Carceri, boom di misure alternative, in 5 anni aumento del 100 per cento di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2016 Sulla situazione delle carceri siamo a un punto di svolta. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, rispondendo alla Camera al question time, traccia un bilancio lusinghiero del primo anno di applicazione delle norme che hanno introdotto sanzioni non detentive. Un esito sicuramente incoraggiante: al 31 dicembre scorso la popolazione carceraria è scesa a 52.164 detenuti, di cui sono 39.274 i soggetti che si trovano in regime di esecuzione esterna. "Per comprendere il salto di qualità - ha sottolineato il ministro - cito un altro dato: a fine 2010, l’anno in cui venivano notificati i ricorsi Torreggiani al Governo italiano, il numero dei soggetti in esecuzione penale esterna era di 21.494 ed erano 67.971 i ristretti in carcere. Una crescita di quasi 18.000 unità in termini assoluti, e quasi del 100% in termini percentuali". "Ciò significa - ha proseguito Orlando - che nel ridurre la popolazione carceraria non abbiamo generato impunità, posto che il numero di detenuti trattati dal sistema penale che è rimasto grossomodo invariato. Ciò che è cambiato è la cultura di esecuzione della pena. E questo risultato si deve anche al lavoro straordinario svolto dalla magistratura e dalla polizia penitenziaria, e all’apporto degli enti locali, chiamati sempre più spesso ad offrire possibilità di lavoro esterno per i detenuti". Le convenzioni stipulate nel corso del 2015, hanno reso disponibili 12.687 posti di lavoro per lo svolgimento di carattere riparativo. A fine 2015 i detenuti ammessi al lavoro esterno erano 1.413 mentre la sanzione della messa alla prova era in corso in favore di 6.557 condannati, al posto dei 505 destinatari della misura al 1° gennaio dello stesso anno. "Anche il dato delle misure eseguite - puntualizza Orlando - nell’intero periodo, pari a 9.690, descrive un trend assolutamente positivo, dimostrando altresì da parte di avvocati e magistrati la condivisione di una comune cultura innovativa, concretamente orientata nella prospettiva di cambiamento e di attuazione del dettato costituzionale". Esulta Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della camera, e relatrice della legge sulla messa alla prova (la n. 67 del 2014): "le nuove norme stanno funzionando: il bilancio, a un anno e mezzo dall’entrata in vigore, è più che positivo. È un istituto che ci avvicina a un’idea riparativa della giustizia che ha già dimostrato buoni risultati in altri ordinamenti, un’idea di sanzione che da un lato impone obblighi e prescrizioni a chi commette un reato e dall’altro risponde a esigenze risarcitorie in favore della collettività e della vittima". Ferranti (Pd): riforme funzionano, lo confermano i numeri "Dai dati forniti oggi dal ministro Andrea Orlando "emerge chiaramente che le riforme sul fronte carcerario approvate in questa legislatura stanno funzionando bene e che puntare sulle misure alternative alla detenzione e su istituti innovativi come la messa alla prova è stata la giusta decisione". È quanto dichiara Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della Camera, commentando l’intervento del ministro al question time. "Gli sforzi compiuti da Parlamento e governo in questi due anni con la conversione in legge di quattro decreti e l’approvazione di due leggi di iniziativa parlamentare- sottolinea l’esponente del Pd- trovano conforto e conferma positiva nei numeri che fotografano l’attuale situazione penitenziaria: non solo siamo usciti dall’emergenza sovraffollamento, ma siamo riusciti a garantire qualità e dignità di vita negli istituti e una funzione compiutamente rieducativa della pena. Insomma, senza diminuire di un briciolo la sicurezza dei cittadini, abbiamo finalmente un sistema - afferma Ferranti - che sa coniugare insieme la giusta severità della pena con trattamenti di recupero e risocializzazione". Ferranti in particolare, presentatrice e relatrice della legge sulla messa alla prova (la n. 67 del 2014), esprime "soddisfazione per come le nuove norme stanno funzionando: il bilancio, a un anno e mezzo dall’entrata in vigore, è più che positivo. È un istituto - conclude - che ci avvicina a un’idea riparativa della giustizia che ha già dimostrato buoni risultati in altri ordinamenti, un’idea di sanzione che da un lato impone obblighi e prescrizioni a chi commette un reato e dall’altro risponde a esigenze risarcitorie in favore della collettività e della vittima". In Consiglio dei ministri arriva la depenalizzazione a due corsie di Alessandro Galimberti e Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2016 Alla fine, dopo la falsa partenza della scorsa settimana, scocca l’ora della depenalizzazione. Tra le spine del reato di clandestinità che resterà tale, l’intera operazione approda al Consiglio dei ministri di questa mattina. Dei punti critici ancora in discussione è stata trovata una quadra sulla cannabis, per la quale scatterà la non punibilità nel caso di mancato rispetto delle prescrizioni che accompagnano l’autorizzazione alla coltivazione per uso terapeutico, e sul disturbo con rumori della quiete privata, per il quale rimane invece la sanzione penale. Sulla revisione della disciplina per le mancate segnalazioni antiriciclaggio invece tutto è rinviato al confronto nel corso del Consiglio. Un’operazione che vede il consenso dell’avvocatura con l’Oua che mette, però, l’accento sui rischi di ingolfamento della giustizia civile. L’operazione di alleggerimento del Codice penale e di una dozzina di leggi collegate viaggia su due diversi binari e anche due distinti veicoli normativi. Da un lato c’è la depenalizzazione "amministrativa", con la semplice conversione di multe e ammende penali in sanzioni pecuniarie. Dall’altro c’è un secondo schema di decreto legislativo che prevede l’abrogazione tout court di alcuni reati, trasformati in illeciti civili a "doppia" punibilità (la nuova sanzione, destinata alla Cassa ammende - penale - si affianca, infatti, al risarcimento dovuto alla vittima). La via amministrativa - Nel primo gruppo, accanto ad alcuni reati un po’ obsoleti (atti, spettacoli e pubblicazioni oscene), altri marginali (abuso di credulità popolare), altri ancora decisamente datati (la detenzione di beni confiscati dalla Repubblica di Salò), spicca la soglia di depenalizzazione per le omissioni contributive e previdenziali, fissata a 10 mila euro su base annua. La forbice della nuova sanzione amministrativa va da 5 a 50mila euro, secondo la tabella di conversione legata al disvalore "ex" penale. A questo schema di ddl potrebbe essere associata la depenalizzazione delle (mancate) segnalazioni antiriciclaggio dei professionisti, ma alcuni problemi di merito (l’entità delle sanzioni), di armonizzazione normativa e di istituti deflattivi (la possibilità di oblazione) rischia di far scivolare a nuova data la novella al decreto legislativo 231/2007, peraltro attesa da più di un anno. E quella del tribunale civile - Più complicato l’iter di "civilizzazione" delle pene previsto dall’altro schema di decreto legislativo, Qui, a parte l’abrogazione di alcuni reati (falso in scrittura privata, falsità in foglio firmato in bianco tra privati, ingiuria, sottrazione di cose comuni da parte del comproprietario e appropriazione di cose smarrite, del tesoro o di cose ricevute per errore o per caso fortuito) e il mantenimento di altri (danneggiamento, deviazione di acque, disturbo della quiete privata), c’è l’incognita dell’effettivo sgravio giurisdizionale e del reale vantaggio per le casse statali. Sul primo versante c’è, infatti, un semplice travaso dal processo penale a quello civile - pertanto a saldo zero - mentre, quanto agli incassi, la stima non raggiunge i 90 mila euro/anno, con il vero risparmio ottenuto sul gratuito patrocinio (900 mila euro/anno). Resta, per finire, l’incertezza sulla patente di guida: ancora in discussione l’ipotesi di depenalizzazione della guida senza essere titolati a condurre veicoli. Le perplessità sarebbero nate per la necessità di trovare un modo per coordinare l’intervento con le disposizioni che sono all’esame del Parlamento in materia di omicidio stradale. Il Ministro Orlando: sul reato di clandestinità non c’è rinvio sine die di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2016 Oggi a Palazzo Chigi il governo non eserciterà la delega conferita dal Parlamento per abolire il reato di clandestinità. La norma penale, dunque, resta in vigore a tutti gli effetti. Ma "non è un rinvio sine die" ha detto ieri il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Il guardasigilli parla invece di "un sistematico ripensamento" della materia dell’immigrazione fino a ricondurre "l’intervento a un più ampio pacchetto". Orlando, durante il question time alla Camera, ha chiarito che nella discussione in seno al governo è emersa "l’esigenza di ulteriori approfondimenti" sia "sulle misure espulsive" che dovrebbero avere "un potenziamento" sia su quelle relative "al riconoscimento dello status di rifugiato". In generale sarebbe emersa una riflessione sulla "necessità di confrontarsi con il complesso degli strumenti volti ad affrontare il problema dell’immigrazione". Il ministro ha poi ricordato come "il reato di immigrazione clandestina fosse stato inserito tra le fattispecie interessate dall’intervento di depenalizzazione in quanto ritenuto non solo inidoneo a contrastare efficacemente il fenomeno dell’ingresso clandestino, ma anche perché la fattispecie a oggi prevista - sottolinea Orlando - si traduce in un rallentamento all’espulsione e in un ostacolo per le indagini, specie quelle relative alla tratta di esseri umani, come segnalato, tra gli altri, dal procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo" Franco Roberti. All’atto pratico, tuttavia, oltre la riflessione politica descritta da Orlando non c’è nient’altro. Di certo non c’è, soprattutto, alcun testo più o meno in bozza quantomeno al ministero dell’Interno, guidato da Angelino Alfano, che poi ha la gestione diretta dei flussi immigratori. Tutta la questione, del resto, è così effervescente da suggerire a più di qualcuno tra gli esponenti del governo la massima prudenza. Lo conferma, del resto, anche il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che pure ribadisce l’annuncio di Orlando. "Abbiamo a che fare con la materia politica più incandescente che c’è in Europa oggi. Il reato di clandestinità è obiettivamente inutile, abbiamo un’esperienza di alcuni anni e si è visto che non è che il flusso di migranti clandestini, visto che c’è quel reato, sia precipitato". Ma, aggiunge Gentiloni, "l’operazione di eliminare questo reato, che io ritengo sacrosanta" deve essere "inserita in un pacchetto di riforma di diverse norme che hanno a che fare con l’immigrazione, che sta preparando il ministro della Giustizia". Il numero uno degli Esteri spiega così il rinvio dell’abolizione: "Sappiamo quanto sia delicata questa cosa in termini di opinione pubblica". Questione che rinvia anche all’omicidio della giovane americana Ashley Olsen, a Firenze, delitto per il quale è stato fermato "con gravi indizi di colpevolezza" il senegalese irregolare Cheik Tidiane Diaw. Ironizza su Facebook il leader della Lega Matteo Salvini: "Fermato un clandestino? Strano...". Roberto Calderoli sostiene che "se fosse stato espulso, non saremmo a piangere". La comunità dei senegalesi a Firenze invita però "a non cadere nelle provocazioni. Un fatto gravissimo - replica a Salvini - ma poteva succedere" a prescindere dalla nazionalità. Cannabis per uso terapeutico, stop al carcere di Marilicia Salvia Il Mattino, 15 gennaio 2016 I semi si comprano tranquillamente online, il web è pieno di foto, video e forum di discussione che dispensano senza tema di censura i consigli per giungere alla più esaltante delle fioriture. La coltivazione della cannabis è un segreto di Pulcinella che ogni giorno tiene impegnate in modo massiccio le forze dell’ordine, obbligate dalla legge a sequestrare e distruggere ogni piantagione, che sia ampia oppure minuscola, e a portare davanti ai magistrati questa anomala specie di agricoltori. La norma che stamattina sarà portata all’attenzione del consiglio dei ministri non cambierà sostanzialmente questo stato di cose, anche se da molti è considerata il grimaldello che prima o poi aprirà la porta a una svolta. Saranno infatti considerate non più illecito penale ma illecito amministrativo le violazioni delle prescrizioni imposte a soggetti autorizzati alla coltivazione della cannabis per uso terapeutico. I margini sono dunque ben definiti e ristretti, riguardanti in larga parte aziende o comunità la cui attività è nota e monitorata, e l’intento è quello di sgravare i tribunali di un carico di lavoro notevole, tagliando la lunga fase del processo e mantenendo intatta la sanzione pecuniaria prevista dal codice in questi casi (da uno a 4 milioni di euro). Sul punto il ministro della giustizia Andrea Orlando è stato chiaro: "Continuerà ad essere punito chi coltiva l’erba in terrazzo". Ma resta il fatto che per la prima volta si introduce, a