Depenalizzati guida senza patente e coltivazione di cannabis terapeutica non a norma Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2016 È stato il pacchetto depenalizzazioni il "piatto forte" del Consiglio dei ministri riunitosi ieri mattina a Palazzo Chigi per dare l’ultimo via libera a due decreti legislativi che attuano la legge delega 64/2014. Tra i reati penali che la riforma trasforma in illeciti amministrativi c’è anche la depenalizzazione della violazione dell’autorizzazione a coltivare cannabis a scopo terapeutico. Depenalizzati i reati per cui è prevista solo multa o ammenda. Il principio guida, come spiega il comunicato di Palazzo Chigi, è che "sono depenalizzati tutti i reati per i quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda previsti al di fuori del codice penale e una serie di reati presenti invece nel codice penale. Rimangono dentro il sistema penale ed esclusi dal provvedimento i reati che pur prevedendo la sola pena della multa o dell’ammenda attengono alla normativa sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, ambiente territorio e paesaggio, sicurezza pubblica, giochi d’azzardo e scommesse, armi, elezioni e finanziamento ai partiti". Lorenzin: solo interventi procedurali in impianti autorizzati per legge - In questo quadro, Fuori da questa cornice, coltivare cannabis resta reato, come ha confermato la ministra della Salute Beatrice Lorenzin al termine della riunione:?"Non c’è nessuna depenalizzazione" della coltivazione di cannabis ad uso terapeutico, la cui produzione è stata autorizzata dal ministero lo scorso anno. Il Consiglio dei ministri, ha precisato il ministro a margine di un evento dedicato all’accesso ai farmaci che si è svolto questa mattina a Roma, ha "soltanto depenalizzate alcune prescrizioni, nel senso che l’impianto che produce la cannabis, come l’Istituto farmaceutico militare, a titolo terapeutico ha un processo autorizzatorio". Nessuna depenalizzazione per chi produce cannabis - "Se ci sono delle prescrizioni - ha proseguito Lorenzin - in cui ci sono delle violazioni, alla prima scatta un’ammenda amministrativa molto pesante, mentre se non si ripristina la procedura viene revocata l’autorizzazione. Da qui a parlare di depenalizzazione, quindi, penso ci sia un doppio salto mortale con avvitamento. Forse era un desiderata di alcuni", ha concluso. Come annunciato, non rientra nel testo la depenalizzazione dell’immigrazione clandestina: la materia sarà regolata nei prossimi mesi con un provvedimento ad hoc. Sanzioni amministrative più alte per chi guida senza patente - Inclusione nel "pacchetto depenalizzazione" della guida senza patente: chi sarà trovato, la prima volta, alla guida senza patente o con patente non in regola eviterà il processo penale e pagherà una sanzione tra i 5mila e i 30mila euro: la sanzione amministrativa diventa quindi più salata di quella attuale, che va da 2.257 a 9.032 euro. Inoltre scatterà comunque la confisca del veicolo e in caso di recidiva resta la sanzione penale. In pista anche Comunitaria 2015 e "taglia decreti" - Varate dal Consiglio dei ministri anche le "Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea - Legge europea 2015" e il provvedimento cosiddetto "taglia decreti" ("Modifica e abrogazione di disposizioni di legge che prevedono l’adozione di provvedimenti non legislativi di attuazione", nell’ambito della legge delega per la riforma della Pa). La Legge europea 2015 si compone di 22 articoli, e punta a chiudere due procedure di infrazione, nove casi Eu Pilot e una procedura di cooperazione in materia di aiuti di Stato, oltre a prevedere una razionalizzazione delle procedure di notifica in Commissione europea delle misure con cui le amministrazioni intendono concedere aiuti di Stato. La riunione ha dato poi il via libera a due decreti legislativi in attuazione di direttive europee: uno sulle norme che disciplinano i fondi di investimento e l’altro sulla "Protezione mediante il diritto penale dell’euro e di altre monete contro la falsificazione". Secondo sì preliminare a norme su gestione terre e rocce da scavo - Il Cdm ha inoltre approvato in secondo esame preliminare un decreto del presidente della Repubblica che semplifica la disciplina di gestione delle terre e rocce da scavo. Il provvedimento assorbe in un testo unico tutte le disposizioni oggi vigenti su gestione e utilizzo delle terre e rocce da scavo qualificate come sottoprodotti, il deposito temporaneo delle terre e rocce da scavo qualificate come rifiuti e la loro gestione nei siti oggetto di bonifica. Rispetto al primo sì, il testo è stato ulteriormente integrato e modificato sia a seguito della consultazione pubblica rivolta a cittadini, associazioni e stakeholders del settore - che dal 19 novembre al 19 dicembre scorso hanno potuto presentare sul sito del ministero dell’Ambiente osservazioni e proposte di modifica - sia sulla base del parere espresso dalla Conferenza Unificata. Risarcimenti invece del penale di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 16 gennaio 2016 Non sono più reati l’ingiuria, il furto di cose in comproprietà, la falsificazione di scrittura privata, l’appropriazione di cose smarrite. Si deve agire in sede civile. Reati privatizzati: niente rischi penali, ma risarcimento danni a carico di chi ingiuria o ruba cose in comproprietà o usa una scrittura privata falsa. Con l’aggiunta di una sanzione civile punitiva se il fatto è stato commesso con dolo. Lo stato rinuncia, dunque, a prendere l’iniziativa e lascia alla vittima la decisione se agire contro il responsabile. Se si arriva a una condanna, lo stato, che nel frattempo è rimasto alla finestra, si ripresenta per incassare la sanzione civile. Se, però, la vittima non fa niente, il fatto rimane impunito e il responsabile la passa liscia. È quanto accadrà con l’applicazione del decreto legislativo, approvato ieri definitivamente dal consiglio dei ministri, in attuazione dell’articolo 2, comma 3, della legge 67/2014, che abroga alcuni reati e li trasforma in semplici illeciti civili puniti anche con una sanzione pecuniaria. La novità riguarda anche i fatti commessi precedentemente alla entrata in vigore del decreto legislativo in commento: chi ha fatto querela non potrà fare altro che rivolgersi al giudice civile. A dire il vero anche prima di questo decreto la vittima poteva chiedere il risarcimento all’autore del reato: quello che cambia è l’abrogazione del fatto come reato e l’aggiunta della sanzione civile. Il catalogo degli illeciti civili comprende l’ingiuria, il furto del bene da parte di chi ne è comproprietario e quindi in danno degli altri comproprietari, l’appropriazione di cose smarrite: per questo gruppo di illeciti la sanzione va da cento a 8 mila euro. Raddoppia invece la sanzione civile per gli illeciti relativi all’uso di scritture private falsificate o la distruzione di scritture private. La finalità del provvedimento è spiegata dal comunicato stampa del governo: togliere dalla scrivania dei magistrati del settore penale (pm e giudici) tutti quei fascicoli che rallentano la macchina giudiziaria e non portano di solito a nessun risultato utile. Le sanzioni pecuniarie penali, quando si arriva a una condanna, hanno un’alta percentuale di insoluto (il riscosso non raggiunge il 10%) e nella maggioranza casi le pratiche giacciono inerti negli armadi. Senza alcun beneficio della persona offesa. Tanto vale eliminare del tutto la tutela penale e lasciare tutto nella mani della vittima, che deve fare da sola i conti con spese e durata del processo civile. Secondo il governo la certezza di una sanzione pecuniaria civile di carattere economico aggiuntiva al risarcimento del danno avrà più forza di prevenzione e di tutela della persona offesa. Peraltro se quest’ultima non si muove, il risultato sarà una assenza di reazione a fatti comunque scorretti. Si noti, inoltre, la persona offesa non potrà più contare su indagini fatte dalle forze di polizia e dal pubblico ministero e dovrà darsi da fare per provare i fatti. Bisognerà vedere se la vittima non rinuncerà in partenza. Tra l’altro solo se la persona offesa desisterà, si avrà un alleggerimento del carico di lavoro per i tribunali: altrimenti il fascicolo si sposterà solo di ufficio e sarà a carico del giudice civile. Mano leggera sulla cannabis per le cure di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 16 gennaio 2016 Depenalizzati tutti i reati previsti da leggi speciali (fuori dal codice penale) puniti con pena pecuniaria e anche alcuni reati del codice penale. Ma il reato di clandestinità resta fuori. Il consiglio dei ministri, dopo l’approvazione favorevole (seppure con condizioni e osservazioni) da parte delle commissioni parlamentari (il 1° dicembre 2015 per il senato e 3 dicembre 2015 per la camera), ha approvato il decreto legislativo recante disposizione in materia di depenalizzazione a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 67/2014. Il criterio generale seguito è quello della cosiddetta depenalizzazione cieca, e cioè della depenalizzazione dei reati per i quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda previsti al di fuori del codice penale e una serie di reati presenti invece nel codice penale. Molti i reati coinvolti tra cui, stando al testo noto, il reato di omesso versamento, nel limite di 10 mila euro, delle somme trattenute dal datore di lavoro come contribuiti previdenziali e assistenziali e a titolo di sostituto di imposta; la guida senza patente; il noleggio di opere protette. Depenalizzata anche la violazione delle prescrizioni per la coltivazione di cannabis per fi ni terapeutici o di ricerca. Resta escluso dal provvedimento il reato di immigrazione clandestina, al centro del dibattito politico. La trasformazione in illeciti amministrativi riguarda anche le violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore del decreto in commento. Rimangono, però, ferme le sentenze e decreti passati in giudicato e, quindi, il decreto non riguarda i procedimenti già definiti. Resta dentro il sistema penale, e quindi esclusi dal provvedimento, un decalogo di reati che pur prevedendo la sola pena della multa o dell’ammenda tutelano interessi importanti. Sono i reati in materia di edilizia e urbanistica; ambiente, territorio e paesaggio; alimenti e bevande; salute e sicurezza nei luoghi di lavoro; sicurezza pubblica; giochi d’azzardo e scommesse; armi ed esplosivi; elezioni; finanziamento ai partiti; proprietà intellettuale e industriale. In genere con le sanzioni amministrative si pagherà di più (rispetto alle sanzioni penali), anche se non si sporca la fedina. Le nuove sanzioni amministrative saranno, infatti, cosi determinate: sanzione amministrativa da 5 mila a 15 mila euro per le contravvenzioni punite con l’arresto fi no a sei mesi, da 5 mila a 30 mila euro per le contravvenzioni punite con l’arresto fi no a un anno, da 10 mila a 50 mila per i delitti e le contravvenzioni puniti con un pena detentiva superiore a un anno. Carceri italiane. Il 34% detenuto per violazione della legge sulla droga di Franco Corleone (Garante dei detenuti della Toscana, già sottosegretario della Giustizia) Il Tirreno, 16 gennaio 2016 A questi vanno aggiunti circa 13.000 tossicodipendenti. Al ridimensionamento del sovraffollamento, come indicato dai dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati al 31 dicembre 2015, non ha corrisposto un miglioramento delle condizioni di vita quotidiane. Il 36% di chi è in carcere ha una pena residua inferiore a tre anni e potrebbe godere di misure alternative. I dati diffusi dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sulle presenze in carcere alla fine del 2015 confermano un quadro già ben conosciuto: le prigioni come discarica sociale. Grazie alla condanna della Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu) per trattamenti crudeli e degradanti, ai moniti del presidente Napolitano e ai provvedimenti parlamentari e governativi e soprattutto alla sentenza della Corte costituzionale del febbraio 2014 sull’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi sulle droghe, il sovraffollamento come emergenza totale in cui i corpi veniva schiacciati e torturati si è ridimensionato, ma non risolto. Infatti le presenze di detenuti si sono ridotte a 52.164 persone con una capienza regolamentare di 49.592 posti (non tutti fruibili) per cui in realtà mancano ancora almeno seimila posti. Purtroppo al successo quantitativo non ha corrisposto un miglioramento delle condizioni di vita quotidiane. Il caso delle detenute del carcere di Sollicciano a Firenze, morsicate dai topi, non è purtroppo un caso isolato: la mancanza di servizi igienici decenti, la carenza di acqua calda, il vitto scadente, l’acqua non potabile sono all’ordine del giorno. Evidentemente in queste condizioni il principio costituzionale del reinserimento sociale diventa un miraggio. Il senso della pena diventa un oggetto misterioso e i detenuti si sentono essi vittime, della violenza dello Stato. Si perdono le caratteristiche del diritto, dello stato di diritto, e in ultima analisi della democrazia. Ecco la ragione per cui la frase che l’Italia è il paese di Cesare Beccaria si trasforma in una grottesca parodia. La situazione è migliorata ma rimangono forti differenze territoriali. Un detenuto su tre è straniero. In 8.532 sono ancora in attesa di giudizio. Dai dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati alla fine del 2015 lo stato dei luoghi di detenzione italiani Guardiamo da vicino la fotografia dei numeri, assai eloquenti se li si sa leggere. Quale è la composizione sociale della popolazione detenuta? Giovani, sono 10.448 sotto i trenta anni, celibi 18.253 e stranieri 17.340 (33%); con una bassa scolarità, solo l’1% ha una laurea e il 6% con un titolo di scuola media superiore. I colletti bianchi sono dunque una esigua minoranza. È interessante il dato sui figli dei detenuti. Sono 22.361 che hanno figli. In totale i figli dei detenuti sono 43.824 che costituiscono un problema sociale che prefigura un futuro a rischio. Il primato della presenza di detenuti appartiene alla Campania (9.635), seguita dalla Sicilia (6.734) e dalla Calabria (3.437); dunque la questione criminale si declina come questione meridionale. Il dato delle detenute donne dimostra che la detenzione è prettamente maschile, infatti sono solo 2.107, il 4%. Il libro di Grazia Zuffa e Susanna Ronconi "Recluse", stimola una riflessione sulla condizione femminile imprigionata per cui si può dire che il carcere non è per le donne e si dovrebbero immaginare luoghi diversi dal carcere maschile. È in diminuzione il numero dei detenuti in attesa di giudizio, 8.523 persone costituzionalmente non colpevoli. I detenuti definiti sono 33.896 pari al 65%. Gli internati, cioè gli ospiti di quell’orrore civile che sono gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari che dovrebbero essere chiusi dal 31 marzo 2014 sono 440. Sono ristretti illegalmente e la cosa non suscita scandalo! C’è un dato che deve far riflettere. Il 34% delle presenze in carcere è per violazione della legge sulla droga e quasi totalmente per violazione dell’art. 73 del Decreto del presidente della Repubblica 309/90, la legge Iervolino-Vassalli voluta fortemente da Bettino Craxi che prevede alte pene per la detenzione di sostanze stupefacenti. Sono consumatori o piccoli spacciatori. Questo dato imporrebbe una riforma profonda della legge, con una depenalizzazione del consumo e una regolamentazione della canapa. Su questi temi va segnalato il 6° Libro Bianco sulla legge sulle droghe curato dalla associazione La società della ragione. A questi soggetti vanno aggiunti circa 13.000 tossicodipendenti che tutti, anche i più feroci proibizionisti, sostengono che non dovrebbero stare in carcere. Sono condannati all’ergastolo 1.633 soggetti e molti di loro subiscono il cosiddetto ergastolo ostativo, la cui incostituzionalità è fortemente sostenuta da costituzionalisti come Andrea Pugiotto, dall’ex ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick e addirittura dal Capo del Dap, Santi Consolo. Il 36% della popolazione detenuta ha una pena residua inferiore a tre anni e potrebbe godere di misure alternative che assicurerebbero una più bassa recidiva. Il carcere potrebbe vedere una presenza quasi dimezzata e concentrata solo sugli autori di gravi delitti, quelli contro la persona e gli appartenenti alle organizzazioni criminali. Un nuovo Codice Penale costituisce l’assoluta priorità. Dovrebbe finalmente sostituire il codice fascista di Alfredo Rocco e dovrebbe riscrivere i nuovi reati, finanziari, informatici, ambientali. Un ultimo dato eloquente. In Italia il numero degli omicidi è sceso sotto i 475 del 2014 e rappresenta il tasso più basso d’Europa. Se prevalesse la ragione e non la percezione, gli imprenditori della paura sarebbero zittiti e la riforma della giustizia fondata su un diritto minimo e mite potrebbe prendere corpo. E il garantismo tornerebbe ad essere sinonimo di civiltà. L’Associazione Antigone: serve depenalizzare pure l’uso personale di cannabis Ristretti Orizzonti, 16 gennaio 2016 È stato approvato stamattina il "pacchetto depenalizzazione" che, tra le varie misure, prevedeva anche la coltivazione di cannabis a scopo terapeutico, provvedimento al centro del dibattito negli scorsi giorni. Tuttavia questa depenalizzazione interessa solo la violazione dell’autorizzazione alla coltivazione a scopo scientifico o per la produzione di farmaci a base di cannabis. Non avrà quindi alcun impatto sulla condizione delle carceri né, tantomeno, su quella delle tante persone che si curano già oggi con la cannabis terapeutica, auto-coltivandola, con tutte le conseguenze penali del caso, come ci raccontano storie di attualità. Tra queste quella di un uomo che soffrendo di una forma di epilessia che gli procura acuti dolori ha trovato sollievo solo dalla cannabis che, però, è vietata. Con il passare del tempo l’uomo perde il suo lavoro da cameraman. Le mani gli tremano. Nonostante la legge lo vieti, coltiva poche piante di cannabis a scopo terapeutico. Ha la certificazione medica a disposizione, ma le forze dell’ordine e la giustizia dei tribunali sono inclementi. Viene arrestato e successivamente condannato a due anni e otto mesi di carcere nonché dodicimila euro di multa per sole cinque piantine di marijuana (pena poi ridotta a seguito della sentenza della Corte Costituzionale che ha bocciato la legge Fini-Giovanardi sulle droghe). Evita fisicamente il carcere solo perché incensurato. L’uomo - seguito anche da Antigone - ha presentato un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per essergli stato negato il diritto alla salute. È stato punito per un fatto da lui commesso solo per evitare sofferenze enormi e dolore fisico. Un fatto che non ha prodotto danno a nessun altro essere umano. Come queste ci sono tante storie, per questo un impatto forte lo avrebbe invece un provvedimento di depenalizzazione della coltivazione per uso personale. Attualmente un terzo dei detenuti è recluso per aver violato le leggi sulla droga. Lo Stato spende oltre 1 miliardo l’anno per tenere in carcere queste persone che hanno commesso reati di alcuna pericolosità sociale. Molti Paesi hanno capito che la questione droghe non si risolve con la criminalizzazione dei consumatori. Lo stesso Obama ha concesso numerose "grazie" nelle ultime settimane per chi era in carcere per questo tipo di reati. "Le politiche sulle droghe sono una questione complessa, che non può essere trattata solo come questione criminale" dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. "Il tema riguarda la salute psico-fisica delle persone, i loro stili di vita, la libertà di scelta, l’educazione. Considerarla solo di rilevanza giudiziaria significa fare un favore immenso alle mafie e a chi è capace di guadagnare ingenti somme di denaro dal mercato nero". "Per questo - conclude Gonnella - in vista di Ungass 2016 va aperto un dibattito nel Paese e procedere sulla strada della depenalizzazione". A questo scopo Antigone partecipa alla campagna "Non me la spacci giusta", promossa dalla Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili e che ha come obiettivo di favorire un dibattito aperto e non ideologico sul tema delle droghe, convinti che il cambiamento parta da un’opinione informata. La battaglia dei diritti (e le promesse mancate). Ecco da quanto tempo aspettiamo di Gabriele Martini La Stampa, 16 gennaio 2016 Unioni civili, ius soli, abolizione del reato di clandestinità, eutanasia: Renzi tentenna. Avanti piano. Doveva essere il mese dell’accelerazione sui diritti civili. Matteo Renzi invece procede con il freno a mano tirato. Le adozioni gay - nodo più spinoso del ddl Cirinnà - rischiano di saltare. Il disegno di legge sulla cittadinanza ai figli degli immigrati è incagliato in Senato. Sulla clandestinità il governo ha fatto marcia indietro (sconfessando il Parlamento): il reato resta, non sarà abolito. A marzo arriva per la prima volta in Aula la proposta di legge sull’eutanasia, ma il premier non ha ancora preso posizione e le probabilità che la legge arrivi in posto sono ridotte al lumicino. Unioni Civili - Lo scontro si inasprisce. Ncd e i cattolici del Pd sono contrari alla "stepchild adoption". Si tratta del meccanismo che permetterebbe a uno dei membri di una coppia di essere riconosciuto come genitore del figlio del compagno. Possibilità che il ddl Cirinnà sulle unioni civili prevede anche per le coppie omosessuali. Si vota a inizio febbraio. Renzi lascia libertà di coscienza. Ma se si rimangia le adozioni, rischia di perdere il possibile sostegno da parte del M5S e di non avere i numeri per l’approvazione. Il primo annuncio del premier sulle unioni civili data ottobre 2014: "Faremo la legge", diceva Renzi, arrivato a Palazzo Chigi pochi mesi prima. Sono passati 15 mesi, un paio di tweet , uno sciopero della fame (quello di Ivan Scalfarotto) e vari rinvii. La legge ancora non si vede. Ius Soli - Il disegno di legge sulla cittadinanza per i figli degli immigrati è all’esame del Senato. Prevede che siano cittadini italiani i figli di un genitore che possiede un permesso di soggiorno europeo di lunga durata (Ius Soli temperato) e il minore che ha compiuto almeno un ciclo scolastico per ottenere la cittadinanza (Ius Soli culturae). Il testo non convince del tutto i centristi, che lo giudicano troppo "generoso" verso i futuri nuovi italiani. Ma su questo disegno di legge l’accordo con l’Ncd sembra più a portata di mano. In compenso è stato approvato lo Ius soli sportivo, che permette alle società di tesserare i minori stranieri residenti