Quel club anomalo anti riforma di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 17 gennaio 2016 La politica può dare luogo alle più imprevedibili e bizzarre convergenze. Se non abbiamo capito male, nella lotta, già iniziata, fra le opposte propagande in vista del referendum costituzionale di ottobre, assisteremo - come ha già notato Il Foglio - all’alleanza di fatto fra due gruppi (i quali useranno più o meno gli stessi argomenti) che, un tempo, mai avremmo potuto immaginare insieme: gli iper-conservatori costituzionali, i fan della "Costituzione più bella del mondo", a braccetto con i berlusconiani. Per vent’anni, i primi hanno accusato i secondi, oltre che di ogni possibile misfatto, anche di tramare disegni autoritari. Sarà curioso vederli spalla a spalla, mano nella mano, a inveire contro "l’autoritarismo" di Matteo Renzi, a mobilitare il Paese contro l’incombente tirannia renziana. Va peraltro ricordato che fra i due gruppi, e futuri alleati, una differenza importante c’è: gli iper-conservatori costituzionali sono per lo meno coerenti con la propria storia, i berlusconiani no. Anche se i vantaggi dell’abolizione del bicameralismo paritetico (due Camere con uguali poteri) superano di gran lunga, secondo chi scrive, gli svantaggi, non è certo illecito essere contro la riforma del Senato. Per esempio, perché si è perplessi su certe soluzioni tecniche o su aspetti della riforma che richiederebbero un approfondimento ulteriore (e su cui ha richiamato l’attenzione Michele Ainis sul Corriere del 14 gennaio). Oppure si è contrari alla riforma perché si ricordano i tanti casi del passato in cui la seconda Camera rimediò a qualche grave errore commesso dalla prima. O anche, per esempio, perché si sostiene una tesi (tutt’altro che disprezzabile) la quale suona grosso modo così: avete già fatto un grave errore abolendo le Province (che avevano tradizioni e dignità amministrativa) anziché quei carrozzoni burocratici che sono le Regioni, e adesso perseverate nell’errore attribuendo alle medesime Regioni - che di sicuro non sono i Lander tedeschi - un potere decisivo nella formazione del nuovo Senato. Sono critiche legittime anche se non dirimenti: l’alternativa, lasciare le cose come stanno, tenersi il bicameralismo paritetico, è peggiore. Ma che dire, invece, dell’obiezione (la principale obiezione dei nemici della riforma) secondo cui il superamento del bicameralismo paritetico sarebbe parte di un disegno autoritario? È vietato ridere. Perché dietro una simile convinzione c’è qualcosa di molto serio: ci sono, nientemeno, una tradizione costituzionale e una cultura politica che per decenni sono stati dominanti nel nostro Paese. Tutto si decise ai tempi della Costituente. Fu allora che il "complesso del tiranno" da una parte e i reciproci sospetti fra comunisti e democristiani dall’altra, spinsero a creare un assetto costituzionale fondato sulla debolezza dell’esecutivo, un assetto che non doveva permettere in alcun caso la formazione di governi forti e efficienti ma solo di governi fragili, circondati, e anche eventualmente paralizzati, da forti poteri di veto. Un assetto istituzionale in cui c’erano (ed erano fortissimi) i "contrappesi" ma in cui mancava il "peso" di un forte esecutivo. Il bicameralismo paritetico che ora si tenta di superare fu uno di questi cosiddetti, e mal detti, contrappesi. Fu così che, da allora, in Italia l’assemblearismo è sempre stato confuso con il parlamentarismo (mentre il primo va piuttosto trattato come una forma degenerata del secondo). Fu così che si affermò la stravagante idea secondo cui un governo istituzionalmente forte (come è, ad esempio, il Cancellierato tedesco) sia del tutto incompatibile con la democrazia. Ciò che, a quanto pare, sentiremo ripetere continuamente prima del referendum d’ottobre a proposito di autoritarismi e progetti autoritari ha dunque un’origine antica, e non si spiega se non ricordando ciò che scrisse Keynes: le idee circolanti in ogni momento si devono invariabilmente alla penna di scribacchini defunti ormai da tempo. L’incapacità di distinguere, di tracciare una linea in grado di separare assemblearismo e parlamentarismo, si trascina dietro un’altra conseguenza: rende difficile riconoscere la differenza che corre fra la democrazia liberale e la democrazia autoritaria. Se volete sapere che cosa sia una democrazia autoritaria dovete guardare alla Turchia di Erdogan o anche alla Russia di quel Putin che, a quanto pare, gode di così vaste simpatie qui in Europa. In una democrazia autoritaria, i media sono controllati dal governo, i giornalisti scomodi finiscono in galera, gli oppositori considerati più pericolosi muoiono per mano di misteriosi assassini che la polizia non riesce mai a trovare. Per cortesia, se è possibile, non si dica che la volontà di superare il bicameralismo paritetico abbia qualcosa a che spartire con tali esperienze. Oltre a certe virtù, Renzi ha anche, indubbiamente, molti difetti. Fra questi difetti non pare proprio che ci sia quello di voler emulare Erdogan o Putin. Il codice penale sventolato come una banderuola di Nicola Porro Il Giornale, 17 gennaio 2016 Il Consiglio dei ministri ha deciso di abrogare una serie di reati, trasformando la punizione da penale ad amministrativa, Sfidando il consenso di molti, vorrei sostenere la bontà di questa operazione. Ma sottolineare come il medesimo esecutivo rischi una gigantesca contraddizione. Saranno abrogati, tra gli altri, reati come quello di atti osceni, guida senza patente, ingiuria, evasione delle ritenute previdenziali e violazioni delle regole da parte di coloro che sono già stati autorizzati a coltivare la cannabis. In materia penale-fiscale il governo aveva fatto altrettanto alcuni mesi fa. Introducendo soglie sulla noi punibilità di certi reati tributari. Ci sono due buoni motivi per depenalizzare e affidare la sanzione a una multa. Uno di tipo pratico. E cioè liberare i tribunali penali da una mole incredibile di procedimenti. L’obbligatorietà dell’azione penale (altro feticcio del nostro sistema) fa sì che non ci possa essere una discrezionalità formale tra un reato bagattellare e uno che non lo è. Con Vittorio Mathieu, che pure non è certo un rivoluzionario, credo che la pena debba restare "una sofferenza, un dispiacere arrecato a chi si vuole punire". Dunque rendere la "sofferenza" effettiva dà il tono della giustizia. Non basta renderla solo formalmente "penale". Andiamo sul pratico e prendiamo ad esempio un reato (quello di clandestinità) che pure il governo non ha depenalizzato. Mi chiedo se sia più efficace, in termini di "sofferenza", aprire un procedimento penale che possa portare a un’ammenda o piuttosto prevedere una sanzione amministrativa che porti all’immediata espulsione? Probabilmente è difficile realizzare entrambi (visti i numeri dell’immigrazione), ma sul piano sostanziale è preferibile "esiliare" un clandestino che nazionalizzarlo in un nostro carcere (pena peraltro non prevista dal nostro ordinamento). C’è poi un secondo aspetto teorico. Ampliare a dismisura il campo di applicazione del codice penale, immaginare l’allargamento del diritto dello Stato di privarci della libertà, esercitando il monopolio legale della violenza, è una materia che uno Stato liberale dovrebbe trattare con attenzione. 0 si spera che la pena alla fine non si sconti e dunque si punta sulla sua capacità deterrente o si è davvero convinti che il giudice penale si possa occupare anche delle controversie private. Un’idea alquanto socialista della nostra convivenza sociale. Ma dicevamo, esiste anche una fatale contraddizione nel comportamento del governo Renzi, che vuole introdurre un nuovo reato. I dirigenti della pubblica amministrazione che non procedano al licenziamento del fannullone colto in fragrante, rischiano la galera. In questo caso, come in quelli appena depenalizzati, si persegue un ottimo fine. Il sospetto è che il codice penale sia diventato un bastone da agitare a seconda delle mode. E che la sua modifica sia fatta per rafforzare la direzione della politica contingente e non per prevenire o punire davvero comportamenti illegali. Una pena per tutti. A seconda dei sondaggi. Testi inattendibili, perizie e bugie. Il gran pasticcio del caso Uva di Silvia Mancinelli Il Tempo, 17 gennaio 2016 Chiesta l’assoluzione per gli agenti finiti nei guai. La sorella: "Ora so che Giuseppe è morto di freddo". Il 4 gennaio scorso Lucia Uva pubblicò sulla propria pagina Facebook la foto di Luigi Empirio, uno dei poliziotti coinvolti nell’inchiesta sulla morte del fratello Giuseppe. Undici giorni dopo per quel poliziotto e per gli altri sette imputati nel processo, è arrivata la richiesta di assoluzione da tutte le accuse. Una decisione non certo in controtendenza, quella presa dal procuratore capo di Varese, Daniela Borgonovo, e comunque in linea con l’archiviazione e il non luogo a procedere già sollecitati dai colleghi nelle fasi precedenti. Soddisfazione è stata espressa da parte del sindacato di Polizia Sap: "Il caso Uva - commenta il segretario generale, Gianni Tonelli - passerà alla storia come una delle più grosse patacche italiane. E lo dimostrerò". In attesa della sentenza di primo grado, prevista per il prossimo 29 gennaio, ecco tutti i "pasticci" del caso Uva. Facebook - "Almeno ora so, grazie al pm Daniela Borgonovo, che Giuseppe è morto di freddo", ha scritto sulla propria bacheca Lucia Uva in merito alla richiesta di assoluzione. Una richiesta avanzata anche per il poliziotto imputato insieme a cinque colleghi e a due carabinieri, del quale la donna pubblicò una foto a petto nudo: "Questo si chiama Luigi Empirio, era presente in caserma", scriveva il 4 gennaio scorso a corredo dell’immagine. "Io che colpa ne ho se come Ilaria Cucchi voglio farmi del male per vedere in faccia chi ha passato gli ultimi attimi di vita di mio fratello? Questo soggetto a Giuseppe lo conosceva molto bene...". Una battaglia graffiante, forte, tenace, quella di Lucia Uva, combattuta grazie al social network per ribadire la tesi degli abusi da lei sempre sostenuta. Ilaria Cucchi - Era stata la sorella di Stefano, il geometra romano morto il 22 ottobre 2009 all’ospedale Sandro Pertini durante la custodia cautelare, a pubblicare il giorno prima la foto di uno dei carabinieri indagati nell’inchiesta bis della procura di Roma sul pestaggio del fratello. "Volevo farmi del male, volevo vedere le facce di coloro che si sono vantati di aver pestato mio fratello, coloro che si sono divertiti a farlo. Le facce di coloro che lo hanno ucciso. Ora questa foto è stata tolta dalla pagina. Si vergogna? Fa bene", aveva scritto la donna, rivolgendosi allo stesso militare. L’avvocato di Davide Tedesco, "presentato" all’opinione pubblica pure lui in costume e sorridente, ha denunciato Ilaria Cucchi per diffamazione. Errori comportamentali - Sarebbero alla base del processo-pasticcio, secondo i legali della difesa. I sei agenti e i due carabinieri sono passati attraverso una prima richiesta di archiviazione da parte dei pm Abate e Arduini, un’altra di non luogo a procedere avanzata dal procuratore della Repubblica Isnardi facente funzioni, quindi per quella di assoluzione del pm Borgonovo. Gli avvocati parlano di un’insistenza nonostante ci fossero già tutti gli elementi per appurare le mancate responsabilità. L’istruttoria dibattimentale viene definita monumentale, "sono stati sentiti tutti coloro che avevano qualcosa da dire". L’accusa di calunnia potrebbe ribaltare l’esito di un processo orientato verso un finale obbligato, sebbene già tre pubblici ministeri si siano pronunciati in modo identico e in netta opposizione rispetto alle accuse avanzate dai