendere corpo. E il garantismo tornerebbe ad essere sinonimo di civiltà. Sinistra Italiana chiede una Commissione parlamentare di inchiesta sugli abusi in cella La Presse, 18 gennaio 2016 Si svolgerà martedì 19 gennaio alle ore 13.00 presso la sala stampa di Montecitorio la conferenza stampa di Sinistra Italiana per presentare la proposta di istituzione di una commissione d’inchiesta in tema di maltrattamenti e abusi nei confronti di persone in condizione di privazione o limitazione della libertà personale. Partecipano la deputata di Sinistra italiana Celeste Costantino, Nicola Fratoianni, coordinatore nazionale Sel, Ilaria Cucchi e l’avvocato Fabio Anselmo, legale delle famiglie Cucchi, Uva e Aldovrandi. Lo rende noto in un comunicato Sinistra italiana. Sono 150 le toghe fuori ruolo e aumentano: guerra al Csm di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 18 gennaio 2016 Già da oggi si prospettano battaglie dentro a Palazzo dei Marescialli perché la Terza commissione del Csm deve decidere su alcuni fuori ruolo ad alta attenzione politica. Il giro di vite, ostentato da una parte del Csm, va a sbattere contro quei via libera che contraddicono lo spirito delle regole più stringenti e che vengono giustificati con l’interesse istituzionale, come per la giudice di Milano Carla Raineri, diventata il capo della segreteria tecnica, per 6 mesi, del commissario di Roma Francesco Tronca. Quell’autorizzazione è stata rivendicata dal vicepresidente Giovanni Legnini: "Abbiamo fatto bene". Nei prossimi giorni è atteso il voto sul "fuori ruolo" di Massimo Russo, ex magistrato antimafia di Palermo, ex assessore alla Sanità della regione Sicilia di Raffaele Lombardo, poi finito nei guai per mafia. Attualmente è giudice di sorveglianza del tribunale di Napoli. Ambienti politici lo danno vicino al ministro Angelino Alfano. Il magistrato è stato proposto dal prefetto di Roma Franco Gabrielli, d’accordo con la ministra Beatrice Lorenzine il presidente dell’Anac Raffaele Cantone, come commissario dell’Ospedale Israelitico, quello che ha inguaiato Antonio Mastrapasqua, "limitatamente alla completa esecuzione dell’accordo" per la convenzione con il sistema sanitario nazionale. In Terza commissione gli unici che si sono espressi a favore dell’incarico sono il presidente Luca Forteleoni (Unicost) e il laico del Pd, Giuseppe Fanfani. Anche loro, però, come il resto della commissione, hanno accettato l’idea del relatore Aldo Morgigni (Autonomia e Indipendenza) di proporre a Russo di chiedere l’aspettativa. Quindi niente doppio stipendio: da magistrato e da commissario (l’ospedale, pare, gli ha offerto 160 mila euro lordi per un anno). Ma Russo sarebbe orientato a mantenere la sua richiesta: la Commissione, a maggioranza, è orientata a negargli il "fuori ruolo", ma il Plenum la decisione potrebbe essere ribaltata. È già accaduto il 22 dicembre per Raineri. Maggioranza della commissione per il no e maggioranza del plenum (15 a 7) per il sì: Unicost ha cambiato idea e si è accodata a Legnini, a Magistratura indipendente e ai laici con l’eccezione di Alessio Zaccari a, indicato da M5s. Divisioni dentro Area: 5 no, un sì e un astenuto. "Questo fuori ruolo è stato concesso in contrasto con le previsioni in materia - dice al Fatto il consigliere Zaccaria - in quanto non vi era nessuna esigenza che l’incarico venisse affidato a un magistrato ordinario. Oltretutto, la posizione non è prevista da una norma di legge, perché la segreteria tecnica è un organismo istituito dal commissario Tronca". Ma lei cosa ne pensa del fuori ruolo? "Si tratta di un istituto che riveste caratteri di eccezionalità e l’eccezionalità non può essere rappresentata dalla necessità di soccorrere la politica ogni volta che si trova in difficoltà di immagine. Deve invece corrispondere all’interesse dell’amministrazione della giustizia ed essere contenuto in un periodo di tempo limitato. In Italia abbiamo una scopertura di organico intorno all’11% e circa 150 magistrati fuori ruolo. Se scendessero a 50, col rientro di 100 magistrati, potremmo risolvere tanti vuoti di organico in uffici in grave sofferenza". In stallo c’è un caso clamoroso, quello di Giovanni Buttarelli, fuori ruolo da ben 29 anni, e magistrato per soli 17 mesi quando, ha detto in plenum il togato di Area Piergiorgio Morosini "c’era ancora il muro di Berlino". Il 7 ottobre la Terza commissione ha deliberato all’unanimità il suo rientro in magistratura, ma Legnini non l’ha messo all’ordine del giorno del Plenum perché, ha scritto, deve consultare il Quirinale, date le implicazioni internazionali del caso. Buttarelli è garante europeo per la privacy. Mercoledì la sollecitazione a Legnini da parte di Morosini che ha invocato "coerenza per non ridurre a proclami vuoti e di mera facciata le importanti decisioni che abbiamo assunto" sulla stretta per i fuori ruolo. Il consiglio precedente, nel 2013, aveva approvato il rientro di Buttarelli, ma il magistrato ha vinto il ricorso al Tar (si attende il Consiglio di Stato). In fase istruttoria c’è anche la posizione di Rosario Aitala, consigliere del presidente del Senato Grasso per gli affari internazionali, ex pm di Trapani. Ad aprile 2013 il suo incarico fu autorizzato, fino al 5 maggio 2015, nonostante a giugno sarebbero scaduti i 10 anni consentiti a una toga per restare fuori ruolo. Aumenta il cyberbullismo, ma non c’è ancora la legge di Virginia Della Sala Il Fatto Quotidiano, 18 gennaio 2016 In Italia, secondo l’Istat, il 5,9 % delle denunce per molestie e abusi riguarda episodi vissuti sul web e social network: 2 ragazzi su 3 credono sia un fenomeno destinato ad allargarsi. Chiuso a forza in un bidone, poi costretto a indossare un sacco dell’immondizia, denigrato e insultato al lavoro e in strada: atti di bullismo in un paese di circa 2 mila abitanti, in provincia di Vercelli, su un 26enne che lo scorso settembre si è impiccato al secondo piano di casa sua dopo un lungo periodo di depressione. Al di là delle denunce e del fascicolo aperto dalla Procura, il problema è che di quei momenti sono state scattate foto e girati video, il materiale postato su Facebook. Il 4 gennaio, in America, un 16enne si è tolto la vita dopo aver subito atti di bullismo sui social network: abusi, insulti, minacce online. "Oggi i bulli non ti spingono in un armadietto, non ti aspettano dietro un angolo fuori dalla scuola - ha scritto qualche giorno fa il fratello proprio su Facebook - ma si nascondono dietro profili anonimi e usano i social network per insultare e abusare delle persone più buone e innocenti". Ancora prima, nel 2012, era diventato virale il video (oltre 11 milioni di visualizzazioni) in cui la 15enne Amanda Todd, prima di uccidersi, aveva raccontato con biglietti tutta la sua storia. Vittima di cyberbullismo, ricatti e ritorsioni, era stata costretta a cambiare città tre volte. Tutto era iniziato con la diffusione di una sua foto a seno nudo: a nulla erano serviti psicofarmaci e terapie. Nel 2013, una 14enne in provincia di Novara si è uccisa buttandosi dal balcone di casa: sul web circolava un video che la ritraeva ubriaca a una festa. Ormai diventato virale, aveva iniziato a raccogliere offese, insulti e minacce anche da parte di persone che non la conoscevano. Prima di morire, Carolina aveva lasciato poco righe: "Le parole fanno più male delle botte. Ma a voi non fanno male? Siete così insensibili?" I numeri italiani dell’epidemia silenziosa Gli americani definiscono il bullismo come "un’epidemia silenziosa", che Internet ha reso ancora più nascosta. Secondo l’ultimo rapporto dell’Istat sul bullismo (Il bullismo in Italia: comportamenti offensivi e violenti tra i giovanissimi), pubblicato a dicembre, tra i ragazzi che usano cellulare e Internet, il 5,9 per cento ha denunciato di avere subìto ripetutamente azioni vessatorie tramite sms, mail, chat o social network. Vittime, più di tutti, sono le ragazze: il 7,1% contro il 4,6 dei ragazzi. Si parla di statistiche che riguardano soprattutto adolescenti di età tra i 14 e i 17 anni. Più di nove adolescenti su dieci usano un telefono cellulare, la metà usa un personal computer, sette su dieci usano Internet. E le più coinvolte sono le ragazze. Quelle che hanno tra gli 11 e i 17 anni si registra, infatti, sono le più coinvolte: il 7,1% di loro è stata vittima di vessazioni continue. Due ragazzi su tre, poi, ritengono che il cyberbullismo sia un fenomeno in crescita. Dati che non tengono conto di chi non denuncia. In Italia non esiste un reato di cyberbullismo, così come non ne esiste uno per il bullismo in generale. "Un comportamento bullo - si legge sul sito dei Carabinieri - è un tipo di azione che mira deliberatamente a far del male o a danneggiare. Spesso è persistente, talvolta dura per settimane, mesi, persino anni ed è difficile difendersi per coloro che ne sono vittime. Alla base della maggior parte dei comportamenti sopraffattori c’è un abuso di potere e un desiderio di intimidire e dominare". I reati, di solito, sono quelli che derivano da questo comportamento: stalking, diffamazione online, ingiurie, molestie, furto di identità digitale sui social network. E secondo i dati della Polizia Postale, in Italia nel 2015, ci sono state 6 denunce per stalking, 36 per diffamazione online, 18 per ingiurie, 16 per molestie e 59 per furto di identità digitale. La normativa è ferma alla Camera In Senato, a maggio del 2015, è stato approvato con voto unanime un disegno di legge che è attualmente in esame alla Camera, assegnato alle commissioni riunite di Giustizia e Affari Sociali. Mira a mettere dei paletti in una materia ancora troppo nebulosa ma senza assumere posizioni sanzionatorie: definisce il fenomeno di cyberbullismo, regola la rimozione dei contenuti offensivi dalla rete, stabilisce quando debba intervenire il garante della privacy e, soprattutto, introduce una misura di ammonimento nel caso di reati commessi da minorenni ma con età superiore ai 14 anni (il questore convoca il ragazzo insieme ai genitori e lo ammonisce sulla sua condotta). Si potenzia poi l’educazione e la sensibilizzazione nelle scuole - in parte già recepita - e si costituisce un tavolo interministeriale permanente per il contrasto al fenomeno. "Si tratta di una misura che ha per lo più carattere educativo - spiega al Fatto la senatrice Elena Ferrara (Pd) prima firmataria del disegno di legge. È una norma mite per quei minori a cui non è stata data l’opportunità di crescere come cittadini digitali, Non vogliamo che ci siano denunce: il compito è anche cercare di prevenire ed educare in una fascia d’età che è critica. Soprattutto attraverso le scuole e i docenti". Purtroppo, però, dopo ormai quasi un anno e l’approvazione unanime, ancora non c’è il via libera. "Ci sono altre proposte alla Camera ed è un segnale positivo: stiamo lavorando per convogliare tutto in un unico testo". I social network: ecco come tutelarsi "Per Facebook, il cyberbullismo è un tema prioritario. L’obiettivo è trovare un giusto equilibrio tra la necessità di garantire la possibilità di esprimersi liberamente e tutelare tutti gli utenti, in particolare i giovani". A dirlo è, a dicembre, Laura Bononcini, Head of Public Policy di Facebook Italia, in audizione davanti alle commissioni. Per combattere il fenomeno l’azienda di Zuckerberg ha una procedura per la rimozione dei contenuti: l’utente può segnalare a Facebook qualsiasi tipo di contenuto, dai video alle foto, dai post ai commenti. Si può spiegare quale sia il motivo della segnalazione con maggiori o minori particolari. La segnalazione, infatti, è presa in carico, da una persona reale e non da un algoritmo ed è chi la analizza a decidere se procedere o meno con la rimozione sulla base della policy aziendale. "Alla segnalazione è attribuito un diverso livello di priorità a seconda dell’oggetto indicato - spiega la Bononcini. La nostra policy è particolarmente aggressiva su tutela dei minori e cyberbullismo. E queste segnalazioni sono quindi prese in carico prima di altre". L’utente segnalante