in Italia prima dei 10 anni. Lo Ius Soli è uno storico cavallo di battaglia del premier rottamatore. Nel 2012, da sindaco di Firenze, Renzi firmò una legge di iniziativa popolare sul tema. "Il parlamento approvi lo ius soli", rincarava a giugno 2013. Da candidato alla segreteria Pd diceva: "Ci sono battaglie che vanno fatte, lo ius soli è una di queste". E ancora, a gennaio 2014: "Sullo ius soli non ci tarperanno le ali". A maggio 2014 la promessa, stavolta in veste di premier: "La soluzione che individueremo entro fine anno sarà un criterio che consenta lo ius soli legato ad un ciclo scolastico". Eutanasia - La proposta di legge sul fine vita arriva in Parlamento a marzo. Dopo mesi di tira e molla, è di per sé una notizia. Fino a ora le Camere avevano affrontato in modo blando il tema del biotestamento, sull’onda del caso Eluana Englaro. E infatti la legge non ha mai visto la luce. Il nuovo testo prevede la depenalizzazione per il medico e le persone che aiutano il malato terminale a morire. Il copione in Parlamento è il solito: maggioranza divisa. Contrari i cattolici del Pd e Ncd. Tra i favorevoli ci sono però anche alcuni esponenti di Forza Italia. La nostra proposta di legge di iniziativa popolare sull’eutanasia fu depositata nel 13 settembre 2013 e sottoscritta da oltre 105.000 cittadini. Ma sul tema dell’eutanasia Matteo Renzi non ha mai preso posizione. L’unica volta che sfiorò il tema lo fece da candidato a sindaco di Firenze, quando si oppose alla cittadinanza onoraria che il consiglio comunale aveva conferito a Giuseppe Englaro, padre di Eluana. Clandestinità - "Non serve a nulla" il reato di immigrazione clandestina. E perciò "sarà tolto", dice Matteo Renzi. Ma non adesso. Il perché l’ha spiegato Maria Elena Boschi: così com’è la legge fa schifo, ma gli italiani non capirebbero se lo eliminassimo. Non sarà un ragionamento da statisti, ma tant’è: sull’immigrazione tira una brutta aria e il governo non si muove senza il consenso dell’opinione pubblica. E pazienza se i magistrati e il Capo della polizia, Alessandro Pansa, avevano chiesto di modificare una legge che così com’è altro non fa che intasare le Procure. A dire che il reato di clandestinità va abolito è la legge. Per essere precisi la 67/2014 ("Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio"). La norma, approvata nell’aprile 2014, dava un anno e mezzo di tempo al governo per passare dalle parole ai fatti "abrogando e trasformando in illecito amministrativo il reato". Sono passati 21 mesi. Donne e carcere, le invisibili di Mara Cinquepalmi Vita, 16 gennaio 2016 Il problema principale del sistema penitenziario italiano è ancora una volta il sovraffollamento delle carceri italiane. Ma nelle pieghe della statistica c’è uno sguardo di genere al problema di cui si parla poco. Nel corso degli ultimi dieci anni il numero delle detenute è fermo al 4%. 2015 si è chiuso con 52.164 detenuti nelle carceri italiane (195 gli istituti presenti sul territorio nazionale) a fronte di 49.592 posti. Lo dice il Ministero della Giustizia che, come ogni anno, aggiorna le statistiche sugli istituti penitenziari. Lombardia, Campania e Lazio sono le prime tre regioni per numero di detenuti. I dati dimostrano ancora una volta il sovraffollamento delle carceri italiane, ma nelle pieghe della statistica c’è uno sguardo di genere al problema di cui si parla poco. Nel corso degli ultimi dieci anni il numero delle detenute è passato da 2.804 nel 2005 a 2.107 nel 2015 (contro 52.164 uomini), ma la percentuale si attesta ormai da qualche anno attorno al 4%. Le detenute in Italia sono suddivise in 5 Istituti penali femminili (Trani, Pozzuoli, Roma-Rebibbia, Empoli, Venezia-Giudecca) e in circa 55 sezioni femminili. "Le donne", ha spiegato al nostro giornale Rita Bernardini, ex deputata e Presidente d’onore di Nessuno Tocchi Caino, "sono poco più del 4% della popolazione detenuta. Il carcere con più donne è la Casa circondariale Rebibbia che ne ospita 298 su una capienza regolamentare di 260; in quella di Pozzuoli le donne sono 154 a fronte di una capienza di 105, quindi è l’istituto dove si evidenzia il sovraffollamento più significativo. In questi anni sono diminuite anche le detenute con bambini, ma è un fenomeno che nonostante i proclami - "mai più bambini in carcere" gridava Angelino Alfano nella scorsa legislatura - governo e parlamento non sono riusciti a sradicare, pur essendo semplicissimo da risolvere. L’altra faccia della questione riguarda le donne che si fanno carico di mariti o figli detenuti in istituti a centinaia di chilometri di distanza dal nucleo familiare". Di donne e carcere se ne è occupata di recente una ricerca sulla condizione detentiva femminile nelle carceri di Piacenza, Modena, Bologna e Forlì del Garante per le persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna in collaborazione con l’associazione Con…tatto, da anni impegnata nella Casa Circondariale di Forlì. La vita delle donne detenute ?non è un argomento che suscita particolare attenzione - ha dichiarato la Garante Desi Bruno presentando la ricerca, ?neppure tra gli addetti ai lavori. La loro esiguità numerica non le ha costrette a quel trattamento inumano e degradante costituito dalla mancanza dello spazio minimo vitale. Eppure sono ingombranti, anche se la reclusione delle donne non ha una autonomia organizzativa, e vive spesso di quanto accade nel carcere maschile, dal quale riceve briciole, in termini di risorse?. Piccoli numeri che, come spiega la ricerca "La detenzione al femminile", non consentono spesso l’attivazione e la realizzazione di attività utili al percorso di reinserimento, come corsi scolastici, percorsi di formazione professionali e attività lavorativa. L’idea di detenzione - spiega Lisa Di Paolo, autrice della ricerca - è una, le regole detentive non hanno una caratterizzazione di genere e le modalità di operare diversamente con donne detenute sono dovute a "libere" iniziative e sensibilità dei singoli operatori. Le donne detenute sono e si percepiscono come vittime, sono e si sentono usate, non hanno una stima e una percezione positiva di sè che le spinga a comportarsi diversamente da come hanno fatto. La donna detenuta è una donna fragile nella costruzione dell’identità personale e di genere ed è in questo che ha bisogno di essere accompagnata?. Le donne chiedono di poter organizzare iniziative, attività in autonomia, gestire il tempo libero per fare qualcosa insieme, possibilità non sempre realizzabile a seconda dei regolamenti e dell’organizzazione dell’Istituto. Poche - aggiunge Bernardini - sono le detenute che lavorano e quelle poche (circa il 20%) sono impegnate in lavori interni al carcere per lo più di tipo domestico. Se il carcere si aprisse alla collettività, proprio perché le donne sono poco numerose, sarebbe più facile trovare per loro lavori qualificanti spendibili all’esterno una volta finita la reclusione e ciò si tradurrebbe in minore recidiva e quindi in maggiore sicurezza per la collettività. Capece "la Polizia penitenziaria ha bisogno di un’organizzazione del lavoro più moderna" di Cinzia Lucchelli Il Tirreno, 16 gennaio 2016 Donato Capece, segretario del Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria Sappe: "Basta girare con le chiavi attaccati alla cintola dei pantaloni, devono funzionare i sistemi di allarme, i cancelli devono essere automatizzati". E racconta le mille difficoltà del lavoro: "Siamo sotto organico, malgestiti e malpagati. Molti lasciano il servizio in anticipo a causa dello stress". "L’altra urgenza, dopo aver affrontato quella del sovraffollamento, riguarda la polizia penitenziaria: serve un’organizzazione del lavoro più moderna". Donato Capece è segretario generale del sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe. Una vita dentro le carceri, a stretto contatto con i detenuti. "Basta girare con le chiavi attaccati alla cintola dei pantaloni, devono funzionare i sistemi di allarme, i cancelli devono essere automatizzati". Capece lamenta prima di tutto carenze dell’organico: "Facciamo quello che possiamo ma siamo 8mila in meno rispetto ai 45mila stabiliti nel 2001". E soprattutto la complessità del lavoro: "Siamo allo stesso tempo poliziotti, psicologi, educatori e cappellani per i detenuti. Spesso siamo le uniche persone che vedono. Non dimentichiamo i numerosi tentativi di suicidio messi in atto da detenuti evitati grazie a noi". Racconta dei tanti agenti che lasciano il servizio in anticipo a causa dello stress, di quelli che si sono tolti la vita ("dal 2000 a oggi sono 100"). "Siamo abbandonati a noi stessi, malgestiti e malpagati". Lo stipendio è di 1.400 euro al mese e i tempi di attesa per un trasferimento per chi lavora al Nord e vuole tornare al Sud sono 20 anni. La situazione è migliorata ma rimangono forti differenze territoriali. Un detenuto su tre è straniero. In 8.532 sono ancora in attesa di giudizio. Dai dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati alla fine del 2015 lo stato dei luoghi di detenzione italiani. Racconta della "vigilanza dinamica" per cui i detenuti di giorno sono liberi di uscire dalle celle. "Un allentamento che non può essere per tutti. Le pattuglie di tanto in tanto controllano le sezioni detentive e si beccano insulti, soprattutto da detenuti stranieri". Ma l’intero sistema carcere, secondo Capece, visto dall’interno, andrebbe ridisegnato: "L’idea è di distinguere tra un carcere invisibile sul territorio, per chi ha commesso reati che non creano allarme sociale per cui potenziate misure alternative alla detenzione, sotto il controllo della polizia penitenziaria. E un carcere detentivo per chi invece ha commesso reati gravi per cui è necessario un percorso di recupero e risocializzazione". Caso Uva, il pm chiede di assolvere gli agenti La Stampa, 16 gennaio 2016 La requisitoria del procuratore di Varese: nessuna prova di comportamenti illegali. Il procuratore di Varese Daniela Borgonovo ha chiesto l’assoluzione dei carabinieri e dei poliziotti imputati per la morte dell’operaio Giuseppe Uva. Secondo il magistrato, "non c’è nessuna prova di comportamenti illegali da parte degli imputati". Il procuratore ha chiesto l’assoluzione degli imputati per tutti i capi di imputazione dall’omicidio preterintenzionale all’arresto illegale sostenendo, tra le altre cose, "non vi è nessuna prova delle lesioni" che sarebbero state inferte a Uva, come denunciato dai familiari del muratore morto la mattina del 15 giugno 2008. "I testimoni che hanno riferito di percosse- ha spiegato il magistrato - o hanno ritrattato o sono stati smentiti dai fatti". Il processo ricomincia il 29 gennaio quando interverranno gli avvocati di parte civile dei familiari del muratore. Per il legale di parte civile di Lucia Uva, sorella del muratore morto dopo essere stato portato in caserma dai carabinieri, quella che ha fornito il procuratore è "una ricostruzione assolutamente parziale e che sarà smentita". "Del resto - ha detto l’avvocato Fabio Ambrosetti - un giudice ha già smentito tre pm". Il riferimento è a due richieste di archiviazione presentate dalla procura. La sorella di Uva è stata invece parca di commenti. "Complimenti alla dottoressa Borgonovo" si è limitata a dire ala conclusione dell’udienza. "Il pm ha fatto un’analisi molto dettagliata della vicenda. Speriamo che la