familiari della vittima. Prove dubbie - "È stata disposta dal gip l’imputazione coatta - dice Tonelli - Sono stati forzatamente rinviati a giudizio gli otto tra poliziotti e carabinieri, nonostante agli atti non ci fosse nulla e anzi la relazione dell’autopsia controfirmata dal perito di parte abbia rilevato l’assenza di lesioni. La famiglia ha cambiato tre esperti, perché tutti incapaci di sovvertire i fatti. Le macchie ipostatiche presenti sul corpo dell’uomo sono conseguenti al decesso e non possono essere trasformate in ematomi. Le ipotesi presentate dagli stessi periti di famiglia parlano di una malformazione cardiaca, di forte assunzione di alcol, di grosso stress e dell’interazione dei farmaci somministrati per il trattamento sanitario obbligatorio (tesi quest’ultima poi accantonata) come cause della morte. Perfino l’avvocato Anselmo, ben consapevole che non c’era trippa per gatti, abbandonò la difesa. Non ha seguito il campo e il processo è stato celebrato con altri legali". Processo "sbilanciato" - È lo stesso segretario generale del Sap, con il quale sia la sorella di Uva che quella di Cucchi hanno avuto un recente confronto televisivo, a parlare di spettacolarizzazione della vicenda. "Gli atti sono secretati e si continuano a sparare baggianate a raffica - insiste Tonelli - I familiari delle vittime raccontano ogni giorno attraverso il circuito mediatico la loro personalissima versione, mentre ai nostri uomini non viene data la possibilità di difendersi per motivi professionali agli occhi degli spettatori che, in questo modo, sentono una sola campana. Ci siamo trovati ad assistere a una gogna mediatica, nonostante nessuno sia giudicabile colpevole fino a prova contraria, e oggi se provassimo a fare un test tra la gente, la maggior parte sosterrebbe con convinzione l’ipotesi dell’abuso da parte degli operatori della sicurezza. Tra l’altro il dipartimento della Polizia di Stato ha espresso vicinanza agli agenti imputati solo dopo la richiesta di assoluzione, mentre prima nessuno si era fatto vivo. In ogni fase del processo è stato presente un ufficiale dei carabinieri, mai uno dei nostri. Cerchiamo la verità, non diffamiamo sui social network uomini che potrebbero essere prosciolti da ogni accusa". Al vaglio degli inquirenti anche le testimonianze di personale ospedaliero e della Polizia Penitenziaria sulla freddezza e le chiamate rispedite al mittente da parte dei familiari di Giuseppe Uva. "Un uomo già abbandonato - dice Tonelli - nei suoi frequenti ricoveri in ospedale per le percosse ricevute, frequentando tossicodipendenti. E oggi pianto da tutti". Sardegna: Caligaris (Sdr); non ancora individuati direttori carceri di Nuoro e Tempio castedduonline.it, 17 gennaio 2016 La dott.ssa Carla Ciavarella, che avrebbe dovuto lasciare la Sardegna domani per tornare all’Istituto Superiore di Studi Penitenziari a Roma, opererà ancora per qualche tempo in regime di prorogatio. La dott.ssa Carla Ciavarella, che avrebbe dovuto lasciare la Sardegna domani per tornare all’Istituto Superiore di Studi Penitenziari a Roma, opererà ancora per qualche tempo in regime di prorogatio "Il Ministero non ha ancora stabilito a chi assegnare l’incarico di direttore dei penitenziari di Nuoro e Tempio, pertanto la dott.ssa Carla Ciavarella, che avrebbe dovuto lasciare la Sardegna domani per tornare all’Istituto Superiore di Studi Penitenziari a Roma, opererà ancora per qualche tempo in regime di prorogatio". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", esprimendo "perplessità in merito alla mancata individuazione di almeno due Direttori per le realtà detentive della Sardegna entrambe destinate ai cittadini privati della libertà in Alta Sicurezza". "In Sardegna - afferma - la carenza di direttori è il problema principale, è una questione che deve trovare una soluzione ancor prima di quella, altrettanto spinosa dell’assenza di un Provveditore assegnato all’isola. Gli Istituti Penitenziari, specialmente adesso che accolgono un crescente numero di detenuti sottoposti a particolari limitazioni, necessitano di interlocutori stabili. Gli incarichi doppi e tripli, anche se le persone sono altamente qualificate, non permettono ai Direttori di effettuare i colloqui con i detenuti quando questi ne fanno richiesta. Il più delle volte le problematiche si accavallano senza una soluzione il che può generare situazioni di tensione o di difficile controllo". "Dopo la chiusura di Iglesias e Macomer, peraltro assegnati a Direttori con altri incarichi, gli Istituti Penitenziari sono 10 ma i responsabili sono solo 6. È quindi indispensabile trovare al più presto almeno due direttori, anche in considerazione della difficoltà a raggiungere Nuoro e Tempio. Una soluzione potrebbe arrivare il prossimo giovedì 21 gennaio quando è prevista una riunione al Ministero con i Provveditori per esaminare le problematiche organizzative. Nel frattempo, il 14 gennaio, è stato indetto un interpello, che scadrà il 26 gennaio prossimo, per ricoprire una posizione dirigenziale vacante per la Circoscrizione ispettiva di Cagliari. Si tratta di una funzione, connessa direttamente all’Ufficio dell’Ispettorato Generale del Ministero, aggiuntiva rispetto alla direzione di un Istituto. Insomma in un periodo di risparmio della spesa, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Ministero della Giustizia sembrano voler fare affidamento - conclude la presidente di Sdr - sul dono dell’ubiquità dei Direttori. Una buona idea ma non abbastanza per garantire costantemente le attese e i diritti di lavoratori, operatori, detenuti e loro familiari. Non resta che affidarsi al buon senso". Umbria: Casciari (Pd); servono investimenti per la formazione professionale ai carcerati umbriajournal.com, 17 gennaio 2016 Carla Casciari rimarca che "il fine della detenzione in carcere è l’espiazione della pena ma anche la riabilitazione del reo. "La Giunta regionale spieghi quali misure intende adottare per assicurare percorsi di formazione professionale o lavorativa all’interno delle carceri della regione, dato che nel nuovo bando per l’inclusione sociale del Fondo Sociale Europeo sono esclusi i detenuti ancora in regime di detenzione intramuraria". Lo chiede il consigliere Carla Casciari (Partito democratico) annunciando la presentazione di un’interrogazione all’Esecutivo di Palazzo Donini e sottolineando che "nelle carceri umbre si sta gradualmente attuando un regime di carcere aperto secondo modelli di sorveglianza dinamica, che richiedono ulteriori sforzi alla polizia penitenziaria, chiamata a riorganizzare il tempo dei detenuti e gli spazi di coesistenza". "Questo modello di gestione - continua Casciari - richiederebbe risorse aggiuntive, necessarie all’organizzazione di attività per i detenuti, avvalendosi anche del contributo di soggetti del terzo settore specializzati nella realizzazione di progetti che hanno il valore di esperienze formative o professionali. Ciò nonostante l’avviso pubblico "Investimenti in favore della crescita e dell’occupazione. Programma operativo della Regione Umbria Fondo sociale europeo, Programmazione 2014/2020 Asse 2 include tra i destinatari solo adulti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria in carico agli Uffici di esecuzione penale esterna e i giovani in carico all’ufficio di Servizio sociale minorile". Carla Casciari rimarca che "il fine della detenzione in carcere è l’espiazione della pena ma anche la riabilitazione del reo, per il quale è possibile immaginare un reinserimento nella comunità basato sull’acquisizione di competenze professionali allo scopo di limitare ulteriori e futuri costi sociali. La scelta della Giunta - conclude Casciari - non tiene conto dei risultati già raggiunti con le azioni messe in campo con la programmazione comunitaria 2007-2013 e rischia di disperdere il patrimonio di esperienze realizzate nelle carceri umbre, dove la situazione globale dei detenuti, stando ai dati forniti nella relazione del Garante dei detenuti e recentemente anche dai sindacati di polizia penitenziaria uditi in Terza commissione, è in sostanziale miglioramento". Alba: presentato il Garante comunale dei diritti dei detenuti, Alessandro Prandi di Alessandro Prandi targatocn.it, 17 gennaio 2016 Sabato 16 gennaio 2016 nella sala della Resistenza del Palazzo comunale di Alba il Sindaco Maurizio Marello insieme a diversi esponenti della sua Giunta e al Garante regionale dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà Bruno Mellano ha presentato al pubblico e alla stampa Alessandro Prandi "Garante comunale dei diritti dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà" ospitati nella Casa di Reclusione "Giuseppe Montalto", previsto dopo l’approvazione dell’Ordine del giorno proposto dal Consigliere comunale William Revello durante il Consiglio comunale del 28 aprile 2015. Il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale a livello regionale, provinciale e comunale è una novità degli ultimi anni nel contesto carcerario. I Garanti interagiscono con i detenuti, ricevono segnalazioni sul mancato rispetto della normativa penitenziaria, sui diritti dei reclusi, violati o parzialmente attuati e si rivolgono all’autorità competente per chiedere chiarimenti o spiegazioni, sollecitando gli adempimenti o le azioni necessarie. "Le persone che lavorano e vivono all’interno della Casa di Reclusione "Giuseppe Montalto" di Alba fanno parte della comunità albese - ha sottolineato il Sindaco Maurizio Marello - Oltre a ciò, c’è il tema dei diritti delle persone che come Amministrazione riteniamo fondamentali. Per questo, abbiamo anche istituito il registro per i bambini nati ad Alba da genitori stranieri ed il registro delle unioni civili affinché le coppie non sposate possano registrarsi ed accedere ad una serie di servizi che il Comune eroga alle persone unite in matrimonio. Su questa scia abbiamo voluto istituire pure la figura del garante, una figura che tiene i contatti con l’ambiente carcerario e che è stata molto importante durante i problemi con la legionella esplosa nella struttura penitenziaria a fine anno". "Ringrazio il Sindaco Maurizio Marello, la sua Amministrazione ed i consiglieri - ha dichiarato Alessandro Prandi "Garante comunale dei diritti dei detenuti" - che hanno lavorato sul tema carcerario che tiene insieme problemi complessi che vanno dall’esigenza della sicurezza, al reinserimento sociale, al rispetto della dignità della persona. Anche se in questo periodo il Carcere di Alba è chiuso, in città ci sono 26 persone agli arresti domiciliari e altre persone residenti in città sono detenute in altre carceri italiane. Il Garante inoltre fa da collegamento tra l’opinione pubblica e i temi carcerari concorrendo alla promozione di iniziative. Si tratta di un investimento sociale e di capitale umano che la nostra comunità fa sull’istituto penitenziario". "Si sta completando un puzzle che ho iniziato a costruire quando la Regione Piemonte mi ha affidato l’incarico - ha spiegato Garante regionale dei detenuti e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà Bruno Mellano. Da allora ho iniziato ad interagire con i comuni sedi di carcere. In Italia, attualmente sono 16 le regioni dove c’è il Garante. La figura del garante può entrare negli istituti, vedere e controllare sull’esecuzione della pena, controllare le condizioni igienico sanitarie e segnalare. È una figura importante". "Istituire un garante significa aprire una finestra all’interno del carcere - ha dichiarato il Consigliere William Revello - ed è una finestra di opportunità come l’inserimento di attività produttive per favorire il percorso lavorativo dei detenuti accanto ad altre