riceve poi risposta sulla presa in carico della segnalazione e sulla rimozione o meno del contenuto. Anche Twitter, poche settimane fa, ha deciso di inasprire la propria policy sul cyberbullismo, in particolare per i tweet che ricadono sotto la definizione di "cattiva condotta". In pratica sono state aggiunte ulteriori specifiche sul genere di azioni che possono portare alla sospensione di un account, con più attenzione alle "condotte d’odio" su sui si concentra la nuova policy. "L’aggiornamento enfatizza il fatto che Twitter non tollererà comportamenti che intendono minacciare, intimidire o usare la paura per zittire altri utenti", ha detto Megan Cristina di Twitter. La sfida sarà estendere il controllo nelle messaggistica istantanea come Whatsapp e Snapchat. Franco Corbelli "Ne ho salvati mille (con qualche errore). I più ingrati? I politici" di Giancarlo Perna Libero, 18 gennaio 2016 "Vivo per gli altri, ma una volta ho fatto scarcerare un bandito finto disabile. E che errore schierarmi dalla parte di De Magistris". Il tempo di scendere dal treno e salutare Franco Corbelli venuto a prendermi alla stazione di Paola (Cosenza) che il Gandhi italiano mi travolge con la sua irresistibile comunicativa. Corbelli, che nei suoi 59 anni di vita ha risolto bizzeffe di casi umanitari, è un uomo spiritato, pallido e inagrissimo. Ha però un’energia furiosa che utilizza per impacchettarmi nella sua Alfetta e impormi seduta stante la visita al Santuario di San Francesco di Paola sul colle cittadino. "Prima dell’intervista, devi vedere questa perla calabrese e diventarne il testimonial nazionale - dice parlando come guida, ossia a scatti, su per i tornanti. Mi sono speso con le autorità per rilanciare il turismo religioso di questo bellissimo convento. Ma ancora senza successo". Fa un’ultima svolta e frena brusco sul piazzale davanti all’ampio cancello d’ingresso. "Guarda", dice, tirandomi giù dall’auto e indicando l’imponente santuario a mezza costa, tra il monte e il mare. "Superbo", confermo. "Ah, bella e mal sfruttata Calabria!", esclama Corbelli mentre a passo di corsa mi mostra dove il santo ha risuscitato un agnellino, risanato infermi, ecc. "Io - racconta per affinità - sono riuscito a fare istituire alla Regione l’ufficio del Garante per la salute, operativo 24 ore su 24. Entra in vigore nei prossimi giorni". "Riesci nell’impossibile, come San Francesco - osservo. Affronti burocrazie ottuse, sofferenze e casi umani. Come nascono i tuoi blitz?". "Ricevo una segnalazione e mi metto in moto. Telefono alle Asl, ai sindaci, ai potenti per sbrogliare la matassa. O do un consiglio. L’importante è ascoltare. Con le autorità spesso latitanti, già questo è un conforto per chi ha bisogno. A volte, mi ispiro a un trafiletto di cronaca. Lessi di una giovane romena imprigionata a Castrovillari per avere arso vivi i suoi tre bambini. Telefonai al carcere per capire meglio. Nulla di vero: la ragazza era vittima di una sentenza balorda del suo Paese. Uscita per procurare cibo ai Aglietti, la stufa dell’appartamento prese fuoco, appiccando l’incendio in cui morirono. Oltre al dolore, la galera. Incontrai i tre magistrati che si occupavano del caso per supplicarli di impedire l’estradizione e ridare una speranza alla poverina. I giudici, tre donne, che Dio le abbia in grazia, la liberarono e ora quella mamma ha un avvenire". "Quanti casi hai risolto?", chiedo. "Un migliaio. Ho fatto scarcerare 70 detenuti malati, tra italiani e stranieri. Mi sono battuto con Marco Pannella e Vittorio Sgarbi, per la giustizia giusta e contro l’accanimento carcerario". "Come ti è nata la vocazione di vivere per gli altri?", mi incuriosisco. "Da ragazzo ho vissuto un’ingiustizia di cui fu vittima mio papà. Lui, che è carpentiere, stava costruendo per noi una casetta, ma il Comune di Torano, dove vivevamo e sono nato, lo vessò per impedirglielo. Vidi mio padre esasperato e giurai di far sparire queste brutture. La mia idea del giusto e dell’ingiusto risale ad allora. Anche per quel torto, mio padre dovette emigrare per mantenerci, lasciando noi in Calabria. Andò prima a Como poi in Germania. Chi conosce lo struggimento della lontananza e del vedersi solo per Natale, si immedesima in chi è costretto a lasciare tutto. Ecco perché, oggi, aiuto strenuamente anche gli emigranti". Mentre riscendiamo in auto in cerca di un posto per l’intervista, gli chiedo se a spingerlo c’è un elemento religioso. "La mia fede incide - conferma. Sono credente e molto devoto al nostro Patrono (l’onnipresente Francesco di Paola, fondatore dei Minimi, ndr). Nei casi più duri, ho dovuto smuovere montagne. Senza la fede, mi sarei arrestato". E, nel dirlo, stoppa di botto davanti a un alberghetto chiuso. Sullo spiazzo, con vista mare, ci sono alcuni tavoli e sedie abbandonate. Ci sediamo, sotto un solicello caldo che pare uscito apposta per allettarci. Ti sei mai battuto per la persona sbagliata? "Feci scarcerare un ragazzo in sedia a rotelle. L’anno dopo morì in un conflitto a fuoco. Aveva ingannato tutti: non era mai stato paralitico". Sei stato ripagato con l’ingratitudine? "Molti dimenticano presto. Soprattutto, i politici che ho fatto scarcerare. Una delle mie prime battaglie per la giustizia giusta fu in favore di Francesco De Lorenzo, l’ex ministro della Sanità. Non l’ho più sentito. Ne ebbi però una notorietà mediatica che mi servì nelle altre battaglie". Sei magro e spiritato per natura o per la vita scelta? "Spilluzzico cibo e sonno. Ma la magrezza non ti inganni". Come potrei? Sei una trottola. "Una bomba energetica. Come sai, sono laureato in Economia e insegno nelle scuole industriali economia aziendale. AI di là del programma di studi, coinvolgo i ragazzi nelle mie imprese. Facciamo squadra". Sei solo un apostolo o hai una vita privata? "L’ho sacrificata senza accorgermene. La mia famiglia è quella del mio unico fratello che mi ha sempre sostenuto. I suoi due figli sono il mio avvenire". Ora sei assorbito dal progetto di un cimitero dei migranti morti in mare. "Un’opera umanitaria universale che corona il mio itinerario. Ho scelto un’area vicina al campo di concentramento fascista di Ferra monti dove i deportati furono però aiutati dalla nostra gente. Un luogo simbolo della solidarietà". Quanti ne potrà contenere? "Migliaia. Il cimitero è per tutti, ma soprattutto per i bambini. Lo intitolerò "Aylen Kurdi", il nome del piccolo morto nel mare turco nell’estate 2015. Chiederò che tutti i bimbi, ovunque annegati nel Mediterraneo, siano sepolti qui". Pensi che l’immigrazione vada frenata? "Non si possono accogliere tutti. L’esodo va governato. Accanto alla solidarietà ci vuole legalità. Io ho forse un eccesso di comprensione. Mi spinge però il ricordo dell’emigrazione di mio padre". Pannella fu tuo compagno di battaglie. Che ne pensi oggi? "Lo vedo incapace di imporsi. Si accontenta della melliflua telefonata del Capo di Stato di turno per rinunciare alla sua battaglia. Bello se tornasse il combattente di una volta, nonostante l’età". Sgarbi, altro tuo compagno di ideali? "Avergli inizialmente fatto la guerra è stato il più grande errore della mia vita". Che successe? "Pubblicai un pamphlet contro di lui e Giuliano Ferrara, spesso in coppia, incolpandoli di attizzare la tv spazzatura, urlata e odiosa". Invece? "Sgarbi è non solo persona di grande cultura ma un autentico paladino della libertà e dei diritti civili. Tra noi, è successivamente nata un’amicizia che durerà tutta la vita". Anni fa, tu garantista, hai inneggiato a Luigi De Magistris, l’allora pm di Catanzaro, celebre per le accuse a vuoto. "Anche qui, riconosco di avere sbagliato. Ero convinto di difendere, con De Magistris, la vera giustizia. Trascuravo però i principi garantisti. Oggi, sarei mille volte più cauto". Schierandoti con Gigi Ò flop, ti sei intruppato con Beppe Grillo e Sonia Alfano, due manettari al cubo. "Eh! Fu proprio questa compagnia, che è agli antipodi della mia cultura garantista, a farmi riflettere. Provai grande imbarazzo". Taci invece su Nicola Cosentino di Fi, in galera da due anni senza uno straccio di condanna per presunta camorra. (A disagio) "Non... me l’hanno chiesto. Lo avrei fatto... sono pronto a farlo". Gli è perfino impedito di vedere la moglie. "Un caso che non dà davvero l’idea della giustizia giusta. Farò certamente qualcosa". Tra i malagiustiziati ci metti anche il Berlusca? "Mi chiedo come sia possibile toglierlo dal Parlamento per evasione fiscale lui che è il maggiore contribuente di questo Paese". Matteo Renzi? "Ne ho una considerazione molto negativa. Temo un ritorno al peggiore passato. Giudico le sue riforme pericolose per la democrazia. Non voglio una concentrazione del potere nelle mani del Governo e di una sola Camera". Cosa sei politicamente? "La mia unica tessera è stata quella del Psi. Mi considero però un libertario senza appartenenze". Sei stato consigliere provinciale. "E ho sempre devoluto l’indennità per campagne umanitarie, dall’Africa all’Ucraina". Come vivi? "Con i 1.700 euro di docente". Aspiri al Parlamento? "Mi piacerebbe esserci per dare forza alle mie battaglie. Fare interrogazioni e occupare l’Aula se ci sono stringenti casi umani. Non vorrei mai però l’indennità parlamentare. Me ne vergognerei". Perché? "In Parlamento si sta per una causa, non per soldi". Come i nostri antenati, eletti per censo e gratis. "Appunto". Un’unione tra generazioni? "Un’unità di ideali". Competenza a concedere durante le indagini preliminari il colloquio all’indagato Il Sole 24 Ore, 18 gennaio 2016 Ordinamento penitenziario - Provvedimenti riguardanti permessi di colloquio ai detenuti - Fase delle indagini preliminari - Competenza - Giudice per le indagini preliminari - Sussistenza. La competenza a concedere, durante la fase delle indagini preliminari, il permesso di colloquio all’indagato sottoposto alla misura cautelare in carcere, spetta al Gip, che provvede dopo aver acquisito il parere del pubblico ministero. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 17 settembre 2015 n. 37834 Ordinamento penitenziario - Provvedimenti riguardanti i permessi di colloquio - Competenza del GIP- Diritto di mera interlocuzione del P.M. - Sussistenza. Sulle istanze di colloquio dei detenuti, è competente a provvedere il Gip nel corso delle indagini preliminari e il giudice del dibattimento superata tale fase, mentre al P.M. spetta soltanto un diritto di interlocuzione. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 4 giugno 2015 n. 23760 Ordinamento penitenziario - Provvedimenti riguardanti permessi di colloquio - Fase delle indagini preliminari - Competenza - Giudice per le indagini preliminari - Sussistenza. Durante la fase delle indagini preliminari è competente il Gip per la concessione del permesso di colloquio all’indagato sottoposto alla misura cautelare in carcere. Il Gip provvede dopo aver udito il PM. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 24 febbraio 2014 n. 8798 Ordinamento penitenziario - Provvedimenti riguardanti i permessi di colloquio - Ricorribilità per cassazione - Ragioni. I provvedimenti che decidono sulle istanze di colloquio dei detenuti in custodia cautelare, potendo comportare un inasprimento del grado di afflittività della misura, sono ricorribili in Cassazione, ex art. 111, comma settimo, Costituzione. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 24 febbraio 2014 n. 8798 Non corretto funzionamento dell’etilometro fa cadere l’accusa di guida in stato di ebbrezza di Fabio Piccioni Il Sole 24 Ore, 18 gennaio 2016 Tribunale di Firenze - Sezione I penale - Sentenza 29 maggio 2015 n. 1630. Il mancato corretto funzionamento dell’etilometro fa cadere l’accusa di guida in stato di ebbrezza. Sul tema, la sentenza del tribunale di Firenze 29 maggio 2015 n. 1630 analizza, seppur sinteticamente, le numerose questioni giuridiche sollecitate dalla difesa giungendo alla seguente considerazione: visto che l’apparecchio dimostrava un non corretto funzionamento rilevabile dalla presenza della dicitura di "volume insufficiente", sussiste il ragionevole dubbio che il fermato, al momento in cui si trovava alla guida, avesse un tasso alcolemico nel sangue non superiore a quello di 0,8 g/l. La prova dello stato di ebbrezza - Infatti, la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato, in riferimento alla prova dello stato di ebbrezza derivante degli esiti delle misurazioni effettuate con le procedure e gli strumenti di cui agli articoli 186 del Cds e 379 del Reg. Es. C.d.S., che allorquando l’alcoltest risulti positivo, costituisce onere della difesa dell’imputato fornire una prova contraria a detto accertamento - sussistenza di vizi dello strumento, utilizzo di un’errata metodologia nell’esecuzione dell’aspirazione - non essendo sufficiente che ci si limiti a contestare la regolarità dell’etilometro (Cassazione penale, sez. IV, 24/3/2011, n. 17463; Cassazione penale, sez. IV, 4/10/2011, n. 42084). L’accertamento effettuato a distanza di tempo - Premesso che il reato di cui all’articolo 186 del Cds, si consuma nel momento in cui il conducente viene sorpreso alla "guida", nel caso di specie l’imputato veniva fermato dalla Polizia alle ore 4,40 per poi essere accompagnato presso gli uffici della Questura, ove effettuava le prove con etilometro: la prima delle ore 5,05, dava risultato pari a 1,56 g/l, mentre la seconda, delle ore 5,15, dava risultato pari a 1,65 g/l. Stante il particolare esito riscontrato, due sono le ipotesi che ne derivano. a) Se si considera l’apparecchio perfettamente funzionante, si ha un’alcolemia in fase ascendente, con rapida salita nella prima parte della curva di Widmark. Ne deriva che, alle ore 4,40 - quando l’imputato era alla guida del veicolo - cioè a distanza di 25 minuti dalla prova etilometrica, l’alcolemia era, senza dubbio, molto inferiore a quella risultante dalla prima prova dell’alcoltest. b) Laddove non si dovesse concordare con tale conclusione, ne deriva che l’alcolemia era in fase discendente, la qual cosa manifesta il malfunzionamento dell’apparecchio. In questo caso, si può concludere per l’invalidità dell’accertamento. La dicitura "volume insufficiente" - Dalla lettura di entrambi i tagliandi cartacei dell’etilometro si rileva che le prove recano la chiara dicitura "volume insufficiente". Ciò contrasta insanabilmente con la contestuale indicazione, presente sugli scontrini, relativa al valore relativo al tasso alcolemico registrato, che presuppone l’effettuazione di una corretta misurazione del campione di aria alveolare espirato (cfr. Cass. Pen., sez. IV, 21/8/2013, n. 35303). In merito, il punto 3.5.2.3 dell’allegato tecnico al Dm 22/5/1990 n. 196, Regolamento recante individuazione degli strumenti e delle procedure per l’accertamento dello stato di ebbrezza, stabilisce che "Al disotto dei valori definiti al punto 6.1.7 l’apparecchio non deve fornire risultato ovvero esporre un messaggio di servizio per volume aria insufficiente". L’incompatibilità logica tra i dati rilasciati dall’apparecchiatura, in entrambe le misurazioni effettuate, risulta, quindi, indicativa del ripetuto malfunzionamento della macchina, di talché risultano inaffidabili i dati relativi al tasso alcolemico, emergenti dalle prove effettuate. La mancanza degli scontrini - Il primo scontrino riporta il n. 1459, mentre il secondo il n. 1462. Resta, quindi, da verificare come, e nei confronti di chi, siano state utilizzate le due prove intermedie di cui agli scontrini nn. 1460 e 1461. In conclusione, manca la plena probatio della contravvenzione di cui alla lett. c). Beni confiscati alla mafia non utilizzati, puniti gli amministratori di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 18 gennaio 2016 Corte dei Conti - Sezione Campania - sentenza n.1079 dell’11 dicembre 2015. Gli amministratori che non utilizzano i beni confiscati alla criminalità e destinati al loro Comune producono un danno all’erario e per questo possono essere condannati a pagare un risarcimento all’ente che rappresentano. Questo è il principio che viene affermato dalla Corte dei conti della Campania con una sentenza dell’11 dicembre del 2015. La Procura contabile aveva svolto un’indagine riguardo ad alcuni immobili confiscati dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale di Salerno a un pericoloso clan camorristico. I decreti di confisca erano divenuti definitivi e i beni erano stati trasferiti al Comune dove erano siti perché venissero destinati a finalità istituzionali o sociali. Così difatti stabiliva l’articolo 2-undecies delle legge 675 del 1965 con una norma che è oggi riprodotta nell’articolo 48 comma 3 del decreto legislativo 159 del 2011 (il Codice antimafia). Al Comune i beni erano stati consegnati a dicembre del 2008. Solo a novembre del 2012 (e a seguito dell’avvio di un’indagine sui comportamenti omissivi dei rappresentanti dell’ente) erano state assunte le iniziative necessarie a consentirne un utilizzo. La Procura contabile aveva allora citato in giudizio i soggetti che riteneva responsabili di tale protratta inerzia e in particolare: l’assessore con delega al patrimonio, delegato dal sindaco a rappresentare il Comune al momento della consegna; il funzionario responsabile dell’area tecnica, delegato ad eseguire le necessarie annotazioni e comunicazioni ai fini dell’inventariazione degli immobili; i due funzionari succedutisi nel corso di quegli anni al vertice del settore Patrimonio, i quali avevano custodito le chiavi degli immobili dopo la consegna; e infine lo stesso sindaco che aveva delegato i compiti e avrebbe dovuto vigilare sulla loro esecuzione. Oltre alla consegna delle chiavi, dal 2009 nessun altro atto era stato compiuto. Persino l’inserimento di tali beni nell’inventario degli immobili di uso pubblico era avvenuto dopo l’intervento della polizia giudiziaria nel 2012. Nel frattempo gli immobili erano rimasti occupati da soggetti legati al clan camorristico al quale erano stati confiscati, come risultò da un sopralluogo disposto dagli uffici comunali. Una tale ingiustificata inerzia aveva prodotto un danno che poteva commisurarsi con le spese di locazione sopportate dal Comune per avere disponibilità di locali utilizzati per attività ricreative e culturali, che si sarebbero potuti svolgere all’interno degli immobili confiscati. La Corte dei conti campana condanna amministratori e funzionari inerti al risarcimento del danno in favore del Comune ma ritiene di calcolare in via equitativa il pregiudizio, che per sua natura risulta insuscettibile di una determinazione diretta e analitica. Presa a parametro la spesa sostenuta tra il 2008 e il 2012 per mantenere in affitto i locali per le attività poi trasferite negli immobili confiscati, la Corte ne ha effettuato una significativa riduzione tenendo tra l’altro conto del fatto che per una parte di quel periodo i contratti già stipulati non sarebbero comunque andati in scadenza. Gli italiani e la sete di giustizia (mediatica) di Vittorio B. Stamerra Gazzetta del Mezzogiorno, 18 gennaio 2016 Per quello che è lo stato dell’amministrazione della giustizia in Italia, i processi, soprattutto quelli che riguardano i potenti, si celebrano solo sui giornali e si esauriscono nello spazio della durata dell’interesse dei lettori. Come avviene al teatro o al cinema: quando calano gli spettatori si passa oltre. Dopo di che tutto cade nel dimenticatoio e se si arriva al processo vero, quello con tanto di giudici, pubblici ministeri e avvocati, o si è ormai giunti alle prescrizioni (moderna specializzazione della nostra avvocatura), oppure l’eventuale pena la si sconta il più possibile fuori dalle sempre super affollate patrie galere. È questa una delle ragioni principali del perché i processi mediatici convengono a tutti, meno ovviamente alle vittime. Convengono ai poliziotti che dimostrano l’impegno profuso nelle indagini, ai magistrati solerti e vigili custodi della legalità, agli avvocati che aspirano a diventare divi nei salotti di Vespa, ai giornali che vendono un po’ di copie in più, che in questo periodo di particolare magra non è un peccato, alle televisioni che possono così spettacolarizzare l’evento, al popolo da sempre assetato di giustizia. Il resto, nell’epoca della comunicazione globale, non conta. Soprattutto il rispetto per le persone, il diritto a un giudizio equilibrato e rapido che sono norma elementare di come deve funzionare un paese civile. Senza dimenticarsi della certezza della pena, altra ovvietà in un paese serio, dove anche le pene non sono una variabile indipendente dalla condanna. Ma l’Italia è un paese particolare e soprattutto in fatto di giustizia va in senso assolutamente opposto a quello degli altri paesi con i quali condivide invece, oltre ai principi morali, anche obbiettivi politici ed economici. Non si spiega diversamente anche il perché da noi non è raro che ad emettere sentenze non siano più i nostri tribunali bensì la Corte Europea, a cui gli italiani sempre più numerosi si rivolgono. Siamo un popolo di giustizialisti? Ce lo chiediamo da sempre. Si, dobbiamo ammetterlo, oltre che un popolo di furbi, siamo anche spudoratamente giustizialisti, e godiamo alla grande soprattutto se sotto la mannaia della magistratura ci finiscono gli altri. Se a dover rendere conto alla giustizia siamo invece noi, ecco che si diventa rigorosamente garantisti ed i processi, così come le condanne, devono rigorosamente appartenere ai tribunali e non alle piazze. Anche se tutti sappiamo che finito il processo mediatico, questo sì rapido, tutto finisce nel porto delle nebbie del funzionamento della macchina giustizia e, chi si è visto si è visto, nessuno si ricorda più di niente: "Lascia che la merda s’indurisca e non puzza più". La nostra società, con il tempo, perdona tutto e qualche volta ti premia anche. Prendiamo il caso della ministra Maria Elena Boschi. È stata messa in croce in questi ultimi mesi perché il padre è stato amministratore e vice presidente della Banca dell’Etruria. Anche se non è emersa alcuna responsabilità diretta della ministra sia nella gestione dell’istituto di credito, che nel suo salvataggio, è stata lo stesso al centro di un’ampia campagna mediatica, oltre ad iniziative parlamentari - non andate sinora a buon fine - per sfiduciarla, per un presunto conflitto d’interesse. Non è stato mai accertato però che il Governo abbia agito sul destino della banca influenzato dagli interessi della famiglia Boschi, anche se sarebbe utile lasciar lavorare gli inquirenti al riparo da polemiche e sospetti (compresi quelli in preoccupante salsa massonica, da quelle parti particolarmente attiva). Maria Elena Boschi può però stare tranquilla, passerà alla storia (se passerà...) per le leggi di riforma costituzionale che il Parlamento sta per varare, e che portano la sua firma e che invece meriterebbero un ben più rigoroso approfondimento, e non per il processo mediatico a cui è stata sottoposta per le vicende della banca aretina. E questo per la ragione molto semplice che in Italia i processi mediatici durano poco, e non coincidono mai con i tempi della giustizia vera. Liguria: due tentati suicidi nelle carceri di Genova e Sanremo, un detenuto è in coma Ansa, 18 gennaio 2016 Due detenuti hanno tentato il suicidio impiccandosi, ieri sera, nelle carceri di Marassi a Genova e in quello di Sanremo (Imperia). Il primo, un giovane marocchino, è più grave e, ha reso noto il segretario regionale del Sappe, Michele Lorenzo, è in coma irreversibile. Nel secondo caso, un italiano di 42 anni ha legato un improvvisato legaccio alla grata della finestra e si è lasciato cadere ma il nodo si è sciolto e si è quindi salvato. Immediato l’intervento degli agenti della polizia penitenziaria che hanno allertato i soccorsi. L’uomo è stato portato in ospedale per accertamenti. "È una situazione drammatica quella che si è venuta a creare nelle carceri liguri - ha detto Michele Lorenzo, segretario regionale del sindacato Sappe. Solo a Marassi abbiamo già superato la soglia dei venti tentati suicidi. Alla soppressione del carcere di Savona, i cui