Corte d’Assise non si faccia condizionare dalla politica o dai media, cosa che sembra sia già accaduto in questo caso", commenta l’avvocato Piero Porciani, difensore di uno degli agenti imputati al processo. Cannabis, il divieto vada in fumo di Mattia Feltri La Stampa, 16 gennaio 2016 "Non c’è stata alcuna depenalizzazione della cannabis", ha detto ieri il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin. Non soltanto non c’è stata alcuna depenalizzazione, ma nemmeno gli frullava per la testa. Non era neanche qualcosa che somigliasse a un’ipotesi, è stato soltanto un colossale fraintendimento: il Consiglio dei ministri si è limitato a stabilire le sanzioni per gli istituti di ricerca che, autorizzati a produrre cannabis terapeutica, sforino i quantitativi stabiliti: si passa al penale soltanto alla seconda infrazione. È bastato questo aggiustamento normativo perché montasse la solita rabbiosa polemica fra proibizionisti e no. Gli argomenti e i toni hanno onorato la tradizione, alla lettera, senza però suscitare nuove riflessioni, se non una: quanto è distante il dibattito dalle abitudini quotidiane? Secondo il report delle Nazioni unite sul consumo di droghe leggere, quasi il quindici per cento degli italiani fa uso, non necessariamente assiduo, di hashish e marijuana. Cioè milioni di persone che vien difficile catalogare alla voce "drogati", come si faceva sbrigativamente una volta. Il punto è ancora un altro: qualsiasi giudizio si abbia delle droghe leggere e degli effetti sul fisico, sarebbe bene ragionare su un comportamento diffuso, socialmente accettato, che unisce genitori e figli, poiché il report parla del quindici per cento di italiani compresi fra i quindici e i sessantaquattro anni. Ci sono padri e madri che fumano con i loro ragazzi proprio per togliergli il fascino del proibito, per esercitare una forma non autoritaria di controllo, e dunque per sperimentare una via familiare della riduzione del danno: quella cui si appellano le medesime Nazioni unite quando propongono la depenalizzazione che in Italia è sacrilegio. Sta diventando complicato accettare i presupposti delle conseguenze penali per chi fuma spinelli, e ne detiene una scorta, se dopo non si mette al volante né gira per le vie con armi da taglio. E non più per amore di liberalismo - non c’è corrispondenza: ci si rassegni - ma proprio per l’estensione del fenomeno, tale che generalmente non è percepito come reato, né da chi lo commette né da chi si astiene. È nei fatti, come sono nei fatti le coppie omosessuali, i diritti che richiedono e i doveri che accettano, il loro inserimento nelle più ovvie relazioni sociali, i loro figli che, coi sistemi più vari, sono nati all’estero e vivono in Italia: bambini amati dai genitori, dai parenti, dai vicini di casa, dai compagni di scuola. Che senso ha scannarsi su principi essenziali, che poi sono mille sfumature semi-ideologiche di partitini con difficoltà alla vista e all’udito, quando già il mondo è da un’altra parte, e vive in un altro modo? Lo stesso discorso vale per l’eutanasia, a cui si ricorre spesso, e in silenzio, in regime di obbligatoria ipocrisia per evitare guai ai sopravvissuti. Ci si rende conto della delicatezza delle questioni, specialmente dell’ultima (le prime due non sono più nemmeno tante delicate). Ma quando si dice che gli italiani sono più avanti dei legislatori non si fa esercizio di retorica: ne abbiamo avuta la prova quando sono stati votati i referendum sull’aborto e sul divorzio, le due partite storiche dei radicali di Marco Pannella. Forse l’indissolubilità della famiglia ci era rassicurante, e il ricorso all’aborto è senz’altro una tragedia, lo è sempre, ma gli aborti calano di anno in anno, e le famiglie ci sono ancora, eterosessuali e omosessuali. Se per festeggiare lo scampato pericolo qualcuno ci volesse fumare sopra una canna, non sarebbe una tragedia. Don Marco Pozza: "i detenuti mi insegnano il Vangelo" di Antonella Palermo radiovaticana.va, 16 gennaio 2016 "La Misericordia di cui parla Papa Francesco non è un teorema e nemmeno una favoletta inventata. Dietro le sbarre, e dico purtroppo per me che pure mi devo ricredere, la misericordia è una manovra molto seria e quando il cielo la compie riesce a partorire dei capolavori". Don Marco Pozza, teologo e scrittore, cappellano del carcere "Due Palazzi" di Padova e autore del libro "L’agguato di Dio" (San Paolo ed.), racconta come si sta vivendo l’Anno Santo in quella ‘chiesa di galerà la cui porta costituisce una delle quattro porte sante della diocesi. È stato proprio Don Marco ad assistere Zhang Agostino Jianqing, il giovane cinese, di famiglia buddista, detenuto a Padova, che ha offerto la propria testimonianza di riabilitazione umana e conversione spirituale in occasione della presentazione del libro-intervista di Andrea Tornielli a Papa Francesco "Il nome di Dio è Misericordia". "Il nostro vescovo ha creato questa porta santa - spiega Don Marco - soprattutto per i pellegrini così che avessero la percezione del fatto che quando Dio tocca una carne sofferente riesce a mettere in piedi un marchingegno di grazia stupendo, e a volte porta anche alla conversione. Da bambino disprezzavo questa gente, oggi sono un po’ la mia traduzione fedele di cosa è il Vangelo. Mi sono accorto che io per trent’anni leggendo il Vangelo ho guardato un film straniero senza sottotitoli, pensavo di averlo capito. In realtà avevo capito il mio Vangelo. Loro invece mi stanno presentando quello scritto da Gesù Cristo, dove il nome di Dio non solo è misericordia verso gli altri, ma è misericordia verso se stessi, porta cioè ad ammettere di aver giudicato senza aver prima conosciuto". Il bilancio di poco più di un mese di Giubileo è sorprendente, secondo quanto registra Don Pozza. "Stiamo vivendo un momento di grande simpatia qui a Padova dove la nobiltà d’animo delle persone alle volte paradossalmente deve fare i conti anche con una tribalità di pensieri e di ragionamenti soprattutto nei confronti di chi nella vita ha sbagliato. Eppure, dentro a questa terra di conflitti, - ammette il cappellano - il primo guadagno del Giubileo è mostrare che l’uomo non nasce colpevole, non muore colpevole. Nel momento in cui la giustizia lo decreta tale a noi spetta il compito più bello, di ricostruire l’uomo, metterlo nella società diverso da come lo abbiamo trovato". "Pensare che in questo sottobosco che sono le carceri la fede passa ancora di cella in cella, di persona in persona, non può che farci ritornare alla mente la freschezza della chiesa primitiva, tenendo presente che nel nostro carcere il cristianesimo è in minoranza. Freschezza evanelica che fa del bene a chi ha incontrato Dio in tempi lontani e lo aveva dato come fattore scontato nella sua vita". "Il carcere è tribalità, da lì non possiamo prescindere - conclude ancora Don Marco - ma la prospettiva di fede ci aiuta a scoprire che dentro all’inferno c’è anche qualcosa che non è inferno. In carcere ci sono più di 20 nazionalità diverse. È una terra di passaggio, un incrocio di sangui, stiamo scoprendo la bellezza di realizzare quell’ecumenismo che noi preti a volte predichiamo ma facciamo fatica a vivere. I poveri invece in questo ci hanno anticipato e ci insegnano che se una terra - così come una storia, una chiesa - è transitabile diventa una terra, una storia, una chiesa ricca, altrimenti morirà di asfissia". Il boss mascherato. Ecco perché nessun partito è al riparo da infiltrazioni mafiose di Roberto Saviano La Repubblica, 16 gennaio 2016 Non illudiamoci: in uno Stato che non è più Stato di diritto, in uno Stato in cui i vertici delle Istituzioni temono i discorsi sulle mafie perché rovinano il clima di euforia costante in cui dobbiamo fingere di vivere, in una democrazia che non è partecipazione, non esiste forza politica che sia davvero al riparo da infiltrazioni mafiose. Non esiste percorso sicuro, non esistono regole certe. E se i cittadini si allontanano dalla politica, sarà ancora peggio: resterà solo chi ha interessi privati da coltivare. Francesco Campanella è un collaboratore di giustizia. È stato braccio destro di Nino Mandalà, boss di Villabate (comune a 20 km da Palermo). È stato presidente del Consiglio Comunale di Villabate fino al 1999, anno in cui il Comune è stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Nel 2000 divenne segretario nazionale dei giovani dell’Udeur. È ricordato soprattutto per aver procurato a Bernardo Provenzano la carta d’identità ("gli ho messo i timbri del comune, ero consigliere, per farlo espatriare") che il boss utilizzò per uscire, e per aver invitato al suo matrimonio Clemente Mastella, che accettò. Io invece lo ricordo per aver messo in scena una finta guerra alla mafia e per essere anche riuscito a risultare credibile. Campanella ha raccontato di aver contribuito personalmente alla nascita di un Osservatorio permanente sulla criminalità, con il consenso di Mandalà e Provenzano, e di aver sponsorizzato la cittadinanza onoraria di Villabate al capitano Ultimo e a Raul Bova ("Ebbi quest’idea del premio a Raul Bova. Io mi resi conto che forse stavamo andando oltre e chiesi a Mandalà il permesso e lui lo chiese a Provenzano. E Provenzano disse ok, perché valutava positivamente di mischiarsi in questo alone, in questa paraculata"). Questa "paraculata" serviva a dare alla mafia un pedigree antimafia. E poi ci sono imprenditori vicini ai clan che denunciano finte estorsioni. È il caso di Giuseppe Fontana, che ha finto di essere vittima dei casalesi per poter gestire indisturbato gli appalti per conto del clan. Lo dice Massimiliano Caterino, che è stato braccio destro di Michele Zagaria e cassiere del clan, ora collaboratore di giustizia. Questa pratica negli ultimi anni è stata utilizzata da diversi imprenditori: denunciare finte estorsioni e costituire associazione antiracket in alcuni casi è servito a bypassare l’ottenimento di certificati antimafia per ottenere commesse con la pubblica amministrazione. Siamo abituati ai poliziotti infiltrati, ma contro i mafiosi infiltrati non abbiamo anticorpi. E non è facile riconoscerli, serve tempo, indagini, processi e soprattutto condanne, perché nulla è come sembra. I mafiosi non hanno coppola, non parlano dialetti incomprensibili. Sono identici a noi. È chiaro come, in questi territori, iniziare un percorso politico sia difficilissimo e a Quarto anche il M5S, l’ultima delle forze politiche che immagineremmo al tavolo con le organizzazioni criminali, si è dimostrata vulnerabile. Ci si è affrettati a dire che bisogna trovare un modo per diventare inavvicinabili dai boss: certo, ma prima si dovrebbero scoprire le cause che rendono permeabili anche i partiti animati dalle migliori intenzioni. Marco Cappato, Presidente di Radicali italiani, sostiene una cosa che condivido: uno Stato fuorilegge lo è tutto, dal vertice della piramide alla base. Uno Stato che ha un sistema giudiziario al collasso è uno Stato in cui le organizzazioni criminali sono potentissime e possono arrivare ovunque. È un tema che ho affrontato molte volte, ma vale la pena farlo di nuovo. Se per ottenere il pagamento di un credito ricorrere alla giustizia implica una attesa lunga ed estenuante, c’è chi preferirà rivolgersi a un "tribunale" più efficace e veloce, che emette una sentenza immediata: la malavita. In quel modo