iniziative". All’incontro hanno partecipato gli assessori comunali Rosanna Martini, Fabio Tripaldi, Alberto Gatto, Luigi Garassino, accanto a diversi consiglieri. Tra gli altri sono anche intervenuti il Consigliere comunale Ivano Martinetti e Domenico Albesano coordinatore dei volontari dell’associazione Arcobaleno che opera all’interno del carcere di Alba. Bologna: l’On. Mucci; carceri della Dozza e del Pratello, situazione da malattia cronica bolognatoday.it, 17 gennaio 2016 La deputata denuncia la presenza di un esiguo numero di educatori: "Solo 4 per 700 detenuti alla Dozza. Figure di riferimento per il percorso riabilitativo". Poi all’indice la situazione dei minori al Pratello: "Allarmante...". "Note liete e annosi aspetti critici". Così l’onorevole Mara Mucci riassume il suo tour negli istituti penitenziari di Bologna. L’ex grillina, infatti, venerdì scorso era in visita al carcere minorile del Pratello, ieri alla casa circondariale della Dozza. Proprie le condizioni dei reclusi di quest’ultima muovono le più aspre critiche della deputata. "Una cosa è inaccettabile alla casa circondariale della Dozza - denucnia Mucci in una nota - su una popolazione che viaggia ben oltre le 700 presenze, sono in servizio solo 4 educatori. Figure di riferimento per il percorso riabilitativo dei detenuti". Qui l’onorevole punta il dito contro lo Stato che "mortifica" il compito di questi educatori, a causa di un "Ministero della Giustizia sordo all’esigenza di un nuovo bando e di una gestione più attenta di questo indispensabile servizio". Quattro educatori su oltre 700 detenuti. "I più fortunati tra i reclusi - affonda ancora Mucci - hanno la possibilità di un incontro all’anno". Ma, onore al merito, per Mucci "l’incapacità di dare risposte da parte dello Stato", replica "una Bologna che ha in servizio all’interno della struttura circa 400 volontari". Per la deputata, in sintesi, nelle nostre carceri ci sono i due risvolti della medaglia: "Dove deve arrivare lo Stato - dice Mucci - la situazione è da malattia cronica e dove invece possono intervenire direttori, uffici e polizia penitenziaria, il quadro è più luminoso e capace di dare speranza". Infine l’accento si sposta sulle situazione dei minori, al Pratello. "È allarmante la somiglianza tra i due processi detentivi". Chiosa Mucci, per la quale "non c’è molta differenza tra quanto vive un 15enne al Pratello rispetto ad un 45enne alla Dozza". Questo è per la deputata "il secondo enorme limite della carceri italiane. Il primo è il consolidato essere luoghi atti a recludere e non a reinserire in società. E l’assenza di educatori nella struttura ne è una causa". Mantova: protesta per il cibo all’ex Opg di Castiglione, minacciato lo sciopero del pasto di Francesco Romani Gazzetta di Mantova, 17 gennaio 2016 Sotto accusa la nuova gestione, 48 degenti firmano un esposto al procuratore. L’azienda replica: "Vivande controllate e conformi". L’Asst istituisce la commissione mensa. Protesta per la qualità del vitto. Una cinquantina di degenti dell’ex Opg minaccia di passare allo "sciopero del pasto" come già accaduto un mese fa se non migliorerà la qualità del cibo fornito. Sia l’Asst di Mantova che l’azienda fornitrice ricordando che non si è in presenza di violazioni igienico sanitarie, annunciano la istituzione della "Commisisone mensa", con rappresentanti dei pazienti, per garantire e migliorare il servizio. All’ex Opg, oggi Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) attualmente sono ospiti 180 degenti. I pasti vengono forniti dalla bergamasca Dussman srl che ha rivinto l’appalto e gestisce un proprio centro di cottura. Il cibo viene consegnato alla mensa e qui distribuito da personale della Rems. Le lamentele per la presunta scarsa qualità del cibo sono state inviate attraverso un esposto sottoscritto da 48 ospiti al magistrato di sorveglianza, alla procura di Mantova nonché ai carabinieri e al vescovo Roberto Busti. Nella missiva si fa riferimento al cambio di capitolato avvenuto recentemente nella struttura Dussman di Castiglione. Secondo i pazienti, questo avrebbe comportato un peggioramento nella qualità delle vivande. Una prima protesta c’è stata circa un mese fa in un reparto, il Virgilio, nel quale a cena la maggioranza degli internati avrebbe rifiutato il cibo proposto con una sorta di "sciopero della fame" in forma civile e silenziosa. La stessa protesta si è manifestata il primo gennaio quando a pranzo è stato fornito pesce, secondo i degenti, di cattivo odore. "Tutte le pietanze somministrate vengono costantemente monitorate e prodotte con massima cura e nel pieno rispetto del menù concordato e della normativa igienico sanitaria vigente - spiega una nota del gruppo Dussmann, 60mila dipendenti in 18 paesi con un fatturato di 1,73 miliardi di euro -. Anche nell’occasione citata, in seguito alle opportune verifiche, non è emersa alcuna difformità. Il pasto somministrato risulta perfettamente conforme. Inoltre non ci sono state altre segnalazioni né anomalie in altri reparti o altre strutture che ricevono il pasto dal medesimo centro di cottura". Da parte sua l’Azienda socio sanitaria territoriale di Mantova spiega di essersi immediatamente attivata convocando un incontro con la ditta fornitrice del pasto, che si è dichiarata disponibile alla prosecuzione di un costante confronto. "Al fine di promuovere un miglioramento della qualità degli alimenti somministrati - spiega l’azienda - è stato deciso il potenziamento dell’apposita commissione interna, attraverso la partecipazione degli stessi pazienti, oltre che dei rappresentanti dell’Azienda. Tra i compiti di questo organismo, il coordinamento delle iniziative di monitoraggio sulla qualità percepita dai pazienti, che sarà perfezionato". Savona: chiude il carcere Sant’Agostino. Uil-Pa: colpo di grazia, in Liguria sarà blackout savonanews.it, 17 gennaio 2016 A deciderlo il decreto ministeriale del 28 dicembre 2015. A darne notizia è Fabio Pagani, Segretario Regionale della Uil-Pa Penitenziari. Chiude il carcere sant’Agostino di Savona, a deciderlo il decreto ministeriale del 28 dicembre 2015. A darne notizia è Fabio Pagani, Segretario Regionale della Uil-Pa Penitenziari che afferma: "Lo avevamo annunciato ad ottobre, purtroppo sono stati vani gli appelli per impedire la chiusura del carcere savonese che aveva le ore contate. Con decreto ministeriale del 28 dicembre 2015 il ministro Orlando lo ha soppresso". Continuano dalla Uilpa: "Una decisione al momento azzardata, si doveva prima identificare e costruire un nuovo carcere a Svona - possiamo concretamente ammettere che questo è il colpo di grazia per la Regione Liguria in termini di sovraffollamento - in quanto precisa il sindacalista della Uil-Pa - oggi la Liguria ha un tasso di sovraffollamento del 129,58% con 1.119 posti disponibili, infatti sono presenti, 1.449 detenuti, è la quarta Regione d’Italia con il più alto tasso di sovraffollamento (dietro solo a Puglia, Lombardia e Triveneto), - inoltre quello che preoccupa Pagani è il fatto che al S. Agostino gli ingressi Nuovi Giunti toccano picchi anche di 50 arrestati, (periodo luglio/agosto) e ovviamente la sua chiusura riversa tali numeri sugli Istituti di Imperia e Genova già sovraffollati o meglio a tappo - abbiamo più volte sottolineato l’impegno del Ministro Orlando a voler cercare di risolvere alcune situazioni critiche - ma al netto della buona volontà il disastro dell’Amministrazione Penitenziaria è sotto gli occhi di tutti ed è evidente - chiosa Fabio Pagani - al di là degli slogan, il mondo delle carceri non riscuote alcun interesse tra i politici e nel Governo altrimenti non saremmo qui a parlare di un’Amministrazione abbandonata al proprio destino., desertificata e prosciugata, senza fondi e senza dirigenti. e adesso la decisione di sopprimere un Istituto di importanza strategica e di contenimento del sovraffollamento, una decisione che speriamo non risulti fatale". Genova: Senarega (Ln); a Pontedecimo ottima organizzazione, ma c’è ancora da fare genovapost.com, 17 gennaio 2016 Il consigliere regionale della Lega Nord Franco Senarega ha effettuato un sopralluogo all’interno della casa circondariale di Pontedecimo per conoscere più approfonditamente le dinamiche che interessano in generale le carceri e nello specifico, per confrontarsi con una realtà che fa eco, a livello mediatico, solamente se accadono fatti incresciosi come suicidi, violenze o evasioni: "In realtà il mondo carcerario è ricco di sfumature che spesso non si conoscono. Esistono alcuni lati positivi che vanno evidenziati, come l’efficienza del personale che vi lavora e la passione nello svolgere la propria professione, che si legge nel comportamento di molti dipendenti che operano in tale settore". Il carcere di Pontedecimo nacque come casa circondariale minorile, poi divenne esclusivamente femminile, mentre oggi in tale struttura sono presenti 66 detenute donne e 70 uomini (sex offenders) cioè autori di reati sessuali. Sono invece circa 103 i dipendenti della polizia penitenziaria tra amministrativi e non: "Il carcere di Pontedecimo è ben strutturato - continua Senarega. Ci sono i locali adibiti alle cure sanitarie, quelli destinati ai colloqui, quelli addirittura rivolti all’accoglienza dei bambini parenti dei carcerati o figli delle detenute. Ricordo inoltre, come quello di Pontedecimo sia l’unico carcere femminile in tutta la Liguria". Una criticità è quella legata al fatto che non esiste un’unità cinofila in tutta la Liguria atta a sorvegliare la possibile presenza di droga all’interno degli istituti penitenziari e per questo ci si appoggia a unità che provengono da altre regioni, in primis Piemonte e Lombardia: "Nel corso della visita - aggiunge il consigliere - sono stato però colpito dal fatto che per la gestione e la sorveglianza dei detenuti, gli agenti della polizia penitenziaria non abbiano a disposizione nulla per tutelare la propria sicurezza, in sostanza non possano indossare nessuno strumento di difesa o di contenimento. È necessario e urgente quindi, che dal Governo centrale arrivi un segnale chiaro e tangibile che permetta al personale di lavorare in sicurezza, rivedendo le norme che regolamentano le dotazioni fornite ai poliziotti. Fortunatamente il vicepresidente Sonia Viale sta dimostrando una grande sensibilità sul tema delle carceri. L’intento da parte delle Istituzioni deve essere quello di lavorare per garantire il diritto alla salute ai detenuti, ma anche la sicurezza agli agenti di polizia che ogni giorno mettono a repentaglio la loro incolumità e non dimentichiamoci che prima di tutto questo, è fondamentale che ci sia la certezza della pena, cosa che purtroppo resta ancora oggi un miraggio". Latina: Polverini (Fi); la Casa circondariale non può essere declassata Italpress, 17 gennaio 2016 Ieri pomeriggio l’onorevole Renata Polverini (Fi) si è recata presso la Casa circondariale di Latina accompagnata dalla direttrice dell’istituto Nadia Fontana e dal personale del Corpo di Polizia Penitenziaria dove ha visitato il padiglione maschile, composto di 5 sezioni nonché quello femminile dove sono recluse detenute ad alta sicurezza. Nel corso della visita, la vice presidente della Commissione Lavoro Pubblico e Privato della Camera si è fermata a parlare con il personale di polizia penitenziaria e con alcuni detenuti. "Ho voluto visitare nuovamente questa struttura - ha affermato la deputata - dopo aver letto che la bozza del decreto ministeriale intende declassare questo importante penitenziario, nonostante da sempre ci siano detenuti sottoposti ad un regime di alta sicurezza e quindi sottoposti ad una sorveglianza più stretta rispetto ai reclusi comuni. Il