proposito della coltivazione della cannabis, il concetto di depenalizzazione. E di certo il discorso non si chiude qui, perché in Parlamento l’argomento promette di arrivarci "dalla porta principale", come ha ricordato pochi giorni fa a Radio Radicale il sottosegretario Benedetto Della Vedova: sulla legalizzazione della cannabis e il diritto di coltivarla in casa l’inter-gruppo sta lavorando a una vera e propria proposta di legge approvata dalle Camere "a prescindere da una logica di maggioranza e opposizione". Ci si arriverà davvero? Sul fronte del no, il deputato di Alleanza Popolare in commissione giustizia, Alessandro Pagano, ha evidenziato che si tratterebbe di "un messaggio pericolosissimo per i giovani", sui quali non si può "scaricare la lentezza della giustizia e il sovraffollamento delle carceri". E Maurizio Gasparri, di Forza Italia, è lapidario: "La cannabis produce conseguenze dannose". Di certo i numeri del fenomeno sono rilevanti: secondo il Dipartimento delle politiche antidroga, in Italia il 10 per cento della popolazione fa regolarmente uso di questa sostanza illegale. Si tratta di quattro milioni di persone, in un’età compresa fra i 15 e i 64 anni. Un piccolo esercito variegato e spinto da motivazioni tra loro diverse, che più o meno quotidianamente si rivolge ai mercanti della criminalità organizzata per comprare le dosi (il prezzo medio è di 10 euro) e che per questa ragione sempre più mette a rischio la propria salute: al di là dei danni che derivano dall’uso delle cosiddette "droghe leggere" - che secondo molti studi sarebbero invece assimilabili a quelle "pesanti" per dipendenza ed effetti sulla psiche - a rendere spaventosamente pericoloso lo spinello è da qualche tempo la sua esposizione alle manipolazioni più sconvolgenti. Per accrescere la dipendenza e alimentare la catena del business, nel "fumo" le mafie aggiungono spesso acidi ed erbe geneticamente modificate, somministrando ai "clienti", anche giovanissimi, cocktail dagli effetti potenzialmente devastanti. In questo contesto drammatico, nel quale gli antiproibizionisti hanno buon gioco nel proporre un mercato "regolare" e quindi più controllato e sicuro, spunta in modo forse paradossale il volto "buono" della marijuana, la sua capacità ormai provata di combattere la nausea provocata dalle chemioterapie nei malati di cancro, di stimolare l’appetito nei pazienti affetti da Hiv, di attenuare il dolore nella sclerosi multipla e in molte malattie croniche. Non solo: la sua utilità nella cura di glaucomi, glioblastomi, artrite reumatoide, epilessia, patologie autoimmuni, ansia e depressione è ritenuta avere "promettenti evidenze" che secondo l’Iss "giustificano una ulteriore sperimentazione clinica nell’uomo". Evidenze che hanno già spinto numerose Regioni a introdurre provvedimenti sull’erogazione di medicinali a base di cannabis: in Puglia, Toscana, Veneto, Liguria, Marche, Friuli, Abruzzo, Sicilia, Umbria i servizi sanitari regionali coprono le spese del loro utilizzo. Il testo che sarà approvato domani in Consiglio dei ministri suona come un incoraggiamento a procedere su questa strada. Una legittimazione piena, in un quadro in cui il richiamo alle regole non è meno fermo. Depenalizzazione cannabis ma solo per uso terapeutico, oggi la riforma in Cdm di Liana Milella La Repubblica, 15 gennaio 2016 Passano da illecito penale ad illecito amministrativo violazioni delle regole compiute da soggetti autorizzati alla coltivazione della marijuana per uso terapeutico. Arrivano oggi in Consiglio dei ministri, a quanto si apprende, misure di depenalizzazione che riguardano la cannabis: passano da illecito penale ad illecito amministrativo esclusivamente le violazioni delle regole compiute da soggetti autorizzati alla coltivazione della cannabis per uso terapeutico. Il provvedimento rientra in un pacchetto più ampio di depenalizzazioni domani all’esame del Cdm. Non si tratta, come ha già spiegato il ministro della Giustizia Andrea Orlando, della depenalizzazione del reato per chi coltiva marijuana. "Non si tratta di depenalizzare il reato per chi coltiva l’erba in terrazzo - ha detto - ma di rendere reato amministrativo quello che oggi è reato penale e che riguarda solo chi, avendo ottenuto l’autorizzazione alla coltivazione a scopo terapeutico, viola quella prescrizione". Per ora, quindi, fuori da questo quadro, coltivare cannabis in grandi quantità resterà reato. Una fattispecie che oggi è considerata, appunto, reato penale e prevede, quindi, un processo che si conclude comminando una pena detentiva, commutabile poi in sanzione pecuniaria. Resterà quindi il carcere fino a un anno e la multa da uno a 4 milioni di euro per chi coltiva anche una sola piantina di cannabis, fosse pure a scopo terapeutico. Intervenendo sul codice per portare il reato in questione, ovvero la violazione della prescrizione per chi ottiene l’autorizzazione alla coltivazione a scopo terapeutico, a semplice illecito amministrativo, si sgravano i tribunali di un carico di lavoro importante mantenendo però la stessa sanzione pecuniaria. Il silenzio delle vittime di ‘ndrangheta: "a Torino c’è più omertà che a Locri" di Giuseppe Legato e Massimiliano Peggio La Stampa, 15 gennaio 2016 Minacce con teste di maiale mozzate e pizzini per non essere intercettati. I carabinieri: nessuno ha denunciato spontaneamente gli estorsori. Arrestati 20 affiliati. "A Torino? Più omertosi che a Locri". Ecco come vengono descritti dai carabinieri questi torinesi in balia degli strozzini, minacciati con teste di maiale mozzate, impauriti e costretti al silenzio con i pizzini, umiliati al punto di dover vendere le catenine d’oro dei figli per appagare le richieste dei signori della ‘ndrangheta, che bevono caffè in un bar a pochi passi dal Tribunale e sorridono spavaldi alle ragazze che passano di fronte al dehors. Nonostante le inchieste degli ultimi anni e l’impegno sociale nel recupero dei beni confiscati alle mafie, la ‘ndrangheta sembra inestirpabile, il coraggio della denuncia quasi impalpabile. Da ieri sono finiti in cella in venti, arrestati dai carabinieri del nucleo investigativo con accuse che vanno dall’associazione di stampo mafioso, all’estorsione, al possesso di armi e commercio di hashish e cocaina. Indagine durata due anni, non facile, perché nessuna delle vittime si è presentata spontaneamente a denunciare le estorsioni. Per paura di ritorsioni. "Il nostro auspicio - afferma il procuratore capo Armano Spataro, autorizzando la diffusione dei filmati dell’inchiesta - è che altre vittime di questi odiosi atti minatori trovino la forza di denunciare". A capo dell’organizzazione due padrini e fratelli: Adolfo e Aldo Cosimo Crea, 44 e 41 anni, già finiti in carcere in altre inchieste, compresa Minotauro, indagine monumentale sull’infiltrazione criminale calabrese a Torino e provincia, con un esercito di condannati in via definitiva. "Lo sapete no, a Torino comandiamo noi" dicevano agli imprenditori, incassando migliaia di euro al mese. Agli affari di famiglia collaborava anche il figlio di Adolfo, il giovane Luigi, al suo debutto in carcere, che si lamentava di non poter vivere con meno di 10 mila euro al mese, per colpa del costo della vita troppo alto. "I soldi partono come niente" dice in un’intercettazione. Attorno ci sono gli altri "associati": autisti, comparse, emissari. Passeggiano nel centro della città, siedono ai dehors dei caffè, intascano il pizzo in mezzo alla strada, ostentano forza. Altro che mafia silente, che non si manifesta. I Crea sono violenti e lo dimostrano mentre chiedono il pizzo per sostenere "gli affiliati finiti in carcere": botte, schiaffi, minacce terribili. Lo fanno con Simon Longato, piccolo industriale della cintura torinese, che ha riconquistato la sua libertà quando ha raccontato ai carabinieri di aver ricevuto una testa mozzata di maiale, con dentro una messaggio di morte, vecchio stile, con le lettere ritagliate dal giornale: "la prossima volta mettiamo la tua testa". Ma non l’ha fatto spontaneamente. Si è liberato del fardello quando i carabinieri lo hanno chiamato in caserma, dopo aver intercettato le conversazione dei sui aguzzini. Lui è una delle vittime intrappolate nella rete di estorsioni e minacce di questo gruppo criminale di ‘ndranghetisti con solidi legami "con la terra madre", radicata al nord da alcuni anni. Affari nella droga, nel gioco d’azzardo, in alcune attività commerciali. "Per colpa di queste bestie - si sfoga oggi l’imprenditore - mi sono trasferito in Svizzera. Ho paura di morire, ancora oggi. Spero solo che lo Stato faccia lo Stato e li tenga dove meritano. Mi fa star male pensare che tanta gente ha negato le estorsioni di fronte ai carabinieri e ha continuato a pagare. Non pagare rende liberi". Quella dei Crea è una mafia sfacciata che bivacca in una bella piazza di quartiere e fa affari alla luce del sole. "Questa è Torino, non Locri" commenta esaustivo il colonnello Domenico Mascoli, comandante del nucleo investigativo, mostrando le immagini ad alta definizione registrate nel corso delle indagini. Nei filmati si vedono mani che afferrano soldi, stropicciano pizzini tra il via vai indifferente della gente. Nel blitz di ieri sono state fatte anche 41 perquisizioni domiciliari e sequestrati 7 immobili; automezzi; conti bancari, e due società. Dalla Cedu nuova condanna all’Italia: 10 milioni ai danneggiati dal sangue infetto di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2016 Corte europea dei diritti dell’Uomo - Sezione I - Causa D.A. e altri contro Italia - Sentenza 14 gennaio 2016. Tempi troppo lunghi, per le vittime del sangue infetto, per ottenere gli indennizzi. Ostacoli per la liquidazione dei risarcimenti. Assenza di ricorsi effettivi e violazione del diritto alla salute. La Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza D.A. e altri depositata ieri, torna a condannare l’Italia sul sangue infetto, dopo la pronuncia del 2009 con la quale aveva riconosciuto il diritto agli indennizzi. Questa volta le somme dovute sono quantificate in dieci milioni di euro. A rivolgersi alla Corte, 889 vittime dirette e familiari di malati deceduti a causa di malattie contratte per trasfusioni di sangue infetto o utilizzo di emoderivati. Invece di avere cure mediche adeguate, i pazienti avevano contratto gravissime malattie per la contaminazione del sangue infetto, oggetto di numerose inchieste. E come se non bastasse, sul piano nazionale avevano incontrato ostacoli per far valere almeno il proprio diritto a un indennizzo. Di qui la scelta di rivolgersi a Strasburgo che ha dato ragione alla maggior parte dei ricorrenti. Prima di tutto la Corte europea ha ritenuto violato il diritto all’equo processo (articolo 6) nel quale rientra il diritto a ottenere in tempi rapidi l’esecuzione delle sentenze. Se uno Stato - scrive Strasburgo - non esegue una sentenza definitiva a detrimento di una parte è chiara la violazione dell’articolo 6. I ritardi nell’esecuzione delle pronunce sugli indennizzi hanno impedito alle vittime di ottenere un effettivo ristoro. Così, l’indennizzo è rimasto solo sulla carta e questo - prosegue Strasburgo - senza alcuna giustificazione, per di più tenendo conto che si trattava di risarcimenti dovuti a malati. Violato anche l’articolo 1 del Protocollo n. 1 sul diritto di proprietà nel quale rientrano i crediti esigibili che lo Stato deve corrispondere senza poter avvalersi, a giustificazione dei ritardi, né della complessità delle procedure né di problemi di budget. Condanna, altresì, per violazione dell’articolo 13 che assicura il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva e dell’articolo 2 sul diritto alla salute, per gli aspetti procedurali, perché lo Stato non ha fornito risposte adeguate e rapide tenendo conto che, in alcuni casi, il procedimento per ottenere un indennizzo è durato 12 anni per un solo grado di giudizio. Solo su un punto la Corte dà ragione all’Italia. Per Strasburgo, infatti, la somma di 100mila euro fissata dall’articolo 27bis del Dl 90/2014, prevista per chi ha deciso di avvalersi di una procedura transattiva, è da considerarsi adeguata. Un riconoscimento sottolineato dal ministero della Salute in una nota nella quale si precisa che la norma salvata da Strasburgo è stata fortemente voluta dal ministro Beatrice Lorenzin. Meno convinte le associazioni. Federconsumatori punta il dito contro la scarsa sicurezza e i rinvii nei risarcimenti. Un’accusa confermata dal presidente dell’Associazione politrasfusi Angelo Magrini il quale ha dichiarato che nessuno dei pazienti danneggiati dalle trasfusioni ha mai ricevuto i rimborsi previsti dallo Stato. Sull’attività dei dipendenti controlli difensivi anche senza autorizzazione di Cesare Pozzoli Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2016 Con la sentenza 20440/2015 la Corte di cassazione, pur pronunciandosi su un caso anteriore al Jobs act, ha fornito una lettura innovativa dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori in linea con la nuova disciplina in materia di controlli a distanza. La Corte si è occupata di un lavoratore licenziato per essersi allontanato dall’azienda per tre giorni