detenuti sono stati accorpati a Marassi e Pondecimo, seguirà presto l’accorpamento del carcere di Imperia a Sanremo. Il decreto, infatti, è già pronto. Il rischio ora è che vogliano sopprimere pure il carcere di Imperia, creando ulteriori difficoltà". Trento: carcere con troppi detenuti, il Governatore regionale Rossi scrive al ministro Il Trentino, 18 gennaio 2016 Lettera a Orlando: "Preoccupati per il sovraffollamento di Spini, gli accordi vanno rispettati". "Ho scritto al ministro Orlando che siamo preoccupati per i numeri del carcere di Trento e che mi aspetto venga rispettato l’accordo tra lo Stato e la Provincia". Il governatore Ugo Rossi avrebbe dovuto vedere il ministro della giustizia Andrea Orlando durante la sua due giorni romana della scorsa settimana. A causa di impegni del ministro l’incontro non è avvenuto ma Rossi è fiducioso che da Roma arrivi una risposta alla sua lettera inviata prima di Natale, pochi giorni dopo aver incontrato i rappresentanti delle organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria. Carcere sovraffollato, con 355 detenuti a fronte dei 240 che è la cifra massima di capienza, hanno denunciato i sindacati al presidente della Provincia, al quale hanno spiegato che l’arrivo di 80 detenuti dal Triveneto ha causato molti problemi a Spini, dalle condizioni di vita peggiorate dei detenuti alla carenza di personale, emergenze sanitarie, aumento dei costi sanitari e rischio collasso della struttura. L’accordo - firmato dall’allora ministro della giustizia Mastella e dall’allora governatore Lorenzo Dellai - prevedeva che a Spini sarebbero stati accolti al massimo 250 detenuti. Il numero è notevolmente aumentato, a fronte di un calo del personale di sorveglianza: all’inizio doveva essere composto da 350 persone, si è poi scesi ad una previsione da parte del Dap di 284, quando il carcere è stato inaugurato gli agenti erano 182 e a fine anno erano scesi a 150. "L’accordo con lo Stato prevede che la Provincia si faccia carico dei costi sanitari e delle spese per la formazione - ricorda Rossi - al ministro abbiamo chiesto che il governo si impegni a rispettare i numeri di quel patto, perché al momento siamo preoccupati". La scorsa estate, per la carenza di agenti penitenziari, era stato negato l’accesso al campo sportivo, e i detenuti avevano reagito protestando rumorosamente. Salerno: nuovo appello dei Radicali al Parlamento "l’amnistia è un atto necessario" La Città di Salerno, 18 gennaio 2016 A Salerno, calcola il segretario dei Radicali Donato Salzano, la metà della popolazione carceraria è composta da detenuti ancora in attesa di giudizio. "Il carcere - commenta citando Marco Pannella - è solo l’appendice di un processo penale che è malato. Il sistema è oramai alla bancarotta e i numeri della bancarotta li dà il dossier della senatrice radicale Deborah Cianfanelli". Un dossier che analizza i dati del Ministero della giustizia e scopre che ogni anno lo Stato italiano dovrebbe pagare un miliardo di euro in indennizzi per la durata irragionevole dei processi e tra i cento e i duecento milioni per risarcire coloro che hanno subìto ingiustamente un periodo di detenzione. "La legge Pinto, quella che dal 2001 consente di chiedere l’indennizzo in Italia senza doversi rivolgere alla Corte europea per i diritti dell’uomo, ha finito per ingolfare ancora di più le aule di giustizia - sottolinea Salzano. Chiederne l’applicazione è una corsa a ostacoli e inoltre si è creata una sorta di ipoteca erariale". Anche per questo ritiene che l’unica via d’uscita per riportare il sistema a parametri fisiologici sia l’amnistia. "Serve non solo al carcere, ma anche alle scrivanie dei magistrati - spiega - In galera abbiamo ancora tantissime persone finite in cella per modici quantitativi di stupefacenti e che adesso avrebbero diritto al ricalcolo della pena in base alle pronunce sulla legge Fini-Giovanardi. Invece anche i tempi per questi meri ri-conteggi sono abnormi, perché le Corti d’appello sono intasate e figuriamoci se si crea un ruolo speciale per esaminare questi casi". Gli interventi sul sovraffollamento messi in atti nel carcere di Salerno li ritiene solo palliativi: "Si prova a rispettare la legge (che impone per ognuno tre metri quadrati al netto delle suppellettili) spostando i detenuti nei padiglioni dove c’è più spazio, ma non è certo questo che può risolvere il problema strutturale della giustizia. Se il cinquanta per cento di chi è cella è ancora in attesa di giudizio vuol dire che è tutto il sistema che non va, e lo si capisce perché quella percentuale sale al sessanta in estate, quando in tribunale è periodo di ferie". Venerdì Salzano tornerà all’assemblea degli avvocati salernitani, per chiedere la condivisione di una battaglia che vada oltre i temi della geografia giudiziaria per provare a intervenire sulla mole di carichi pendenti. Chiede un pressing sul Parlamento perché dica sì all’amnistia e mette in guardia dal ritenerlo una resa della giustizia: "È il contrario - afferma - perché dell’atto di clemenza si possono definire i contorni di applicazione, mentre col sistema attuale vanno in prescrizione anche i reati più gravi. La verità è che ora sono i magistrati, dettando i tempi dei processi, ad applicare un’amnistia discrezionale". Cagliari: parla Francesco Baldussu "così il pentito Varacalli ha distrutto la mia vita" di Mauro Lissia La Nuova Sardegna, 18 gennaio 2016 Francesco Baldussu, incastrato dal collaboratore di giustizia, scrive a Mattarella In galera da innocente per il delitto Corona a Serdiana, chiede un risarcimento. "La vita mi si è rovesciata addosso il 24 febbraio 2009, quel giorno nel mio ovile di Ghineu, vicino a Serdiana e Dolianova, a pochi chilometri da Cagliari, hanno ammazzato il mio compagno di lavoro Alberto Corona, più giovane di me di un anno": comincia così la lettera che Francesco Baldussu, ventisei anni, ha inviato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Quasi due anni in carcere da innocente, accusato di un omicidio commesso dal pentito di n’drangheta Rocco Varacalli, assolto definitivamente dalla Corte d’Appello di Cagliari, il giovane pastore di Dolianova non ha ricevuto neppure il risarcimento che lo Stato garantisce a chi è stato detenuto ingiustamente. Per lui si è mosso l’avvocato Patrizio Rovelli che l’ha difeso nei due processi e nei giorni scorsi anche l’ex consigliere del Csm e parlamentare radicale Mauro Mellini. Ma di quanto gli spetta, neppure l’ombra. Mentre Varacalli, collaboratore di giustizia e per un mese e mezzo investigatore al servizio della Procura per volontà del pm Sandro Pili, è libero malgrado la condanna a 24 anni e mezzo di carcere, l’ultima di una lunga serie. La vita distrutta. "Hanno distrutto la mia vita e quella della mia famiglia - scrive Francesco - ma era tutto falso". Falso perché all’origine dell’indagine c’era Varacalli: "Era coccolato - ricorda amaramente il giovane allevatore - con i soldi di tutti i cittadini onesti gli pagavano la casa, la luce e il telefono e lui nel frattempo rubava, uccideva, violentava minorenni così come hanno accertato sentenze definitive". Ma non è tutto: "Varacalli calunniava me e mio padre, dicendo che eravamo stati noi a uccidere Alberto Corona, seminava prove false contro di noi". Il ricordo del carcere: "Ho visto mio padre consumarsi per il dolore di vedere il figlio che non riusciva più neanche a parlare, perché l’ingiustizia, signor Presidente, ammutolisce. Sei assillato dal pensiero che tutti ingiustamente ti considerino colpevole. Muori di vergogna e di paura, sei solo, non dormi più". Nessun risarcimento. Il 20 dicembre 2011 è stato il giorno della verità: "Sono stato assolto, ma il pm ha appellato, si è fatto anche applicare in Procura generale e ha continuato imperterrito a chiedere la mia condanna. Me la solo cavata anche al secondo grado, un miracolo". Testimoni al processo contro Varacalli, il vero assassino, Francesco Baldussu e il padre non hanno potuto costituirsi parte civile per chiedere un risarcimento: "Impossibile - scrive Francesco - perché malgrado le sentenze dicano che Varacalli ha costruito prove false contro di noi nessuno gli ha contestato il reato di calunnia. E questa è la più grande ingiustizia". La lettera prosegue ricordando quanto è avvenuto dopo: "Varacalli è stato condannato, ho chiesto il risarcimento per l’ingiusta detenzione ma la Corte d’Appello non ha preso ancora alcuna decisione. E dall’assoluzione sono passati tre anni e qualche mese". Le gioie dopo l’incubo. Malgrado tutto Francesco Baldussu trova un segno positivo nella sua vicenda terribile: "Si potrebbe dire, signor Presidente, che io e mio padre siamo vivi e liberi per miracolo, ad altri è andata peggio. Oggi possiamo anche dire di aver dato un contributo a che intorno a noi la gente possa pensare che un po’ di giustizia esiste ed io nel frattempo ho anche vissuto la grande gioia di essere diventato padre. Ho voluto dare a mio figlio, che oggi ha poco più di un anno, il nome di mio padre che nel momento dello sconforto ha vegliato su di me come un angelo". Amara la chiusura: "La disperazione vissuta però rimane, l’umiliazione rimane, lo sconcerto per il fatto che non si è potuto sapere chi aveva aiutato Varacalli a disseminare prove false contro di noi rimane grandissimo". Uniti nell’ingiustizia. Alla fine l’appello: "Ho pensato di scriverle oggi, Presidente, perché l’avvocato Rovelli mi ha raccontato che anche lei ha subìto una grave ingiustizia nella vita, l’omicidio terribile di suo fratello Piersanti, un uomo giusto che con la sua azione politica contrastava il potere mafioso. La prego, Presidente, anche in memoria di suo fratello, combatta con tutte le forze e i poteri che ha contro l’ingiustizia. Ci aiuti a credere nella giustizia". Napoli: lo spettacolo "Sottozero" al Teatro Bolivar, una palese denuncia contro lo Stato di Teresa Mori Roma, 18 gennaio 2016 Torture e soprusi. È possibile che nei penitenziari italiani vengano calpestati i diritti umani elementari e la dignità della persona venga lasciata fuori dai cancelli? Infinite testimonianze sembrerebbero suggerire ancora oggi una situazione tragica. È questa la scottante verità portata in scena al teatro Bolivar, sabato e domenica, il titolo è "Sottozero" e l’opera è ispirata alla storia vera di Pietro Ioia, ex detenuto del carcere di Poggioreale e presidente degli "Ex Detenuti Organizzati Napoletani", "Sottozero" è una palese denuncia contro lo Stato nella missione di rieducazione che un istituto penitenziario dovrebbe avere. In particolar modo ci descrive l’utilizzo della cosiddetta "cella zero". Erano gli anni della faida interna della criminalità organizzata campana. Una guerra tra la "Nuova camorra organizzata" di Cutolo e la "Nuova famiglia", la quale si combatteva anche all’interno delle carceri. Per salvaguardare la propria incolumità, ogni detenuto, anche chi non era affiliato, doveva proteggersi con la pistola e fare da sentinella armata all’interno del proprio padiglione. L’idea di portare in scena la storia di Ioia è stata di Antonio Mocciola, che ha scritto la sceneggiatura con Sandro Dionisio, servendosi dell’agghiacciante racconto dell’ex detenuto. La pièce è un viaggio nell’incubo di un giovane napoletano, che invecchia in carcere uscendone dopo 22 anni. In scena riportati in maniera estremamente schietta, brutale le vessazioni alle quali i detenuti sono sottoposti nelle carceri. Turpiloquio, bestemmie, ingiurie parti obbligate di un racconto che narra la storia tremenda di una realtà, che esiste e per quanto sia brutto, tragicamente commovente assistervi bisogna capire, che nel ventunesimo secolo mentre c’è chi viaggia nello spazio c’è ancora chi lotta per farsi riconoscere i diritti più elementari, chi lotta per essere trattato con umana pietas. È inutile dire che non è piacevolissimo assistere a questo spettacolo. La vicenda, infatti, raccontata con realismo verghiano attraverso il quale lo spettatore si trova sempre più immerso all’interno di una storia che non