carcere di Latina non può essere equiparato ad una casa a custodia attenuata quindi interverrò affinché il ministro della Giustizia Orlando riveda la bozza del decreto: il livello di un carcere non può solo dipendere dal numero dei detenuti, ma anche dalla loro tipologia e pericolosità sociale. Polverini è anche intervenuta sul caso della chiusura del reparto detentivo dell’ospedale di Latina dove vengono ricoverati i detenuti. "Mettere a repentaglio la sicurezza dei lavoratori solo perché non si vogliono pagare alcune ore di straordinario all’infermiere di turno è inaccettabile. Il reparto deve essere garantito per la sicurezza dei cittadini e la salute dei detenuti." Polverini, infine, ha visitato anche la cucina e i laboratori complimentandosi con la Direzione del carcere per le condizioni igieniche e strutturali del penitenziario e soprattutto per quelle del reparto femminile. Monza: detenuti premiati con un pomeriggio di emozioni e cultura al Teatro Manzoni quibrianza.it, 17 gennaio 2016 Oggi pomeriggio quindici detenuti del Reparto della Casa di Reclusione di Bollate saranno presenti al teatro Manzoni per assistere allo spettacolo "Ieri è un altro giorno". Un premio e un pomeriggio di ritorno alla normalità nella certezza che la cultura, nel suo senso più ampio, è un patrimonio comune a tutti gli uomini. Un pomeriggio a teatro. Un evento di routine per tanti, ma un’eccezionalità per quindici detenuti del Reparto della Casa di Reclusione di Bollate che oggi pomeriggio, sabato 16 gennaio, accompagnati dalla polizia penitenziaria e dagli educatori assisteranno al Manzoni allo spettacolo "Ieri è un altro giorno". Seduti tra il pubblico, a ridere, piangere, emozionarsi ed applaudire, abbattendo muri e pregiudizi e sentendosi, anche solo per poche ore, ancora liberi. Il tutto grazie al miracolo e alla bellezza della cultura. Un premio per queste persone che stanno scontando i propri errori e che in questo momento di riabilitazione stanno partecipando con profitto alle attività di arte terapia. Un premio e un pomeriggio di ritorno alla normalità nella certezza che la cultura, nel suo senso più ampio, è un patrimonio comune a tutti gli uomini. Un premio che il direttore del teatro Livio Golemme ha deciso di dare a questi quindici uomini per avere dimostrato la capacità di gestire le difficoltà e i conflitti e di maturare capacità organizzative. Un’occasione anche per una lettura critica del proprio passato, presente e futuro su quella vita che ogni giorno può offrire ancora nuove possibilità lasciando al singolo la libertà di scegliere nel bene e nel male, come raccontato dalla commedia portata in scena sabato pomeriggio. Grande la soddisfazione anche dell’onorevole Stefano Dambruoso, questore della Camera dei Deputati che ha accolto favorevolmente l’idea: "Un’iniziativa che rientra nei progetti artistici e culturali promossi dal Parlamento della Legalità - commenta - come la recente mostra in Villa Reale delle opere realizzate in carcere all’interno del progetto di Arteterapia. Sono iniziative che hanno lo scopo di sperimentare percorsi riparativi attraverso momenti i normalità culturale come quello di assistere a uno spettacolo di prosa teatrale". Ritratto di un’Italia che brinda al suicidio del "negro" di Niccolò Zancan La Stampa, 17 gennaio 2016 Non solo Ferrara, dove un nigeriano si uccide e c’è chi esulta. Altri episodi e altra intolleranza in Veneto e a Milano: abbiamo incontrato gli autori di quegli sfoghi. "È morto un negro. Una merda in meno. Alti i bicchieri!". Chi scrive una frase così su Facebook? Chi c’è dietro? Che storia è questa? "Mi chiamo Cristian C. Ho 31 anni. Non è un buon momento per me. Ho dei problemi famigliari. Faccio l’operaio in un’industria meccanica, sono uno qualunque. Voglio dire, non sono uno che si veste bene, come puoi vedere. Ma non volevo fare casino. Sabato pomeriggio sono tornato a casa stanco e ho scritto la prima cagata che mi è venuta in mente". È una frase razzista. "Non mi offendo. Dite pure quello che volete. Tante cose non vengono prese in considerazione, e allora ti va giù la catena". Cosa significa? "Vuole dire che delle persone di colore mi sono entrate in casa e mi hanno portato via tutto. Se ti entrano in casa, se spaccano, se invadono la tua vita, tu cosa rispondi? Cos’altro c’è capire?". Sette giorni fa un ragazzo nigeriano di 28 anni si è buttato sotto un treno a Ferrara. Nel giro di pochi minuti, sono incominciati ad arrivare i primi commenti. "Meglio così". "Finalmente una buona notizia!". "Posso unirmi ai festeggiamenti?". "Speriamo non si sia danneggiato il treno". Cristian C. ha scritto due volte. "Ma la mia doveva essere soltanto una roba da ridere. Una cazzata. Hai presente le cose che devono essere prese con le pinzette? Non volevo suscitare un polverone del genere. Infatti, questa è la verità, ho detto al mio amico di cancellare tutto. L’argomento mi ha stressato". Possiamo scrivere il suo nome? "Se volete fare denunce, andate pure avanti. Ma io preferirei di no. Poi mi toccherebbe spiegare ai miei parenti. E, come le ho detto, questo non è un buon momento in famiglia". Lei e la politica? "Non mi interessa". Ha pensato a quel ragazzo? "Non è bello suicidarsi. Ma finché non ti succede niente nella vita, sei gentile. A me qualcosa è successo". Il "banglatour" - Ferrara, Emilia. Terra di cultura e accoglienza. Sempre qui, tre giorni fa, i poliziotti sono andati a bussare a casa di un ragazzo di 19 anni. Con altri dodici estremisti di Forza Nuova, da Roma e Chieti, partecipava ai cosiddetti "banglatour". Raid punitivi contro migranti bengalesi. Un gruppo accomunato dal "propugnare sia le tesi negazioniste dell’Olocausto, sia quelle della superiorità della razza bianca", c’è scritto nel decreto di perquisizione. Questo viaggio è una specie di incubo reale. Un viaggio nella rabbia e nell’insofferenza italiana. Dove puoi imbatterti in una studentessa di 25 anni, laureata in Lettere antiche con 110 e lode, che ti dice: "Io sono fascista". Fascista? "Assolutamente sì, non ho problemi ad usare questa parola". Ha lunghi capelli biondi e un maglione girocollo rosso. Si chiama Martina Poli. Dei 15 militanti di Casapound a Verona, lei è la più giovane. I diritti umani - Davanti a un caffè macchiato, in un bar di fronte all’università, ti racconta la sua vita: "Mio padre è dottore di paese, mia madre casalinga. Io sono una secchiona. Studio tantissimo. Ho fatto la tesi sull’Eneide, forse il libro che preferisco in assoluto. Sogno di restare in ambito universitario, magari nella ricerca". Il suo punto di vista sull’attualità è: "Stiamo implodendo. Il modello di integrazione che vogliono propinarci è del tutto fallimentare. I fatti di Colonia ne sono la prova. La società multirazziale non può esistere. I migranti sono pedine nelle mani delle cooperative che li sfruttano, nessuno si integra veramente. Si creano solo dei ghetti. L’Italia sta morendo. Il diritto di base di un popolo sarebbe vivere in pace nella sua terra. Io credo che questa migrazione sia una violazione dei diritti umani". Ha mai parlato con un migrante? "Personalmente, no. Sarà perché in biblioteca non li vedo, sono sempre dal kebabbaro con la birra in mano". Cosa significa, per lei, definirsi fascista? "Per me è un’idea di Stato. Quella che ha permesso all’Italia di essere una nazione. Io non voglio che i bambini dei migranti abbiano la nostra cittadinanza. La cittadinanza è una questione di diritti e di doveri. Andate in giro, troverete solo odio. E se io mi impegno in politica, è proprio per cercare di convogliare questo sentimento in qualcosa di costruttivo". E quale sarebbe, il suo progetto politico? "L’Italia deve chiudere le frontiere e tornare ad essere una nazione. Il governo deve prendersi cura degli italiani. I profughi che non lavorano, cioè quasi tutti, devono essere immediatamente espulsi". Panchine anti-migrante - A Verona ci sono le panchine con le sbarre trasversali. Qualcuno le chiama anti barboni, altri le definiscono anti migranti. Le sbarre servono ad impedire a chiunque di sdraiarsi. Quelle panchine sono finite anche nel presepe, quasi come un simbolo della città. Verona è estremamente educata, piena di turisti che parlano lingue straniere. A Verona è nato il movimento "Verona ai veronesi". Il pretesto è stata una manifestazione che si è tenuta a pochi chilometri da qui, nella zona collinare chiamata Costagrande. Da cinque mesi, in cima a un cocuzzolo, nell’ex collegio di Don Mazzi, c’è un centro per richiedenti asilo politico. È delimitato da reti, chiuso con un grande cancello elettrico. Cinquecento migranti dormono divisi in container da sei posti l’uno. Il paese più vicino è a 4 chilometri, giù da una strada di tornanti, si chiama Avesa. L’idea era quella di usare una sala della "Trattoria popolare" per allestire una scuola di italiano per i migranti. Non è stato possibile. Uno dei promotori delle proteste si chiama Franco Grava. Ha 65 anni, due figli e tre ex mogli. "Quando ti innamori, ti viene la pelle d’oca - dice ridendo forte - ma poi passa". "La prima moglie l’ho conosciuta qui, la seconda a Johannesburg, la terza a Città del Messico. E alla fine, sai cosa ti dico? La prima è sacra. Solo con lei ho fatto dei figli. E io vivo per loro". Da ragazzo era il cantante di un complesso che si faceva chiamare "i Brutos", il suo cavallo di battaglia era "Guarda che luna" di Fred Buscaglione. Franco Grava è un venditore di detergenti concentrati. Compra le materie prime, le fa assemblare. Cosa ci faceva in prima fila contro i migranti di Costagrande? "In Italia c’è il caos. Questi ammazzano, stuprano. C’è l’invasione. Per trovare un bianco bisogna andare in Africa, fra poco. Oddio, io non ce l’ho con nessuno, ho viaggiato tanto. Ma quando vai all’estero, devi avere tutto in regola, mentre queste persone qua non vogliono nemmeno farsi identificare". I richiedenti asilo politico, veramente, sono stati tutti identificati. "Allora senti, ragazzo, ti faccio io una domanda. Se vengono delle persone a casa tua, tu le lasci entrare? Questi qui chiedono passaggi, tirano pugni sulle auto per farsi caricare su. Fanno quello che vogliono. Sporcano. Non parlano l’italiano". Ma è stato proprio lei, insieme ad altri residenti, ad opporsi alla scuola: "Certo, mica dovevano farla qui…". Sui social network, in questi giorni, è stata molto commentata una notizia che riguarda la Danimarca. Il governo danese ha deciso di sequestrare i beni dei profughi per fare fronte alle spese di gestione. Qualcuno si è indignato. È una pratica che ricorda ciò che facevano i nazisti ai deportati. Ma da una casa di Milano, la signora Laura S. ha attaccato gli indignati sui social network: "Secondo voi, mantenere milioni di nullafacenti è onorevole?". "Molestata sul bus" - Vive in zona Parco Lambro. Ha 50 anni. Indossa jeans, scarpe da ginnastica Adidas e non si trucca da molto tempo. "Perché il trucco è una schiavitù", dice. Il suo profilo Twitter traccia queste coordinate: "Il politicamente corretto è cancro. No Ue. No euro. No ius sanguinis". Ed eccola, in carne ed ossa: "Sono stufa di sentire frasi del genere: "Poverini, vengono dalla guerra". Sono stanca delle palle, dei condizionamenti verbali. Non guardo più la televisione". È una libera professionista, si occupa di assistenza clienti per una società che sviluppa software: "L’euro ha dimezzato il mio stipendio. La gente soffre e si ammazza. E intanto, cosa facciamo? Importiamo milioni di migranti che peseranno sulla nostra economia disastrata. Un esercito di maschi giovani disoccupati, molto ben messi fisicamente. Perché stiamo facendo una cosa del genere?". Quali sono i suoi rapporti con i