Una riforma incompiuta su ruoli e poteri di Michele Ainis Corriere della Sera, 14 gennaio 2016 C’è il rischio concreto di dover aspettare molto tempo prima che arrivino le leggi che vengono promesse. Per motivare i cittadini a votare per il sì il premier può presentare già adesso il pacchetto delle norme attuative. Consiglio non richiesto ai nostri governanti: se volete convincere i dubbiosi, se volete fare Bingo nel referendum sulla riforma più formosa, aggiungete al pane un po’ di companatico. Il pane è la Costituzione cotta nel forno di Palazzo Chigi: 47 articoli caldi caldi. Il companatico consiste nel rosario di leggi che serviranno per attuarla, per darle sapore. Noi, fin qui, abbiamo esercitato le mandibole sul pane, dividendoci dopo averlo assaggiato: chi lo gusta, chi se ne disgusta. Ma è un errore, perché ogni revisione costituzionale detta un principio di riforma, non tutta la riforma. Tanto più in questa circostanza, dove su molti aspetti decisivi la riforma non decide, o meglio rinvia la decisione alla legge che verrà. Qual è infatti la critica sollevata dal fronte del no? Troppi poteri di governo, pochi contropoteri. Dunque troppa efficienza, poche garanzie. Non è un’obiezione campata per aria. Dopotutto, il bicameralismo paritario costituiva una difesa, nel bene e nel male. Quante leggi ad personam o ad partitum ci sarebbero cadute sul groppone, senza l’altolà del Senato? Adesso la riforma ne prosciuga il ruolo, ma non lo compensa con un’iniezione di vitamine sul corpo del presidente della Repubblica, il garante per antonomasia. Anzi: anche i suoi poteri s’infiacchiscono, perdono vigore. Di fatto, non sarà più lui a consegnare le chiavi del governo, perché il premier verrà deciso dal premium (di maggioranza) della legge elettorale. Inoltre il presidente cede espressamente (articolo 88) il potere di sciogliere il Senato, ma implicitamente anche la Camera: con un partito maggioritario per effetto dell’Italicum, sarà il suo leader a decretare vita e morte della legislatura. Eppure non è detto che il Senato si trasformi in un orpello delle nostre istituzioni. Dipende per esempio dalla legge preannunziata dal nuovo articolo 55, che dovrebbe attribuirgli funzioni di controllo sulle nomine governative. Dipende, soprattutto, dalla legge che ne stabilirà i criteri d’elezione. Il testo di riforma la promette entro 6 mesi dal prossimo turno elettorale, ma non c’è da fidarsi. Anche nel 1948 il termine d’un anno per indire le elezioni dei Consigli regionali fu prorogato all’anno successivo, poi all’anno dopo, e così via fino al 1970. E in questo caso, quale legge? Un conto è che i senatori vengano eletti su listini bloccati, ossia decisi dai partiti; un conto è che corrano l’uno contro l’altro in una competizione aperta. Giacché allora la legittimazione del Senato, quindi la sua autorevolezza, quindi i suoi stessi poteri, ne uscirebbero giocoforza amplificati. E l’opposizione? Un altro contrappeso, la cui stazza dipende tuttavia dai regolamenti parlamentari che dovranno sancire i diritti delle minoranze, a norma dell’articolo 64. E i cittadini? Nelle democrazie la sovranità appartiene al popolo, dunque è al popolo che spetta innanzitutto vigilare contro gli abusi del governo. Difatti il nuovo articolo 71 ci consegna due nuovi strumenti: il referendum propositivo e quello d’indirizzo. Affidandone il battesimo, però, a una legge costituzionale seguita da una legge ordinaria, che forse vedranno i nostri nipotini. D’altronde la storia è maestra di vita: il referendum abrogativo introdotto dai costituenti rimase in frigorifero per 22 anni, prima che il Parlamento ricordasse d’approvarne la legge d’attuazione. Insomma, questa riforma è ancora informe. Saranno le norme successive a precisare l’assetto dei poteri, lo specifico ruolo di ciascuno. Non solo dentro il recinto delle istituzioni, anche in materia economica e sociale. È il caso dell’articolo 122, che promette una legge per riequilibrare la partecipazione politica fra gli uomini e le donne. E se quest’ultima