sarà un individuo sottratto allo Stato di diritto e resterà per sempre nella disponibilità delle organizzazioni criminali, perché anche un favore chiesto e ottenuto, anche un favore chiesto e ben pagato ti lega per sempre a loro. È solo un esempio, ma spiega perché dove non esiste uno Stato di diritto non ci sono forze politiche immuni al fenomeno criminale, non ci sono individui immuni. E non può essere immune un Movimento che si presenta come un monolite: uguale ovunque, che non contempla differenze territoriali (il caso del "dissidente" Pizzarotti a Parma è emblematico). E dove la struttura è monolitica, dove manca di elasticità, dove la linea viene imposta dall’alto senza reali possibilità di comprendere il territorio, le mafie non trovano spiragli ma porte spalancate. Ma è un esercizio inutile contare gli indagati in questo partito o in quell’altro perché gli indagati non "sono" il partito di appartenenza e sostenere questo è una semplificazione utile solo a fomentare odio, anche nei confronti di chi mette passione ogni giorno nella militanza politica. E questa passione è ancora più grande e comporta grandi sacrifici quando si sceglie di fare politica in contesti dove la presenza delle organizzazioni criminali è capillare. E allora è il caso di abbandonare approcci totalitari, per tornare alla umiltà originaria della politica, che nasce dal territorio e dalle sue istanze, per arrivare al centro, non il contrario. La politica sarà salvata solo dalla partecipazione dei cittadini. La crisi del Movimento 5 Stelle è una crisi di crescita, poiché all’aumento della popolarità nel Paese è corrisposta una deriva autoritaria, un controllo reciproco tra parlamentari e semplici appartenenti ai meet-up che ricorda esperienze finite con il crollo del Muro. Il caso Quarto è la storia di una scelta sbagliata. Il Movimento 5 Stelle, il più pulito dei partiti (concedetemi di definirlo partito), a Quarto è precipitato in una confusione dalla quale non riesce a riemergere. E dalla quale non verrà fuori con l’aggressività scomposta di questi giorni, in cui reagisce attaccando il Pd con lo slogan: hanno più indagati di noi. Definire un intero partito politico un’accolita di delinquenti - come il Movimento sta facendo in questi giorni con il Partito Democratico - giustificherà quello stesso partito a non fare alcuna pulizia al proprio interno e a non mettere in discussione i propri errori e le gravi opacità, che sono tante e irrisolte a cominciare dal rapporto con le banche. I 5Stelle si illudono se pensano di aver chiuso il caso con l’espulsione del sindaco Capuozzo. I sondaggi dicono che stanno già pagando un prezzo. Ma il punto non è questo: il punto è che nella realtà italiana non c’è fortezza politica che sia inespugnabile per il contro-Stato mafioso. Soprattutto, quando un movimento cresce impetuosamente in pochi anni, deve preoccuparsi di selezionare e formare una generazione politica che sia all’altezza della sfida nel territorio e dei suoi pericoli. Può essere consolatorio dire "Noi non sapevamo". Ma è proprio quello il problema: non sapere. Emilia Romagna: la Garante "dopo Stati Generali verso superamento delle Case Lavoro" Ristretti Orizzonti, 16 gennaio 2016 A fine anno nella struttura modenese 77 internati e 9 detenuti. "Riscontro positivo" di Desi Bruno: nessuna interruzione dei percorsi trattamentali esterni grazie al magistrato dell’Ufficio di sorveglianza di Bologna a cui è temporaneamente affidata la competenza sulla struttura. "Definitivo superamento dell’esperienza delle Case di Lavoro", come quella di Castelfranco Emilia in provincia di Modena, e l’introduzione di un "termine massimo di durata per le misure di sicurezza", che in ogni caso dovranno riguardare solo "casi di concreto pericolo della commissione di ulteriori gravi reati": sono queste le richieste del "Tavolo 11", dedicato al lavoro sulle misure di sicurezza nell’ambito degli Stati generali sull’esecuzione penale, iniziativa promossa dal ministero della Giustizia. A darne notizia è Desi Bruno, Garante delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna, che agli Stati generali ha partecipato insieme ad altri esperti. E nella relazione finale da poco licenziata, riferisce la figura di garanzia dell’Assemblea legislativa, "per quanto riguarda le misure di sicurezza detentive per soggetti imputabili, proprio come l’inquadramento giuridico degli internati di Castelfranco Emilia, si è proposto il definitivo superamento dell’esperienza delle case di lavoro, nel rispetto di quanto previsto dal testo del disegno di legge in materia". Nella proposta finale del Tavolo 11, i cui componenti a maggioranza si sono espressi come contrari al sistema del doppio binario che prevede pene e misure di sicurezza, "tenuto conto del limite indicato dalla legge delega, è stato mantenuto il sistema del doppio binario ma in chiave garantista con l’affermazione del principio di territorialità dell’esecuzione della misura di sicurezza", riporta la Garante. Inoltre, prosegue, "si è proposto che la misura di sicurezza si applichi solo in presenza di reati presupposti di rilevante gravità, nei casi in cui sussista il concreto pericolo della commissione di ulteriori gravi reati, con l’iniziale attivazione di una misura non detentiva consistente nella libertà vigilata". Quindi, continua Bruno, solo in casi eccezionali, a seguito della continua reiterazione di gravi violazioni, si è prevista la possibilità di sostituire la misura non detentiva con una misura contenitiva, dapprima a contenuto domiciliare e poi detentivo comunque con un alto contenuto trattamentale, nel senso di concrete opportunità di lavoro". Infine, conclude, "si è inoltre previsto che la misura di sicurezza per gli imputabili abbia un termine massimo di durata analogamente a quanto previsto dalla legge in materia per i non imputabili". Sempre in merito alla casa-lavoro di Castelfranco Emilia, l’Ufficio della Garante ha visitato la struttura poco prima delle festività natalizie e, riferisce Bruno, "il riscontro dell’attività della magistratura di sorveglianza è stato positivo, non verificandosi il blocco dell’attività ordinaria di esame delle istanze presentate dagli internati, con conseguente interruzione dei percorsi trattamentali esterni". Infatti, spiega la Garante, "abbiamo potuto constatare che gli internati hanno usufruito regolarmente delle licenze durante il periodo festivo grazie ai puntuali provvedimenti di concessione da parte del magistrato dell’Ufficio di sorveglianza di Bologna a cui è temporaneamente affidata la competenza sulla struttura in ragione della perdurante vacanza, per ragioni di ordine personale, del magistrato di Modena che ha la titolarità della funzione". Al 31 dicembre 2015 risultavano essere presenti in istituto 77 internati e 9 detenuti. Si segnala, inoltre, che un recente schema di decreto del ministro della Giustizia prevede l’accorpamento delle direzioni delle struttura penitenziarie di Modena e Castelfranco Emilia. Nelle carceri della Sardegna un detenuto su cinque è straniero di Andrea Massidda La Nuova Sardegna, 16 gennaio 2016 Presentato il rapporto del Dap: nei dieci penitenziari sardi recluse 2mila persone. Problemi di spazio a Mamone, Massama e Tempio. In aumento gli arrivi a Uta. Nei dieci penitenziari della Sardegna - da Bancali a Uta, passando per Badu e Carros, Massama, Tempio e le altre strutture più piccole - sono recluse in totale 2.036 persone. Un numero, almeno sulla carta, inferiore alla capienza complessiva di 2.724 posti, indicata come regolamentare dal ministero della Giustizia, che ha calcolato la cifra sulla base del criterio di 9 metri quadrati per singolo detenuto, lo stesso parametro per cui in Italia viene concessa l’abitabilità degli appartamenti privati. Sono soltanto i primi dati che emergono dal più recente rapporto nazionale pubblicato dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, aggiornato appena due settimane fa. Ma il documento contiene una mole così imponente di elementi da fornire una fotografia piuttosto nitida dell’universo carcerario isolano. Un’immagine che è fatta di luci e non poche ombre, come confermano anche gli esperti e gli addetti ai lavori. Perché nonostante l’apertura dei nuovi istituti, in certi casi sono rimasti i problemi legati al sovraffollamento, alla alta percentuale di tossicodipendenti e alla carenza di personale, sia per quanto riguarda la polizia sia per quanto riguarda gli educatori. Con alcune lodevoli eccezioni, naturalmente, come nel settore della formazione. Popolazione carceraria. Il rapporto del Dap è un vero e proprio censimento della popolazione carceraria italiana. Relativamente alla Sardegna si scopre che i detenuti stranieri sono in tutto 462 (circa il 22 per cento del totale). Le donne sono 43, distribuite tra Sassari, Cagliari e Nuoro. Gli ergastolani sono 174, cui vanno a sommarsi 22 internati e 546 reclusi che - almeno al momento - dovranno scontare una pena superiore ai dieci anni. Appena sessantadue sono invece gli "ospiti" che saranno liberi tra dodici mesi. Poi restano 925 persone la cui pena varia da un anno a dieci anni. Custodia cautelare. Non passa inosservato il particolare che l’83 per cento dei detenuti (esattamente 1.707) è dietro le sbarre per una condanna definitiva, mentre 149 sono quelli in attesa del giudizio ultimo da parte della magistratura. Un dato tutto sommato incoraggiante. "È innegabile che negli ultimi tempi si faccia sempre meno ricorso alla custodia cautelare in carcere - commenta l’avvocato Elias Vacca -, segno che i giudici stanno tenendo conto degli indirizzi del legislatore: un processo virtuoso ma comprensibilmente lento, visto che si deve fare strada anche nella società". Sovraffollamento. Chi si occupa dei detenuti fa notare che i dati, così come li presenta il ministero della Giustizia, possono trarre in inganno. "Nel carcere di Uta - spiega Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo, diritti e riforme", quando si parla di capienza regolamentare si tiene conto anche dei 92 posti per chi è al 41/bis. Peccato, però, che quei posti non esistano ancora, e che quindi se si fanno bene i conti il sovraffollamento delle celle esista eccome. Tanto è vero che nelle celle, progettate per due letti, ne è stato sistemato un terzo". Spazi troppo stretti si registrano anche a Mamone, Massama e Tempio. Poi, sempre a Uta, desta preoccupazione l’aumento degli arrivi. "I detenuti in poco più di un anno sono passati da 340 a 570 - continua Caligaris, circa il 60 per cento in più, mentre è rimasto invariato il numero degli agenti e di educatori". Carenza di organico. Parole confermate anche da Antonio Cannas, vice segretario regionale del Uspp, il sindacato della polizia penitenziaria. "A Bancali è rilevante l’insufficienza di sottufficiali - dice, di fatto accade che per poter garantire la presenza indispensabile di queste figure professionali nelle dodici sale adibite alle videoconferenze del reparto del 41/bis, la sorveglianza dell’istituto sia demandata agli assistenti capo". Funzione rieducativa. Ma i penitenziari isolani assolvono davvero alla loro funzione di risocializzare il detenuto? "Le nuove strutture - conclude Caligaris - sembrano rispondere più a una logica contenitiva piuttosto che rieducativa. Basti pensare che sono state edificate lontane