lascia spazio a equivoci, nonostante termini con la scarcerazione del protagonista, è priva di lieto fine, Perché in determinati ambienti non esistono i colori, ma tutto assume un tono perennemente cupo ed ovattato. Del resto la pièce non nasce con l’intento di intrattenere piacevolmente, ma solo per denunciare fornendo uno scorcio di un mondo che così tanto ha fatto discutere ma del quale forse si conosce veramente poco. Molto bravi i protagonisti, oltre a Pietro loia che interpreta la sentinella che è stato il suo aguzzino. Ivan Boragine interpreta Pietro entrando "a gamba tesa" e coraggiosamente nella terribile esperienza dell’ex detenuto. Buone le prove di Marina Billwiller e Diego Sommaripa. Roma: le ostie del carcere di Milano-Opera da Papa Francesco di Paola Farina radiolombardia.it, 18 gennaio 2016 Papa Francesco ha ringraziato i detenuti del carcere di Opera che hanno confezionato le ostie per la santa messa celebrata ieri in Vaticano in occasione della giornata del rifugiato. "Grazie ai detenuti del carcere di Opera" ha detto il Pontefice all’Angelus in piazza San Pietro, seguito da un caloroso applauso. Il progetto della produzione di ostie in carcere è intitolato "Il senso del pane" ed è stato ideato e promosso dalla "Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti Onlus" presso la casa di Reclusione di Opera. Qui è attivo un laboratorio per la preparazione delle ostie, in collaborazione con la direzione del carcere. Da quattro mesi tre detenuti preparano circa 1.200 ostie al giorno, da inviare nelle parrocchie e dalle diocesi di tutta Italia. "Fine pena: ora", quei 26 anni di lettere tra il giudice e l’uomo che condannò all’ergastolo di Antonio Giaimo e Paola Italiano La Stampa, 18 gennaio 2016 In 26 anni il giudice Elvio Fassone e Salvatore, condannato all’ergastolo nell’ambito del maxi processo alla mafia catanese si sono spediti 1.300 lettere. "Caro presidente". "Caro Salvatore". Per 26 anni il giudice Elvio Fassone ha scambiato migliaia di lettere con un detenuto che lui stesso aveva condannato all’ergastolo. Salvatore M. aveva sulle spalle 15 omicidi. "Caro presidente". "Caro Salvatore": le lettere iniziano tutte così. Tranne una: "L’altra settimana ne ho combinata una delle mie. Mi sono impiccato. Mi scusi". Un agente di custodia lo ha salvato. Ma leggendo quelle parole, il giudice realizza che 26 anni sono un tempo enorme. "Nemmeno tra due amanti è possibile uno scambio di lettere così lungo". È in quel momento, quando Salvatore cerca di farla finita, quando decide che quel "Fine pena: mai" che la giustizia ha scritto sulla sua scheda si deve trasformare in "Fine pena: ora"; ecco, è allora che il giudice capisce che quel carteggio così lungo, ormai così confidenziale, potrebbe anche finire. E decide che questa storia debba essere raccontata. "Fine pena: ora" è il titolo del libro che ha scritto, edito da Sellerio. "Questa vicenda - spiega Fassone nel primo capitolo - ha un particolare che credo la differenzi dalle altre. All’inizio della storia c’è qualcosa che l’ha messa in moto, qualcuno che ha pronunciato la condanna di Salvatore all’ergastolo, che ha spalancato i cancelli destinati a rinchiuderlo per sempre. Ebbene, l’uomo che ha segnato la sua vita e poi, in qualche misura, lo ha accompagnato per ventisei anni, sono io". Il processo. Elvio Fassone - già senatore - prima di andare in pensione, era magistrato a Torino. Mentre a Palermo stava per concludersi il maxiprocesso a Cosa Nostra, 1500 km a Nord stava per iniziare un altro processo alla mafia, quella catanese. Anche questo era maxi: 242 imputati. E molti giudici si sfilarono. Fassone accettò di presiedere la Corte d’assise. Tra gli imputati c’era anche Salvatore, un curriculum criminale "la cui lunghezza si misurava a spanne". Lo scontro in aula fu duro. Ma poi arrivò la svolta che avrebbe portato all’inizio di questo scambio di lettere unico e che Fassone ci racconta così: "Ogni giorno, a fine udienza, mi fermavo in ufficio per ricevere mogli, madri, parenti degli imputati. Li ascoltavo, li aiutavo se chiedevano il permesso per incontrare i detenuti. Si era arrivati a una mediazione importante: i detenuti avevano spesso processi in altri tribunali d’Italia, ma questo significava che ogni volta avremmo dovuto interrompere il processo a Torino, e chissà quando avremmo finito. Ebbene, noi giudici ci eravamo impegnati nei giorni nei quali loro erano assenti a non trattare i reati che li riguardavano". Senza sacrificare alcuna delle esigenze del processo, ha avuto un gesto di umanità. Ha trattato gli imputati come persone. Non ha dimenticato le regole, non ha chiuso un occhio, non si è tirato indietro quando si trattava di decidere in nome del popolo italiano. Semplicemente, non ha scordato di essere uomo con davanti altri uomini. Sull’unico terreno comune che unisce un giudice e un condannato, l’essere umani, è stato piantato il seme da cui sarebbe germogliato il legame lungo 26 anni con Salvatore. Che si rafforzò quando il giudice gli concesse di andare a trovare la madre malata, senza manette ai polsi. Dopo la sentenza, Fassone spedì un libro a Salvatore, che nella vita aveva solo letto atti processuali: "Siddharta" di Hermann Hesse. L’inizio. Salvatore rispose con la prima delle 1.300 lettere tra i due: "Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso sarebbe stato lui nella gabbia. Se io nascevo dove è nato suo figlio, forse ora farei l’avvocato". Una frase che non si dimentica. "Salvatore - dice oggi il giudice - nella lotteria della vita ha preso il biglietto che porta nella tomba dei vivi". Nel libro, ogni racconto prende il via da una frase scritta da Salvatore, che le carceri d’Italia le conosce pressoché tutte. C’è una lettera in cui parla del primo bagno al mare, dopo 23 anni di detenzione: "È stato fantastico, qui l’isola è veramente bella, in certi momenti sono persino un po’ felice". In altre pagine racconta quando la compagna, Rosi, che l’aveva seguito nei suoi spostamenti, lo lascia: "Non c’è dolore che io non conosca, ma questo è stato il più grande di tutti". Replica in un passaggio il giudice: "Il ricordo di una gioia passata non è più gioia, ma il ricordo di un dolore è ancora sempre dolore". "Novantatré", un libro di Mattia Feltri sul terrore giustizialista dell’Italia del 1993 di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 18 gennaio 2016 Si intitola Novantatré, come il romanzo che Victor Hugo volle dedicare al Grande Terrore rivoluzionario in cui il solo autorizzato a parlare era il boia con la sua ghigliottina, il libro di Mattia Feltri che è stato appena pubblicato da Marsilio. Si dice sempre: bisogna ricordare, mai abbassare la guardia della memoria. Ecco, questo libro serve a ricordare ciò che vorremmo dimenticare sui risvolti oscuri, bui, indicibili della rivoluzione chiamata "Mani Pulite" che affossò la Prima Repubblica nel 92-93. Ci aiuta a ricordare, attraverso un’inchiesta dettagliatissima proposta da Mattia Feltri nel 2003 sul Foglio e che viene ripresa in queste pagine capaci come poche di trasmettere angoscia e stupefazione, che insieme alla non onorevole carriera dei ladri di regime e di partito si dissolse in Italia lo Stato di diritto. Un Terrore nostrano ma non meno violento, in cui i giornali e le tv non lesinarono panegirici imbarazzanti per incensare i nuovi angeli sterminatori della magistratura. In cui l’opinione giornalistica si adeguò nella sua quasi totalità (Mattia Feltri, con un’onestà intellettuale che gli fa onore, non risparmia nessuna citazione, nemmeno quelle che riguardano suo padre Vittorio) ai fogli d’ordinanza dettati dalle Procure. In cui ci furono suicidi di cui si disse che il suicidio era la prova della colpevolezza. In cui si teorizzava l’uso smisurato e intimidatorio della carcerazione preventiva. In cui il processo mediatico soppiantò quello giudiziario in senso stretto. Alcuni ladri furono assicurati alle patrie galere? Sì. Certo. Ma la democrazia liberale e lo Stato di diritto vissero un periodo fosco e corrusco. E la giustizia si trasformò molto spesso in gogna e linciaggio. Il libro di Feltri è pieno di dettagli da brivido. Ma le citazioni dei magistrati accolte nel giubilo popolare e riportate in queste pagine dimostrano quanto sia sprofondata in Italia la cultura dei diritti. "Si vede che c’è ancora qualcuno che per la vergogna si uccide", disse Gerardo D’Ambrosio dopo il suicidio del socialista Sergio Moroni. "Noi incarceriamo la gente per farla parlare. La scarceriamo dopo che ha parlato", proclamò Francesco Saverio Borrelli. Il gip onnipresente Italo Ghitti: "Il nostro obiettivo non è rappresentato da singole persone, ma da un sistema che cerchiamo di ripulire". Pier Camillo Davigo, a un convegno del Lions Club del 14 luglio 1993: "Gli inquisiti non si possono lasciare in libertà, altrimenti la gente si incazza". Il Terrore. I migranti e la logica tedesca di Francesco Giavazzi Corriere della Sera, 18 gennaio 2016 L’accoglienza e l’inserimento dei rifugiati nella nostra società, a prescindere dall’aspetto umanitario, è un fatto positivo per l’economia dei Paesi dell’euro. Aprire le frontiere ai rifugiati, come ha fatto la Germania, non solo è il modo etico per affrontare una tragedia inesorabile, ma - a patto di rispettare le condizioni che indicherò più avanti - aiuta l’economia europea. Questa è la ragione per cui Angela Merkel non deflette dalla sua scelta di frontiere aperte. I Paesi dell’euro hanno due problemi: un tasso di fertilità molto basso, che via via riduce la popolazione, e una carenza di domanda. Il tasso di fertilità nell’eurozona è in media 1,6 (cioè 1,6 figli per ogni donna). Per mantenere la popolazione stabile il tasso di fertilità dovrebbe essere un po’ sopra 2. Gli unici Paesi europei in cui questo accade sono Irlanda e Francia. La bassa fertilità è solo in parte compensata dall’allungamento dell’età lavorativa, che cresce troppo lentamente. Risultato: la popolazione attiva scende, e questo ci costa circa mezzo punto l’anno di minor crescita. Diversamente dalla fertilità, che è un fenomeno di lungo periodo, la carenza di domanda è un’eredità della crisi. Ma entrambe, scarsa domanda e bassa fertilità, ritardano l’uscita dalla recessione. Fra i Paesi dell’euro, quello in cui questi problemi sono più accentuati è la Germania. La fertilità tedesca è una delle più basse: solo 1,38 bambini per ogni donna. Anche la domanda è particolarmente bassa in Germania, come dimostra il fatto che essa abbia un avanzo nei conti con l’estero pari a quasi l’8 per cento del prodotto. Cioè la Germania produce quasi l’8 per cento più di quanto spende. L’eurozona ha quindi un problema aggregato - poca domanda, bassa fertilità - e uno squilibrio, fra la Germania e il resto dell’area. Accogliere i rifugiati, e accoglierne di più in Germania, è il modo per correggere entrambi. La Germania è anche il Paese che ha più spazio nei propri conti pubblici: il 2015 si è chiuso con un avanzo di bilancio pari a 1 punto di Pil (Prodotto interno lordo). Un milione di rifugiati, quanti la Germania ne ha accolti nel 2015, costa circa un terzo di punto di Pil l’anno: sussidi diretti, attività per facilitare l’integrazione, abitazioni, scuole, assistenza medica. Di tanto quindi cresce la spesa pubblica tedesca con effetti positivi sul resto dell’eurozona. Un rifugiato costa allo Stato tedesco circa 12 mila euro il primo anno, una cifra che si riduce nell’arco di 5-10 anni quando egli si inserisce nel mercato del lavoro ed esce dai programmi di assistenza. Accogliere i rifugiati è quindi una strategia intelligente: aumenta la spesa pubblica nel breve periodo, per l’assistenza necessaria, ma in un modo che si corregge automaticamente entro un decennio. Nel lungo periodo rifugiati integrati contribuiscono alla sostenibilità del sistema pensionistico. L’effetto sulla popolazione è di aumentarla di circa il 2% nel triennio. Un numero non enorme, ma sufficiente per arrestare la caduta della popolazione tedesca. L’effetto poi si propaga nel