migranti? "Una cara persona della mia vita è stata ricoverata in ospedale quattro mesi. Andavo a trovarla ogni giorno ma, alle nove di sera, non potevo prendere il pullman per tornare a casa. Sono stata molestata. Senza gravi conseguenze, grazie a dio. Ma io non sono mica Monica Bellucci, non è che la gente si volti a guardarmi quando passo in Piazza del Duomo. Eppure, una volta giravo libera per questa città. Adesso non più". Se le dicono che lei è razzista? "Me ne frego. Mi fa orrore il politicamente corretto. È spossante, è falso". Sono le sei di una sera italiana. Il vento ha pulito il cielo. E le cose, i contorni di tutte le cose, adesso si vedono nitidamente. La signora che non vuole "l’invasione dei nullafacenti" saluta: "Vado ad accudire tre gatti randagi - dice - vado dal mio uomo, la mia passione, la parte migliore di me. E poi cercherò di aiutare chi ha bisogno, animali o essere umani. Credo sia la cosa più importante da fare nella vita". L’intolleranza e il rischio della "zona grigia" di Maurizio Molinari La Stampa, 17 gennaio 2016 C’è un’Italia dove si gioisce per la morte dei migranti, ci si augura l’espulsione di tutti i profughi, si considera il multiculturalismo una iattura al pari dell’Unione Europea. Si tratta di una minoranza di individui, ma sono portatori di una mole di intolleranza contro il prossimo talmente velenosa e aggressiva da costituire un campanello d’allarme per tutti. Tanto più che un simile odio contro gli stranieri serpeggia in più Paesi europei, dall’Ungheria alla Germania. Si tratta della reazione più estrema all’emergenza dell’immigrazione extraeuropea e non può avere alcuna giustificazione né legittimazione. Abbiamo scelto di descriverla sul giornale di oggi perché è un seme dell’odio che indebolisce l’identità italiana ed europea rendendoci più vulnerabili ad ogni tipo di estremismo, interno ed esterno. La lezione di Primo Levi è nell’allertare sui rischi della "zona grigia" ovvero la tendenza della maggioranza a voltarsi dall’altra parte quando il vicino di casa commette azioni orrende, diffonde l’odio per il prossimo con azioni, o parole, quotidiane non eclatanti. Il nostro Niccolò Zancan ha percorso un sentiero di questa oscurità, descrivendone i volti, facendone emergere la sua apparente, agghiacciante, normalità. Ne esce una fotografia della banalità del Male che si cela dietro il rifiuto del prossimo solo perché straniero. Chiudere gli occhi, ignorare o sottovalutare la presenza di una simile intolleranza sarebbe l’errore più grave anche perché viene da parte di singoli individui nati e cresciuti nel nostro Paese dove studiano, lavorano, hanno delle famiglie, degli amici. La genesi di tale rifiuto del prossimo è in un’idea di Italia che appartiene all’archeologia della Storia: la convinzione che possiamo continuare ad essere un Paese con tutti gli abitanti bianchi, cresciuti in maniera simile, portatori di una cultura identica, estranea ad ogni tipo di diversità culturale, religiosa, etnica. Viviamo invece in una nazione dove si può essere italiani per origine o per scelta, dove si prega in maniera diversa e si possono avere genitori nati in Continenti distanti. Ciò è possibile perché i movimenti di popolazioni iniziati sin dalla fine del XX secolo hanno portato nelle nostre città quasi 5 milioni di stranieri con cui conviviamo sui posti di lavoro, nei luoghi di culto, sui campi sportivi, nelle scuole e strade. Le legittime differenze di opinione, dentro e fuori il Parlamento, su leggi e norme per regolare l’immigrazione non devono aprire spazi o creare alibi all’odio che si affaccia fra noi. Uomini soli verso l’Europa. Studio sui migranti: in Italia 9 su 10 sono di sesso maschile di Sara Gandolfi Corriere della Sera, 17 gennaio 2016 Troppi uomini, soli e arrabbiati, bussano alla porta dell’Europa? La domanda si rincorre da giorni, dopo il caso Colonia. Scemata l’indignazione del momento, ora tocca ai ricercatori analizzare statistiche e precedenti, e i primi risultati sono allarmanti: l’Europa del futuro rischia di essere troppo "maschile" e di soffrire così, inevitabilmente, un brusco aumento del tasso di criminalità. Un pericolo non necessariamente dovuto alla fede dei profughi ma allo squilibrio di genere: il 73% degli 1,2 milioni di richiedenti asilo in Europa, secondo gli ultimi dati disponibili, pubblicati dall’Economist, sono maschi contro il 66% del 2012. E l’Italia guida la lista, con il 90% di richiedenti asilo uomini. Le statistiche dei crimini. In generale, l’80-90% dei crimini - con lievi differenze da Paese a Paese - è commesso da giovani uomini adulti. "Non sappiamo ancora abbastanza della situazione demografica attuale per trarre delle conclusioni sui fatti di Colonia", mette le mani avanti Andrea Den Boer, docente di politica e relazioni internazionali all’Università di York. "Finora non è stata compiuto alcuno studio specifico nelle popolazioni migranti, ma le mie ricerche in India e in Cina (dove la politica del figlio unico ha provocato un netto calo nella nascita di femmine, ndr) confermano che gli squilibri di genere nelle popolazioni più giovani conducono a una maggiore instabilità sociale, tra cui un aumento della criminalità e della violenza, in particolare contro le donne". La miccia dell’emarginazione. La ricerca di Den Boer ha provato anche che, sul lungo periodo, le società con un alto numero di uomini che rimangono ai margini della società - perché impossibilitati a sposarsi o a ricongiungersi con le famiglie, o perché disoccupati - sono più instabili e soffrono di un crescente numero di crimini, abuso di droga, gang fuorilegge. Il rischio di ripercussioni negative aumenta nelle società in cui il passaggio alla vita di coppia è ritardato - come avviene tra i profughi e i migranti soli in Europa. "I celibi sono più propensi a commettere atti criminali rispetto agli uomini sposati o impegnati sentimentalmente", conferma Den Boer. In più "i giovani uomini soli tendono ad unirsi in gruppo e, inevitabilmente, il comportamento di un gruppo è più antisociale di quello di un individuo solo". Come hanno dimostrato i fatti di Colonia. L’allarme in Svezia. La Svezia ha accolto tre richiedenti asilo ogni 1.000 abitanti tra settembre 2014 e 2015, in percentuale il Paese più "accogliente". Il 17% di questi sono giovanissimi, tra i 14 e i 17 anni (in Germania questa fascia contribuisce per il 6%); un numero che potrebbe alterare in modo permanente gli equilibri di genere nel Paese nordico: attualmente ci sono 106 teenager maschi ogni 100 femmine, se tutte le richieste di asilo saranno accolte la proporzione diventerà 116 a 100. Gli esempi positivi. La migrazione di massa non è necessariamente un problema, e sono numerosi gli esempi nel passato di Paesi che sono stati in grado di assorbire un alto numero di uomini senza soffrire di instabilità sociale. La Germania, ad esempio, negli anni Settanta accolse oltre 2,6 milioni di lavoratori stranieri, in gran parte uomini: perlopiù si fermarono un paio di anni per poi tornare in patria e contribuirono enormemente alla crescita dell’economia tedesca. "La chiave è far sì che i migranti possano compiere la transizione, diventare partecipanti a pieno titolo della vita sociale ed economica dello Stato in cui vivono - conclude Den Boer -. La maggior parte dei migranti in Europa, invece, sta ancora cercando di ottenere l’asilo politico, o addirittura non rientra neppure nelle statistiche ufficiali dei richiedenti asilo. La Germania ad esempio sostiene di aver accolto un milione di migranti nel 2015, ma finora ha registrato solo circa 400.000 richieste di asilo". In base alle cifre di Eurostat sui richiedenti asilo, l’Italia ha la più alta percentuale di richieste "maschili", rispetto agli altri Stati europei. "Ad ottobre 2015, il 90% delle 82 mila richieste erano di uomini, per la maggior parte giovani tra i 18 e i 34 anni - conferma Den Boer. Ma l’Italia dovrebbe essere in grado di assorbire i nuovi arrivati e mitigare le conseguenze di questi numeri". Sebbene di più, insomma, gli arrivi nel nostro Paese non dovrebbero alterare gli equilibri di genere come in Svezia, dove il numero di profughi è in percentuale molto più alto rispetto al totale della popolazione. Governi in difesa e cittadini impauriti, così alzare muri è diventato un affare di Enrico Franceschini La Repubblica, 17 gennaio 2016 Contro i migranti, gli attentati o tra ricchi e poveri: la corsa a costruire barriere vale 21 miliardi di dollari all’anno. Nel mondo che alza nuovi muri tra residenti e migranti, ricchi e poveri, cittadini e stranieri, c’è anche qualcuno che ci guadagna: chi li costruisce. Denominato "Perimeter Protection" (Protezione Perimetro), parafrasi di sapore geometrico forse per dargli un tono meno bellicoso, il business delle barriere, delle inferriate, dei reticolati di filo spinato e di ogni altra diavoleria per tenere fuori chi vorrebbe entrare (o chi vorrebbe fuggire da qualcuno e qualcosa) vive un boom prodigioso: l’anno scorso il fatturato globale del settore ha superato i 14 miliardi di dollari, entro il 2020 si prevede che sfiorerà 21 miliardi di dollari, con un incremento del 7 per cento annuo. "Stiamo vedendo un enorme aumento della domanda per i sistemi di recinzione", dice Kai-Uwe Grogor, presidente dell’associazione tedesca della categoria, "il bisogno di sicurezza da parte di stati, aziende e privati è in crescita per una varietà di ragioni". Le precisa Jorge Saura, direttore di una società spagnola dello stesso campo: "La gente ha paura e ben diritto di averla considerato quello che sta succedendo, fra le ondate di profughi che invadono l’Europa, gli attentati terroristici a Parigi e le violenze di massa dei migranti contro le donne a Colonia". Entrambi hanno partecipato questa settimana alla fiera mondiale delle cortine di ferro e di ogni altro materiale che si è tenuta appropriatamente in Germania, il paese cui spetterebbe il copyright in materia, sebbene il "padre di tutti i muri", quello di Berlino, lo abbia abbattuto nell’indimenticabile 1989. Da allora la tecnologia dei muri ne ha fatta di strada, come riferisce il Guardian di Londra analizzando gli ultimi modelli presentati alla fiera di Norimberga: da Quickfence, sensori a fibre ottiche altamente sensibili collegati a telecamere a circuito chiuso, a Peperosso, non un night-club bensì un congegno in grado di spruzzare polvere di paprika a chili in faccia a chi varca una determinata linea di confine, da Roboguard, specie di robot da mettere di guardia alle proprietà, a quanto pare più efficace di un pastore tedesco ("e non c’è nemmeno bisogno di nutrirlo"), a Quadrosense, recinzione così sensibile che dà l’allarme non solo se la tocchi ma pure se si cerca di passarle sotto. Alcuni si possono comprare spendendo relativamente poco e si rivolgono chiaramente ai privati (come gli spruzza-paprika, prodotti ungheresi, in vendita a 500 euro l’uno); altri, decisamente più cari, interessano soltanto a governi: la barriera di metallo e cancellate lunga mille chilometri posta lungo la frontiera fra Turkmenistan, Afghanistan e Iran è costata 5 milioni e mezzo di euro. Non c’è dubbio che il proliferare dei muri sia uno dei fenomeni del nostro tempo: tra la barriera fra Israele e Territori Palestinesi, la rete metallica anti-migranti fra Ungheria e Serbia, la recinzione progettata tra Russia e Ucraina, quella minacciata da Donald Trump fra Stati Uniti e Messico se diventerà presidente, per tacere del mai demolito muro di Belfast fra cattolici e protestanti, basta guardarsi intorno per vederne uno. Gli esperti riuniti sostengono in effetti che ci sono oggi tante barriere divisorie lungo i confini dei paesi europei