rimanesse un desiderio? È il caso, inoltre, dell’abolizione del Cnel. Può significare la scomparsa dell’unico luogo istituzionale di confronto fra le organizzazioni economiche e lo Stato; oppure può significare la sostituzione di quel vecchio carrozzone ormai in disarmo con nuove strutture, più rappresentative e più efficaci. Dipenderà dalla legge sulla rappresentanza, se verrà scritta, e come verrà scritta. Da qui il consiglio al presidente del Consiglio: meglio portarsi avanti nel lavoro, meglio anticipare le principali norme d’attuazione della Carta riformata. Se non con altrettante leggi (sarebbero incoerenti, prima che la riforma entri in vigore), almeno con un pacchetto di proposte, di disegni di legge. Perché in ultimo saranno gli elettori a timbrare la riforma, ma gli elettori sono curiosi e diffidenti come gatti. Se cerchi d’ingannarli, poi ti lasciano un graffio sulla pelle. Reato di tortura, ritardo italiano: dov’è finita la legge? di Davide Gangale lettera43.it, 14 gennaio 2016 Il governo propone risarcimenti alle vittime di Bolzaneto. Che però vanno avanti. Ma la politica è ferma. Tra condanne europee, tweet di Renzi e il no della polizia. Sono trascorsi più di nove mesi da quando il 7 aprile 2015 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dato ragione ad Arnaldo Cestaro, il più anziano dei manifestanti torturati alla scuola Diaz di Genova nei giorni del G8 del 2001. La Corte ha condannato l’Italia non solo per i danni permanenti subiti da Cestaro, ma anche perché l’ordinamento nazionale non prevede il reato di tortura, con la conseguenza che i responsabili non sono stati puniti per effetto della prescrizione. "Lo diremo in Parlamento". Il reato di lesioni, l’unico applicabile per violenze di questo tipo, si prescrive infatti in sette anni e mezzo. All’epoca della sentenza, il presidente del Consiglio Matteo Renzi aveva risposto così su Twitter a chi gli chiedeva di commentare: "quello che dobbiamo dire lo dobbiamo dire in parlamento con il resto di tortura. Questa è la risposta di chi rappresenta un Paese". Che fine ha fatto la legge? Al netto dell’errore di battitura, il premier annunciava evidentemente una svolta: un cambiamento della legislazione italiana nel rispetto dell’articolo 3 della Convenzione europea ("Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti"). Che cosa è cambiato da allora? Antigone: "situazione peggiorata". Lettera43.it lo ha chiesto a Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’associazione che si batte per i diritti dei detenuti e le garanzie nel sistema penale. "L’unica novità è stata quel tweet", afferma Gonnella, "poi la situazione è peggiorata in maniera catastrofica". La vicenda è estremamente attuale, perché il caso di Arnaldo Cestaro non è affatto isolato. Tanto che Antigone ha lanciato un nuovo video appello al presidente del Consiglio. Tre ricorsi pendenti a Strasburgo. A Strasburgo pendono altri tre ricorsi collettivi che riguardano complessivamente circa 100 persone pestate alla Diaz e alla caserma di Bolzaneto. Ma il 9 gennaio 2016 si è diffusa la notizia che il ministero degli Esteri italiano ha proposto ai ricorrenti di conciliare. Di chiudere la partita con 45 mila euro ciascuno per danni morali, la stessa cifra che la Corte ha ordinato di corrispondere a Cestaro nel 2015. Il governo teme nuove condanne. "Fa specie che il governo proponga di monetizzare la violenza delle forze dell’ordine, ma fa ancora più specie la sua determinazione a mettere la parola fine ai ricorsi prima che arrivino a sentenza", continua Gonnella. "L’esecutivo teme che la Corte possa ribadire per altre 100 volte quello che ha già detto. Cioè che il nostro Paese si è reso colpevole di tortura, un reato che le sue leggi non permettono di sanzionare e di prevenire". Per le violenze commesse dalle forze dell’ordine durante il G8 di Genova del 2001 pendono tre ricorsi collettivi davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo: il primo riunisce 31 vittime di Bolzaneto, il secondo altre 32. Il terzo è stato