tempo per il maggior tasso di fertilità delle donne immigrate. L’età dei rifugiati conta: più sono giovani, più a lungo dovranno essere educati e assistiti, ma più a lungo anche pagheranno tasse e contributi sociali. Angela Merkel è forse il solo statista europeo ad aver capito che accogliere i rifugiati e investire nel loro capitale umano non ha solo un aspetto di solidarietà: è più lungimirante che costruire autostrade. Tutto questo richiede però due condizioni. I benefici dell’integrazione si ottengono solo con il rispetto delle regole; negli Stati Uniti l’integrazione funziona, pur se con mille difficoltà, perché la violazione delle regole è punita duramente. L’integrazione inoltre deve rispettare i valori del Paese che accoglie, come ha chiaramente spiegato Ernesto Galli della Loggia alcuni giorni fa su queste colonne. Episodi, come quelli accaduti in Francia, in cui in alcune scuole in quartieri con significativa presenza di cittadini di religione musulmana, presidi e insegnanti hanno in modo passivo accettato che fosse tolta la carne dalla mensa per evitare discussioni, non aiutano l’integrazione e sono inammissibili. Il secondo problema riguarda l’equilibrio di genere. La recente ondata di rifugiati è composta per lo più di maschi. Ma l’equilibrio di genere si realizza con l’integrazione e con i ricongiungimenti familiari. È la scarsa capacità di integrare che mantiene lo squilibrio di genere. Anche qui la Germania è un buon esempio: su 7,8 milioni di cittadini nati fuori dai confini tedeschi esattamente la metà sono donne. Solo per alcune nazionalità, in particolare per i cittadini di origine africana, la percentuale di donne è inferiore al 40 per cento. In Norvegia lezioni di parità per i rifugiati di Alessandra Coppola ed Elena Tebano Corriere della Sera, 18 gennaio 2016 "Come fai a sapere se una ragazza vuole davvero fare sesso con te?". "È giusto cercare di "ammorbidirla" facendola bere?". Gli uomini seduti in circolo rispondono a turno alle domande, mentre un educatore modera la discussione. Sono richiedenti asilo arrivati dall’Africa e dal Medio Oriente in un centro per rifugiati nell’area di Sandnes e Stavenger, nell’Ovest della Norvegia. Seguono le lezioni di educazione ai costumi locali, costruite su esempi concreti e sull’esperienza dei "nuovi arrivati" per aiutarli a orientarsi nel Paese che li ha accolti. Il focus è il rapporto tra i sessi. "Può capitare che un diciottenne dica di essere sorpreso dell’interesse che gli dimostrano le ragazze norvegesi. E dia per scontato che vogliano dormire con lui - spiega Linda Hagen di Hero, la società che gestisce quasi la metà dei centri per rifugiati in Norvegia, al quotidiano The Local. In quel caso il coordinatore gli chiede: chi sono queste ragazze, come le hai incontrate? Sei proprio sicuro che vogliano fare sesso? Le donne non si comportano tutte allo stesso modo". Un problema di comprensione. L’importante è insegnare ai richiedenti asilo a decifrare messaggi che per loro possono avere un significato diverso che in Norvegia: "È difficile quando vieni da un Paese dove le donne non escono mai da sole - aggiunge Hagen. Se vedi una ragazza che balla di notte in minigonna a una festa che messaggio ti dà? È importante chiarire che questo tipo di comportamento non vuol dire che possono andare fino in fondo. Se una ragazza dice "no", è "no". Per evitare di stigmatizzare gli stranieri come potenziali stupratori - ha raccontato il New York Times - i manuali usati da Hero nelle lezioni attribuiscono i comportamenti sbagliati e aggressivi al personaggio del norvegese Arno, mentre quello dell’immigrato, il 27enne Hassan, è descritto come "una persona per bene", "onesto e amato". È Arno che suggerisce di far bere una ragazza per approfittare di lei. I rifugiati presenti al corso devono discutere cosa comporti una simile proposta e come reagirebbero. Il dibattito in Europa. Dopo le aggressioni di Capodanno alle donne di Colonia, in Germania, diversi Paesi europei hanno iniziato a valutare se introdurre corsi simili. Se ne è parlato in Belgio e Svizzera (nel cantone di Lucerna). In Danimarca già a ottobre il Parlamento ha iniziato a lavorare a nuove norme che introducano l’insegnamento obbligatorio dell’educazione sessuale accanto a quello del danese già previsto per i profughi. La questione è allo studio anche in Svezia, dove in seguito alle vicende di Colonia si è aperta una polemica su episodi di molestie di gruppo durante un festival giovanile a Stoccolma. Intervistata da Expressen martedì scorso, la ministra socialdemocratica Margot Wallström ha apertamente citato "l’esempio della Norvegia": cioè "fornire informazioni a chi proviene da Paesi con legislazioni diverse - ha suggerito -, soprattutto agli adolescenti, sulle regole in vigore qui e sul ruolo delle donne". Nella Baviera tedesca si fa già da tempo, mentre in Austria il ministero dell’Interno ha preparato una breve guida per i richiedenti asilo che spiega "diritti, doveri e valori": eguaglianza tra uomini e donne, i diritti dei bambini, Stato di diritto, la "dignità umana", e così via. La sperimentazione. Ma è la Norvegia che prima in Europa ha sperimentato la formazione ai rifugiati sulla parità di genere. Le lezioni sono volontarie, durano 5 ore e prevedono oltre a quella dell’educatore la presenza di un traduttore. Partite nel 2013, il governo le ha finanziate per due anni, e sono ormai nelle consuetudini del Paese. Nella serie tv "Lilyhammer", il protagonista mafioso italo-americano approda in Scandinavia e scherza sulla necessità di andare a scuola per imparare nuovi codici di comportamento. In questi mesi, il dipartimento per l’Immigrazione sta valutando i risultati del progetto. Molti richiedenti asilo hanno riferito di trovarli utili. Abdu Osman Kelifa, 33 anni, eritreo, intervistato dal New York Times ha ammesso che all’inizio era scioccato nel vedere donne che bevevano e baciavano i partner in pubblico: "Nel mio Paese lo fanno solo le prostitute", si è giustificato. Per altri, però, i corsi non bastano: "Da soli non possono proteggere da questioni che dipendono anche dalle strutture sociali - ha detto a The Local Per Isdal, uno degli psicologi che hanno contribuito a svilupparli. Per combattere le aggressioni sessuali bisogna migliorare anche le condizioni di vita e combattere la povertà". Giubileo Migranti. Il Papa "non fatevi rubare la speranza" di Fausto Gasparroni Ansa, 18 gennaio 2016 In 7.000 all’Angelus del Papa. Ucraini portano Croce Lampedusa. "La vostra presenza in questa piazza è segno di speranza in Dio. Non lasciatevi rubare la speranza e la gioia di vivere, che scaturiscono dall’esperienza della divina misericordia, anche grazie alle persone che vi accolgono e vi aiutano". Così il Papa, all’Angelus, si è rivolto ai circa 7.000 migranti di oltre 30 nazionalità presenti oggi in Piazza San Pietro, in occasione della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato che, nel contesto dell’Anno Santo della Misericordia, è celebrata anche come Giubileo dei Migranti. "Sono lieto di salutare con grande affetto le comunità etniche qui presenti, tutti voi provenienti da varie regioni d’Italia, specialmente dal Lazio", ha detto Francesco rivolgendosi alla folla con bandiere e striscioni di ogni colore. "Cari migranti e rifugiati - ha proseguito, ognuno di voi porta in sé una storia, una cultura, dei valori preziosi; e spesso purtroppo anche esperienze di miseria, di oppressione, di paura". "Il passaggio della Porta Santa e la messa che tra poco vivrete - ha aggiunto -, vi riempiano il cuore di pace". Bergoglio ha voluto ringraziare anche i detenuti del carcere di Opera, "per il dono delle ostie confezionate da loro stessi e che saranno utilizzate in questa celebrazione". "Li salutiamo con un applauso, da qui, tutti insieme", ha concluso. Tra i circa 7.000 migranti e rifugiati di almeno 30 nazionalità, provenienti dalle 17 diocesi del Lazio, con il coordinamento della Fondazione Migrantes della Cei, c’erano anche 200 richiedenti asilo del Cara di Castelnuovo di Porto, con le bandiere delle diverse nazionalità presenti al Centro. In Piazza San Pietro è stata portata anche la Croce di Lampedusa, realizzata con i legno dei barconi e benedetta da papa Francesco durante la sua visita sull’isola del luglio 2013, simbolo che richiama le circa 4.000 vittime - tra cui oltre 750 bambini - che lo scorso anno hanno perso la vita nel viaggio verso le coste italiane: a portarla era il gruppo dei migranti ucraini, "nel segno di una guerra dimenticata - sottolinea Migrantes - e della forte presenza di persone provenienti da questa nazione, sia migranti economici che richiedenti asilo". Dopo l’Angelus i migranti, attraversando la Porta Santa e recando anche la Croce di Lampedusa, hanno partecipato nella Basilica di San Pietro a una solenne messa presieduta dal cardinale Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio per i Migranti e gli Itineranti, che ha consacrato per l’occasione le oltre 5.000 ostie realizzate da alcuni detenuti del carcere di Opera di Milano. Analoghe iniziative sono state organizzate oggi in diocesi e parrocchie di tutta Italia. La Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, ha detto il card. Vegliò nell’omelia, "è un’occasione opportuna per ricordare che la Chiesa ha sempre contemplato, nei migranti, l’immagine di Cristo". Di più, "nell’Anno della Misericordia, siamo interpellati a riscoprire le opere di misericordia e, tra quelle corporali, c’è la chiamata ad accogliere i forestieri". "L’esperienza dei migranti e la loro presenza ricordano al mondo l’urgenza di eliminare le disuguaglianze che rompono la fraternità e l’oppressione che costringe a lasciare la propria Terra. Sono il grido dell’umanità sofferente che cerca giustizia e solidarietà", ha detto ancora il capo dicastero vaticano. "Noi musulmani preghiamo assieme ai fratelli cristiani" di Flavia Amabile La Stampa, 18 gennaio 2016 Gli immigrati e i casi di intolleranza: non possiamo vivere nella paura. Oltre 30 le nazionalità presenti ieri e molte anche le religioni: più di duemila sono stati i partecipanti di fede musulmana alla preghiera. Le prime ad arrivare sono le musulmane con il velo. Chiedono di non essere fotografate e si avviano con mariti e parenti. Non verso una moschea ma verso la Basilica di san Pietro, tempio della cristianità e ieri del dialogo tra cristiani e musulmani. Si celebra il Giubileo dei migranti, sono arrivati in 7mila in piazza San Pietro. Oltre 30 le nazionalità presenti, e molte anche le religioni: più di duemila sono di fede musulmana. Le donne con il velo risalgono la piazza, scompaiono all’interno del porticato, attraversano la Porta Santa e entrano in Basilica. Dopo di loro arrivano gli altri: i lavavetri che ogni giorno al semaforo provano ad impietosire gli automobilisti, gli ambulanti abusivi che in estate affollano le spiagge del litorale romano, gli operai dei cantieri che nessuno ha mai regolarizzato e pure le donne che non hanno trovato altro che offrirsi in strada per guadagnare qualcosa. Ognuno di loro è una storia a sé, unita soltanto dalla fede nel Corano e dalla difficoltà di vivere. "Siamo venuti qui per pregare", spiega Ahmad, originario del Togo, arrivato quattro mesi fa in Italia dopo aver superato deserti, prigioni e mari. "Sono musulmano, è vero, ma oggi reciterò le preghiere dei cristiani insieme con i cristiani perché siamo la stessa famiglia". E pregano davvero tutti, cattolici, musulmani e anche atei, quando a mezzogiorno papa Francesco appare alla finestra per l’Angelus. Il pontefice osserva la piazza sotto di lui. Oltre i colori, le bandiere e gli striscioni il suo sguardo vede soprattutto il dolore di chi ha attraversato angherie, furti, prigionie, stupri per arrivare fino in Italia e scoprire che le sofferenze ancora non sono terminate. "Ognuno di voi porta in sé una storia, una cultura, dei valori preziosi. Spesso, purtroppo, anche esperienze di miseria, di oppressione, di paura". La folla applaude. I musulmani sorridono