consecutivi in orario di lavoro "per trattenersi in bar.... per conversare, ridere, scherzare con i colleghi". L’azienda ha licenziato il dipendente, utilizzando senza alcuna autorizzazione i dati forniti dal Gps installato sull’auto assegnata al lavoratore, ritenendo che le assenze contestate abbiano compromesso il vincolo fiduciario. La Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento sulla base di prove acquisite mediante geolocalizzazione satellitare annoverando tale sistema tra i cosiddetti controlli difensivi "intesi a rilevare mancanze specifiche e comportamenti estranei alla normale attività lavorativa nonché illeciti" tale da non comportare un "controllo di modi di adempimento dell’obbligazione" soggetto ai vincoli previsti dell’articolo 4. La Corte ha precisato che tale controllo è ancor più legittimo ove, come nel caso in questione, la prestazione lavorativa sia resa al di fuori dei locali aziendali in cui "è più facile la lesione dell’interesse all’esatta esecuzione della prestazione lavorativa e dell’immagine dell’impresa, all’insaputa dell’imprenditore". La sentenza assume particolare interesse poiché è stata pubblicata poco dopo il Dlgs 151/2015 e può considerarsi un’anteprima nell’applicazione del "nuovo" articolo 4. La nuova frontiera interpretativa è ora costituita dalla identificazione degli "strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa" considerando la larga diffusione di beni aziendali da cui può indirettamente derivare un controllo sull’attività di lavoro (telefonini, smartphone, tablet, navigatori satellitari). Al riguardo il Garante per la protezione dei dati personali si è già occupato (provvedimenti 401 e 448 del 2014) dell’acquisizione di dati attraverso Gps installati su smartphone in uso ai dipendenti rendendo un parere positivo purché siano impediti gli accessi ad altri dati (sms, posta elettronica, traffico telefonico) e sia configurabile un’icona sullo che indichi al dipendente che la funzione di localizzazione è attiva e che i lavoratori siano informati. Doppia procedura per il "favor rei" di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2016 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 12 gennaio 2016 n. 891. Con la sentenza 891/2016 i giudici di legittimità, verosimilmente per la prima volta, applicano il nuovo regime penale tributario, in vigore dal 22 ottobre 2015 e, in virtù del favor rei, mandano assolto l’imputato per il delitto di dichiarazione infedele, con la formula che il fatto non sussiste in quanto l’imposta evasa contestatagli al tempo era inferiore alla nuova soglia di punibilità (si veda "Il Sole 24 Ore" di ieri). Le modifiche al sistema sanzionatorio penal-tributario e tributario (quest’ultimo in vigore dallo scorso 1° gennaio 2016), in molte parti favorevoli al trasgressore, comportano così che nell’immediato futuro il contribuente dovrà beneficiare della sanzione più favorevole (favor rei), tenendo presente che almeno per i reati tributari (a differenza delle sanzioni amministrative) non ci sono diminuzioni di pena (ma l’abrogazione della condotta) e quindi l’applicazione dell’istituto comporta la totale irrilevanza dell’illecito a suo tempo commesso. Sotto il profilo procedurale, per ottenere l’applicazione di tale istituto, i due ambiti (penale e amministrativo) sono disciplinati da regole spesso differenti anche in base allo stadio in cui si trova il rispettivo procedimento. Reati tributari - Sono interessati (ai fin del favor rei) coloro che in passato hanno commesso delle violazioni costituenti delitto tributario che, per effetto delle novità introdotte dal decreto legislativo 158/2015, non sono più tali. Nessuna denuncia - Se le violazioni (passate e ora non più tali) non sono state ancora denunciate, coloro che dovessero accertarle (Guardia di finanza, agenzia delle Entrate, eccetera) devono attenersi alle nuove regole, astenendosi quindi dalla segnalazione al pubblico ministero. Indagine preliminare - Nel caso in cui, invece, la violazione sia stata già segnalata alla Procura, il pm dovrebbe richiedere l’archiviazione perché il fatto non sussiste, che esclude la possibile rilevanza del fatto stesso anche in sede diversa da quella penale, con i limiti del caso, stante l’autonomia del procedimento tributario. È opportuno in queste ipotesi valutare la presentazione di una memoria da parte della difesa al fine di sollecitare l’archiviazione. Dibattimento in corso - Sarà cura del difensore evidenziare che, in base alle nuove norme, il fatto contestato non è più previsto come reato. Analoghi accorgimenti andranno assunti anche nelle fasi successive al processo di primo grado (contribuente già condannato e processo di appello in atto, eccetera) tenendo presente che, con ogni probabilità, la circostanza sarà rilevata direttamente dal giudice. Revoca della sentenza definitiva - Qualora, invece, il soggetto sia stato condannato con sentenza definitiva la difesa potrà, ai sensi dell’articolo 673 del Codice di procedura penale, presentare al giudice dell’esecuzione una richiesta di revoca della sentenza per abolizione del reato. Tale revoca implica la cessazione, oltreché della esecuzione, anche di ogni altro effetto penale della condanna, ivi comprese le eventuali pene accessorie; è altresì evidente che si dovrà pure provvedere all’eliminazione delle iscrizioni al casellario giudiziario. Violazioni tributarie - Il favor rei, disciplinato dall’articolo 3 del decreto legislativo 472/97, trova un limite soltanto nell’intervenuto pagamento della sanzione e quindi solo chi avesse già pagato non potrà chiedere l’applicazione del regime di favore né tanto meno la restituzione di quanto versato. Prudenzialmente il contribuente è bene si faccia parte diligente e presenti una richiesta di ricalcolo delle somme dovute al fine di attivare l’ufficio in tal senso. Si possono così verificare le seguenti ipotesi. Avviso di accertamento - Il contribuente potrà richiedere l’applicazione della sanzione più favorevole già per definire la pretesa con acquiescenza. A tal fine occorrerà che il contribuente richieda con celerità il ricalcolo all’ufficio, poiché l’eventuale sgravio dovrà giungere entro 60 giorni dalla notifica del provvedimento. Nell’ipotesi in cui, invece, il contribuente decidesse di presentare istanza di accertamento con adesione, le nuove sanzioni saranno calcolate nel corso del procedimento. Atti pendenti in giudizio - Se è già stata pronunciata una sentenza favorevole all’ufficio che il contribuente non intende impugnare, occorrerà richiedere, prima del versamento delle somme, il ricalcolo della sanzione più favorevole. Ove, invece, si è in attesa della discussione, prudenzialmente si potrebbero presentare delle memorie, ovvero rilevare direttamente in udienza, che la parte sanzionatoria dovrà essere comunque riquantificata. Falso in bilancio, la rilevanza diventa decisiva di Franco Roscini Vitali Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2016 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 11 gennaio 2016 n. 890. La maggior parte delle voci di bilancio è frutto di valutazioni e, pertanto, è irrilevante ai fini penali la soppressione del riferimento alle stesse nell’articolo 2621 del Codice civile come riformulato dalla legge 69/2015. La sentenza della Cassazione 890/2016 (si veda il Sole 24 Ore di ieri) interpreta le norme sul falso in bilancio alla luce delle disposizioni comunitarie e nazionali in materia di redazione del bilancio, nonché della prassi contenuta nei principi contabili internazionali e nazionali Oic, espressamente richiamati. Il redattore del bilancio deve rispettare la clausola generale della "rappresentazione veritiera e corretta", contenuta nell’articolo 2423 del Codice civile: questo vale a ripudiare la tesi dell’irrilevanza delle false valutazioni di dati contabili, in realtà sicuramente capaci di influenzare, negativamente, le scelte degli utilizzatori del bilancio. Non vale neppure argomentare che il riferimento alle valutazioni è contenuto nell’articolo 2638 del Codice civile, relativo all’ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, norma che ha finalità diverse: un bilancio non può essere penalmente irrilevante se diretto ai soci e al pubblico e penalmente rilevante se rivolto alle autorità di vigilanza. Pertanto, può essere affermato il principio secondo cui nell’articolo 2621 il riferimento ai "fatti materiali" oggetto di falsa rappresentazione non vale a escludere la rilevanza penale delle valutazioni, quando queste violano criteri di valutazione predeterminati, idonei ad assolvere a una funzione informativa. La sentenza si occupa del bilancio di una società nel quale era omessa la svalutazione dei crediti pari a circa il 62 % ed erano stati iscritti, in vari esercizi, finanziamenti fittizi portati poi in detrazione degli stessi crediti per rilevanti importi, anziché essere esposti tra i debiti. I giudici, confermando la sentenza della Corte d’Appello di Torino, analizzano le norme in materia di redazione del bilancio e sottolineano che il riferimento ai "fatti materiali rilevanti", di cui all’articolo 2621, deve essere coordinato con il concetto tecnico di "materialità", contenuto nelle direttive comunitarie, in particolare nella più recente n. 34/2013, e ora anche nell’articolo 2423 del Codice civile. L’informazione "rilevante" comporta che la sua omissione o errata indicazione potrebbe ragionevolmente influenzare le decisioni prese dagli utilizzatori sulla base del bilancio dell’impresa: ovviamente, la rilevanza deve essere giudicata nel contesto di altre voci analoghe. Dall’insieme delle norme comunitarie recepite nel nostro ordinamento, può trarsi la conclusione che è stato normativamente introdotto nel nostro sistema un nuovo principio di redazione del bilancio, ossia quello della "rilevanza", peraltro già implicito nella citata clausola generale della chiarezza e veridicità del bilancio. Infatti, il nuovo comma 4 dell’articolo 2423 del Codice civile prevede la possibilità di non rispettare gli obblighi di rilevazione, valutazione, presentazione e informativa quando la loro osservanza ha effetti irrilevanti ai fini della rappresentazione veritiera e corretta, fermi restando gli obblighi di tenuta della contabilità: è il principio della "rilevanza" o "significatività" (o "materialità"). Sono rilevanti gli errori, voluti e non, che possono trarre in inganno i destinatari del bilancio in modo tale da influenzarne le decisioni: ne consegue che sono rilevanti gli errori che hanno un effetto rilevante/significativo sui dati di bilancio e sul loro significato per i destinatari: non si può affermare che il falso esiste se il bilancio espone rimanenze per 100 e queste non ci sono, ma non esiste se a fronte di rimanenze pari a 15 si espongono rimanenze per 100. La maggior parte delle voci di bilancio è frutto di valutazioni e, pertanto, è irrilevante ai fini penali la soppressione del riferimento alle stesse nell’articolo 2621 del Codice civile come riformulato dalla legge 69/2015. La sentenza della Cassazione 890/2016 (si veda Il Sole 24 Ore del 12 gennaio) che è intervenuta a interpretare le norme sul falso in bilancio dopo la riforma le ha considerate alla luce delle disposizioni comunitarie e nazionali in materia di redazione del bilancio, nonché della prassi contenuta nei principi contabili internazionali e nazionali Oic, espressamente richiamati. Per la Cassazione il redattore del bilancio deve rispettare la clausola generale della "rappresentazione veritiera e corretta" contenuta nell’articolo 2423 del Codice civile: questo vale a superare la tesi dell’irrilevanza delle false valutazioni di dati contabili, in realtà sicuramente capaci di influenzare, negativamente, le scelte degli utilizzatori del bilancio. Non vale neppure argomentare che il riferimento alle valutazioni è contenuto nell’articolo 2638 del Codice civile, relativo all’ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, norma che ha finalità diverse: un bilancio non può essere penalmente irrilevante se diretto ai soci e al pubblico e penalmente rilevante se rivolto alle autorità di vigilanza. Pertanto, può essere affermato il principio secondo cui nell’articolo 2621 il riferimento ai "fatti materiali" oggetto di falsa rappresentazione non vale a escludere la rilevanza penale delle valutazioni quando queste violano criteri di valutazione predeterminati, idonei ad assolvere a una funzione informativa. La sentenza si occupa del bilancio di una società nel quale era omessa la svalutazione dei crediti pari a circa il 62 % ed erano stati iscritti, in vari esercizi, finanziamenti fittizi portati poi in detrazione degli stessi crediti per rilevanti importi, anziché essere esposti tra i debiti. I giudici, confermando la sentenza della Corte d’appello di Torino, analizzano le norme in materia di redazione del bilancio e sottolineano che il riferimento ai "fatti materiali rilevanti", di cui all’articolo 2621, deve essere coordinato con il concetto tecnico di "materialità", contenuto nelle direttive comunitarie, in particolare nella più recente n. 34/2013, e ora anche nell’articolo 2423 del Codice