quante ce n’erano all’epoca della guerra fredda e del muro di Berlino. Altro discorso è se siano una risposta civile e risolvano davvero i problemi. Né è detto che proteggano sempre dalle intrusioni, specie quelle più tecnologicamente sofisticate: oggi chiunque può comprare un piccolo drone capace di superare senza sforzo qualunque muro. Vienna: "sospenderemo Schengen". Annuncio del cancelliere Faymann: controlli rafforzati di Zita Dazzi La Repubblica, 17 gennaio 2016 Ma a Milano, invece, quaranta famiglie aderiscono al bando del Comune e ospitano i migranti in cambio di 350 euro al mese. All’ora di cena, il cancelliere austriaco Werner Faymann, annuncia la decisione di "annullare temporaneamente" le regole di Schengen sulla libera circolazione in Europa, e il rafforzamento del "controllo delle persone che vengono nel nostro Paese". Chiunque raggiungerà l’Austria, spiega Faymann, "verrà controllato. E chi non ha diritto all’asilo verrà rispedito indietro. Perché se l’Ue non protegge le frontiere esterne di Schengen, è l’esistenza stessa dell’accordo a decadere". A Milano, soltanto poche ore prima, il Comune annunciava invece l’arrivo delle prime 40 adesioni al bando per ospitare a casa propria i profughi. Fra le 40 famiglie che si sono candidate c’è chi lo fa per "spirito umanitario" e chi vuole "conoscere in prima persona un profugo che ha rischiato la vita per venire in Italia". Qualcuno ha figli piccoli, qualcun altro ha fatto esperienze di volontariato, ci sono persino alcuni stranieri. Palazzo Marino darà un contributo di 350 euro al mese a chi ospiterà a un rifugiato per almeno sei mesi. Un’idea che, nonostante le polemiche della Lega, ai cittadini milanesi è piaciuta: in due settimane sono arrivate decine di richieste e centinaia di telefonate per informazioni. Ora la prima fase è chiusa. Mercoledì verranno aperte le buste con i nomi dei candidati. Poi partirà la verifica dei requisiti, i colloqui con gli psicologi e gli assistenti sociali. Chi partecipa al progetto, deve offrire una stanza con il letto e l’uso di un bagno. Entro un mese i primi cinque richiedenti asilo, selezionati dalla Caritas, verranno inviati nelle famiglie che hanno accettato di accoglierli. "È un primo passo, ma andremo avanti a raccogliere candidature per creare una grande "rete delle famiglie solidali" che ospiteranno oltre ai profughi, anche gli sfrattati italiani", dice l’assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino. Il Carroccio continua a sparare contro: "È un flop, ci sono state pochissime adesioni - dice il segretario provinciale Davide Boni - Pisapia usi piuttosto i fondi per aiutare le famiglie milanesi in difficoltà per l’affitto o il mutuo". La replica di Majorino non si fa attendere: "Per anni ci hanno invitato a portare a casa nostra gli immigrati. Ora che molti si fanno avanti, continuano a criticare". I fondi sono statali e vincolati all’accoglienza dello Sprar, sistema di protezione per i richiedenti asilo. "Noi abbiamo fatto domanda non certo per quei pochi soldi - spiega Marco Sessa, 48 anni, impiegato - La nostra è una scelta di solidarietà umana di fronte a una tragedia a cui assistiamo impotenti, vedendo in televisione le immagini di questi flussi enormi di persone che scappano dalla guerra a piedi, con i figli sulle spalle, senza niente addosso oltre ai vestiti. È la prima volta che io e la mia ragazza possiamo fare qualcosa di concreto. Questo ci emoziona, ma non c’è nulla di eroico nel nostro gesto di solidarietà". Il signor Sessa, che nella vita è dirigente dell’associazione Aisac (che tutela persone affette da una malattia genetica rara), come tutte le altre 40 famiglie che si sono candidate, seguirà un corso di formazione prima di aprire le porte di casa. "Eravamo un po’ preoccupati dopo Colonia - ammette. Ma ci rassicura sapere che saremo seguiti in questa avventura e che la persona che ci manderanno sarà stata comunque selezionata in anticipo da figure competenti". Come la famiglia Sessa, molte altre hanno valutato la proposta del Comune, che garantisce una cifra attorno agli 11 euro al giorno, contro i 35 che vengono spesi quando il rifugiato è ospite in una struttura del terzo settore. "C’è un risparmio per la pubblica amministrazione - spiegano a Palazzo Marino - Ma noi continueremo a occuparci degli altri aspetti previsti dalle convenzioni, come i corsi di lingua e formazione lavoro". Il meta-terrorismo e la strategia di marketing dell’Isis di Francesco Strazzari Il Manifesto, 17 gennaio 2016 Il meta-terrorismo si nutre dell’amplificazione dei codici comunicativi che l’Isis ha mutuato da Hollywood, investendo molto nella post-produzione e nella strategia di marketing. Jihadismo e comunicazione. Il meta-terrorismo si nutre dell’amplificazione dei codici comunicativi che l’Isis ha mutuato da Hollywood, investendo molto nella post-produzione e nella strategie di marketing e lancio in prime time. Invece che interrogare esperti di sociologia visuale che tramite quattro coordinate tecniche sappiano decodificare i messaggi e inserire le immagini in un contesto interpretativo, i nostri media le infarciscono di commenti che ne sublimano immancabilmente il potere comunicativo. Le immagini che arrivano nelle ore dell’attacco jihadista all’hotel Splendid di Ouagadougou si ripetono, inseguendosi identiche su tutti i canali. L’assalto gemello dello scorso novembre, che prese di mira il Radisson Blue Hotel nella capitale del Mali, aveva già proposto lo schema: la replica "a rullo" della stessa sequenza, una ripresa del vano scale e poco altro nei dintorni dell’albergo, e un imbarazzante vuoto di altre immagini della città e del paese. Poi arrivano i commentatori del caso - spesso volti consueti avvezzi a parlare di tutto - affiancati da immagini di propaganda jihadista, intervallate da mappe improvvisate. Nell’era dell’informazione globale, questo è lo sconcertante poco con cui abbiamo ormai quotidianamente a che fare: un chiodo ribattuto all’infinito, una miscela di immagini catturate fra circuiti internazionali e social media. Bagliori violenti, punti che raramente vengono uniti da analisi minimamente convincenti: quando si parla di terrorismo ognuno dice un po’ quello che gli pare, vai poi tu a verificare. Una settimana fa Cheikh Ould Salek evade dal carcere di Nouakchott, capitale della Mauritania, dove pende sulla sua testa una condanna a morte per attentato alla vita del Presidente. La sera prima della fuga aveva chiamato a raccolta i compagni di cella, distribuendo laute somme di danaro; la mattina dopo sulla sua branda hanno trovato una bandiera di Al Quaeda nel Maghreb (Aqim) e una dedica al fantomatico leader della brigata Al-Morabitoun, Mokhtar bel Mokhtar - noto come le borgne, "il guercio". Più volte dato per morto (da ultimo dopo un raro attacco aereo statunitense sui cieli libici) "il guercio" si è recentemente riallineato con i comandi di Aqim, impegnandosi nella costituzione di un ampio fronte quaedista ad ampio raggio, "Al-Qaeda dell’Africa Occidentale". Sotto la presidenza di Blaise Compaoré, cacciato da una sollevazione popolare un anno fa, Ouagadougu giocò un importante ruolo di mediazione su diversi fronti, dal conflitto in Costa d’Avorio a quello nel Nord del Mali, impegnandosi in trattative che condussero al rilascio di ostaggi occidentali tenuti in mani jihadiste. Scosso dalle convulse vicende della transizione, il Burkina Faso resta un paese a forte presenza cristiana, dove è debole la pressione di gruppi per l’introduzione della sharia, e dove la propaganda armata quaedista ha tutto sommato poco senso: gli attacchi di ieri vanno dunque letti alla luce di una emergente serialità su scala regionale. Perché questa lettura sia possibile occorre cercare di illuminare le zone d’ombra del racconto ufficiale - magari proprio a partire dalle incongruenze che hanno segnato l’attacco al Radisson di Bamako, dove gli attentatori ebbero anche il tempo per mettersi a cucinare. Nulla di tutto questo traluce dai resoconti mediatici a cui ci stiamo abituando, che sostanzialmente alternano immagini di palazzi assediati e clip di propaganda jihadista. Quando si parla di Europa lo schema è ormai consolidato, e si appresta a diventare un genere vero e proprio: si parte con la notizia di "allerta terrorismo a (città X)", corredata da foto di polizie pesantemente armate e strade deserte; a seguire, precisazioni da fonti rigorosamente anonime, e commenti di "esperti" che sempre più spesso si sporgono a speculare su scenari tanto implausibili quanto terrificanti: ad esempio, armi la cui stessa esistenza stessa è un atto sostanzialmente speculativo, come i dispositivi di dispersione radiologica. Questo genere emergente può essere ricondotto a un fenomeno specifico, a cui è bene dare un nome: meta-terrorismo. Adam H. Johnson sulla rivista statunitense Alternet (Independent Media Institute) lo definisce come il terrore propagato dalla replica non-stop di attacchi terroristici passati e dalla continua speculazione sugli attacchi futuri. Il meta-terrorismo si nutre dell’amplificazione dei codici comunicativi che l’Isis ha mutuato da Hollywood, investendo molto nella post-produzione e nella strategie di marketing e lancio in prime time. Invece che interrogare esperti di sociologia visuale che tramite quattro coordinate tecniche sappiano decodificare i messaggi e inserire le immagini in un contesto interpretativo, i nostri media le infarciscono di commenti che ne sublimano immancabilmente il potere comunicativo. Sicuramente sono in arrivo servizi sulle destinazioni di vacanza degli italiani al riparo dal rischio-terrorismo. Un sistema comunicativo in crisi trova nel meta-terrorismo un’occasione per rifiatare. La fame dei siriani è strumento di guerra di Chiara Cruciati Il Manifesto, 17 gennaio 2016 I primi casi accertati di morti per denutrizione anche a Deir Ezzor, assediata dall’Isis, mentre si registrano altri 5 decessi a Madaya nonostante l’accordo. I fronti pro e anti-Assad si rimpallano le responsabilità. Anche la fame è strumento di guerra, per far pendere dalla propria parte l’ago della bilancia della moralità bellica. Yarmouk, Madaya e ora Deir Ezzor: mentre si moltiplicano le città assediate e affamate dalla guerra civile, i due fronti - il pro e l’anti Assad - usano le sofferenze dei civili per mantenere salde le proprie posizioni. Ieri le Nazioni Unite hanno denunciato la morte di 15-20 persone a Deir Ezzor, città siriana orientale a metà strada tra Raqqa e il confine con l’Iraq, sotto assedio dello Stato Islamico da un anno. Sarebbero 200mila i residenti ancora presenti, costretti a vivere in condizioni sempre più drammatiche: manca il cibo, l’acqua è disponibile solo per poche ore a settimane, l’elettricità è assente da dieci mesi. Nelle stesse ore Medici Senza Frontiere annunciava la morte di cinque civili a Madaya, la città al confine con il Libano dove la scorsa settimana era stato raggiunto un accordo tra governo di Damasco e Onu per l’ingresso immediato di aiuti umanitari. Prima dell’accordo a morire di fame, a causa dell’assedio esterno del governo e interno dei gruppi di opposizione islamisti e moderati, erano stati 30 civili nel solo mese di dicembre. Ma si continua a morire perché gli aiuti non bastano, arrivano a singhiozzo. Lontano, nelle stanze della diplomazia mondiale, le super potenze si rimpallano le responsabilità: venerdì il vice ambasciatore russo all’Onu Safronkov ha accusato i qaedisti di al-Nusra di usare i civili di Madaya come scudi umani, impedendo l’arrivo degli aiuti, la stessa accusa mossa da Damasco e dal movimento libanese di Hezbollah, presenti fuori dalla città. Risponde l’ambasciatore francese