da centri abitati, quella di Cagliari in una zona desolata all’interno dell’area industriale. Chi sconta una pena deve poter rientrare nella comunità di appartenenza in modo da non commettere più il reato. Ciò avviene raramente. Si può quindi affermare che il sistema non è adeguato e spesso produce disabili sociali che entrano ed escono dal penitenziario. E uno spreco di risorse che uno Stato non può permettersi". Marche: delegazione del Consiglio Regionale in visita al carcere di Fossombrone Ansa, 16 gennaio 2016 Visita alla casa di reclusione di Fossombrone, con la partecipazione dell’Ombudsman Andrea Nobili, del vice presidente del Consiglio regionale delle Marche Claudio Minardi (Pd) e dei consiglieri Piergiorgio Fabbri (M5s) e Federico Talè (Pd). "Chi ricopre un ruolo istituzionale - ha sottolineato il vicepresidente Minardi al termine dell’incontro - deve occuparsi di tutte le tematiche d’interesse regionale, con una particolare attenzione della tutela dei diritti. Nel corso della visita abbiamo trovato un istituto in buone condizioni, anche se sarebbero necessari diversi interventi di manutenzione ordinaria". Minardi ha anche evidenziato che "all’interno della struttura vengono svolte importanti attività in diversi settori per il recupero sociale e culturale dei detenuti. Da parte nostra, abbiamo garantito un primo impegno per portare all’attenzione del Consiglio regionale la possibilità di eliminare la tassa universitaria di competenza regionale, in modo che gli stessi detenuti che vogliono partecipare ai corsi dell’ateneo urbinate abbiano un’ulteriore e significativa agevolazione. Abbiamo anche valutato uno specifico intervento per la dotazione di apparecchiature sanitarie, che evitino le uscite all’esterno dell’istituto, onerose per l’amministrazione penitenziaria". In base agli ultimi dati resi noti, la popolazione detenuta a Fossombrone raggiunge le 154 unità, per una capienza totale di 170. Gli agenti di Polizia penitenziaria attivi sono 105 (in pianta organica 125, assegnati 107) e 3 gli educatori in servizio (previsti 6, assegnati 4). Presenti nella struttura l’ufficio colloqui domenicale, i locali per le visite dei bambini, mentre viene evidenziata la permanenza di barriere architettoniche. L’assistenza sanitaria è garantita quotidianamente per 14 ore (dalle 8 alle 22). "Come ho avuto modo di dire in altre occasioni - sottolinea l’ombudsman Nobili - recarsi in vista in un carcere significa compiere un gesto di concreta vicinanza verso quelle persone che, pur scontando una pena, rimangono a pieno titolo cittadini, conservando la dignità della condizione umana e chiedono di essere aiutati per il reinserimento nella società, così come è giusto e come previsto dalla Costituzione". Quello di Fossombrone fa parte della serie d’incontri promossi dallo stesso ombudsman e dalla presidenza del Consiglio regionale per verificare la situazione degli istituti penitenziari marchigiani, con invito allargato anche ai parlamentari ed ai consiglieri regionali. I prossimi appuntamenti sono per il 25 a Marino del Tronto, per il 29 a Camerino e Fermo, per l’8 ed il 22 febbraio rispettivamente a Barcaglione di Ancona e Villa Fastiggi di Pesaro. Arezzo: il Garante regionale Franco Corleone "la situazione del carcere è migliorata" Adnkronos, 16 gennaio 2016 "La situazione del carcere di Arezzo è migliorata, in particolar modo riguardo alle condizioni igienico-sanitarie: il guano non c’è più, le celle sono a norma e l’intercinta è stata ripulita. Adesso occorre dare il via ai lavori di ristrutturazione". Lo ha dichiarato il garante regionale dei diritti dei detenuti, Franco Corleone, all’indomani del sopralluogo al San Benedetto, accompagnato dal direttore Paolo Basco. "Quella di Arezzo - ha detto Corleone - è una piccola realtà che funziona e che ha molte potenzialità. Ad oggi la struttura ospita 26 detenuti, con due sezioni, una separata per i 9 collaboratori di giustizia e una per gli arrestati. Con la ristrutturazione potrebbe accogliere fino a 100 reclusi". Corleone ha parlato poi dell’imminente avvio dei lavori, a febbraio, per la riqualificazione dell’istituto. "Si è imboccata la strada del risanamento, adesso bisogna che le opere siano ben progettate e che i tempi siano rispettati per consentire una vita decorosa e condizioni trattamentali ben fatte". Secondo il garante "fondamentale è salvaguardare la presenza ad ogni piano di spazi collettivi di socializzazione: al piano terra, attrezzando un ampio corridoio, al primo piano arredando un camerotto e al secondo piano conservando la biblioteca". La visita al carcere di Arezzo è stata la prima tappa di una serie di sopralluoghi che nei prossimi giorni vedranno Corleone, lunedì 18 gennaio, alla Rems (residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria) di Volterra, martedì 19 agli istituti penitenziari di Massa Marittima e Grosseto e mercoledì 20 al carcere di Siena. Roma: parte il Progetto "Antigone: Another side off life" Ristretti Orizzonti, 16 gennaio 2016 Promosso da lo Sportello per i diritti del Difensore civico di Antigone assieme al Segretariato italiano Studenti in medicina Università La Sapienza. Da gennaio 2016 prende il via il Progetto "Antigone: Another side off life" portato avanti da lo "Sportello per i Diritti" del Difensore Civico, attivo presso la Casa Circondariale di Rebibbia N.C., e il Segretariato Italiano studenti in Medicina, sede di Roma - Università "La Sapienza". Il progetto prevede la partecipazione alle attività dello sportello di sei studenti in medicina che affiancheranno i volontari dell’associazione In questi anni, grazie all’importante impegno profuso dai medici volontari del Difensore civico (Dott. Antonio Cappelli e Susanna Zecca) sono state riscontrate diverse criticità del sistema sanitario penitenziario: il rapporto tra detenuto e medico di reparto, il diritto all’informazione (anche dei familiari), il diritto alla certificazione, i tempi di attesa delle prestazioni, la tempestività degli interventi urgenti, l’assistenza psicologica e psichiatrica, le modalità di somministrazione di psico-farmaci, la continuità assistenziale tra i servizi sanitari intramurali e quelli esterni e in occasione di trasferimenti, le attività di riabilitazione, le modalità di redazione del diario clinico, l’aggiornamento del personale sanitario e il rischio burnout, le prestazioni odontoiatriche, le attività di prevenzione e di educazione sanitaria di base. Con l’avvio di questo progetto, si cercherà di dare un ulteriore contributo per la ricerca di strumenti validi a tutela del diritto alla salute delle persone detenute. Lucera (Fg): progetto "Atelier dell’Ausilio", le sedie a rotelle le riparano i detenuti di Annalisa Lista west-info.eu, 16 gennaio 2016 Un’officina sociale vedrà i detenuti riparare sedie a rotelle e ausili protesici per disabili. Si tratta di un progetto sperimentale che prenderà il via la settimana prossima a Cerignola (Fg). Finanziato da Fondazione con Il Sud, l’Asl di Foggia e altri enti pubblici e privati. Un’officina sociale fatta di detenuti che si occuperanno del recupero e la rigenerazione degli ausili protesici obsoleti o dismessi per persone non autosufficienti, con il progetto "Atelier dell’Ausilio". Sarà inaugurata il prossimo venerdì 22 gennaio 2016 ore 16.00, in via dei Banditori n.134 - Z.I. a Cerignola (Fg). Il progetto sperimentale d’innovazione sociale, finanziato da Fondazione con Il Sud (iniziativa Carceri 2013), è nato da una partenership composta da soggetti pubblici (Ufficio del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Puglia, l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Foggia, la Casa Circondariale di Lucera (Fg), l’Azienda Sanitaria Locale Provinciale Foggia, l’ASL di Foggia, e gli Ambiti territoriali di Cerignola e dell’Appennino Dauno Settentrionale (Lucera) e privati, ovvero la Cooperativa Sociale L’Obiettivo, "Escoop - European Social Cooperative", in qualità di capofila, Home Care Solutions s.r.l. e l’Associazione di volontariato "Lavori in Corso". Il progetto, partito a maggio 2014, ha visto, innanzitutto l’adeguamento funzionale dei locali della Casa Circondariale di Lucera per la realizzazione della "Bottega dell’Ausilio" al terzo piano dell’Istituto, dove è stata realizzata la prima unità produttiva. La seconda unità produttiva, l’"Officina dell’Ausilio", è stata realizzata nella Z.I. di Cerignola e si occupa delle operazioni di ritiro, riparazione e manutenzione, ricondizionamento e sanificazione degli Ausili protesici per disabili, anche attraverso l’utilizzo di due furgoni. Dopo una fase di formazione d’aula e una di formazione on the job, dal 1° ottobre 2015 sono stati assunti, come operai e con il Ccnl delle Cooperative Sociali, tre detenuti della Casa Circondariale di Lucera e quattro persone in esecuzione penale esterna per l’Officina di Cerignola, che si aggiungono ai due dipendenti con mansioni di caposquadra già assunti dalla Cooperativa L’Obiettivo dal mese di aprile 2015, che hanno condotto le fasi formative sul campo e oggi coordinano gli operai neo-assunti. Il processo produttivo assicura - in via sperimentale - alla Asl Fg: il ritiro degli ausili obsoleti o dismessi sia presso le sedi dei Distretti Sociosanitari della Asl Fg sia presso le abitazioni degli utenti; la destrutturazione dei materiali scartati dal processo di ricondizionamento, rigenerazione e sanificazione dell’Atelier dell’Ausilio; la separazione degli ausili in base al percorso che seguiranno: 1) sanificazione, ricondizionamento e rigenerazione; 2) destrutturazione; i servizi di manutenzione, ricondizionamento, rigenerazione e sanificazione degli ausili ritirati; il servizio di magazzino degli ausili ritirati, trattati e pronti ad essere riconsegnati a nuovi utenti su segnalazione della Asl Fg; la consegna degli ausili trattati agli utenti su indicazione della Asl Fg. I partner privati del progetto per gestire il servizio sopra descritto hanno costituito Innova - Innovazione sociale per l’inclusione Attiva - Società Consortile Impresa Sociale a R.L. Il servizio, offerto in via sperimentale alla Asl Fg, permette alla stessa di ri-utilizzare i presidi destinati agli utenti, evitando così di acquistarne di nuovi, con la conseguenza di un considerevole risparmio e riduzione della spesa pubblica in Sanità, che si aggira tra il 60% e il 70% del costo sostenuto per l’acquisto degli ausili nuovi. Inoltre la ASL FG acquisisce sia un servizio di logistica personalizzata sull’utente (servizio di ritiro e di consegna dell’ausilio e del libretto di istruzioni e contestuale addestramento all’utilizzo dello stesso ad opera di personale qualificato) che di magazzino fisico degli ausili nella Officina di Cerignola di cui in precedenza non disponeva. Parma: i penalisti "non ignorare fatti gravi emersi dalle registrazioni di un detenuto" Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2016 "Leggiamo, sulle pagine del quotidiano La Repubblica, la notizia della richiesta di archiviazione del procedimento penale relativo alle registrazioni che un detenuto era riuscito ad effettuare all’interno del carcere. Senza voler entrare nel merito della vicenda, che conosciamo per la pubblica denuncia del senatore Luigi Manconi, presidente dell’associazione "A Buon Diritto", riteniamo che vada evidenziato