civile. L’informazione "rilevante" comporta che la sua omissione o errata indicazione potrebbe ragionevolmente influenzare le decisioni prese dagli utilizzatori sulla base del bilancio dell’impresa: ovviamente, la rilevanza deve essere giudicata nel contesto di altre voci analoghe. Dall’insieme delle norme comunitarie recepite nel nostro ordinamento, può trarsi la conclusione che è stato normativamente introdotto nel nostro sistema un nuovo principio di redazione del bilancio, ossia quello della "rilevanza", peraltro già implicito nella citata clausola generale della chiarezza e veridicità del bilancio. Infatti, il nuovo comma 4 dell’articolo 2423 del Codice civile prevede la possibilità di non rispettare gli obblighi di rilevazione, valutazione, presentazione e informativa quando la loro osservanza ha effetti irrilevanti ai fini della rappresentazione veritiera e corretta, fermi restando gli obblighi di tenuta della contabilità: è il principio della "rilevanza" o "significatività" (o "materialità"). Sono rilevanti gli errori, voluti e non, che possono trarre in inganno i destinatari del bilancio in modo tale da influenzarne le decisioni: ne consegue che sono rilevanti gli errori che hanno un effetto rilevante/significativo sui dati di bilancio e sul loro significato per i destinatari: non si può affermare che il falso esiste se il bilancio espone rimanenze per 100 e queste non ci sono, ma non esiste se a fronte di rimanenze pari a 15 si espongono rimanenze per 100. L’amicizia esclude l’induzione per Carabiniere che cerca di farsi dire dove sono microspie di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2016 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 14 gennaio 2016 n. 1331. Niente induzione indebita per l’appuntato dei carabinieri che chiede "confidenzialmente" al tecnico dei servizi di intercettazione di dirgli se avesse messo delle microspie nella macchina del cognato. Al più risponde di istigazione alla rivelazione di segreto d’ufficio. Con la sentenza 1331 la Cassazione accoglie il ricorso del militare e ribalta il verdetto di colpevolezza emesso dalla Corte d’appello. I giudici di secondo grado avevano riqualificato il reato in induzione indebita rispetto all’originaria contestazione di tentata concussione, confermando del resto la condanna emessa dal Tribunale. Ma la Cassazione cambia la sorte dell’imputato malgrado la "doppia conforme" a suo sfavore. I giudici di merito avevano affermato la responsabilità del ricorrente per aver abusato dalla sua qualità di appuntato dell’Arma chiedendo al tecnico ausiliario del servizio di intercettazione se avesse in precedenza collocato delle "cimici" nell’auto di suo cognato e di un terzo. Una ricostruzione contestata dalla difesa del ricorrente, secondo la quale non c’era stato alcun abuso. I due erano amici e la domanda, che non aveva ottenuto risposta, era stata fatta in un contesto confidenziale. Il tecnico non aveva alcun motivo di temere ritorsioni da parte dell’amico né avrebbe avuto alcun vantaggio nel dare l’informazione. Da parte del "curioso" militare del resto non c’erano state minacce né erano state prospettate conseguenze negative in caso di "reticenza". La Suprema corte è d’accordo: nella condotta dell’appuntato mancano gli elementi tipici del reato. Nel delitto di induzione indebita, previsto dall’articolo 319-quater del codice penale, deve essere presente una pressione psicologica che, nel caso esaminato, è mancata. Dalle carte dei processi di merito era emersa la dinamica dei fatti. Il tecnico e il militare, entrambi calabresi, si erano conosciuti anni prima a Milano. La domanda incriminata era stata fatta nel corso di una cena organizzata nel camping di proprietà di uno dei possibili destinatari della microspia. Nel corso della serata, alla quale il tecnico aveva partecipato perché invitato dalla moglie dell’appuntato, quest’ultimo aveva mostrato all’amico un foglio nel quale erano indicate due automobili, chiedendogli, in dialetto, se su quelle auto avesse montato qualcosa. La Suprema corte valorizza, come argomento "innocentista" anche l’uso del comune dialetto segnale, di un’appartenenza culturale e di un clima disteso. Per i giudici della sesta sezione è illogica la conclusione della Corte d’appello che aveva parlato di abuso della "autorità di amico", perché il concetto di autorità è estraneo al rapporto di amicizia. Né la corte di merito ha saputo spiegare come il carabiniere si sia avvalso del suo "status" di appartenente alle forze dell’ordine anzi, la stessa Corte d’appello, precisa la Cassazione, aveva, sottolineato l’eleganza dello stratagemma utilizzato. Tuttavia la condotta del militare non è del tutto penalmente irrilevante. La Cassazione annulla la sentenza impugnata perché il fatto non è reato ma rinvia alla Corte d’appello perché verifichi il margine per l’eventuale applicazione della misura di sicurezza prevista per l’istigazione alla rivelazione di segreto d’ufficio (articolo 115 quarto comma del codice penale). Mentre non è possibile contestare al ricorrente il concorso morale nella rivelazione del segreto d’ufficio (articolo 326 del Codice penale), perché la notizia era rimasta top secret. Caro ministro Orlando, c’è ancora da fare di Deborah Cianfanelli (Partito Radicale) L’Unità, 15 gennaio 2016 È certamente di grande valore l’intervento del Ministro Orlando su l’Unità di mercoledì 13 gennaio, nel ringraziarlo per l’attenzione che ha saputo darci, non posso che provare stupore sul fatto che il Ministro abbia interpretato come "accusa" il mio articolo pubblicato sul vostro giornale giovedì 7 gennaio. Il dossier non è un’accusa a questo governo o a questo Ministro e non potrebbe esserlo in quanto il problema del malfunzionamento della giustizia in Italia è un fardello che ci portiamo sulle spalle da almeno un trentennio. Come già ho espresso, lo scopo del dossier giustizia è quello di mettere a disposizione del Presidente della Repubblica, del Presidente del Consiglio e del Ministro della Giustizia, una diversa ottica di lettura degli stessi dati forniti dal ministero. Vuole essere uno strumento di possibile e collaborativo dialogo nell’affrontare i problemi cruciali della giustizia, i cui esiti, economicamente, nefasti, incombono sulla testa di ogni cittadino. Nei chiarimenti che ha fornito con la sua risposta dall’importante titolo "La verità sulla giustizia" il Ministro Orlando non aggiunge nulla di nuovo rispetto al contenuto del dossier sulla giustizia civile i cui dati, si ribadisce, sono tutti di provenienza diretta dello stesso ministero e, pertanto, incontestabili. Quello che il Ministro non ha colto è che purtroppo tutte le riforme ad oggi attuate, pur se meritevoli rispetto alla totale inerzia di governi precedenti, non sono in grado di ridurre l’arretrato dei processi "a rischio Pinto", ossia di porre mano in concreto alla irragionevole durata dei processi. Come risulta chiaramente dai dati fomiti dal Ministero della Giustizia, infatti, i procedimenti sono diminuiti nel loro complesso ma contemporaneamente è aumentato il numero di quelli che, già ad oggi, hanno una durata irragionevole e che possono determinare ulteriori risarcimenti del danno che lo Stato dovrà pagare. Il dossier ha come punto centrale la contestazione della mancata trasparenza su alcuni dati sui quali il Ministro non ha fornito risposta, e precisamente: 1) A quanto ammonta ad oggi il danno economico causato al nostro Paese da una giustizia che da oltre un trentennio non funziona? 2) E a quanto ammonta in prospettiva, sulla base dei procedimenti che già ad oggi hanno superato la durata ragionevole, il danno che ancora lo Stato dovrà pagare? 3) Perché, nonostante le riforme attuate e nonostante il calo dei procedimenti pendenti, si è avuto un aumento dei procedimenti di durata irragionevole? Ugualmente vorrei chiedere al Ministro se non ritenga contraddittorio con le sue dichiarazioni il grave attacco sferrato dalla Legge di Stabilità nei confronti della Legge Pinto (unico strumento volto a garantire alle vittime della lentezza processuale un’equa riparazione) che dalla riforma è uscita totalmente depotenziata. 4) Ed ancora, sul fronte penale, anch’esso flagellato dalla irragionevole durata delle procedure, a che punto è la ricognizione portata avanti da Barbuto il quale, bisogna dargliene atto, per la prima volta ha rilevato tra i procedimenti penali pendenti anche quelli con autore ignoto, stimandoli in ben 925.000? Per tutti i quesiti esposti e le ragioni evidenziate ritengo fondamentale dare seguito a questo dibattito generosamente ed intelligentemente aperto dalle colonne de l’Unità. È importante che il Ministro incontri ad horas una delegazione radicale ricercando insieme le opportune ed urgenti soluzioni che aiutino il nostro Paese a far rientrare la giustizia nella legalità costituzionale ed europea. Quella "n" che confonde la giustizia di Luigi Ferrarella Sette - Corriere della Sera, 15 gennaio 2016 Il riascolto di una intercettazione, con la diversa interpretazione di una lettera, può ribaltare l’accusa. Il processo non cambia, ma il segnale d’allarme c’è. "Houston, abbiamo un problema" con le intercettazioni. Con le intercettazioni? Sì, ma non quello che sta a cuore degli aspiranti riformatori della materia. Di "big babol", intese dagli inquirenti come banconote da 500 euro per una tangente di 100.000 euro a un ex vicepresidente del Consiglio regionale lombardo, qualche tempo fa era capitato di leggere nelle trascrizioni delle intercettazioni: salvo poi dover prendere sonoramente atto in tribunale che la moglie dell’imprenditore pagatore della tangente, quando in auto parlava con il mediatore della mazzetta, in realtà non aveva detto "stai parlando dei big babol?" a proposito delle banconote da 500 euro, ma "stai parlando dei big brothers", riferendosi a due fratelli soci del marito. E del resto a Pavia era accaduto che un ex direttore dell’Asl venisse assolto dall’accusa di voto di scambio di ‘ndrangheta dopo che la frase "ho contato i suoi voti" era stata malintesa dal perito del tribunale nella ben più compromettente "ho comprato i due voti". Adesso il ribaltone si è verificato a Roma nel processo Mafia Capitale per l’elisione (nella trascrizione rispetto all’audio) di appena una lettera, la "n" del dialetto romanesco nel quale il 29 luglio 2014 l’ex imprenditore delle cooperative sociali Salvatore Buzzi raccontava a un suo interlocutore che "gli unici seri lì che pigliano i soldi sò Ozzimo", Daniele Ozzimo, ex assessore alla Casa della giunta Marino: il riascolto in aula (chiesto dalla difesa dell’ex assessore) ha infatti convinto anche i pm che la frase acusticamente esatta contenesse invece la "n" come contrazione romanesca di "non", e fosse dunque da trascrivere nell’esatto contrario, "gli unici seri lì che ‘n pigliano i soldi sò Ozzimo", dunque da assolvere per questa imputazione. Fortuna che in nessuna delle tre inchieste quelle intercettazioni fossero pilastri d’accusa: altre due sono infatti le addebitate corruzioni per le quali giovedì scorso è stato condannato in primo grado a 2 anni e 2 mesi, così come ulteriori furono gli elementi valsi a Milano prima l’arresto e poi la condanna di quell’ex assessore lombardo, e differenti prove costarono a quell’ex direttore dell’Asl pavese la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. Ma sarebbe pericoloso non ascoltare questi campanelli d’allarme sulla difficile materialità del maneggiare le fondamentali ma sempre delicate intercettazioni, specie quelle ambientali molto disturbate o quelle espresse in dialetti stretti. Qui imprescindibili sono la capacità di chi tra le forze dell’ordine ascolta, comprende e sintetizza ai pm, e il controllo in prima persona che i magistrati non dovrebbero delegare se non vogliono consegnarsi mani e piedi agli imprevisti cartacei, e se non vogliono lasciare che a gestire quella delicata mole di informazioni siano pochi "iniziati" fra i quadri delle varie polizie giudiziarie. Senza dimenticare che professionalità e trasparenza devono qualificare i periti fonici chiamati nei processi a validare le consulenze che fanno entrare le intercettazioni nel perimetro delle prove valutabili; e l’affidabilità deve contraddistinguere i traduttori non sempre facili da trovare e spesso timorosi di ritorsioni, come mostrano il recente fuggi-fuggi di interpreti di sinti dal processo a una famiglia mafiosa di Ostia o le ricorrenti difficoltà linguistiche nelle inchieste sul fondamentalismo di matrice islamica. La gogna non c’entra. Sono questioni complicate e serie, quindi molto poco glamour per i prossimi neo-legislatori delle intercettazioni, che preferiscono discettare di "gogna" delle pubblicazioni. Salvo continuare a far finta di niente quando - come nell’assoluzione dei poliziotti e del perito attestanti un’intercettazione ambientale prima determinante per alcuni arresti e poi però rivelatasi talmente sballata da sfociare in un proscioglimento già in indagini preliminari - ricapiterà di leggere in una sentenza: "L’assoluta inintelligibilità e complessiva aleatorietà del materiale acustico" non significa che "rumori, fonemi e