alle Nazioni Unite Delattre: è il governo a non far passare gli aiuti nelle zone calde. Parole simili a quelle di Washington e Londra. La Russia ne approfitta e accusa l’Occidente di doppio standard per il silenzio su altri casi simili, "comunità come Nubul e Az-Zahra ad Aleppo, decine di migliaia di persone bloccate dai miliziani anti-Assad". Così ci si prepara al negoziato, che dovrebbe partire il 25 gennaio, tra governo e opposizioni. Accuse reciproche che servono a posizionarsi al meglio al tavolo del dialogo mentre il numero dei civili sotto assedio in tutto il paese sale ancora: sarebbero quasi 400mila, secondo l’agenzia Onu Ocha, le persone intrappolate in 15 città siriane, soffocate da assedi diversi che impediscono l’arrivo di aiuti umanitari. Nucleare iraniano, chi sono gli ultimi nemici del disgelo di Roberto Toscano La Repubblica, 17 gennaio 2016 Il segretario di Stato Usa John Kerry con il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif. La giornata di ieri ha segnato un passo molto importante nella complessa vicenda dei rapporti fra il mondo e l’Iran che potrebbe finalmente diventare un Paese normale. Il clima è cambiato ma sul futuro della distensione peseranno ancora due incognite. Con il rapporto dell’agenzia nucleare di Vienna, l’Aiea, è scattato infatti quello che l’accordo del 14 luglio definisce "implementation day", ovvero il momento in cui si prende ufficialmente nota del fatto che l’Iran ha compiuto tutti i passi previsti dell’accordo stesso in materia di trasferimento all’estero dell’uranio arricchito, riduzione del numero di centrifughe attive oltre a un’altra lunga serie di limitazioni e controlli. L’importanza di questa certificazione deriva dal fatto che essa apre la via a un processo, anche se graduale, di eliminazione delle sanzioni imposte all’Iran sia dagli Stati Uniti che dall’Europa. Il negoziato è stato lungo (si tratta a partire dal 2003) e complicato sia dal punto di vista tecnico che da quello diplomatico, ma se è vero che una soluzione sarebbe stata già possibile nel 2005, sotto la presidenza del riformista Khatami (quando gli iraniani - ma non americani ed europei - erano disposti ad accettare un accordo non molto diverso da quello raggiunto la scorsa estate) il risultato è stato raggiunto soltanto grazie a una forte volontà politica sia da parte dell’amministrazione di Obama che del presidente iraniano Rohani. Obama ha voluto soprattutto evitare che l’America fosse coinvolta in un’altra guerra nel Medio Oriente, una prospettiva che in certe fasi della vicenda si era pericolosamente avvicinata; Rohani, appoggiato dalla stragrande maggioranza della popolazione, ha ritenuto che né la sicurezza né lo sviluppo economico del Paese fossero possibili senza rimuovere l’ostacolo della questione nucleare. Tutto bene, quindi? Si può forse dire che da ieri la via sia libera per la trasformazione dell’Iran in un "Paese normale", capace di interagire con il resto del mondo e perseguire i propri interessi accantonando l’atteggiamento di contestazione e di sfida che hanno caratterizzato gran parte della sua storia successiva alla rivoluzione del 1979? Non solo, ma ora l’Iran potrebbe addirittura contribuire, sulla base di un compromesso, alla ricerca di una soluzione del terribile conflitto siriano. Gli scettici, che amano presentarsi come realisti, fanno notare che il potere in Iran non è certamente nelle mani di un presidente che nel sistema costituzionale iraniano assomiglia più a un primo ministro, mentre il vero capo dello Stato, cui spettano le decisioni finali anche nel campo della politica estera, è il leader supremo Khamenei. Un leader supremo che, pur avendo autorizzato il negoziato e soprattutto le concessioni iraniane che hanno permesso i necessari compromessi, ha ripetutamente tenuto a ribadire la necessità di non fidarsi degli americani e di non ritenere che dopo la questione nucleare il dialogo con gli americani possa essere esteso ad altri temi. Traspare effettivamente, nella posizione di Khamenei la preoccupazione dei conservatori (una speranza per chi vuole il cambiamento) che l’accordo possa ripercuotersi sul piano interno attenuando ulteriormente una carica ideologica che già da tempo ha dato segno di indebolirsi in un Paese in cui le nuove generazioni stentano ormai ad identificarsi con il messaggio rivoluzionario. Che fare se perdiamo il nemico, il Grande Satana? Ma sono i fatti a permetterci di superare un superficiale scetticismo. La giornata di ieri non è stata soltanto importante in quanto ha segnato l’implementation day, ma anche per l’annuncio della liberazione di quattro irano-americani condannati con accuse di spionaggio. Ebbene, appare evidente che non siamo di fronte ad un improbabile atto unilaterale di clemenza, ma al risultato di una trattativa fra Teheran e Washington che comporta, in contropartita, la liberazione di alcuni iraniani detenuti negli Stati Uniti. Che il clima dei rapporti fra Iran e Stati Uniti sia cambiato anche al di là della questione nucleare lo avevamo visto anche qualche giorno fa, quando un gruppo di marinai americani, arrestati dopo che erano entrati per un errore di navigazione nelle acque territoriali iraniane, erano stati liberati dopo meno di 24 ore, con un gesto di evidente buona volontà salutato con un caloroso ringraziamento da parte del segretario di Stato Kerry. Fatti concreti, fatti significativi. Eppure, accantonare uno scetticismo sistematico non dovrebbe significare abbandonare la prudenza. Molto infatti, in questa vicenda, è dipeso dall’impegno di Obama (e Kerry) e di Rohani (e Zarif), e mentre in Iran le elezioni parlamentari di febbraio dovrebbero confermare la solidità del governo di Rohani, in America le elezioni presidenziali potrebbero cambiare radicalmente la linea politica americana. I candidati repubblicani sembrano fare a gara nel denunciare l’accordo e nel minacciare di renderlo reversibile, sottolineando che l’Iran va mantenuto isolato non solo per il problema nucleare, ma anche per questioni come il terrorismo, l’appoggio ad Assad, e la sua implacabile ostilità nei confronti di Israele. Ma anche volendo dare per probabile l’elezione alla presidenza di Hillary Clinton resta il fatto che sembra difficile dare per scontato un suo analogo impegno - contro buona parte del Congresso, gli alleati arabi e soprattutto Israele - per mantenere la rotta della politica iraniana portata avanti dall’attuale amministrazione. Tolte le sanzioni all’Iran, scambio di prigionieri con gli Usa rainews.it, 17 gennaio 2016 È ormai sera a Vienna quando l’Aiea (l’agenzia dell’Onu per l’energia atomica), dopo l’annuncio di un clamoroso scambio di prigionieri tra Washington e Teheran, dà disco verde all’entrata in vigore dello storico accordo sul nucleare iraniano confermando che il Paese degli ayatollah ha rispettato tutti i suoi obblighi. Passano pochi minuti e quasi contemporaneamente Ue, Usa e Onu annunciano la revoca delle pesanti sanzioni internazionali, che consentiranno a Teheran di recuperare oltre 100 miliardi di asset congelati all’estero e di spalancare le sue porte al mercato petrolifero, finanziario e commerciale. Un accordo storico", "forte" e "giusto" ha commentato il capo della diplomazia europea, Federica Mogherini, in una conferenza stampa a Vienna con il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif, con cui ha condiviso un successo frutto di "volontà politica, perseveranza e di una diplomazia multilaterale". Anche segretario di Stato Usa John Kerry, in una conferenza stampa separata, ha elogiato "il potere della diplomazia nell’ affrontare sfide significative", poco dopo che Obama aveva firmato l’ordine esecutivo per revocare le sanzioni. Plauso anche dal segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon: "è un traguardo significativo che riflette lo sforzo e la buona fede di tutte le parti per rispettare gli impegni presi". Ma non tutti sono contenti di quella che il presidente iraniano Hassan Rohani ha twittato come "una vittoria gloriosa" di Teheran. Israele resta preoccupata: "anche dopo aver firmato l’accordo sul nucleare, l’Iran non ha abbandonato le sue ambizioni di acquisire l’arma nucleare e continua a lavorare per destabilizzare il Medio Oriente mentre esporta terrorismo in tutto il mondo, in violazione con i suoi obblighi internazionali", accusa il premier israeliano Benyamin Netanyahu. Pure i Repubblicani Usa danno battaglia: "oggi l’amministrazione Obama comincia a togliere le sanzioni economiche contro il principale Stato che sostiene il terrorismo nel mondo", ha osservato Paul Ryan, lo speaker della Camera (dominata dai Repubblicani), sostenendo che "molto probabilmente" Teheran approfitterà della nuova manna finanziaria per continuare "a finanziare il terrorismo". Se lo storico "Implementation day" era atteso da giorni, è arrivato invece a sorpresa l’annuncio dell’altrettanto storico scambio di prigionieri tra Usa e Iran, degno dei tempi della guerra fredda. Anche questa un’operazione già diventata terreno di scontro elettorale in America alla vigilia delle primarie. Tanto da indurre l’amministrazione Obama a precisare che non si è trattato di un tradizionale "scambio di spie" ma di un "gesto umanitario", dopo 14 mesi di trattative segrete che si sono chiuse solo nelle ultime 24 ore, non senza retroscena. È stata l’agenzia semi ufficiale Fars a comunicare per prima la liberazione di quattro cittadini statunitensi, incluso Jason Rezaian, il capo dell’ufficio di Teheran del Washington Post, detenuto da oltre 18 mesi e condannato per spionaggio in un controverso processo a porte chiuse. Gli altri tre rilasciati, anche loro come Rezaian con la doppia cittadinanza americana e iraniana, sono Saeed Abedini, un pastore cristiano, Amir Hekmati, un ex Marine, e Nosratollah Khosravi-Roodsari, un imprenditore. È stato annunciato il rilascio anche un quinto americano che non rientrava nell’accordo, Matthew Trevithick, uno studente incarcerato nei mesi scorsi. Washington, dal canto suo, si è impegnata a liberare sette iraniani, di cui sei con doppia cittadinanza, detenuti per violazione delle sanzioni americane a Teheran. Gli Usa hanno fatto altre concessioni, lasciando cadere le accuse e i mandati di cattura internazionali per una ventina di iraniani accusati di aver violato le sanzioni americane per aver aiutato Teheran a procurarsi tecnologia e merci Usa. Tra i retroscena, veri o presunti, dei negoziati per lo scambio dei prigionieri, il congelamento delle nuove sanzioni Usa ventilate contro Teheran per i suoi recenti test di missili balistici. La decisione di ritardare le sanzioni sarebbe stata presa dopo una telefonata di Zarif, il quale avrebbe ammonito Kerry che la mossa avrebbe potuto far saltare tutta l’operazione. Anche questo risvolto, se confermato, diventerà oggetto di polemica elettorale. Ma i candidati della destra hanno già colto la palla al balzo. Il magnate Donald Trump boccia lo scambio usando il pallottoliere: "Loro stanno ottenendo sette persone, quindi essenzialmente ottengono 150 miliardi di dollari più sette, e noi ne otteniamo quattro (prigionieri, ndr). Non suona troppo bene", ha detto, definendo in ogni caso "una disgrazia" il fatto che "siano rimasti lì così a lungo". Il senatore del Texas Ted Cruz ha sollevato dubbi su possibili dettagli ancora non noti dell’accordo. Gli ha fatto eco il senatore della Florida Marco Rubio: "L’Iran prende in ostaggio per ottenere concessioni". Intanto Obama ha giocato d’anticipo sulla revoca delle sanzioni all’Iran, conferendo a Kerry il potere di togliere l’ultradecennale bando sull’export di aerei passeggeri civili, che consentirà alla Boeing di vendere i