presentato da 40 vittime della scuola Diaz. Ma in che senso è possibile affermare che oggi la situazione sia addirittura peggiorata? Spiega Gonnella: "Nei giorni immediatamente successivi alla sentenza, la Camera ha approvato una proposta di legge il cui testo non definiva il reato come vorrebbe la convenzione Onu contro la tortura del 1984, ma che secondo noi rappresentava comunque un buon compromesso". Nel passaggio al Senato, tuttavia, "il provvedimento è caduto nell’oblio". Audizione senza resoconto. Anche perché è intervenuto un fatto nuovo: "A maggio del 2015 c’è stata un’audizione informale dei vertici delle forze dell’ordine in commissione Giustizia. Non possiamo conoscere cosa abbiano detto esattamente, perché non c’è traccia del resoconto. Ma sappiamo che hanno espresso la loro contrarietà". La legge richiede il concetto di "pluralità": violenza per almeno due volte. La commissione Giustizia, presieduta dall’onorevole Nitto Palma (Forza Italia), a quel punto ha riscritto la legge. "E lo ha fatto in maniera inaccettabile. Il reato di tortura non solo diventa generico, ma richiede la pluralità della violenza", dice il presidente di Antigone. Un atto solo non basta. Il che significa che "affinché la violenza sia definibile come tortura, deve essere perpetrata due volte. In base alla nuova formulazione, quindi, un unico atto di violenza, nei confronti di una sola persona, non costituisce tortura". Provvedimento sparito. Per Gonnella si tratta di un escamotage: "È un modo per bloccare la discussione parlamentare e per consentire l’impunità della tortura qualora la legge venisse definitivamente approvata". Tant’è che il provvedimento "è scomparso dall’ordine del giorno della commissione Giustizia" a Palazzo Madama. "Renzi sui diritti civili è il vice di Alfano". Chi non intende mollare, però, sono le vittime delle torture alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto. "È molto probabile che l’Italia venga nuovamente condannata. Sappiamo già con certezza che alcuni dei ricorrenti rifiuteranno la proposta di conciliazione per le violenze commesse a loro danno". Petizione online. Un gesto coraggioso, che impedirà alle forze politiche di nascondere il tema sotto il tappeto: "Antigone, anche attraverso una petizione sul sito Change.org che ha raccolto finora più di 53 mila firme, chiede al presidente del Consiglio Matteo Renzi di uscire alla scoperto una seconda volta". Perché "non è possibile che il governo, sui temi che riguardano i diritti dei cittadini, diventi ostaggio del Nuovo centrodestra. Cosa vuole fare Renzi, vuole diventare il vice di Alfano?". "Tortura inutile con i terroristi". L’introduzione del reato di tortura, così come la cancellazione del reato di immigrazione clandestina, non può essere sacrificata in nome della "ricerca del consenso". E l’emergenza terrorismo non può essere considerata un valido argomento: "La giurisprudenza e la storia hanno dimostrato l’inutilità della tortura in questi casi. La prigione di Abu Ghraib non ha sconfitto il terrore e sotto tortura non si dice la verità, ma qualsiasi cosa serva a far cessare il tormento". Modifica alla legge Pinto: irragionevoli risarcimenti per processi irragionevolmente lunghi di Maurizio Tortorella Tempi, 14 gennaio 2016 Come denunciano i Radicali, di fronte al disastro giudiziario ed economico italiano, il governo, anziché darsi da fare per accelerare i tempi medi dei procedimenti, ha introdotto nella legge di stabilità misure intese solo a rendere molto difficile l’accesso agli indennizzi previsti dalla legge. I Radicali, grazie alla testa e alla penna di Deborah Cianfanelli, avvocato spezzino da tempo impegnato nella difesa dei diritti civili, hanno appena pubblicato uno studio che (come troppo spesso accade ai radicali) è passato in assoluto silenzio. Ed è un peccato, perché lo studio descrive come processi lenti ed errori giudiziari in Italia siano ormai divenuti parte della nostra bancarotta economica. Cianfanelli ha analizzato i risultati della cosiddetta "legge