brandelli estrapolabili dalla registrazione possono essere classificati come radicalmente non udibili", ma che sono "aperti a percezioni di carattere comprensibilmente soggettivo" nel quadro di "una relatività interpretativa". Rebibbia University di Filippo Facci Libero, 15 gennaio 2016 Ieri sera, a "Matrix", è andata in onda una lunga intervista all’ex presidente della Sicilia Salvatore Cuffaro: uno spettacolo di autoflagellazione pregna di quella doppia morale cattolica di cui è intrisa anche la nostra giustizia, laddove fanno capolino l’errore, il pentimento, il perdono, il ravvedimento operoso, la confessione, l’espiazione a fare il missionario in Burundi, queste cose. Era difficile rimproverare qualcosa a un politico che ha fatto 5 anni di galera (record) e che ammette i suoi errori: e ti parla, soprattutto, delle carceri italiane con le loro vergognose miserie. E bisogna parlare, delle carceri. Occuparsi, delle carceri. Quindi viva Cuffaro, viva la resipiscenza. Però, ecco, la prima notizia è questa: ci si può occupare delle carceri anche se non si è finiti in galera. Già. È da 25 anni che leggo di politici finiti in carcere - per mezz’ora, tre giorni, cinque anni - i quali d’improvviso scoprono il sistema penitenziario italiano e le sue inciviltà da Paese del Terzo mondo. La battuta viene facile: se i politici per conoscerlo devono finirci dentro, beh, confidiamo in una retata. Oltretutto è sbagliata, come battuta: perché il carcere non è un’esperienza occasionale o turistica, non è una dimensione parallela che banalmente a un politico può capitare di non incrociare. Conoscere il carcere e i suoi problemi - addirittura tentare di risolverli - sarebbe un dovere, per un politico. È, anche, il suo lavoro. Umbria: la Polizia penitenziaria "calano i detenuti, ma noi siamo sempre troppo pochi" umbria24.it, 15 gennaio 2016 L’allarme: "Servono mediatori linguistici per valutare i rischi di radicalismo che potrebbe proliferare". Per gli agenti della polizia penitenziaria dell’Umbria, le priorità, per cui la Regione dovrebbe aiutarli ad ottenere qualche miglioramento sono le seguenti: l’apertura di un centro clinico a Perugia che "possa sopperire alle esigenze sanitarie dei detenuti presenti nei 4 istituti umbri o in alternativa potenziare le attuali "sezioni protette" già presenti negli ospedali di Terni e Spoleto nonché crearne una presso l’ospedale di Perugia al fine di aumentare la sicurezza, nei casi di visite o di ricoveri, diminuendo cosi il numero di poliziotti occorrenti per il trasporto o il piantonamento del detenuto, con conseguente risparmio delle risorse finanziarie per lo Stato". "Chiediamo alla Regione anche di aiutarci nella formazione e nel campo della mediazione culturale, viste le esigenze di integrazione dei detenuti stranieri, che sono oltre il 70 per cento del totale, e le difficoltà legate a una realtà linguistica e culturale che non consente di valutare i rischi di un radicalismo che, in situazioni di reclusione, può proliferare grazie a imam improvvisati". I rappresentanti del Sapp, Fns-Cisl e Spp hanno chiesto la disponibilità, da parte del Regione, ad un intervento presso il Dipartimento di Giustizia per colmare la mancanza di personale che viene lamentata in tutti i penitenziari dell’Umbria. In particolare, a Capanne "la carenza nel ruolo degli Ispettori e dei Sovrintendenti, figure fondamentali per la realizzazione del progetto innanzi descritto, è rispettivamente del 62 e 33 %". Per Spoleto, "molti poliziotti andranno in pensione, e se non adeguatamente sostituiti causeranno delle gravi carenze che si aggiungeranno alla già attuale mancanza di circa 15 unità". Per l’istituto di Terni hanno evidenziato la "grave e cronica carenza di personale di polizia penitenziaria nei vari ruoli: circa dell’ 80% nel ruolo dei degli ispettori e sovrintendenti, mentre la carenza nel ruolo agenti/assistenti è determinata dagli innumerevoli distacchi fuori sede (circa 40 poliziotti) che si somma all’incompletezza della pianta organica stabilita dal dipartimento, determinando un pesante aggravio del lavoro ed un aumento dello stress correlato". Alta sicurezza Un’altra preoccupazione spiegata durante l’audizione in terza commissione in Consiglio regionale, è legata alla "prossima apertura di una sezione detentiva di osservazione psichiatrica giudiziaria, in cui sono previsti 6 posti per detenuti psichiatrici", per cui non è stata prevista una formazione specifica. Gli agenti chiedono inoltre che i detenuti ad "alta sicurezza" vengano tutti riuniti in un unico istituto. "Non per ultimo - spiegano in una nota - si chiede che venga valutata la possibilità di aumentare la sicurezza nel territorio ove sono presenti gli istituti penitenziari poiché dove sono presenti detenuti ad alta sicurezza c’è sempre correlato uno spostamento delle loro "famiglie", se non in molti casi uno vero e proprio insediamento che inquina la serenità di vita della popolazione Umbra". Le belle notizie: al 31 dicembre 2015 il numero dei detenuti nelle carceri umbre risulta sensibilmente calato rispetto al 2014: da 1404 a 1239. Anche in conseguenza di ciò, nel 2015 si sono verificati meno episodi di autolesionismo (da 138 a 110) e i tentativi di suicidio sono dimezzati: dai 18 del 2014 ai 9 del 2015. Abruzzo: Garante detenuti; Radicali contro il M5S "garantisti solo quando condannati" cityrumors.it, 15 gennaio 2016 "Due pesi e due misure: gli stessi consiglieri grillini che non hanno voluto la Bernardini Garante dei detenuti abruzzesi a causa delle condanne per disobbedienza civile, si scoprono garantisti quando a essere condannato è uno di loro". Lo dichiara Vincenzo Di Nanna, segretario di Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi. "Stando a quanto da giorni sottolineano quotidiani, il consigliere Mercante, portavoce del Movimento che si è mostrato così compatto nel non votare la candidata radicale in nome del giustizialismo, ha ricevuto una condanna civile di primo grado per via di operazioni finanziarie nulle. Unendoci volentieri al ferreo garantismo dimostrato dal Movimento nei confronti del consigliere condannato, non capiamo però come mai questo valga per Mercante e non per Rita Bernardini", commenta Di Nanna. "Ci auguriamo perciò che la svolta garantista del Movimento conduca a una convergenza sulla candidatura di Rita Bernardini a Garante dei detenuti, e che al sostegno del presidente D’Alfonso si unisca anche quello del centrodestra. Al di là di polemiche strumentali e marginali, è un fatto che in questo momento l’esperienza unica che la Bernardini sta offrendo alle istituzioni abruzzesi non è solamente una priorità per i Radicali, ma anche un’occasione straordinaria per tutto l’Abruzzo", conclude il segretario di Agl Abruzzi. Sassari: Mario Dossoni è il nuovo Garante dei detenuti "aprire il carcere alla città" di Giovanni Bua La Nuova Sardegna, 15 gennaio 2016 Sociologo e professore universitario: "Vengo in punta di piedi per aprire il carcere alla città". Onorato, perché quando ha partecipato al bando comunale per sostituire Cecilia Sechi non pensava di essere preso in considerazione. Prudente, perché in un ambiente complesso come quello carcerario si entra in punta di piedi e si parla solo dopo che si sa. Entusiasta, perché dopo una vita spesa viaggiando tra Roma e Pavia, nelle cui università insegnava sociologia e ricerca sociale, non poteva trova modo migliore di impiegare la sua fresca pensione e riallacciare i rapporti mai chiusi con la sua Sassari che quello di "portare la città dentro il carcere. E fare diventare il carcere una opportunità per la cultura, la musica, il cinema, l’arte e le tradizioni cittadine". Sa bene di quel che parla Mario Dossoni, nominato martedì dal Consiglio comunale nuovo garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Per lui 24 voti (nove voti sono invece andati a Simonetta Sotgiu). Nato a Nughedu San Nicolò nel 1948 Dossoni è stato a lungo docente dell’università di Pavia dove ha insegnato sociologia, ricerca sociale, sociologia dell’ambiente e del territorio. Lì è nata la "passione" per il mondo carcerario. "Ero il referente dell’università per i rapporti con le carceri. E ho lavorato anche con la Provincia - racconta. Mi hanno sempre interessato i meccanismi di reinserimento degli ex detenuti una volta usciti, ma anche in attesa di uscire dal carcere. Ma anche il rapporto che si crea tra la città e il carcere. Soprattutto con i diversi settori della cultura cittadina. Per i detenuti qualsiasi incontro con l’esterno è frutto di enorme arricchimento, oltre che di "allentamento" della tensione. Spesso bastano poche ore a settimana per riempire il tempo di un recluso. Ma trovo che anche per la città sia volano di enorme crescita entrare dentro il carcere e non farlo solo con i volontari ma con i produttori di arte e cultura". I 41-bis di Bancali non lo preoccupano: "Ho avuto contatti con realtà simili a Voghera - spiega - certo a Bancali è diverso, visto che è la prima struttura costruita ad hoc per ospitare i 41bis. Avrò modo di confrontarmi con questa realtà, e soprattutto con quella dei "comuni". Parlando chiaramente prima con chi di dovere. E partendo dal tanto di buono che è stato fatto da chi mi ha preceduto". La Spezia: detenuti al lavoro per il Comune di Lerici, rinnovata la convenzione cittadellaspezia.com, 15 gennaio 2016 Contribuiranno alla manutenzione del territorio e del patrimonio comunali, alle dipendenze di un capocantiere. Palazzo civico fornirà pasti, abbonamenti Atc e borsa mensile. Uno è nato nel 1977 a Torre del Greco, in provincia di Napoli. L’altro otto anni prima, in Marocco. Entrambi hanno dovuto fare i conti con qualche rovescio e sono finiti in carcere, ospiti della Casa circondariale della Spezia. Lo scorso anno, hanno avuto - e onorato - una grande opportunità in ottica reinserimento: lavorare per il Comune di Lerici, grazie a una convenzione attivata nel luglio 2015 e scaduta il 31 dicembre successivo. Palazzo civico ha deciso di rinnovare l’intesa con Villa Andreino per il primo bimestre del 2016. Il carcere della Spezia, d’altra parte, con iniziative come questa - non isolata a livello principale - intende ottemperare a quegli scopi di promozione dell’attività lavorativa dei detenuti sui quali punta forte il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al fine di dare concreta attuazione al mandato costituzionale, recuperando alla comunità il recluso e riducendo i rischi di recidiva. E con la convinzione - come si legge nell’atto con il quale il Comune di Lerici ha prolungato la convenzione - "che il lavoro riveste un ruolo di assoluta centralità in ogni percorso riabilitativo finalizzato al reinserimento sociale ed alla riqualificazione del detenuto che, attraverso l’impegno quotidiano, può emanciparsi dal crimine e riappropriarsi dei valori morali e del senso di legalità smarriti a seguito della commissione del reato". Il Comune fornirà ai detenuti i pasti, abbonamenti per i mezzi pubblici e borse lavoro da 200 euro al mese. Il campano e il marocchino svolgeranno lavori di manutenzione del territorio e del patrimonio, tra Lerici e San Terenzo, prendendo parte a interventi di sicura rilevanza sociale. Faranno riferimento a un capo cantiere e saranno loro forniti materiale di lavoro e abbigliamento antinfortunistico necessario all’espletamento delle attività nel rispetto della sicurezza. Un’esperienza senz’altro virtuosa, che costa al Comune - tra borsa lavoro, vitto e mezzi - poco meno di duemila euro. L’auspicio è che la convenzione possa essere prolungata anche oltre il rinnovo bimestrale. Reggio Emilia: termosifoni spenti e niente stufe, è gelo in carcere di Giulia Zaccariello Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2016 L’Asl: "Trattamento inumano e degradante per detenuti". Dopo la denuncia delle persone recluse e gli appello del garante Desi Bruno, il sopralluogo dei tecnici conferma: "Temperature ben al di sotto del benessere termico". Di notte dormono con doppie o triple coperte, mentre di giorno si riuniscono in una saletta dotata di una stufetta elettrica e restano abbracciate alla borsa dell’acqua calda. Vivono così, al freddo e con i termosifoni spenti, le detenute del carcere di Reggio Emilia. Obbligate a escogitare continui rimedi contro il clima gelido delle celle. La loro è la situazione peggiore nella struttura emiliana, ma agli agenti e ai reclusi degli altri reparti non va certo meglio: se nell’area femminile i termometri sono fermi tra gli 11 e i 13 gradi, in quella maschile la colonnina si alza di poco e non riesce a raggiungere nemmeno i 16 gradi. Condizioni che secondo l’Asl locale sono sufficienti per configurare "i profili di una detenzione caratterizzata da trattamenti inumani e degradanti". A documentare e verificare le condizioni di vita nella struttura reggiana infatti sono stati i tecnici dell’azienda sanitaria, che il 21 dicembre, dopo la segnalazione della garante regionale dei detenuti, Desi Bruno, hanno fatto un sopralluogo straordinario tra i reparti. Qui hanno rilevato temperature tra gli 11,1 e i 13,4 gradi negli spazi riservati alle donne, e i tra i 14,5 e i 15,8 