suoi jet: una mossa per non restare spiazzato dal pre-accordo tra l’Iran ed il colosso europeo Airbus per l’acquisto di 114 aerei di linea. Scambio prigionieri tra Usa e Iran, ecco chi sono gli americani rilasciati di Amalia D’elia blognotizie.info, 17 gennaio 2016 Jason Rezaian, 40 anni, con doppia cittadinanza, capo dell’ufficio di Teheran del Washington Post. Gli Usa libereranno sette iraniani detenuti nelle carceri statunitensi. Lo hanno riferito fonti ufficiali americane, precisando che si tratta di uno studente, Matthew Trevithick, che era stato incarcerato nei mesi scorsi. L’Iran ha liberato anche un quinto detenuto americano che non era previsto negli accordi sullo scambio di prigionieri. Gli Usa hanno anche fatto cadere le accuse e i mandati di cattura internazionali per una ventina di iraniani accusati di aver violato le sanzioni americane per aver aiutato Teheran a procurarsi tecnologia e merci Usa. I detenuti americani liberati saranno trasferiti in Svizzera a bordo di un aereo elvetico e da qui raggiungeranno la base militare americana di Landstuhl, in Germania. Nella notte del 22 luglio 2014 le forze di sicurezza iraniane fecero irruzione nella sua casa e lo arrestarono insieme alla moglie iraniana, Yeganeh Salehi, anche lei giornalista. Tutti rilasciati successivamente, tranne Rezaian, rimasto dietro le sbarre della tristemente nota prigione di ‘Evin’, il carcere dei prigionieri politici e degli intellettuali. Rezaian era stato processato e condannato in un processo a porte chiuse per spionaggio e propaganda contro il governo. Ora Obama, finito sotto accusa dei Repubblicani nei mesi successivi all’arresto per il modo in cui era stato gestito il caso, può finalmente riposarsi. Da Al Capone a Chapo Guzmán: quando al boss piace la fiction di Roberto Saviano La Repubblica, 17 gennaio 2016 Hollywood ha sempre ispirato i criminali. Perché anche per loro è meglio la fiction della realtà. La notizia che una star di Hollywood, Sean Penn, e il capo del Cartello di Sinaloa, Joaquín "El Chapo" Guzmán, si siano incontrati affinché il grande attore potesse intervistare il grande narcotrafficante ha fatto il giro del mondo. Ma non poteva stupire chi conosce la logica dei boss delle organizzazioni criminali: El Chapo voleva semplicemente fare un film su se stesso. Come ho già scritto in Gomorra, e detto in molte occasioni, spesso si è inclini a credere che sia il cinema a guardare al mondo criminale, mentre molte volte è vero esattamente il contrario: è il mondo criminale che guarda al cinema. I boss sanno che buona parte del miglior cinema e delle migliori serie tv hanno come focus il mondo criminale, e quindi vogliono provare a partecipare alla loro produzione. In questo modo potranno guidare la loro rappresentazione a proprio piacimento per mostrare il loro eroismo e le loro vittorie sull’autorità. È sostanzialmente per questo che, dal Messico all’Italia, le organizzazioni criminali hanno ispirato film o ne hanno tratto ispirazione. Al Capone, il gangster americano, fu il primo a farlo. Fu proprio il suo soprannome, "scarface", lo sfregiato, a dare nel 1932 il titolo al film di Howard Hawks. Il boss di Chicago inviò sul set a Hollywood alcuni dei suoi uomini per capire come lo stessero ritraendo e soprattutto per assicurarsi che non lo stessero rappresentando come un killer da quattro soldi. In un’intervista avrebbe poi dichiarato poi di disprezzare i gangster movie del tempo, definendoli "terrible kids stuff", cioé robaccia da ragazzini. Eppure si narra che custodisse assai gelosamente la sua copia personale del film di Hawks. El Chapo, nell’intervista poi uscita sulla rivista americana Rolling Stone, non solo non nega di essere un narcotrafficante, ma si vanta di essere il più grande di tutti: "Ho fornito più eroina, metanfetamina, cocaina e marijuana che chiunque altro nel mondo. La mia flotta è composta da sottomarini, aeroplani, camion e barche". Racconta anche di come ricicla i suoi narcodollari, un segreto di solito gelosamente custodito dai mafiosi. Sean Penn cita John Gotti, defunto capo della famiglia Gambino di New York, che insisteva nel dire di essere un semplice uomo d’affari. Ma potremmo citare anche altri mafiosi (Pablo Escobar, o il boss della mafia russa Semion Mogilevich) che dicevano di guadagnarsi da vivere esportando fiori o vendendo grano e frumento. El Chapo, invece, si vanta delle sue capacità criminali. E lo fa perché sa che la sua vita potrebbe diventare un gran film. E sa anche che il mondo sarà colpito dall’epopea di un uomo catturato, e poi evaso, molte volte. Quando lo scorso 8 gennaio i soldati della Marina messicana hanno fatto irruzione nel suo ultimo nascondiglio, a Los Mochis, sulla costa del Pacifico, hanno trovato anche alcuni dvd de La Reina del Sur, una telenovela ispirata a una donna a capo di un Cartello, una boss interpretata da Kate Del Castillo, l’attrice che ha poi reso possibile l’incontro tra El Chapo e Sean Penn. Questo perché i boss sentono la necessità di creare attorno a sé un immaginario di potere e glamour che nella realtà non hanno - spesso vivono nascosti sotto terra come topi, mangiando cibo schifoso - e la finzione cinematografica rende questa invenzione possibile. Inoltre, articolando la loro figura sul modello hollywoodiano del capo criminale, violento ma carismatico, e sempre circondato da donne, possono diventare immediatamente e universalmente riconoscibili come persone da temere. A Napoli, durante la faida del 2004, le nuove leve della camorra si ispiravano ai gangster del grande e del piccolo schermo: Matrix, Il Corvo, Pulp Fiction (e più di recente Breaking Bad). I boss emergenti ne imitano i protagonisti, che tutti conoscono, per creare il loro mito e avere presa sui propri sottoposti. Quando, nel gennaio 2005, Cosimo Di Lauro, figlio e erede del boss Paolo Di Lauro, fu stanato nel suo rifugio, non tentò la fuga. Ma prima che i carabinieri lo portassero davanti alle telecamere facendosi largo tra la gente del quartiere volle pettinarsi i capelli con il gel, se li raccolse in una mezza coda e poi indossò il suo impermeabile nero. Mentre avanzava ammanettato tra la folla il suo sguardo era tenebroso, da duro, alla Brandon Lee. Era Il Corvo. I ragazzini lo fotografarono e l’immagine del Corvo Di Lauro diventò immediatamente uno screensaver per cellulari. E ancora. Dopo l’uscita dei primi film di Quentin Tarantino i killer di camorra sembrarono aver dimenticato come si sparava: non tenevano più la pistola dritta, ma la giravano con la canna di piatto. Come nei suoi film. In questo modo, però, colpivano spesso alle gambe o al basso ventre, trovandosi poi a dover finire la vittima sparandole alla nuca. Il cinema non stava più imitando la vita vera, la stava influenzando. Gli anti-eroi di Tarantino sono diventati modelli di riferimento nel mondo mafioso perché è esattamente da quel mondo che provengono, il mondo dei renegades di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Perché è così che vogliono apparire i boss: rinnegati, incompresi, eroi negativi con un passato di grandi tormenti, vendicatori di se stessi e dei disperati, tutori di un nuovo equilibrio contro uno stato ostile. Le guardaspalle del boss di camorra Immacolata Capone, uccisa nel novembre 2004, vestivano come Uma Thurman in Kill Bill: caschetto biondo e tuta giallo fosforescente. E Romeo P. e Giuseppe M., due minorenni di Casal di Principe che a causa delle loro continue scorribande, che infastidivano anche i boss del Casertano, vennero uccisi nel 2004, prima di sparare ripetevano sempre il brano pronunciato da Jules Winnfield in Pulp Fiction: "Ezechiele 25,17. Il cammino dell’uomo timorato è minacciato da ogni parte dall’iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi". Un antieroe sprezzante del pericolo: così vuole essere percepito il camorrista. Cesare Pagano, boss degli "scissionisti" di Scampia, nel 2010 venne arrestato dalla polizia. Era inserito nella lista dei latitanti più ricercati dalle forze dell’ordine. Quando uscì dalla questura di Napoli per essere trasferito in carcere indossava una maglietta con la foto di Steve McQueen, l’attore maledetto che da ragazzino era stato in riformatorio e icona, con Papillon, della grande fuga dall’isola del Diavolo. Ma il cinema introduce anche linguaggi nuovi nelle dinamiche di mafia. La parola "padrino" non era mai stata usata nelle mafie italiane prima che, nel 1972, uscisse il film di Francis Ford Coppola. Prima di allora il termine usato per indicare un capofamiglia o un affiliato era sempre stato "compare". Fu dopo il film, negli Stati Uniti, che le famiglie mafiose d’origine italiana iniziarono a usare il termine "padrino". Così come cominciarono a indossare gessati e occhiali scuri, e a ripetere frasi tratte dal film. Luciano Liggio, boss di Cosa Nostra fino a metà degli anni 70, si faceva fotografare con la mascella sporgente come don Vito, mentre per John Gotti lo stile del capofamiglia del Padrino diventò una seconda pelle - tanto da essere soprannominato per la sua eleganza "The Dapper Don". Quanto a Bernardo Provenzano, nei primi anni 90, quando già era in cima alla lista dei superlatitanti ricercati per mafia, a rischio di essere arrestato volle comunque recarsi in un affollato cinema del centro di Palermo per vedere l’ultima parte della trilogia del Padrino. Tra tutti, però, il film in assoluto più amato dai mafiosi di mezzo mondo è Scarface, regia di Brian De Palma, anno 1983, il boss Toni Montana interpretato da Al Pacino. È il film che ha cambiato il modo in cui intere generazioni di affiliati volevano vedersi ed essere visti. Walter Schiavone, per esempio. A Casal di Principe possedeva una villa talmente fastosa che tutti in paese la chiamavano "Hollywood". Si racconta che per progettarla il boss della camorra avesse consegnato al suo architetto la cassetta Vhs di Scarface chiedendogli di costruirgliene una identica a quella di Tony Montana. Ma ville nello stravagante stile Montana sono state costruite dai vari boss in varie parti d’Italia: il capo della cosca Alvaro di Sinopoli, vicino Reggio Calabria, stava facendo costruire un vero e proprio palazzo per la sua famiglia: venne scoperto dai finanzieri ancora in fase di cantiere mentre lui era in carcere. Un’altra villa enorme è stata costruita in provincia di Bologna dai Mancuso, i cui uomini la usavano come base per trattare l’acquisto di ingenti partite di cocaina con narcos spagnoli e colombiani. Ma la passione dei criminali per Scarface non si ferma all’architettura: a Napoli alcuni boss hanno gabbie con tigri e leoni in giardino, proprio come Tony Montana nel film. Cosa fare quindi? È ovvio che non dobbiamo smettere di girare film sul crimine organizzato. È un mondo che non può non essere raccontato. L’unica cosa che possiamo fare, però, è fare attenzione. Assicurandoci, per esempio, che il boss non stia usando il film o la serie tv o l’intervista magari per mandare un messaggio, magari - come parrebbe nel caso nel caso dell’intervista di Sean Penn all’El Chapo evaso dal carcere - a El Mayo Zambada, suo socio di sempre nel Cartello di Sinaloa ma forse anche suo rivale interno. El Chapo deve anche aver scorto la possibilità di fare qualcosa di diverso, di dire qualche verità in più sul nostro tempo, come solo i grandi film di mafia sanno fare. Perché nei film di mafia, come nella realtà della mafia, alla fine tutti sono immersi nelle dinamiche del potere, tutti si muovono in un mondo dove se vuoi ottenere qualcosa devi usare ogni mezzo possibile: il sotterfugio, il sorriso o il mitra. Un mondo dove vince chi è preparato a rischiare la prigione - oppure la morte - pur di ottenere potere.