Pinto", la numero 89 del 2001, varata dal governo Amato. La norma stabilisce una "corretta durata dei processi" individuandola in tre anni per il primo grado, in due anni per il secondo grado, in un anno per la Cassazione. Quattordici anni fa la nonna cercò così di fare argine a migliaia di richieste di risarcimento per la lentezza dei processi penali e civili approdati presso la Corte europea dei diritti dell’uomo. I Radicali stimano che il danno provocato dalla legge Pinto sui conti pubblici sia di circa un miliardo di euro l’anno, quasi il doppio di quanto calcola oggi il governo. Alla cifra vanno poi aggiunti 200 milioni circa per i risarcimenti da ingiusta detenzione, originati da altri 2 mila procedimenti l’anno. Il numero dì cause basate sulla legge Pinto è in continuo aumento: i ricorsi erano 3.580 nel 2003, saliti a 49.730 nel 2010, a 53.320 nel 2011, a 52.481 nel 2012, a 45.159 nel 2013, l’ultimo anno con dati ufficiali. Se si tiene conto che la media del rimborso liquidato è di 8 mila euro, si arriva velocemente a cifre stellari. Cosa ha deciso di fare, il governo, di fronte a questo disastro giudiziario ed economico? Forse intervenire per accelerare in qualche modo i tempi medi del processo? Macché. I radicali denunciano che anzi la legge di stabilità 2016 (all’articolo 56 del titolo IX) ha introdotto silenziosamente alcuni importanti modifiche alla legge Pinto, al solo scopo di "renderne molto difficile se non meramente eccezionale la possibilità d’accesso". Il problema è stato brutalmente risolto alla fonte, insomma: se la legge Pinto costa troppo, rendiamo più difficili gli indennizzi. I trucchi adottati sono molto insidiosi: per avere diritto a presentare ricorso, l’imputato di un processo penale deve presentare l’istanza di accelerazione delle udienze "almeno sei mesi prima del decorso del termine ragionevole di durata". Quando il suo giudizio arriva in Cassazione, l’imputato deve fare istanza "due mesi prima dello spirare del termine di ragionevole durata". La legge stabilisce poi che è "insussistente" il pregiudizio da irragionevole durata del processo nel caso d’intervenuta prescrizione del reato. Il braccino si accorcia. Scrive Cianfanelli: "Anziché cercare di porre in essere rimedi strutturali in grado di riportare il sistema giustizia sui binari della legalità, si cerca di aggirare l’ostacolo rendendo inaccessibile la strada al risarcimento del danno". Parole sante. Anche perché, non contento, il legislatore ha praticamente dimezzato i valori dei risarcimenti. L’ultima legge di stabilità stabilisce infatti che il giudice dovrà liquidare "una somma non inferiore a euro 400 e non superiore a euro 800 per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo". Per fare un confronto, la Corte europea dei diritti dell’uomo, che non è certo il giudice di prima istanza in materia, individua oggi il parametro dell’indennizzo in mille-millecinquecento euro per ogni anno. Giustizia italiana, mala e pidocchiosa. Abolire il reato di clandestinità, una questione cruciale di Riccardo Magi (Segretario dei Radicali Italiani) L’Unità, 14 gennaio 2016 L’esitazione del governo di fronte all’abolizione del reato di clandestinità, passati ormai molti mesi dalla decisione in tal senso del Parlamento, non fa che confermare l’incapacità, nel nostro paese, di affrontare l’immigrazione in maniera adeguata e in tutta la sua complessità e non come mera questione d’ordine e di sicurezza, da utilizzare per cercare consenso. Contrariamente a quanto sostiene Renzi, un dibattito non può agitare quelli che lui chiama "elementi psicologici e di percezione". Le norme che regolano il nostro stato di diritto non possono nascere come risposta a paure collettive attentamente inoculate da forze politiche come la Lega nord, a cui non a caso dobbiamo l’istituzione del reato di clandestinità nel 2009. Tale reato in questi sei anni non è evidentemente servito da deterrente e nessun cittadino straniero irregolare ha mai pagato la multa prevista. Le uniche conseguenze hanno riguardato