quanto scritto nel provvedimento della Procura, nel quale si danno quasi per scontate prassi e modalità in pieno contrasto non solo con i principi costituzionali e con le regole e le finalità dell’Ordinamento penitenziario, ma anche con i minimi postulati della civiltà e della dignità di coloro che sono sottoposti ad un trattamento detentivo". Lo afferma, in una nota, l’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali italiane. "Si leggerebbe - spiega l’Osservatorio - nella richiesta di archiviazione che, secondo il Magistrato, le frasi registrate, pronunciate da agenti di polizia penitenziaria, `seppur inquietanti, paiono lezioni di vita carceraria, più che minacce ed affermazioni di supremazia assoluta o negazione dei diritti, visto che la guardia dice di non aver mai usato violenza e Assarag conferma". Spiace osservare come, al di là della questione della rilevanza penale delle condotte (sulla quale non riteniamo opportuno intervenire), il pensiero del Magistrato sembri in qualche modo prendere atto che all’interno dei nostri istituti di pena e di custodia in genere, certi comportamenti siano normalmente tollerarti ovvero tollerati come una cosa normale. Noi stentiamo a collocarci all’interno di un sistema culturale che ritiene simili comportamenti solo inquietanti e che anziché parametrare quella realtà fatta di abusi e di soprusi al giudizio severo di chi è stato educato al rispetto della Costituzione, colloca quest’ultima all’interno di un improbabile scibile somministrato da improponibili Maestri di vita carceraria". Prosegue il comunicato dell’Ucpi: "Affermazioni del tipo di quelle riportate nell’articolo: "Se il collega te le da", io entro in cella e te le do pure io, poi siamo in due a dartele "ci vuole il bastone e la carota". "Allora ho ragione quando dico che questo carcere è fuori legge?". "Se ti volevamo picchiare, no? Era facile, ti pigliavamo, ti portavamo giù e ti picchiavamo là. Tanto io do sempre ragione ai colleghi, mai a voi là "Se la Costituzione fosse applicata alla lettera, questo carcere sarebbe chiuso da 20 anni, perché questo carcere è fuori legge, cioè è fuori dalla legge. Questo carcere, questo istituto, con la Costituzione non ha nulla a che vedere", sarebbero state pronunciate, ad avviso del Magistrato, per far comprendere le regole da rispettare, le modalità di comportamento, la cultura del carcere". "Nei numerosi istituti che non hanno ancora neppure un Regolamento Interno, pur previsto da oltre 40 anni dall’Ordinamento, sembrano purtroppo essere ancora oggi questi i Maestri che dettano i metodi di comportamento e somministrano lezioni di vita carceraria. Laddove il Regolamento c’è, è invece, a questi "maestri" che è affidata la sua applicazione. L’Unione Camere Penali Italiane, con il suo Osservatorio Carcere - conclude la nota, denuncia la gravità dei fatti emersi da quelle registrazioni e chiede che il Ministro intervenga per chiarire se al di là delle legittime ed autonome valutazioni del Magistrato, siano stati effettuati tutti i controlli e tutte le ispezioni che una tanto raccapricciante realtà imponeva, affinché non siano ignorate e dimenticate quelle terribili parole che sono veri e propri macigni sulla strada dei diritti civili e della dignità di tutti i detenuti. Consapevoli che un Paese che non sa tutelare i diritti di chi è detenuto non sa neppure difendere i diritti di coloro che sono liberi". Latina: Goretti (Ugl); chiuso il reparto per detenuti, carcerati in cura insieme ai cittadini ilcaffe.tv, 16 gennaio 2016 Chiuso il reparto detentivo dell’ospedale Santa Maria Goretti di Latina. A riportarlo il Segretario dell’ugl Michele Virgilio che spiega: "Ieri, intorno alle 16.00, la Direzione Sanitaria dell’Ospedale civile di Latina, ha trasferito un detenuto e la polizia penitenziaria nel reparto di chirurgia generale perché l’Asl non può pagare le ore di straordinario al personale sanitario addetto al reparto. Il detenuto e il personale di polizia penitenziaria è stato quindi immediatamente trasferito nel reparto di chirurgia generale dove ci sono altri pazienti che durante la giornata ricevono le visite dei propri familiari. A quanto pare, per l’Asl l’aspetto economico - dichiara l’Ugl - prevale sull’esigenza di sicurezza dei cittadini e dei lavoratori dell’Azienda. L’Ugl chiede l’immediata apertura del reparto e se la Direzione sanitaria intenderà mantenere chiuso il reparto detentivo, dovrà immediatamente adottare un piano operativo di prevenzione che salvaguardi le esigenze di sicurezza dei lavoratori e dei cittadini, altrimenti dovrà ritenersi responsabile di eventuali eventi critici". Napoli: Sappe; detenuto finge un malore ed evade durante l’udienza di Domenico Ascione vesuviolive.it, 16 gennaio 2016 Ieri mattina un detenuto che stava arrivando al Tribunale di Napoli, da Ravenna, per un’udienza ha finto un malore mentre era nel veicolo della Polizia Penitenziaria ed è evaso. "Quel che è accaduto oggi al Tribunale di Napoli ha dell’incredibile, - denuncia Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo della polizia penitenziaria - con la sfrontatezza di un criminale ristretto agli arresti domiciliati a Ravenna che ha simulato un malore sull’auto che lo stava conducendo a Napoli da Ravenna ed è evaso mentre si stava recando a un’udienza. Una cosa grave, che poteva creare seri problemi alla sicurezza e all’incolumità dei poliziotti, dei detenuti, dei cittadini, di magistrati ed impiegati. Mi auguro che l’evaso venga presto catturato, ma la grave vicenda porta alla luce le priorità della sicurezza (spesso trascurate) con cui quotidianamente hanno a che fare le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria" Una colpa, quindi, che viene fatta ricadere sui pochi mezzi forniti agli agenti ed un generale disinteressamento riguardo ai problemi del corpo: "Agenti che sono sotto organico, - continua Capece - non retribuiti degnamente, con poca formazione e aggiornamento professionale, impiegati in servizi quotidiani ben oltre le 9 ore di servizio, con mezzi di trasporto dei detenuti spessissimo inidonei a circolare per le strade del Paese, fermi nelle officine perché non ci sono soldi per ripararli o con centinaia di migliaia di chilometri già percorsi" Il segretario generale denuncia i tagli imposti dagli ultimi governi alle forze dell’ordine in danno all’incolumità dei cittadini ed alla funzionalità delle carceri: "La sicurezza dei cittadini non può essere oggetto di tagli indiscriminati e ingiustificati. E la realtà è che con sei miliardi di tagli che i vari governi Prodi, Berlusconi, Monti, Letta e Renzi hanno operato dal 2008 a oggi, i cittadini sono meno sicuri perché ci sono meno poliziotti a controllare le loro case e i quartieri, meno poliziotti penitenziari nelle carceri a fronte di un numero di detenuti che sta tornado ad aumentare esauriti gli effetti "taumaturgici" della sentenza Cedu-Torreggiani, meno forestali contro le agromafie e le ecomafie per la tutela dell’ambiente, meno vigili del fuoco a difenderci da disastri e calamità, a garantire sicurezza e soccorso pubblico". Juncker: l’Ue ha fallito sui profughi. E indica Roma di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 16 gennaio 2016 Il piano con cui l’Europa a novembre ha tentato di dare una risposta alla più grande crisi migratoria dalla fine della seconda guerra mondiale è fallito. La Commissione di Bruxelles lo ha certificato ieri con le parole del suo presidente Jean-Claude Juncker. Solo che Juncker ha cercato anche di trovare un capro espiatorio per questo fallimento: l’Italia, colpevole di bloccare l’applicazione dell’accordo con la Turchia per frenare l’afflusso dei profughi. Juncker ha annunciato una sua visita entro il mese di febbraio in Italia visto "lo stato d’animo non dei migliori in Italia in questo momento nei confronti di Bruxelles", facendo capire che sono altri i dossier aperti tra Ue e Italia a ingombrare il tavolo dei negoziati. "Io prendo la mia amarezza e me la metto in saccoccia", ha esordito, come a far capire che il governo italiano dovrebbe fare altrettanto. La questione migranti non è però secondaria. Il commissario europeo che se ne occupa, il greco Dimitri Avramopoulos due giorni fa, incontrando i membri della Commissione per le libertà civili dell’Europarlamento non ha nascosto che sui rifugiati le cose "vanno sempre peggio". E non soltanto perché nazionalismi e xenofobia si stanno diffondendo a macchia di leopardo nel Vecchio continente. Come è scritto nero su bianco sull’ultimo rapporto della Commissione il piano dei ricollocamenti dei migranti arrivati in Grecia e in Italia - che doveva interessare 160 mila persone - è inchiodato a quota 272. In più la libera circolazione istituita con il trattato di Schengen trova sempre più muri e il trattato stesso rischia di saltare. Eventualità che - Juncker l’ha ribadito con forza ieri - "manderebbe in frantumi l’Unione europea stessa". Il fatto è che non c’è un accordo sulla ripartizione degli oneri dei diversi stati membri per raggiungere la cifra di 3,3 miliardi di euro previsti dall’accordo con la Turchia per limitare i flussi di migranti entro le sue frontiere. Nella versione iniziale Ankara avrebbe dovuto incassare un primo miliardo di euro nei primi mesi, metà della cifra dalle casse della Commissione, e il resto dai contributi degli stati europei, ad eccezione di Cipro, entro la fine del 2016. La ripartizione era decisa in rapporto al grandezza del paese e al peso del suo Pil: 534 milioni dalla Germania, 386 milioni dalla Francia, 281 milioni dall’Italia e così via. Ora l’Italia e altri stati vorrebbero che la quota comune fosse almeno raddoppiata ma la proposta, discussa in via informale tra gli ambasciatori a Bruxelles e ieri all’Ecofin tra i ministri, non ha portato a un accordo. Cosa poi debba fare la Turchia con questi denari è poco chiaro. Il protocollo iniziale è molto generico e prevede soprattutto una collaborazione più stretta con Frontex e con l’Europol per le identificazioni e i respingimenti. In pratica la Turchia - che già ospita 2,2 milioni di rifugiati dalla Siria- nelle ultime ore ha riconosciuto ai siriani la possibilità di avere permessi di lavoro e si è impegnata a combattere le organizzazioni dei trafficanti di esseri umani così come si è impegnata a combattere le milizie dell’Isis. Il presidente Juncker ieri ha detto di essere in imbarazzo per le difficoltà di accoglienza avanzate dagli stati europei per numeri molto contenuti di profughi della guerra "quando Turchia, Giordania e Libano ne ospitano milioni da anni". Quattro milioni, per l’esattezza. In effetti il direttore dell’Oim, lo statunitense William Lacy Swing, ha fatto notare in questi giorni da Ginevra che l’Ue "è assolutamente in grado di gestire un afflusso di rifugiati pari a quello attuale" e che in ogni caso "finché non migliora la situazione in Siria, dove è in corso una guerra da cinque anni, è ragionevole che il flusso non si riduca". Il ragionevole e non giovanissimo diplomatico di carriera signor Swing sostiene inoltre che non ha alcun senso colpevolizzare una intera popolazione, pari a circa un milione di rifugiati in Germania, per ciò che è successo a Colonia a Capodanno, fatti che hanno coinvolto sì e no venti persone. Intanto Angela Merkel - che l’accordo con la Turchia ha fermamente