gradi in quelli per gli uomini. Il tutto con un clima esterno non così rigido per essere inverno, con 8 o 10 gradi di giorno e mai sotto zero la notte. Temperature, quelle del carcere, definite dall’Ausl molto al di sotto "della percezione di benessere termico". Per questo l’Asl ha chiesto al ministero il veloce "ripristino delle migliori condizioni micro-climatiche, con particolare cura rivolta alla tutela della salute delle persone sottoposte a limitazione della libertà personale, in particolare per le donne". Anche perché fino adesso l’inverno è stato mite, ma il clima potrebbe cambiare presto. La prima a denunciare le difficoltà all’interno del carcere era stata, a fine novembre, la garante Desi Bruno. Durante una visita aveva constatato il malfunzionamento dell’impianto di riscaldamento, sopratutto nella sezione femminile, dove i termosifoni risultavano spenti o funzionanti a bassissime temperature. In quell’occasione, la garante aveva raccontato di "persone gravemente malate costrette a coprirsi con più coperte", riscaldamento "inattivo in alcuni spazi detentivi" e "mancanza di acqua calda all’interno delle camere di pernottamento". Dall’esito di quella visita erano poi partite le segnalazioni al Dap, all’Asl, al sindaco Luca Vecchi. "Quando parliamo di carcere siamo abituati a occuparci del caldo asfissiante o della mancanza di acqua in estate - dice la Bruno. È la prima volta che incontro un problema legato al freddo, così prolungato nel tempo. Dopo le mie sollecitazioni, l’Ausl ha fatto una verifica puntuale. Ora c’è un dato tecnico, messo nero su bianco. È la prova che quanto raccontano i detenuti è vero. E dimostra che non c’è nessuna enfatizzazione". Le detenute avevano riferito di termosifoni accesi appena due ore al giorno, la mattina alle 6 e il pomeriggio alle 16. Anche la direzione del carcere aveva già segnalato il problema all’amministrazione penitenziaria, spiegando come la ditta appaltatrice della fornitura di energia termica ed elettrica, che pilota l’impianto da Vicenza, regolasse la temperatura al minimo. "Con quel clima la salute delle persone è a rischio. Il problema va risolto al più presto perché sta andando avanti da troppo tempo. Va assicurata la temperatura giusta, che consenta ai detenuti e agli agenti di vivere e lavorare tranquillamente". Pisa: la Caritas vuole aprire casa per ex detenuti, c’è raccolta di firme contro il progetto di Mario Neri Il Tirreno, 15 gennaio 2016 Forte dissenso all’idea di ricavare il centro in una canonica "Impatto negativo sulla zona". Don Cecconi: "Sarà graduale". Lo hanno chiamato "Calci Serenamente", ma il piglio è decisamente battagliero. E per ora serenità in questa storia non se ne avverte moltissima. Tanto che l’appena nato comitato contro la casa di accoglienza per detenuti ed ex detenuti che Caritas e Arcidiocesi hanno annunciato di voler aprire a Sant’Andrea a Lama ha già iniziato una raccolta firme per chiedere che il progetto venga ritirato. "Puntiamo a dare legittimità a un dissenso molto diffuso - dice uno dei portavoce Gianluca Gentili. Dopo l’assemblea del 15 dicembre, in cui il parroco ci illustrò l’idea di ristrutturazione della canonica nel borgo, abbiamo raccolto moltissime voci critiche. Soprattutto perché ci sono molti aspetti che non tornano". In quell’assemblea, parecchio burrascosa, gli abitanti della frazione di Calci elencarono i motivi del no: un borgo troppo piccolo "per ospitare persone che potrebbero essersi macchiate di reati gravi e su cui nessuno dà garanzie", le difficoltà di accesso dovuto alla strada stretta, il carico "esagerato" su utenze e consumi per un paesino che in estate soffre già di problemi di approvvigionamento idrico e, ovvio, "la paura, l’impatto negativo sul valore delle case nella zona e quello sulle aziende agrituristiche". "La paura dei cittadini è incomprensibile ma è un sentimento irrazionale, in alcuni casi cavalcato anche da certe forze politiche - disse don Antonio Cecconi, parroco di Calci e promotore del progetto "Misericordia Tua". Ma voglio rassicurare tutti: procederemo con gradualità. L’idea è di costruire una casa di accoglienza che ospiti dieci persone, ma inizieremo con due o tre detenuti o ex detenuti". Secondo i membri di "Calci Serenamente", però, quella previsione è disattesa dalle piantine allegate ai documenti di presentazione del progetto di ristrutturazione pubblicati sul sito della Caritas. "Nel corso dell’assemblea si è parlato di collocare un numero esiguo di detenuti; nel progetto di ristrutturazione prevista invece la predisposizione di 20 posti letto: ci sono quattro stanze da 4 posti letto ognuno, più altre due stanze da 2 posti", dice Gentili che, insieme a Egon Boerger, Elio Cerrina, Raffele Elmi, Gianluca Gentili, Gianluca e Giacomo Paoletti, Angelo Pomicino e altri, nei giorni scorsi ha scritto all’arcivescovo Giovanni Paolo Benotto, al prefetto Attilio Visconti e al sindaco Massimiliano Ghimenti. "Il progetto - rispondono dalla Caritas - prevede 14 posti letto perché è chiaro che l’investimento sulla canonica comporta la completa ristrutturazione dell’edificio e sarebbe assurdo lasciare a metà il lavoro, ma confermiamo che la volontà è quella di un avvio graduale e di una accoglienza massima per dieci persone, senza contare che quella struttura, in futuro, potrebbe venir utilizzata per ospitare anche persone in difficoltà". Netto il sindaco Ghimenti: "La lettera del comitato è arrivata il 31 dicembre e comunque per ora la protesta e la contrarietà è fondata su documenti non ufficiali. Per ora non c’è nessun progetto presentato al Comune o alla Soprintendenza. Vorrei fare valutazioni su dati certi". Gorizia: il Sottosegretario Ferri alla Senatrice Fasiolo "il carcere sarà completato" Il Piccolo, 15 gennaio 2016 Risposte positive e concrete del sottosegretario alla Giustizia all’interrogazione della senatrice. "Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ed il Ministro della Giustizia sono già al lavoro e presto ci saranno risposte concrete alle considerazioni sollevate dalla Senatrice Fasiolo in merito alla situazione della Casa circondariale di Gorizia. Stiamo lavorando per sbloccare la situazione dei lavori per permettere la massima utilizzabilità della struttura e per procedere con forza e determinazione sul percorso di rieducazione dei detenuti". Lo ha dichiarato il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, intervenendo in merito alla situazione della Casa circondariale di Gorizia. Le dichiarazioni ci sono state "girate" dalla stessa Fasiolo che, nei giorni scorsi, ha effettuato un accurato sopralluogo al carcere di via Barzellini. "Condivido le parole della senatrice Fasiolo sulla necessità di migliorare alcuni servizi all’interno della struttura, per evitare che la detenzione possa risultare una situazione di staticità, ozio. Bisogna mettere a disposizione gli spazi più adatti agli incontri con la famiglia, al fine di utilizzare gli affetti come stimoli per un più rapido ed efficace percorso di crescita e di risocializzazione. Dobbiamo lavorare per migliorare la vivibilità anche del carcere di Gorizia al fine di stimolare i detenuti a riflettere e ad essere consapevoli dei propri errori, a sviluppare un concreto desiderio di reinserirsi. Occorre pertanto lavorare insieme, migliorando le strutture, incrementando le attività lavorative, culturali e ricreative e investendo in trattamenti personalizzati e professionalizzati". "Dopo aver ormai risolto il problema del sovraffollamento, stiamo costruendo una nuova idea di carcere e di detenzione, tramite un potenziamento del dialogo tra tutte le parti coinvolte, portato avanti con grande impegno e serietà dal ministro Orlando con gli Stati Generali dell’esecuzione. È forte in noi la consapevolezza della sfida che abbiamo di fronte e siamo pronti a mettere il nostro massimo impegno e passione per ottenere i risultati prefissati". Conclude Ferri: "Colgo l’occasione di ringraziare la senatrice Fasiolo per il suo serio e concreto interessamento sulla vicenda. Mi preme inoltre ringraziare la direttrice, la Polizia penitenziaria, gli operatori e i volontari che, in questi mesi, stanno portando avanti i progetti con grandi sacrifici, dimostrando un alto grado di professionalità, un encomiabile senso del dovere e grande impegno. Ancona: Slow Food; con "Sprigioniamo il gusto" nuove opportunità lavoro ai detenuti Ansa, 15 gennaio 2016 Il cibo "rappresenta dall’inizio dell’umanità la base indispensabile perché gli uomini possano vivere in pace, crescere culturalmente e civilmente. E può essere anche un mezzo di riscatto sociale". Per questo la Condotta Slow Food di Ancona e Conero ha organizzato una serie di incontri nel carcere di Montacuto. "Sprigioniamo il gusto" è il titolo del progetto di educazione alimentare, organizzato in collaborazione con il carcere, e prevede laboratori del gusto e pratici incentrati sul tema del cibo, dei prodotti locali, del riuso. L’obiettivo è offrire ai detenuti un’opportunità di conoscenza e quindi di lavoro che potrà essere utilizzata nel momento in cui torneranno a far parte attivamente della comunità. "Non solo - spiega Slowfood, attraverso questi corsi si vuole offrire una speciale forma di ‘libertà’, seppur puramente mentale, sensoriale, di crescita personale, di distrazione nella routine quotidiana della detenzione". I corsi, che prenderanno avvio il 18 gennaio. Terni: "mia figlia non può stare in carcere, invalida al 100% per gravi problemi psichici" umbriaon.it, 15 gennaio 2016 "Mia figlia è stata sbattuta in carcere come i criminali ma è invalida al 100% per gravi problemi psichici. Oltre a non essere in grado di intendere e di volere, era stata lei stessa a chiedere aiuto agli assistenti sociali, a dire di non essere in grado di accudire i figli. Nessuno si è mai attivato, colpevolmente, ma si è preferito sbattere il mostro in prima pagina e ora io sono qui a chiedere giustizia. Perché mia figlia, anziché in una struttura psichiatrica, è in cella a Perugia e mi scrive lettere terribili in cui parla di minacce da parte degli altri detenuti e dice di ‘volerla fare finità. E perché chi non si è mai attivato, nonostante le segnalazioni anche mie, paghi di fronte alla legge". La denuncia - A parlare è la madre della 28enne ternana arrestata lo scorso 14 dicembre insieme al compagno di 46 anni per gravi maltrattamenti sui due figli minori di 4 e 6 anni. Giovedì mattina si è seduta davanti al tribunale, cartello in mano, per gridare la sua rabbia. Dopo la morte di un figlio di appena 15 anni, la vita - lei di anni ne ha 56 - l’ha messa di fronte ad un’altra dura prova: "Sì, purtroppo ho perso mio figlio lo scorso novembre per una grave malattia, ma anche questa vicenda chiede giustizia perché il padre, nonostante le sentenze del tribunale, non ha mai versato un solo euro per curarlo e io sono stata costretta a chiedere le elemosina. Dopo neanche un mese, quest’altra tragedia. Che però, ascoltatemi, si sarebbe potuta evitare". "Nessun intervento" - "Ieri ho denunciato alla polizia l’assistente sociale che ha avviato il procedimento che ha portato all’arresto di mia figlia e del suo compagno. Questo perché, nonostante un decreto esecutivo del tribunale dei minori di Perugia emesso nel 2013, la stessa non si è mai attivata per l’affidamento dei due piccoli e per la presa in carico dei genitori da parte del Sim adulti, visti i loro evidenti problemi. Io, alle prese con il dramma di mio figlio, non mi sono potuta occupare direttamente di ciò che accadeva in quella casa ma già al 2013, agli operatori del Sim infanzia che assistevano i miei nipoti affetti da epilessia, avevo chiesto di approfondire la situazione perché li vedevo sempre tristi. Tutto questo tempo è passato invano, ma si è preferito fare lo scoop di Natale". "C’era tutto" - "Mia figlia è invalida al 100% con indennità di accompagnamento, disturbi di epilessia e borderline. I disegni che mi manda dal carcere (ce li mostra, ndr) sono quelli di una bambina, perché tale è. Sono la prima a dire che ha deficit cognitivi e psichici pesanti, con conseguenze anche sulla sua vita sentimentale incasinata, e che i figli andavano tolti a lei come al compagno che l’ha plagiata. Posso dire però che in quella casa non mancava nulla, né il cibo né i giochi. Si sarebbe potuta seguire una strada diversa, anziché questa che la vede costretta in carcere e minacciata". Lettere dal carcere - "Da Capanne mi ha scritto che non può andare all’ora d’aria perché, così le ha detto un’altra detenuta, ci sono persone a cui "non va a genio". Mi chiede di aiutarla a uscire da lì, per andare in una struttura di recupero. E mi dice "se non ci riesci, mammi ti dico addio e mi dispiace". Io ci metto la faccia perché sono una persona ferita sì, ma onesta, e non mi interessa se continueranno a non darmi ascolto come hanno fatto finora. Io ho lottato quattro anni contro il cancro, non mi spaventano le battaglie". I nipoti - I due piccoli sono ora in una struttura protetta: "Sono convinta che stiano bene ma la mattina che hanno arrestato mia figlia li avrei voluti salutare e rassicurare dicendo loro "mamma è malata, vi manda un bacio