l’aumento dei procedimenti, e quindi lavoro e spese in più per la nostra giustizia già agonizzante. L’esempio più eclatante, nella sua tragicità, lo abbiamo avuto in seguito alla tragedia di Lampedusa del 2013: vennero indagati per clandestinità, i sopravvissuti quando ancora si stavano recuperando i corpi in mare. Abolendo quel reato iniquo, tra l’altro, rimane in piedi la procedura amministrativa di espulsione per le persone irregolari e quindi davvero non si capisce perché il Governo tentenni così. Allo stesso modo si tentenna di fronte all’idea di occuparsi di immigrazione in maniera adeguata a quanto stiamo vivendo ormai da qualche decennio anche nel nostro paese. Spaventa così tanto l’idea di prendere atto che nel nostro paese gli stranieri costituiscono l’8% della popolazione e rappresentano il 10% degli occupati? E che, nonostante le rigidità normative, gli ostacoli economici e le fatiche burocratiche per essere in regola, una fetta consistente della nostra economia si basa sul lavoro dei cittadini stranieri? In questo momento stiamo invece assistendo alla demonizzazione del migrante economico, a partire dall’Europa, come dimostra l’agenda sulle migrazioni varata lo scorso maggio, con la distinzione netta tra richiedenti asilo da accogliere e migranti economici da respingere. Solo gli stranieri altamente specializzati sono i benvenuti secondo quel piano, come se davvero il nostro continente, oggi e negli anni a venire, potesse fare a meno della forza lavoro straniera. Noi radicali da anni chiediamo non solo l’abolizione del reato di clandestinità - oggetto di uno dei quesiti referendari della campagna "Cambiamo noi" del 2013 - ma sosteniamo la necessità di intervenire in modo efficace e realistico sulla regolamentazione degli ingressi degli stranieri in Italia attraverso canali legali e più flessibili per porre fine allo sfruttamento di migliaia di persone costrette alla precarietà e al lavoro nero da una normativa eccessivamente rigida e restrittiva quale è l’attuale. Va invece facilitato l’incontro tra domanda e offerta nel rispetto delle reali esigenze del nostro Paese, va introdotta maggiore flessibilità nella gestione dei permessi di soggiorno e va garantita e incentivata la possibilità di regolarizzare la propria posizione. Pare evidente come non si tratti solo di ordine pubblico, ma di una questione cruciale e rilevante del nostro tempo, a cui non ci si può sottrarre e che pone interrogativi difficili e nodi da affrontare e sciogliere con lucidità e lungimiranza. Il Sottosegretario Ferri: "parole del Papa devono essere stimolo per cambiare le carceri" Italpress, 14 gennaio 2016 "Le parole del Papa devono essere uno stimolo, un punto fermo su cui dobbiamo riflettere e una concreta linea guida per costruire un sistema carcerario realmente finalizzato al reinserimento e al recupero dei detenuti". Lo ha dichiarato il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, commentando le parole di Papa Francesco sulla giustizia misericordiosa contenute nel libro-intervista "Il nome di Dio è misericordia". "L’occasione del Giubileo straordinario improntato sulla misericordia - aggiunge - è una ulteriore fonte di riflessione sulla necessità di costruire una strada verso una nuova vita per chi ha sbagliato e sta scontando la sua pena all’interno degli istituti penitenziari. Il Ministero sta portando avanti una rivoluzione culturale sull’idea di detenzione, basata sull’umanizzazione della pena, sullo sviluppo di attività lavorative, culturali e ricreative e sulla creazione di professionalità per i detenuti, affinché questi possano reinserirsi nella società con maggiori possibilità di trovare un lavoro e ricrearsi una posizione sociale. Non si deve cadere nella tentazione di un facile giustizialismo, ma è necessario procedere ad una applicazione rigorosa delle norme finalizzata a punire le condotte illecite, cercando di tenere conto degli obiettivi della detenzione stabiliti anche dalla Costituzione all’articolo 27. È necessario fornire una seconda opportunità a