voluto - si appresta ad andare dal suo omologo turco Ahmet Davutoglu già venerdì prossimo, per parlare di migranti più che delle indagini sull’attentato di Sultanahmet. Profughi, il giro di vite della destra svizzera di Angelo Mastrandrea Il Manifesto, 16 gennaio 2016 Immigrazione. L’offensiva dell’Udc e della Lega: un referendum contro la legge sull’asilo, espulsioni anche per le "seconde generazioni". E i rifugiati pagano come in Danimarca. Le richieste di asilo politico in Svizzera sono state 39.500 nel 2015, ha fatto sapere il Segretario di Stato per la migrazione Mario Gattiker. Un numero superiore alle 23.765 dell’anno precedente, ma affatto esagerato se paragonato al milione e passa di ingressi nella vicina Germania, per fare un esempio, o a quanto accade in Italia e in Francia. Eppure la destra anti-immigrati, forte del successo elettorale di pochi mesi fa, è partita all’attacco. Ha raccolto e depositato 65 mila firme con la richiesta di un referendum per depotenziare la legge sul diritto d’asilo voluta dal Partito socialista. Motivo: perché mira a "far venire nel Paese il massimo di immigrati illegali, oltre ai migranti economici attirati dal nostro sistema sociale", ha affermato il presidente dell’Udc Toni Brunner. I toni sono da crociata. La legge viene definita "inefficace e pericolosa", i suoi contenuti "scioccanti". Secondo la consigliera ginevrina dell’Udc Céline Amaudruz il referendum vuole evitare "di ancorare nella legge sull’asilo disposizioni che permettano ai migranti di prolungare il loro soggiorno sul nostro territorio e di imporci costumi risalenti ad altre epoche". Ad appoggiare il partito di maggioranza è pure la Lega dei ticinesi (primo partito nella Svizzera italiana), la cui consigliera nazionale Roberta Pantani ha sostenuto che bisogna mandare un segnale all’indirizzo di Berna: "Occorre cambiare rotta, trovare soluzioni concrete e applicabili per far fronte così al numero spropositato di domande depositate e non ancora evase, al crescente numero di abusi e ai cosiddetti migranti economici, nonché all’esplosione dei costi". Nel mirino ci sono soprattutto la gratuità dell’assistenza legale ai richiedenti asilo e il diritto attribuito alla Confederazione di espropriare privati e Comuni per insediare o costruire nuovi centri d’accoglienza. L’offensiva della nuova maggioranza di destra-centro in Svizzera non si ferma qui. Berna ha deciso pure, in sintonia con la Francia di Francois Hollande, di espellere gli stranieri che delinquono. Ma il Partito socialista svizzero, a differenza di quello francese, si oppone, parlando di giustizia a due velocità e violazione dei diritti delle minoranze. In vista della votazione della legge, il Ps ha fatto appello a tutti i "nuovi cittadini elvetici", affinché respingano la proposta dell’Udc, che prende di mira le cosiddette "seconde generazioni" di immigrati. A fianco dei socialisti, un fronte composto da associazioni e movimenti. In una conferenza stampa, parlando volutamente in tedesco e in turco il presidente della sezione "migranti" del Ps, nonché consigliere a Basilea, Mustafa Atici ha spiegato che "accettando l’iniziativa si cambierà fondamentalmente la vita di giovani nati e cresciuti in Svizzera, che sono coinvolti a livello economico, sociale e culturale, ma che non hanno ancora chiesto o ottenuto la nazionalità". In questo contesto, l’accordo tra maggioranza e opposizione in Danimarca sulla proposta di legge che consente di confiscare i beni dei profughi per pagare le spese di accoglienza (stigmatizzata ieri da Bruxelles) ha fatto venir fuori la notizia che in Svizzera una misura del genere è già praticata dal 1992. Lo ha rivelato la tv svizzero-tedesca Srf l’altra sera: nei centri di registrazione elvetici i richiedenti asilo devono consegnare alle autorità tutti i beni che eccedono il valore di 860 franchi (circa euro), per coprire le spese per le procedure d’asilo e del welfare. La televisione ha mostrato la ricevuta di un profugo siriano, che aveva dovuto consegnare la metà dei contanti che aveva in tasca. La Segreteria di Stato della migrazione ha confermato l’esistenza della procedura, sostenendo che la legge esige dai richiedenti asilo un contributo per i costi di soggiorno e per l’assistenza sociale e che "se una persona se ne va di sua volontà entro sette mesi, potrà recuperare il suo denaro e in caso contrario esso coprirà le spese". Poi, una volta ottenuta la residenza, dovrà versare il 10 per cento del suo reddito per un periodo di dieci anni, fino a un massimo di 15 mila franchi. Era nell’aria che, con la vittoria dei partiti anti-immigrazione, l’atmosfera politica sarebbe cambiata, in un Paese che praticamente non conosce la disoccupazione ma che si trova a fare i conti con una crescita zero e la temuta deflazione, né più né meno che il resto d’Europa dalla quale si tiene fuori. La mossa di sganciare il franco dall’euro ha provocato un buco di oltre 20 miliardi nelle casse dello Stato nel 2015, e la reazione della maggioranza dei cittadini è stata di proteggersi ancora di più. Ma le conseguenze potrebbero essere ancora peggiori: se il nuovo governo dovesse dar seguito al referendum contro la libera circolazione approvato nel 2014, perderebbero ogni possibilità di accedere ai finanziamenti europei. Stati Uniti: a Guantánamo restano meno di 100 detenuti ilpost.it, 16 gennaio 2016 Altri dieci prigionieri sono stati trasferiti: Obama sta tentando di svuotare il carcere prima della fine della sua presidenza, visto che i Repubblicani non glielo fanno chiudere. Giovedì il dipartimento della Difesa statunitense ha annunciato il trasferimento di dieci detenuti yemeniti del carcere di Guantánamo in Oman, dove rimarranno solo temporaneamente. Con questo trasferimento, per la prima volta dal 2002 nel carcere di Guantánamo sono detenute meno di 100 persone (93 per la precisione). Diversi siti di news americani hanno commentato la notizia dicendo che si tratta di un traguardo importante per l’amministrazione di Barack Obama, che da tempo sta litigando con i Repubblicani - che controllano sia la Camera che il Senato - per ottenere la chiusura di Guantánamo. Tutti i detenuti yemeniti trasferiti in Oman erano rimasti rinchiusi a Guantánamo per circa 14 anni senza che contro di loro fosse formalizzata alcuna accusa e senza che fossero sottoposti a processo (il gruppo degli yemeniti è stato il più numeroso tra i detenuti di Guantánamo). L’amministrazione Obama ha deciso di non rimandare i detenuti in Yemen in parte per delle limitazioni imposte dal Congresso e in parte per la complicata situazione attuale dello Yemen, dove si sta combattendo una guerra molto violenta tra i ribelli Houthi (sostenuti dall’Iran) e i fedeli del presidente Abdel Rabbo Mansour Hadi (alleati con i sauditi). La questione della chiusura di Guantánamo è stata una delle più discusse da Repubblicani e Democratici nel corso degli ultimi anni. Obama ha tentato più volte di chiudere il carcere di Guantánamo, come aveva promesso in campagna elettorale: ma per farlo è necessario un voto favorevole del Congresso a cui si sono sempre opposti i Repubblicani. L’amministrazione Obama ha deciso così di percorrere un’altra strada: approfondire i casi dei singoli detenuti per vedere se alcuni possono essere rilasciati senza rischi per gli Stati Uniti, e stringere accordi con altri paesi per trasferire i detenuti fuori dal carcere. Solo nei primi giorni del 2016 l’amministrazione Obama ha autorizzato il trasferimento di 14 detenuti fuori da Guantánamo, indicando la volontà di accelerare il processo che prevede lo svuotamento della prigione entro il gennaio del 2017, data in cui terminerà l’incarico di Obama a presidente. Il carcere di Guantánamo fu istituito dall’amministrazione di George W. Bush dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Negli ultimi anni la gestione del carcere è stata molto criticata, soprattutto dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani: per esempio ci sono stati casi di alimentazione forzata per coloro che avevano deciso di fare lo sciopero della fame e casi di soprusi e violenze contro i prigionieri. Gli stessi funzionari del governo americano hanno diffuso i documenti che mostrano come alcuni detenuti siano rimasti per anni a Guantánamo per errore: l’ultimo caso di cui si è parlato molto è stato quello di Mustafa al Aziz al Shamiri, cittadino yemenita oggi 37enne rimasto in carcere senza accuse formalizzate per 13 anni, per uno scambio di persona. Russia: è divieto di "fenya", parolacce proibite ai detenuti di Maria Elena Perrero blitzquotidiano.it, 16 gennaio 2016 La misura arriva dopo un’analoga decisione del presidente russo Vladimir Putin presa nel 2014 e volta a proibire parolacce ed espressioni volgari nelle arti, compresi i romanzi e le opere teatrali. È proibito ai detenuti dire parolacce e usare lo slang criminale: il divieto arriva nelle prigioni russe, anche se non è dato sapere come verrà fatto rispettare. Riguarda la cosiddetta "fenya", linguaggio volgare diffuso in ambito criminale, basato sulla grammatica russa con un vocabolario che varia nel tempo e che ha subito molti influssi dalla cultura Yiddish, e che il ministero della Giustizia russo in passato ha più volte cercato di stroncare, sempre invano. Durante il periodo sovietico la "fenya" si è diffusa molto, è penetrata nella lingua russo parlata e ha perso parte del suo carattere criptico. Tutt’ora, però, è legata all’ambiente criminale o a quello carcerario. Per questo motivo si possono trovare termini di questo slang anche in romanzi scritti da autori che hanno passato del tempo in carcere, cosa tutt’altro che insolita in Russia. Finirono in carcere, giusto per citare i casi più noti, Fedor Dostoevskij e Andrej Sacharov, ma anche Anton Cechov passò del tempo a stretto contatto con i detenuti, quando dovette redigere una relazione sulla situazione nel gulag dell’isola di Sachalin. Insomma, la fenya è insita nel linguaggio russo da secoli. Adesso, scrive Andrew Kramerjan sul New York Times, il divieto nelle prigioni è stato rinnovato e inasprito, e proibisce ai detenuti di "socializzare con altri individui usando slang o espressioni volgari, minacciose, umilianti o calunniose". Quel che non è chiaro nel divieto è come dovrà essere fatto rispettare. Le prigioni russe, infatti, retaggio degli antichi gulag, sono delle specie di fortini con grosse celle che somigliano più a delle baracche, in cui sono stipati anche ottanta condannati, lasciati al loro destino giorno e notte. Vige la legge del più forte, e le guardie interagiscono bene poco, e ben poco possono per fermare eventuali comportamenti scorretti. La misura si inserisce in quella stretta contro il turpiloquio inaugurata nel 2014 da un’analoga misura del presidente Vladimir Putin: il divieto di parolacce ed espressioni sconce nelle arti, compresi romanzi e opere teatrali, a meno che non siano segnalate come destinate prettamente ad un pubblico adulto. Quel divieto aveva fatto discutere molti scrittori, che si sentivano privati della loro libertà di esprimersi. Alcune parole russe hanno migliaia di varianti e sono radicate nella letteratura e nella cultura russe. Dostoevskij scrisse che è possibile esprimere "persino pensieri analitici profondi" con una parola russa comune e versatile che indica anche il pene.