con amarezza. "Non vogliamo vivere in un’Europa dominata dalla caccia all’arabo o al musulmano", avverte Foad Aodi, presidente delle Comunità del Mondo Arabo in Italia. Qui l’atmosfera è molto diversa da quella descritta ieri dall’inviato della Stampa Niccolò Zancan nel suo viaggio nell’Italia xenofoba, ma la paura si sente: "L’Islam non c’entra nulla con la violenza e chiediamo che non si torni indietro ai tempi in cui esistevano i pregiudizi nei confronti di chi apparteneva ad una religione. Nessuna religione c’entra con la violenza. Siamo tutti musulmani, siamo tutti cristiani, siamo tutti ebrei, siamo tutti laici. E siamo tutti a favore di un mondo migliore". Nel mondo migliore immaginato in questa domenica di Giubileo tutti recitano insieme il Gloria al Padre in latino, e ripetono come possono. "Basta differenze tra cristiani e musulmani - chiede Suleyman, originario del Ghana, arrivato un anno e mezzo fa in Italia - Basta odio, violenze, discriminazioni. Dobbiamo vivere insieme. Per me anche i cristiani dovrebbero poter andare alla Mecca come noi siamo venuti qui in mezzo ai pellegrini del Giubileo. E dovrebbero poter praticare in pace la loro religione. Siamo tutti uguali. Preghiamo solo un dio". Nel frattempo in piazza San Pietro si è passati a recitare l’Ave Maria. Si muovono le bocche di tutti, compresi quelli che nemmeno conoscono a memoria tutte le parole di questa preghiera. "Prega per noi peccatori" dicono tutti insieme. "Ma i peccatori sono quelli che non ci danno il permesso di soggiorno", sostiene Nusreddin, originario del Mali, da tre anni in Italia senza aver ancora ottenuto un documento. "Vivo a Ladispoli. Ma non sempre. Dormo dove capita. E lavoro quando posso. Ora che la minaccia degli integralisti si sta facendo più seria, per noi musulmani inserirci nella vostra società diventa sempre più difficile". L’Angelus sta per terminare, a termine ci sarà una messa. Chi vuole può raggiungere gli altri migranti che già sono entrati in Basilica. Il pontefice invita tutti a andare per riempirsi "il cuore di pace". "Ma sono gli altri ad essere in guerra - spiega Rashid, migrante della Sierra Leone - ma è un’assurdità. Siamo tutti uguali, come si può decidere di uccidere delle persone solo perché credono in un altro Dio? E come si può tollerare che noi veniamo trattati in Europa in modo diverso? Solo perché crediamo in un altro Dio?". Dal Senato via libera allo "ius soli" per tutti gli sportivi Gazzetta del Mezzogiorno, 18 gennaio 2016 Porte aperte ai giovani talenti dello sport nati in Italia da genitori immigrati. La scorsa settimana, infatti, il Senato ha definitivamente approvato il disegno di legge che concedendo la cittadinanza italiana ai giovani stranieri apre al tesseramento nelle società sportive. "Palazzo Madama -annuncia il sen. Piero Liuzzi (CoR) - ha definitivamente fornito le chiavi giuridiche all’opera di perequazione e di trasparenza nel mondo dello sport, fornendo serenità a dirigenti, atleti, genitori". Finora la Penisola presentava una situazione "a macchia di leopardo", con una ragnatela di regolamenti emanati dalle federazioni sportive, spesso in contrasto con le direttive europee e le norme italiane. "Lo ius soli degli sportivi - aggiunge il parlamentare pugliese, membro della commissione Cultura del Senato - indica un metodo, un percorso di inclusione da tenere presente quando lo ius soli per gli stranieri giungerà in aula". "In quell’occasione - spiega -occorre serenità di giudizio, nessuna foglia di fico e nessuno che si trinceri su posizioni preconcette, nessuno che ingaggi battaglie ideologiche né a destra né a sinistra". "Operando con serenità d’animo - conclude Liuzzi - i due rami del Parlamento potranno dare all’Italia una buona legge, quanto più giusta ed equa per la civile convivenza e lo sviluppo". Lampade, camici, porte blindate: così nasce la marijuana di Stato di Franco Giubilei La Stampa, 18 gennaio 2016 A Rovigo il centro ricerche che seleziona la cannabis terapeutica. Le piante madri della cannabis del Crea-Cin di Rovigo, unico centro italiano che seleziona la marijuana per uso medicale. Nella foto il ricercatore Gianpaolo Grassi. (Foto di Roberto Brancolini). Una novantina di piante madri della cannabis riposano in uno stanzone in ambiente controllato al terzo piano del Crea-Cin di Rovigo, unico centro italiano deputato alla selezione della marijuana per uso medicinale, esposte al calore artificiale di lampade gialle al sodio da mille watt. I rametti poi vengono clonati, impiantati in lana di roccia e trasferiti in un incubatore nella stanza di fianco, alla temperatura di 25 gradi e a un’umidità del 90%. Da qui le piantine prenderanno la via dello stabilimento chimico-farmaceutico militare di Firenze, che le coltiverà fino a raccoglierne le infiorescenze, essiccarle e a confezionare le dosi di farmaco. Se il prossimo giugno l’Aifa darà la sua approvazione a tutto il procedimento, sarà possibile passare alla produzione vera e propria: "Allo stato attuale il prezzo della cannabis per uso terapeutico, che viene importata interamente dall’Olanda, si aggira fra i 30 e i 36 euro al grammo, perché agli 8 euro iniziali si sommano le spese di trasporto, assicurazione, Iva, grossista e del farmacista, che ne raddoppia il prezzo in quanto prodotto galenico magistrale - spiega il dottor Gianpaolo Grassi, primo ricercatore del Crea-Cin, Centro ricerca colture industriali del ministero delle Politiche agricole -. È una cifra che potrebbe essere dimezzata se la producessimo qui in Italia, dato che si eliminerebbero i passaggi del grossista e le spese di trasporto e assicurazione". LA SEDE - La sede del centro è una palazzina Anni 50 alle porte di Rovigo, con sistema d’allarme e porte blindate. È qui che, dopo 10 anni di studi e fra qualche inconveniente come la visita della Finanza che sigillò temporaneamente le piante alcuni anni fa, e qualche furto nella serra esterna, gli esperti hanno selezionato due varietà di cannabis, ribattezzate CinBo e CinRo. La prima è a più alta concentrazione di Thc, il principio attivo della canapa, la seconda è un ibrido con Thc e Cbd, il cannabidiolo, studiato per i suoi effetti antiepilettici. "Il prodotto selezionato nel nostro centro e prodotto a Firenze sarebbe il più rispettoso al mondo delle caratteristiche richieste a un farmaco di origine vegetale, perché osserviamo il Drug master file richiesto dall’Agenzia del farmaco - aggiunge Grassi -. Invece negli stati Usa dov’è stata liberalizzata non c’è alcun controllo, in Israele la coltivano in serra e in Canada la produzione è demandata a 23 aziende private. Quanto all’Olanda, dove il ministero della salute segue tutto il programma e le cose sono fatte meglio, non si conoscono le varietà usate: non sono registrate all’ufficio europeo preposto". Per contro, la registrazione è un elemento essenziale per conoscere le caratteristiche di una sostanza, soprattutto quando è un farmaco, come in questo caso. Siamo ancora alla fase sperimentale e ci vorrà tempo per coltivare e produrre cannabis a uso terapeutico nel nostro Paese, e così i raccolti, ora come ora, non vengono distribuiti. Intanto, undici regioni e le province autonome di Trentino e Alto Adige si sono dotate, ognuna a modo suo e per patologie diverse, di leggi per rendere disponibile la cannabis medicinale. Cannabis terapeutica: la Regione Lombardia dice sì, ma sarà gratis solo in ospedale di Alessandra Corica La Repubblica, 18 gennaio 2016 Cinque i tipi di patologie per le quali i medici potranno ricorrere al farmaco. La ricetta permette di accedere alla terapia senza spendere solo in ospedale. Le cure (con molte restrizioni) a domicilio sono a pagamento. Via libera in Lombardia alla cannabis terapeutica. L’indicazione è contenuta nelle Regole di sistema, l’insieme delle norme varate dalla Regione per governare la sanità lombarda nel 2016. Nel provvedimento, il Pirellone recepisce un decreto del ministero della Salute del 2015, con il quale vengono individuati cinque tipi di patologie per le quali i farmaci con i principi attivi della marijuana potranno essere usati dai medici. Senza che i pazienti paghino nulla, ma con "indicazioni rimborsabili a carico del Ssr", ovvero, il servizio sanitario regionale. A beneficiarne, secondo gli esperti di terapia del dolore, dovrebbe essere un migliaio di pazienti, sugli oltre 80mila che in Lombardia soffrono di dolore cronico. La decisione mette al passo il Pirellone con altre dieci regioni italiane - tra le quali Emilia Romagna e Toscana, Liguria e Veneto, Sicilia e Abruzzo - che sulla materia non solo si sono già attivate da mesi ma hanno anche emanato leggi regionali ad hoc. "Una cosa che qui invece ancora manca: bisogna fare presto - dice la democratica Sara Valmaggi, vice presidente del Consiglio regionale - Bene che nelle regole per il 2016 ci siano le prime indicazioni, ma non basta: occorre una norma precisa". L’argomento è già stato affrontato dal parlamentino di via Fabio Filzi ad agosto. Quando, nell’ambito della discussione della riforma della sanità, è stato approvato un ordine del giorno dei Cinque stelle che chiedeva proprio l’introduzione della cannabis terapeutica negli ospedali. A votare no furono 13 consiglieri di maggioranza, a esprimersi a favore in 53. Tra questi, anche tutti i rappresentanti del Carroccio e, in primis, lo stesso governatore Roberto Maroni. Sul tema, i Radicali e i Giovani democratici hanno anche avviato una raccolta firme, per una legge regionale d’iniziativa popolare: "Siamo vicini all’obiettivo delle 5mila firme - spiega il radicale Marco Cappato, che è anche tesoriere dell’associazione Luca Coscioni - Chiediamo il pieno riconoscimento di questa terapia dal servizio sanitario regionale, senza restrizioni". Le cure a base di cannabis saranno permesse per le patologie che comportano sia dolore sia spasmi, come la sclerosi multipla e le lesioni del midollo spinale. E poi per l’anoressia, le malattie che causano dolore cronico, la sindrome di Tourette (che comporta movimenti involontari). Infine, per i pazienti sottoposti a chemioterapia, radioterapie e terapie per l’Hiv, e non riescono più a combatterne gli effetti collaterali con i farmaci tradizionali. Il nuovo corso inizierà "a partire dalla data di disponibilità del prodotto da parte del ministero della Salute alle Regioni", si legge nel documento approvato dalla giunta Maroni a fine anno. Ovvero, non appena arriverà il primo carico di marijuana prodotto dal ministero. Già, perché il decreto di Roma ha stabilito che la cannabis ad uso terapeutico non venga più importata dall’estero (in Europa uno dei maggiori coltivatori è l’Olanda). Ma sia prodotta a Firenze: il progetto pilota, partito la scorsa primavera, prevede la coltivazione di 100 chili di marijuana da parte dell’Istituto farmaceutico militare. Il primo raccolto dovrebbe essere pronto a breve: un fatto, questo, che permetterà di abbassare i prezzi (finora molto alti), e far partire la rimborsabilità. In Lombardia, al momento, la ricetta del medico (una prescrizione particolare, priva del nome del paziente, sostituito da un codice per garantirne la privacy) permetterà di accedere alla terapia solo in ospedale senza pagare. Le cure somministrate (con molte restrizioni) a domicilio, invece, resteranno a pagamento. Torture, gli Usa non pubblicano il rapporto di Guido Mariani lettera43.it, 18 gennaio 2016 Oltre 7 mila pagine. Ma solo 525 sono pubbliche. Il dossier Usa sulle torture nella guerra ad al Qaeda rischia l’insabbiamento. E nemmeno Obama vuole leggerlo. Settemila pagine che scottano. Nel dicembre del 2014 la commissione Intelligence del Senato statunitense pubblicò una sintesi fortemente censurata di un rapporto su una lunga indagine relativa al programma di arresti e interrogatori messo in atto dalla Cia negli anni della guerra al terrore scatenata da George W. Bush. Il documento era di 525 pagine e già conteneva un nutritissimo elenco di episodi, tutti documentati, di maltrattamenti, arresti illegali e torture