coloro che hanno sbagliato e che si mettono in gioco con impegno e determinazione, abbattendo il rischio della recidiva e creando un nuovo modello di esecuzione della pena. È forte la consapevolezza che la sfida per un reale reinserimento sociale dei detenuti non solo sia utile per ribadire l’importanza della dignità e dei diritti di questi ultimi, ma serva anche per sottolineare come il loro positivo recupero possa contribuire in modo significativo a garantire una maggiore sicurezza per l’intera comunità. Crediamo molto nella nuova consapevolezza e il nuovo approccio che stiamo dando al nostro lavoro e pensiamo che i risultati premieranno i nostri sforzi". Il pm di Napoli, Catello Maresca: "l’Associazione antimafia Libera non è affidabile". di Alessandra Ziniti La Repubblica, 14 gennaio 2016 Don Ciotti in Commissione antimafia: "Vogliono demolirci con le menzogne". Il procuratore della dda di Napoli accusa: "Le associazioni antimafia tendono a farsi mafiose loro stesse". Il fondatore di Libera contrattacca: "Lo denuncio". Accuse pesanti lanciate da un procuratore antimafia contro l’associazione antimafia Libera, risposte altrettanto dure da parte del fondatore don Ciotti che annuncia querele e il tentativo di "demolire" la sua creatura "con le menzogne". Ma don Ciotti ascoltato proprio oggi in Commissione parlamentare antimafia ammette che i problemi di trasparenza di alcune cooperative ci sono stati ma prontamente risolti. L’attacco del pm di Napoli Maresca. Le accuse questa volta vengono da un pm antimafia. Dopo il polemico addio di Franco La Torre, "licenziato" da Don Ciotti via sms in seguito alle critiche mosse nel corso degli stati generali, a sparare a zero contro Libera è il sostituto procuratore della Dda di Napoli Catello Maresca che in una intervista a Panorama dice: "Se un’associazione, come Libera, diventa troppo grande, acquisisce interessi che sono anche di natura economica, e il denaro spesso contribuisce a inquinare l’iniziale intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittando del suo nome per fare i propri interessi". Libera - secondo il pm - "gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale". Il magistrato napoletano accusa Libera di "gestire i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti". Don Ciotti in Commissione antimafia: "Vogliono demolirci". Parole dure che scatenano l’ira di don Luigi Ciotti, proprio oggi ascoltato dalla commissione parlamentare antimafia. Il sacerdote, che preannuncia querele nei confronti del magistrato se qualcuno pubblicherà le sue parole anticipate dal settimanale con un lancio d’agenzia, replica indignato: "Oggi c’è una semplificazione in atto a demolire un percorso con la menzogna. È fondamentale la verità. Perché va bene le contraddizioni ma non bisogna calpestare la verità". Lo ha detto don Ciotti, presidente di Libera, parlando davanti alla commissione Antimafia. "I nostri bilanci - ha ricordato - sono pubblici, on line. Nessuno - ha ammonito - metta il cappello addosso a Libera. Noi difendiamo la dignità, la libertà e la trasversalità di tutti". "Non si può demolire il percorso di Libera con una menzogna - ha continuato don Ciotti. Le dichiarazioni di questo magistrato sono sconcertanti, chiedo che ci sia verità e giustizia in questo paese. Libera gestisce solo 6 strutture direttamente. Libera non riceve nessun bene, che invece viene dato ai comuni e poi affidato alle cooperative. Per la gestione dei beni confiscati Libera non riceve finanziamenti pubblici. I bilanci sono pubblici, da anni. Nessuno, nessuno, nessuno metta il cappello su Libera". "Tanto fango fa il gioco dei mafiosi - è l’adirata replica di don Ciotti - Domani esce questa intervista. E noi questo signore (il pm napoletano antimafia, Maresca, ndr) domani mattina lo denunciamo perché si tace una, due, tre volte ma quando viene distrutta la dignità del lavoro di tante persone, è un dovere ripristinare la verità". I problemi con le cooperative. "Il tema dell’infiltrazione è reale - ha proseguito don Ciotti, rispondendo