e state tranquilli perché dove vi porteranno ora starete benissimo". Non me lo hanno permesso come non mi permettono di vederli, ora. Ma cosa c’entro io in tutto quello che è accaduto?". Bari: rissa in carcere, trenta detenuti si sono scontrati con armi rudimentali e lamette antennasud.com, 15 gennaio 2016 I clan di Bari in cerca di equilibrio. E non sempre ci riescono. Forse è da qui che si deve partire per comprendere le cause della maxi rissa a colpi di lamette avvenuta lunedì nel cortile del carcere di Bari. La rissa scoppiata nel carcere di Bari lunedì fra due boss e i loro seguaci è segno che gli equilibri tra i clan sono ormai spaccati in città. Questa la Bari che si trova il boss Savinuccio di nuovo in città dopo due anni di carcere. Lorenzo Caldarola da qualche tempo a questa parte starebbe facendo incetta di giocani rimasti orfani di capi perché arrestati o uccisi. Al quartier San Paolo, dove prima comandavano Giuseppe Misceo legato al clan Montani, Arcangelo telegrafo e il suo luogotenente Alessandro Ruta, tutti detenuti, in affari con gli Strisciuglio. Il San paolo, dunque, come terra di reclutamento. Forse è qui che si deve cercare per comprendere le cause della maxi rissa a colpi di lamette avvenuta lunedì nel cortile del carcere di Bari. Da un lato Giuseppe Misceo, suo figlio Paolo, il fedelissimo Emanuele Grimaldi e altre due persone, dall’altro il capoclan del quartiere San Girolamo Leonardo Campanale e Alessandro Ruta. Tra loro una trentina di persone che si sono sfidate a suon di calci e pugni. Ad avere la peggio Ruta che ha riportato un profondo taglio alla gola, per cui è stato necessario un intervento nel reparto di Chirurgia estetica al policlinico. Ferito ad una guancia Campanale, mentre Misceo dall’altra parte ha riportato un taglio alla mano. La rissa è scoppiata quando l’unico Poliziotto penitenziario che li aveva accompagnati nel cortile per le due ore di passeggio stava tornando indietro per spostare gli altri detenuti. L’Agente ha diviso i litiganti rischiando la vita. Il sindacato di Polizia Penitenziaria insorge. Poteva finire in un bagno di sangue. Le telecamere di videosorveglianza interne all’istituto intanto sono rotte da tempo. Sull’episodio indaga la Direzione distrettuale Antimafia. Genova: l’Università a Marassi apre un polo dentro al carcere per i detenuti-studenti di Michela Bompani La Repubblica, 15 gennaio 2016 Apre l’Università di Genova, dentro il carcere di Marassi. Dal prossimo anno accademico, infatti, sarà istituito il nuovo Polo universitario penitenziario di Genova: avrà aule e sede dentro la stessa casa circondariale. Sono già una cinquantina i professori che si sono fatti avanti, per portare le loro lezioni dentro le mura. Ma l’adesione continua a crescere, per un progetto che ha cominciato a prendere forma alla fine della scorsa estate: ci hanno lavorato l’ex preside di Lettere, Francesco Surdich, il professore (e scrittore) Enrico Testa, la delegata agli studenti-carcerati, geografa, Carla Pampaloni, e il giurista Franco Della Casa. E il progetto ha subito incassato l’appoggio e l’entusiasmo del rettore Paolo Comanducci, che ha spianato la strada alla sua realizzazione. Intanto è stata firmata una convenzione tra Università di Genova e Carcere di Marassi, e si sta lavorando all’elaborazione di un protocollo di intesa che sarà firmato nelle prossime settimane dal Rettore Comanducci e dalla direttrice del carcere Anna Maria Milano. Si parte, però, subito. Per "abituare" studenti e professori alla novità: dal 19 gennaio, nel carcere di Marassi partirà un ciclo di lezioni che dureranno fino a maggio. "Il sapere dentro. Università e carcere" lo ha intitolato Enrico Testa, e raccoglie già un primo gruppo di docenti-volontari che si sono messi a disposizione del progetto. "Piccoli itinerari culturali, visti come premessa necessaria alla liberazione, quanto meno interiore, da condizionamenti negativi. E spunti di crescita conoscitiva che determinino un minimo miglioramento della vita carceraria", si legge nell’introduzione alla piccola "stagione" di incontri. La prima lezione, inaugurale, sarà tenuta da Franco Della Casa, che parlerà dei "Quarant’anni della legge penitenziaria". E poi, a ritmo di tre incontri al mese, si avvicenderanno una quindicina di docenti che illustreranno temi suggeriti nei mesi scorsi dagli stessi detenuti. Dalla "Storia" alla "Storia dell’arte contemporanea", dalla "tolleranza", ai "giovani", allo stesso "carcere". E nel progetto è entrato anche il carcere di Pontedecimo: dove dall’8 febbraio cominceranno gli stessi tre appuntamenti mensili con i docenti dell’ateneo. E pure Pontedecimo entrerà nel progetto dell’ateneo in carcere. Dunque, da ottobre, partirà il nuovo anno accademico penitenziario. Sono due le Scuole universitarie coinvolte nell’operazione: la Scuola di scienze sociali, che comprende Economia, Giurisprudenza, Scienze della Formazione e Scienze Politiche, e la Scuola di scienze umanistiche, che comprende Lettere e Lingue. E questa sarà l’offerta formativa del nuovo polo universitario. Di fatto, sarà allestito uno schermo con la piattaforma Aulaweb dove i detenuti potranno attingere alle dispense, ma pure assisteranno a lezioni frontali dei professori. Per dare gli esami, poi, saranno organizzate sessioni speciali e dedicate ai detenuti, a Marassi. Per sostenere gli esami, la commissione si recherà a Marassi o in altri casi, come già avviene, gli alunni potranno uscire, accompagnati nelle sedi universitarie. Saranno istituite alcune figure di tutor che seguiranno gli allievi-detenuti nel percorso universitario e dai quali soprattutto riceveranno la delega per il disbrigo di faccende per cui occorrerebbe la libertà fisica. Come iscriversi agli esami o presentare documenti. Il costo per i detenuti sarà pari a zero. Perché i detenuti, per lo più, possiedono un Iseu molto basso, e dunque usufruiscono dell’esenzione totale dalle tasse universitarie. E anche l’Università si appoggerà al volontariato della rete, sempre più fitta, di professori che si stanno facendo avanti. Un polo universitario dentro il carcere è già stato attivato in diversi atenei: a Torino, Pisa, Bologna, Padova. E la loro istituzione sta conoscendo un incremento proprio recentemente, ondata in cui si incastona per tempo l’Università di Genova. Reggio Calabria: visita al carcere per i consiglieri comunali del Gruppo Pd zoomsud.it, 15 gennaio 2016 Una delegazione composta dal Capo Gruppo del Pd al Comune di Reggio Calabria, Antonino Castorina, dal Presidente del Consiglio Comunale, Demetrio Delfino, dai Consiglieri Comunali del Pd Rocco Albanese e Enzo Marra, dal Capo Gruppo "La Sinistra" al Consiglio Regionale, Giovanni Nucera, da Luigi Iorio del Forum Nazionale dei Giovani e da Agostino Siviglia, garante dei diritti dei detenuti, è stata ricevuta stamane dalla direttrice della Casa Circondariale di Via S. Pietro, Maria Carmela Longo. Nel corso del cordiale incontro la delegazione ha offerto alla direttrice molti libri con il proposito di arricchire la biblioteca della casa circondariale in ottemperanza al progetto denominato "Letture d’evasione" promosso dal gruppo consiliare al Comune del Pd. La delegazione, oltre ad avere visitato le sezioni di massima sicurezza da poco ristrutturate, ha anche visitato il reparto adibito alle detenute, apprezzando le modalità della recente ristrutturazione i cui locali, molto più ampi rispetto al passato, garantiscono condizioni di permanenza decisamente migliori. Conseguentemente a questa visita la delegazione, unitamente alla deputazione reggina del PD, si adopererà a coinvolgere il competente Ministero al fine di poter attivare, presso la Casa Circondariale di Via S. Pietro, la"Bottega di Michelangelo", importante ausilio inaugurato nel maggio del 2007 e mai entrato in funzione, dotato di macchinari per la lavorazione del marmo poiché rappresenta un valido strumento formativo, specialmente per i giovani detenuti, necessario a favorire il loro reinserimento sociale e lavorativo una volta scontata la pena. Particolarmente soddisfatto dell’iniziativa il Capo Gruppo del Pd Antonino Castorina che ha dichiarato "con questa visita continua la campagna di sensibilizzazione per l’affermazione dei diritti dei più deboli da noi fortemente voluta". "Attraverso la realizzazione di attività di controllo, verifica ed iniziativa politica che ci vedono impegnati in prima linea - conclude Castorina - ci adopereremo affinché anche le condizioni di vita dei detenuti avvengono nel rispetto dei diritti sanciti dalla nostra carta costituzionale". Isernia: "Cuochi e sbarre", concorso promosso dalla Casa circondariale e dal Rotary isernianews.it, 15 gennaio 2016 L’idea, promossa dalla Casa circondariale e dal Rotary, è raccogliere in una pubblicazione le ricette scritte in carcere. "Cuochi e Sbarre": parte da Isernia il concorso nazionale organizzato dalla casa circondariale di Ponte San Leonardo insieme al Rotary Club e rivolto ai detenuti di tutti i penitenziari del Paese. Obiettivo dell’iniziativa è raccogliere in una pubblicazione le ricette che i detenuti creano in carcere, accompagnandole con riflessioni su sensazioni, sentimenti e pensieri che quella ricetta evoca in loro. L’opera sarà stampata e pubblicata ed il ricavato verrà destinato al sostegno dell’associazione di persone diversamente abili Afasev di Isernia. "L’obiettivo del progetto è altamente rieducativo e risocializzante per i detenuti - spiegano dalla casa circondariale - in quanto non si tratta di un mero ricettario, ma si configura come un’occasione per il detenuto di riflettere ed esprimere il valore psicoaffettivo che può rivestire il piatto che ama preparare, utile ad una rielaborazione introspettiva del proprio percorso di vita, così come una opportunità di riparazione, risarcimento nei confronti della comunità ferita dai loro reati, coniugando perfettamente il senso ed il valore dei modelli di giustizia rieducativa e riparativa". Il progetto è interamente finanziato dall’ Impresa di Costruzioni Buono Srl che ha dato il proprio contributo al Rotary Club di Isernia per sostenerne le spese. "Antonio Buono - si legge ancora nella nota del penitenziario pentro - provvederà personalmente alla premiazione delle prime tre ricette contraddistinte dalla migliore riflessione introspettiva sul percorso di recupero intramurario effettuato dai ristretti concorrenti, valutate da una giuria tecnica individuata dal presidente del Rotary Club di Isernia Gabrielle Marinelli". Gli elaborati in concorso dovranno pervenire entro e non oltre il 31 marzo prossimo. La premiazione avverrà entro il 30 giugno nella Sala Teatro dell’istituto di pena. Le dannose faziosità sui diritti di Luciano Fontana Corriere della Sera, 15 gennaio 2016 Le unioni civili stanno diventando un caso da manuale su come la politica non dovrebbe affrontare leggi che riguardano i diritti. I diritti delle coppie, eterosessuali o no, dei bambini, delle famiglie e delle persone. C’è un clima di contrapposizione ideologica, di scontro tra i partiti e dentro i partiti. Un fiorire di soluzioni e di proposte che durano lo spazio di un mattino: perché impraticabili o destinate a essere cancellate alla prima prova in un tribunale. I diritti individuali e collettivi non dovrebbero mai essere merce di scambio politico. Andrebbero maneggiati con grande cura e con enorme attenzione ai cambiamenti della società e alle domande nuove che essa pone. In questo caso si tratta dei diritti (e dei doveri) delle coppie omosessuali: la possibilità di dichiarare la loro unione all’ufficiale di stato civile con le conseguenze che ne derivano, ad esempio, in termini di reciproca assistenza, eredità, reversibilità della pensione. L’Italia arriva in grande ritardo, i Paesi europei hanno leggi; noi divieti, decisioni contrastanti della magistratura, scorciatoie legali per risolvere i problemi oltrefrontiera. Nonostante anche dalla Chiesa di Francesco siano arrivate importanti aperture sul tema dei diritti individuali delle coppie omosessuali. Invece tutto sembra risolversi in un confronto affidato alla logica dello scontro interno al Pd e a Forza Italia, alla battaglia tra centrodestra e centrosinistra. Oppure al desiderio del Movimento Cinque Stelle di esserci ma allo stesso tempo di marcare la propria radicale differenza rispetto agli altri. Una discussione che dovrebbe essere affidata al libero confronto dei parlamentari e alle loro coscienze diventa così l’occasione per un copione già visto mille volte, per alcuni aspetti sconfortante. E non aiutano certo scelte discutibili come quella del sito che ha pubblicato la lista dei cattolici contrari. Non ne abbiamo davvero bisogno. Servono invece buone leggi che tengano conto dei cambiamenti della nostra società (non li cancelleremo, se non ci piacciono, imponendo proibizioni antistoriche), attente ai diritti di queste nuove coppie e a quelli dei bambini. Un principio che vale per i punti che sembrano ormai accettati quasi da tutti e per quelli che invece creano tensione. In particolare la stepchild adoption, la possibilità di adottare il figlio biologico del partner. Questo diritto