compiuti dalla Cia, spesso con l’avvallo della Casa Bianca. La relazione è pubblica e consultabile, ma l’intero e dettagliato resoconto dell’inchiesta della Commissione che si compone di quasi 7 mila pagine, non è mai stato diffuso al pubblico ed è stato consegnato in copia alla Casa Bianca, al dipartimento della Giustizia, al dipartimento della Difesa, al dipartimento di Stato e al direttore della National intelligence. A quanto pare l’incartamento non è mai stato aperto. Neppure nello Studio ovale. È una mancanza voluta. Leggere quelle pagine significherebbe confrontarsi con le pratiche descritte nel rapporto, identificare nome e cognome dei responsabili e quindi imporrebbe di prendersi carico e di individuare le responsabilità di quanto commesso. Le conseguenze di questo sarebbero imprevedibili e porterebbero a coinvolgere quasi tutti gli organi dell’amministrazione dell’era Bush. L’intera indagine rischia così l’oblio. Chi ha commesso e autorizzato le torture non dovrà probabilmente mai rispondere di quello che ha fatto. Il rapporto della Commissione senatoriale, presieduta dalla Senatrice democratica della California Dianne Feinstein, è stato il frutto di un lavoro iniziato nel 2009 sotto l’amministrazione Obama che ha portato all’analisi di più di 6 milioni di pagine di documenti della Cia e decine di testimonianze raccolte nel corso degli anni sia da inchieste interne della Cia che dal Senato. Le conclusioni della Commissione, diffuse pubblicamente, sono, seppur scandite da migliaia di omissis, già sufficientemente gravi. La Cia dopo l’11 settembre attuò un sistema di arresti e interrogatori "potenziati" ("enhanced interrogations") mirati a ottenere informazioni cruciali nella lotta contro il terrorismo. Il programma, secondo la relazione, faceva ricorso alla tortura e portò alla morte di diversi detenuti, non contribuì a fornire informazioni strategiche di grande valore. La Casa Bianca venne informata dell’utilizzo di tecniche di interrogatori "enhanced", ma i direttori della Cia che si sono succeduti nel corso degli anni (Tenet, Goss e Hayden) e i loro funzionari nascosero particolari o mentirono consapevolmente in diverse occasioni sulle reali procedure e sulle conseguenze che stavano avendo, impedendo qualsiasi indagine e supervisione ed enfatizzando, sia nei confronti dell’amministrazione che dell’opinione pubblica, i risultati del programma. Secondo la commissione, dunque, la Cia operò come organo al di fuori di qualsiasi controllo legale o politico. "Sono convita che non vogliano diffondere questi fatti", ha dichiarato Diane Feinstein. "E mi riferisco all’amministrazione, all’intelligence e al dipartimento di Giustizia". La senatrice ha anche scritto una lettera a novembre al ministro della Giustizia e al direttore del Fbi sollecitandoli a leggere i documenti. "Il lascito storico di questo rapporto", ha dichiarato, "non può essere sepolto in qualche cassaforte degli uffici dell’esecutivo, senza essere analizzato da coloro che più devono imparare da quanto è accaduto". L’aspetto più grave, secondo lei, è che il rapporto pubblico è solo un riassunto e la reale dimensione di quello che è accaduto può essere compresa solo leggendo la relazione completa. I documenti pubblici per quanto stringati e sbianchettati sono un’antologia di racconti dell’orrore. Nel novembre 2002 Gul Rahman un prigioniero afgano venne incatenato nudo e al pavimento e morì di freddo in una prigione della Cia; due anni dopo un afgano chiamato Janat Gul venne arrestato con l’accusa di essere al corrente di un possibile attacco di al Qaeda sul territorio americano e venne deportato in un centro di detenzione segreto (forse in Europa) qui, dopo un’autorizzazione del ministro della giustizia Ashcroft, venne sottoposto agli "interrogatori potenziati". Ci si rese conto che il detenuto non sapeva nulla, ma dagli Usa ordinarono di insistere. Gul arrivò al punto di chiedere a chi lo interrogava di "ucciderlo o di lasciarlo morire". Dopo mesi di detenzione si appurò che era stato la vittima di un depistaggio. Il saudita Mustafa al Hawsawi, tuttora detenuto a Guantánamo, ha subito danni permanenti all’intestino dopo forzate applicazioni di una procedura chiamata "alimentazione rettale". Questi episodi, secondo la stessa Feinstein, sono solo la punta dell’iceberg. Il programma di interrogatori della Cia costò più di 300 milioni di dollari, alcuni Paesi il cui nome non compare nella relazione pubblicata, percepirono tangenti per accettare la presenza delle prigioni segrete americane sul proprio territorio. "La Cia diede milioni di dollari in contanti a governi stranieri". È lecito supporre che nella relazione integrale sia scritto quali siano questi governi e quali funzionari furono pagati. Le associazioni per i diritti umani si stanno intanto attivando sul piano legale per riuscire a rompere il muro di omertà e segretezza e per poter arrivare a individuare almeno qualche responsabile. La American civil liberties union ha richiesto che l’intera documentazione legata all’inchiesta rientri tra i documenti soggetti a diffusione secondo il Freedom of information act (Foia). L’organizzazione inoltre, non potendo agire contro uomini della Cia protetti da documenti top secret, ha intentato causa a nome di alcuni ex prigionieri nei confronti di due psicologi, James Mitchell e Bruce Jessen. La loro vicenda nel documento reso pubblico dalla Commissione è solo accennata senza citare i loro nomi e rappresenta un altro lato oscuro di questo scandalo. I due avevano come unica esperienza sul campo quella di essere stati docenti a un corso di sopravvivenza organizzato dall’Air force (l’aeronautica militare). Non avevano alcuna conoscenza di terrorismo, intelligence o di al Qaeda. Erano privi di formazione linguistica o background culturale relativi ai Paesi in cui l’America stava combattendo. Proposero però alla Cia un programma di interrogatori che si basava su alcune tecniche di "persuasione" basate su teorie pseudo-scientifiche e fondarono una compagnia privata che ben presto fu messa sotto contratto dal governo Usa. La Mitchell Jessen and Associates divenne così un contractor e si prese carico di decine di interrogatori "potenziati". Dal 2005 la Cia appaltò quasi tutti gli interrogatori a questa società che ha ricevuto in tutto una parcella di 81milioni di dollari. "Queste storie non possono essere sepolte", ha scritto in un editoriale Elizabeth Beavers, portavoce di Amnesty International. "La tortura è illegale, senza alcuna eccezione ed è contro a ogni valore che gli Stati Uniti rappresentano. In un clima di paura non è impossibile che questa storia si ripeta in futuro e, anzi, alcuni candidati alla presidenza non hanno escluso che il programma possa essere riattivato". Quelle 7 mila pagine non vedranno la luce nel prossimo futuro, troppo scomode in un anno elettorale in cui gli Usa devono affrontare la minaccia di un nemico come l’Isis, temibile anche più di al Qaeda. L’attuale presidente della commissione Intelligence del Senato il repubblicano Richard Burr, che è subentrato alla Feinstein, ha chiesto addirittura la restituzione del rapporto definendolo "partigiano" e solo fonte di inutile imbarazzo per il mondo dell’intelligence. A troppi conviene far fina di non sapere. Libia: rinviata di 48 ore formazione governo unità nazionale La Repubblica, 18 gennaio 2016 Il termine fissato dall’accordo di Skhirat era alla mezzanotte di sabato. Voci di liti sui nomi dei ministri e sul futuro del generale Haftar. L’inviato Onu nell’est per parlare col presidente del Parlamento di Tobruk. È stato rinviato di 48 ore l’annuncio della lista dei ministri del nuovo governo libico di unità nazionale. Lo rende noto il Consiglio guidato dal premier designato Fayez Al Serraj in una nota pubblicata dai media locali. Una decisione che ha fortemente irritato l’inviato dell’Onu Martin Kobler, a Shahhat, nell’est del Paese, per incontrare Aqila Saleh, il presidente del Parlamento libico basato a Tobruk, e convincerlo a sostenere l’esecutivo. I motivi dello slittamento. La scadenza prevista dall’accordo firmato il 17 dicembre a Skhirat, in Marocco, era fissata alla mezzanotte di sabato. Nel comunicato Serraj ha assicurato di aver lavorato incessantemente per 30 giorni facendo "grandi progressi" e di essere in grado di rispettare la scadenza, ma ha preferito prendersi altri due giorni per presentare la lista dei ministri che sarà poi votata dal Parlamento riconosciuto dalla comunità internazionale nel giro di dieci giorni. Secondo quanto riporta il sito informativo al Wasat, il rinvio è stato necessario a causa di una serie di contrasti sorti durante la riunione che si è svolta ieri notte a Tunisi. Le divergenze riguardano in particolare la richiesta di assicurazioni avanzate da alcuni membri del Consiglio di presidenza sul futuro del generale libico Khalifa Haftar. Secondo il Libya Herald gli attriti si concentrano sul nome del ministro degli Esteri. E dall’hotel in cui si sono tenuti gli incontri sono trapelate notizie di liti infuocate. Per rispettare gli equilibri tra le tre storiche province della Libia - Tripolitania, Cirenaica e Fezzan - e i loro interessi si prospetta un esecutivo con 22 ministri e 44 viceministri. Molto delicata anche la questione degli istituti e gli enti statali di maggiore rilievo, come la Banca centrale e la Corporazione nazionale per il petrolio (Cnp). L’ira di Kobler. "Mi rammarico per la decisione del Consiglio presidenziale di posporre la formazione del governo di accordo nazionale. La Libia non può più attendere", ha commentato il Rappresentante speciale per la Libia del Segretario generale Onu. "Condivido le preoccupazioni dei componenti del dialogo politico. Le scadenze del dialogo politico libico devono essere rispettate", ha scritto ancora Kobler su Twitter. "I libici soffrono per le conseguenze di questo ritardo", ha aggiunto il diplomatico tedesco capo dell’Unsmil, la Missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia. Ancora più esplicito un tweet successivo: "Esorto il Consiglio di presidenza ad attenersi alla nuova scadenza cui si è impegnato per assicurare una rapida formazione del governo di unità nazionale". Le esecuzioni dell’Is. In questa situazione lo Stato islamico, che controlla parte del territorio libico, manda messaggi di terrore. A Ben Jawad i jihadisti hanno "giustiziato" ed esposto in pubblico tre dei circa 150 prigionieri fatti nei giorni scorsi soprattutto fra militari in pensione e guardie degli impianti petroliferi. E sui social network è circolata una foto, scattata presumibilmente a Sirte, di un uomo crocifisso con polsi e caviglie legati a una struttura metallica, messo a morte perché ritenuto dall’Is una "spia" de gruppo Alba libica, la coalizione di milizie filo-islamiche al potere de facto a Tripoli. Secondo alcuni mezzi di informazione locali, le persone crocifisse sono due. Ci sono poi notizie non confermate secondo cui i jihadisti tengono prigionieri altri 150 membri di Alba libica in un complesso a Nufaliya, a 140 chilometri a est di Sirte, e hanno fatto irruzione in oltre 600 abitazioni a Sirte gettando in strada i suoi abitanti. Una donna del posto, raggiunta dal Libya Herald, ha dichiarato che l’intento dei miliziani è forse quello di reperire nuovi alloggi per i "foreign fighters che stanno arrivando in città". Un paese nel caos. Dopo la caduta di Moammar Gheddafi nel 2011 la Libia è sprofondata nel caos e nella violenza, con una serie infinita di fazioni e milizie in lotta per il potere. Dall’estate del 2014 ci sono stati due governi, uno con base Tripoli e uno, riconosciuto dalla comunità internazionale, con sede a Tobruk, nell’est del Paese. L’accordo raggiunto con la mediazione dell’Onu in dicembre dovrebbe porre fine alle divisioni e mettere la Libia in condizioni di fronteggiare la minaccia dello Stato islamico. Ma i presidenti dei Parlamenti rivali e molti deputati non appoggiano l’intesa, che continua a essere osteggiata anche da molti gruppi armati sul terreno.