alle domande del senatore Lumia Pd e del vicepresidente della Commissione Antimafia Fava Si - le nostre rogne sono iniziate con i 17 processi in cui siamo parte civile, lì ci sono situazioni complesse e questo ci ha creato qualche problema. Altri problemi vengono dalle cooperative, cammin facendo abbiamo scoperto che delle situazioni erano mutate. Di fatto noi siamo dovuti intervenire, abbiamo avuto anche processi di lavoro che sono stati vinti da noi. Ogni 6 mesi chiediamo la verifica ma qualche tentativo di infiltrazione c’è ed è trasversale a molte realtà. Libera è 1600 associazioni e qualche tentativo, qualche ammiccamento c’è stato. Abbiamo allontanato dal consorzio Libero Mediterraneo delle realtà che non avevano piu i requisiti e queste realtà gettano il fango, sono le prime a farlo. Chiediamo di darci una mano alle autorità". Le reazioni. "Le affermazioni del pm Maresca sull’associazione Libera sono offensive ed era giusto far replicare don Ciotti. Sono affermazioni che non mi sento minimamente di condividere, accuse assolutamente gratuite e infondate". Lo ha detto la presidente della commissione parlamentare Antimafia, Rosy Bindi, nel corso della seduta di oggi nella quale è stato ascoltato il fondatore di Libera. "Questo nostro lavoro, di cui non mi sfugge la difficoltà - ha aggiunto Bindi - lo abbiamo intrapreso nell’ottica di rilanciare l’antimafia, non per delegittimarla. Per fare questo bisogna fare opera di verità, avendo il senso del limite. Credo che sia doveroso smascherare o contribuire a smascherare ambiguità se ci sono e impedire che ci siano processi di delegittimazione". "La mia sensazione è che in atto una campagna per fare terra bruciata su tutto ciò che l’antimafia ha prodotto di utile in questi anni", ha aggiunto il vicepresidente della Commissione parlamentare Antimafia, Claudio Fava (Si). "Dobbiamo dare atto a Libera di avere svolto un lavoro importante non solo sui beni confiscati, su cui ha svolto un vero ruolo di supplenza, ma non si può non riconoscere che Libera ha costituito anche uno stimolo legislativo alla politica". Così il capogruppo del Pd in Commissione Antimafia, Franco Mirabelli - Oggi però la mafia è cambiata: si mimetizza, sta nell’economia. Oggi il movimento antimafia deve vivere sul presente e sul futuro e vivere un rapporto sulla percezione che ha l’opinione pubblica delle mafie e che è molto bassa. Oggi forse un ripensamento dell’antimafia va fatto". Le mani delle mafie su videolottery e giochi online "rendono più della droga…" di Federica Angeli La Repubblica, 14 gennaio 2016 Operazione della Finanza e della polizia. Undici arresti in tutta Italia. In manette anche un boss della ‘ndrangheta e un imprenditore. "Rende più della droga", dice un indagato intercettato. E si rischia molto meno che con il traffico di stupefacenti. È il gioco d’azzardo online illegale quello con cui esponenti della camorra, della ‘ndrangheta e della mafia romana, facevano soldi, tanti soldi, attraverso un circuito parallelo a quello legalizzato, ma del tutto fuorilegge. A smantellare il giro di scommesse che fruttava 50mila euro ogni mezz’ora nei 12.000 tavoli virtuali creati - così si legge nell’ordinanza con cui 13 persone sono state arrestate - un’operazione della squadra mobile di Roma, dello Sco e dello Scico della guardia di finanza. È la più grande organizzazione in Italia: 11 milioni e mezzo di giro d’affari al giorno, un milione di guadagno netto ed esentasse. Sono i numeri dell’organizzazione criminale che gestiva, in Italia e all’estero, videolottery e giochi online illeciti scoperta e sgominata dallo Scico della Guardia di Finanza e dalla polizia di Stato. Sono 13 gli arresti nell’inchiesta coordinata dal procuratore Michele Prestipino della Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Roma: tra loro un boss della ‘ndrangheta, Nicola Femia, e il ‘Re delle slot’ Luigi Tancredi, creatore di un piccolo impero di videolottery e poker online. Il fulcro del sistema. Non un mafioso, ma con legami con le ‘ndrine e la