esiste nella legislazione per le coppie eterosessuali, sarebbe molto complicato negarlo alle altre coppie. Soprattutto se al centro si mettono i bambini, i loro legami, i loro affetti e il loro benessere. Chi si oppone a nuove regole paventa il pericolo che siano una scorciatoia per il via libera alla maternità surrogata, per trasformare la maternità e la paternità in un mercato, dove si paga per un figlio. La maternità surrogata è un reato, in Italia già previsto dalla legge. Ci sono gli strumenti per impedirlo. Non possiamo pensare che siccome non siamo capaci di farlo allora è meglio negare i diritti. Anche perché, e non è un punto di poco conto, le nuove regole dovranno essere coerenti, rispettose dell’uguaglianza di tutti i cittadini: non potranno contenere norme che nei prossimi mesi rischiano di essere cancellate o smantellate, una a una, dai tribunali della Repubblica. È già accaduto con la Legge 40 sulla fecondazione assistita. Furono trasferiti nel testo i propri interessi di partito e le proprie preferenze: non ne è rimasto quasi più nulla. Se si continua nell’errore è inutile lamentarsi che poi a decidere sia sempre la magistratura. Le leggi sui diritti non si scrivono per prendere voti. Charlie e Aylan indignazione e quel comodo strabismo di Goffredo Buccini Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2016 Il pugno va dritto allo stomaco: c’è un bambino annegato, viso nel bagnasciuga; e un uomo col naso porcino che insegue una ragazza terrorizzata. Il testo toglie gli ultimi dubbi: "Cosa sarebbe diventato il piccolo Aylan da grande? Un palpeggiatore in Germania". Riss, il nuovo direttore di Charlie Hebdo, l’aveva detto: "Dobbiamo andare là dove gli altri non osano". E gli "altri", non osando, scomunicano lui e il suo nuovo Charlie dall’America alla Turchia, dal Medio Oriente all’Europa: "Disgustoso", dice una delle poche persone titolate a farlo, Tima, la zia di Aylan rifugiata in Canada, riassumendo il fremito di sdegno che attraversa il mondo via Twitter e Facebook. Fondere in una sola vignetta il piccino siriano simbolo delle migrazioni e delle loro vittime, che commosse la Merkel (e noi con lei), con gli stupratori organizzati della notte di Capodanno a Colonia, che l’hanno giustamente indignata (e noi con lei), è apparso a molti un oltraggio, "una porcheria da nazisti e razzisti", "miseria intellettuale ridere d’un piccolo annegato". Il punto però è che forse, a guardar bene, Riss e i suoi non ridono di Aylan, ma di noi. Del nostro ipocrita strabismo: delle lacrime di coccodrillo che, davanti al cadavere d’un bimbo di migranti, ci fa invocare "accogliamoli tutti!" e dell’isteria collettiva che, dopo l’infame notte di Colonia, ci fa strillare "tutti fuori dall’Europa!", sempre senza capire né distinguere, tutti Aylan, sì, ma adesso cresciuti e pericolosi. Lo stesso comodo strabismo che ci spinge prima a tuonare "io sono Charlie" e poi a decretare "Charlie come Mein Kampf" a seconda di quanto dei nostri valori finisca nel mirino della sua satira. Certo che è ripugnante quel piccolo corpicino sulla spiaggia: ma lo è ancor di più smettere di guardarlo, collocandolo nell’ovatta del nostro archivio emotivo, fino alla prossima lacrima. Morire di carcere in Russia: i dati di Russian Ebola rilevano tante morti misteriose di Andrea Spinelli Barrile it.ibtimes.com, 15 gennaio 2016 Il progetto Russian Ebola nasce nel marzo 2015 da un’idea della giornalista russa Maria Beresina: si tratta di un osservatorio permanente creato per monitorare i casi di decesso nelle stazioni di polizia, nei centri di detenzione per chi è in attesa di giudizio ed altri luoghi di prigionia in Russia. Secondo Russian Ebola lo scorso anno 197 persone sono morte (183 uomini e 14 donne) mentre erano tenute in custodia dalla polizia russa: morti in circostanze misteriose ancor prima che venisse espresso un giudizio su di loro. Ogni caso viene descritto e raccontato dettagliatamente nel sito dell’osservatorio ma il progetto non tiene conto dei detenuti morti mentre scontavano condanne definitive. I dati che emergono sono comunque decisamente sconcertanti: ogni mese muoiono, in Russia, dalle 9 alle 29 persone nelle stazioni di polizia di tutta la federazione. Nel 2015, 109 persone sono morte nelle stazioni di polizia, 42 in strutture adibite alla detenzione temporanea, 31 in custodia cautelare e 10 a bordo di veicoli della polizia. Altri sono morti in un edificio amministrativo, in un mezzo di custodia per gli ubriachi, in un ufficio locale per il controllo sugli stupefacenti, durante esperimenti di indagine. I decessi sono avvenuti per la maggior parte, secondo i referti ufficiali, per "un improvviso deterioramento delle condizioni di salute" (104 persone), solitamente per "circostanze ignote" o per "arresto cardiaco", ma non mancano i suicidi (62 persone), casi di epilessia, tubercolosi, coma etilico, avvelenamento; 10 hanno subito qualche trauma precedente all’arrivo nel centro di detenzione, 5 sono morti in un incendio, uno è stato ucciso dagli altri detenuti. "Solo" 4 sono morti per mano degli agenti di polizia. Secondo il Servizio Penitenziario Federale russo ogni anno sono circa 4.000 i detenuti che muoiono in carcere. "Se ogni giorno ci sono notizie di morti improvvise nelle stazioni di polizia ci troviamo di fronte a qualche strana epidemia le cui ragioni vanno individuate, localizzate e combattute. Ma questo tema è meno interessante della guerra nel Donbass, non genera discussioni appassionate sui social network, è un argomento noioso da leggere. Ma siamo sicuri che saranno sempre gli altri a morire così? Per quanto mi riguarda non ho questa sicurezza e temo questa epidemia di morti e vorrei che tutti abbiano paura perché questo è terribile e deve essere fermato" spiega Beresina sul blog di Oleg Kashin, un giornalista indipendente ed oppositore all’oligarchia russa. Inizialmente Beresina ha semplicemente analizzato e studiato le statistiche ufficiali del Ministero dell’Interno russo ma successivamente ha deciso di renderle più facilmente accessibili creando il portale Russian Ebola: aggiornamenti quotidiani e statistiche, articoli di opinione di attivisti per i diritti umani ed avvocati, analisi dei dati. Tuttavia è impossibile per Beresina monitorare anche tutte le notizie "non ufficiali" sulle violenze in divisa in Russa e così, spiega la giornalista, l’osservatorio si affida esclusivamente alle statistiche ufficiali ed accessibili al pubblico. Se rapportiamo i dati pubblici russi con quelli italiani c’è da fare un balzo sulla sedia: nel 2015, in Italia, sono morte 120 persone durante la detenzione (il dato è complessivo e riguarda sia detenuti in via definitiva che quelli in attesa di giudizio), di cui 42 suicidi. Nel 2013 erano stati 132, nel 2012 154 e via discorrendo: negli ultimi 15 anni 2.500 persone detenute in Italia sono morte in carcere (886 suicidi). Come dicono i Radicali, da sempre molto attivi nel panorama giudiziario e penale italiano, "in Italia non c’è la pena di morte ma la morte per pena": al 13 gennaio 2016 c’è già il primo detenuto morto, Giovanni Cavaleri, 45 anni, detenuto nel carcere di Marassi di Genova. Overdose, è l’ipotesi al vaglio del magistrato. Tornando in Russia, molto scalpore ha fatto la morte di Vladimir Tskaev, avvenuta nel mese di ottobre a Vladikavkaz, capitale della regione autonoma dell’Ossezia settentrionale: accusato di aver attaccato un agente dell’Omon (le forze speciali russe) è stato dichiarato morto in ospedale il giorno dopo l’arresto. "Ha battuto la testa sul pavimento" ha spiegato la polizia, ma la famiglia dell’uomo ha sempre dubitato della relazione ufficiale delle autorità. Qualche settimana dopo gli operatori accusati dai parenti di Tskaev sono stati arrestati e con loro il capo del Dipartimento investigazioni criminali della città di Vladikavkaz e il ministro dell’Interno dell’Ossezia del nord è stato costretto alle dimissioni. Tuttavia quello di Tskaev è solo un caso isolato su cui è stato possibile fare luce grazie alla cocciutaggine della famiglia e all’eco che ha avuto la sua morte. La maggior parte dei morti sospetti restano all’oscuro dell’opinione pubblica e diventano semplici numeri nei rapporti ministeriali. Il capo del Consiglio per i diritti dell’uomo presso la Presidenza russa, Mikhail Fedotov, nell’aprile 2015 quantificava in 672.000 detenuti la popolazione carceraria nella federazione russa: 475 criminali ogni 100.000 abitanti, la cifra più elevata tra i paesi membri dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa. Per questo Beresina ha creato Russian Ebola, affinché i lettori si sensibilizzassero sul problema e sulla drammatica evidenza: può succedere a chiunque e in qualunque momento. Il tema in Russia è sempre più caldo ma anche in Italia i troppi morti per mano di agenti di polizia, e i presunti tali, fanno molto discutere: la nuova fase processuale romana per stabilire la verità sulla morte di Stefano Cucchi è solo la cartina tornasole di un panorama sul quale l’omertà di Stato è assoluta. All’epoca dei gulag veniva imposto a tutti di dimenticare chi vi era rinchiuso, perché era prima di tutto un nemico del popolo ed andava eliminato anche dai ricordi: per certi versi l’Italia e la Russia non sono mai state così vicine. Turchia: lettera dal carcere "Non svendete la libertà in nome della lotta all’Isis" di Can Dündar (direttore del quotidiano Cumhuriyet, detenuto nella prigione di Silivri) La Repubblica, 15 gennaio 2016 Rispettabile Presidente del Consiglio Matteo Renzi, Le scrissi una lettera quando venni incarcerato a fine novembre per un articolo che avevo pubblicato come direttore del quotidiano Cumhuriyet. In quei giorni era in programma un suo incontro con il primo ministro turco sulla situazione dei rifugiati siriani. Era in corso la trattativa perché la Turchia non inviasse i rifugiati in Europa e li ospitasse sul suo territorio in cambio di un aiuto di tre miliardi di euro. Nella mia lettera la pregavo di non dimenticare i valori fondativi dell’Europa in nome dell’accordo. Quei valori, che anche noi da anni difendiamo con determinazione, erano libertà, diritti umani e democrazia. Ideali da lungo tempo calpestati dal regime del Presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Ci auguravamo che l’avvicinamento tra l’Unione Europea e la Turchia legato alla crisi dei migranti facesse da freno a questo comportamento, ci auguravamo che avrebbe avvicinato la Turchia alla democrazia. Lo scorso novembre, ai giornalisti presenti a Bruxelles al vertice Ue-Turchia, lei disse: "Come gli altri miei colleghi, anche io ho con me la lettera di due giornalisti turchi arrestati". E sottolineò: "Nel dialogo con la Turchia, per l’Italia hanno grande importanza i diritti umani, la democrazia e il primato della legge". Può immaginare quanto paradossale suoni questa dichiarazione dalla cella dove siamo stati gettati. Se i cittadini turchi sostengono il processo di avvicinamento alla Ue è perché considerano i valori europei un’àncora per una Repubblica laica, democratica e moderna le cui fondamenta vennero gettate da Mustafa Kemal Atatürk. Siamo consapevoli che questi ideali sono così preziosi da non poter essere sacrificati in nome di un negoziato. Se oggi siamo tenuti in isolamento da oltre 40 giorni in Turchia, considerata dai media internazionali "la più grande prigione al mondo per i giornalisti", è perché, con quella consapevolezza, ci siamo schierati contro la deriva del Paese verso un regime autoritario. Siamo in carcere perché abbiamo provato che tir dell’intelligence turca portavano armi ai gruppi jihadisti in Siria. All’origine della crisi dei rifugiati c’è anche la guerra civile in Siria alimentata pure con l’appoggio dell’Occidente. Ora seguiamo con interesse il tentativo di placare l’incendio da parte di coloro che si sono travestiti da pompieri dopo averlo appiccato. Purtroppo, dato che Erdogan ha assunto il controllo di gran parte dei media, è sempre più difficile darne notizia. Chi ha il coraggio di farlo è vittima di attacchi, aggressioni, minacce, processi e carcere. Anche se gli interessi attuali dell’Europa rendono necessario ignorare temporaneamente le violazioni dei diritti umani, noi continueremo a chiedere il loro rispetto a qualsiasi prezzo. Se rinunciamo all’umanità davanti alla scelta "rifugiati o libertà", perderemo infatti tutti e tre quei valori. Mauritania: detenuti salafiti denunciano torture nel carcere di Nouakchott Nova, 15 gennaio 2016 Un gruppo di detenuti salafiti mauritani ha accusato le guardie carcerarie della prigione centrale di Nouakchott di averli torturati e vessati nei giorni scorsi. Secondo quanto riporta l’agenzia di stampa mauritana "Ani", un gruppo di guardie carcerarie è stato accusato di aver compiuto delle violenze ieri, picchiando un gruppo di detenuti islamici tra cui Sidi Mohammed Ould Ahmed. I detenuti salafiti del carcere della capitale mauritana inoltre sarebbero stati posti in stato d’isolamento. Secondo quanto riferito da alcuni di loro, questi abusi sarebbero una vendetta per l’evasione del loro compagno salafita Sheikh Ould al Salak avvenuta due settimane fa.