camorra dei Casalesi già emerse in precedenti indagini, che gli permettevano di piazzare postazioni per giocare negli esercizi pubblici. Un imprenditore rampante tra Porsche e ville grazie a 12 mila tavoli da gioco virtuali, con vincita illimitata, allettanti per i giocatori, paralleli a quelli autorizzati dai Monopoli. Con server in Paesi esotici. La triangolazione del denaro avveniva tra la Florida, la Romania e Roma. I soldi delle scommesse finivano su server fuori dall’Italia e rientravano attraverso operazioni di acquisti immobiliari. A spiegare i meccanismi dell’organizzazione che aveva una struttura piramidale, è un pentito, Antonio Leonardi un ex appartenente alla camorra: "Dovevamo fare internet puro, il singolo giocatore, senza agenzie si doveva collegare al sito internet e aveva un conto singolo su cui operare. Ciò permetteva di fare il gioco, legalmente, al di fuori dell’interesse statuale, le tasse si sarebbero pagate in Inghilterra". E ancora: "Era semplice: basta un computer, una stampante e una password per accedere al programma. Ad ogni esercente si attribuisce un conto e le coordinate delle giocate: per le piccole si prende tutto, per le grosse il gestore deve avere l’approvazione della giocata dal commerciale. I contatti avvengono via Skype, non per telefono perché è tutto illegale e serve cautela per paura di controlli". Illuminante le sue testimonianze sulla composizione piramidale della gang dell’online. "Al vertice della piramide - spiega Leonardi - ci sono Antonello, Tancredi di Roma (l’unico ad aver avuto tra le contestazione il metodo mafioso, ndr) e Biagio di Fondi. Al livello immediatamente inferiore (il secondo) ci siamo io ed Enrico La Commara, veri concessionari, ossia quelli che acquistano la licenza d’uso da Antonello. Poi c’è un terzo livello rappresentato dai commerciali, coloro che hanno contatti con agenti e noleggiatori, e sono le persone di fiducia dei concessionari, quelli che piazzano i siti. Poi vengono i noleggiatori, quelli che hanno i collegamenti con i clan perché è quello che inevitabilmente paga la percentuale sulle macchinette già collocate nei singoli punti ed è in grado di diffondere i siti sulle stesse. Il livello degli agenti è l’ultimo, sono i procacciatori di affari che servono a coprire le zone non sature di noleggiatori e macchinette per poter diffondere il più possibile il programma". L’indagine del Servizio centrale investigazione criminalità organizzata (Scico) della finanza e del Servizio centrale operativo (Sco) della polizia è partita dal tentato omicidio del gestore di una sala giochi di Ostia nel 2012. Si è scoperta una grande piattaforma virtuale a cui si accedeva con nickname e password. I gestori ci guadagnavano il 10% per cento almeno, ma anche i clan avevano il loro tornaconto: nelle casse della famiglia casalese Zagaria, ad esempio, entravano 45-60 mila euro al mese. Un nuovo canale di approvvigionamento per le mafie. "Rende più della droga", dice appunto un indagato al telefono sotto controllo. E si rischia una pena molto più lieve, ha sottolineato il procuratore aggiunto di Roma Michele Prestipino in una conferenza stampa. Il "Re delle slot" Tancredi, inventore anni fa del sito di grande successo Italypoker, è conosciuto anche a livello internazionale per aver creato veri casinò virtuali. Secondo l’indagine aveva contatti con la ‘ndrangheta attraverso Femia, boss contiguo al clan Mazzaferro del Reggino e già detenuto a Bologna. L’accusa per i 13 è di associazione per delinquere transnazionale finalizzata al gioco d’azzardo e, a seconda delle posizioni, intestazione fittizia di beni ed estorsione. Per Tancredi c’è anche l’aggravante mafiosa. "Il gioco d’azzardo online è ormai la nuova frontiera degli affari criminali - ha detto il presidente della Commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi (Pd), tanto più pericolosa perché riesce facilmente a sovrapporsi al sistema legale". "Sarebbe davvero paradossale se, al contrario degli impegni assunti dal Governo, si dovesse registrare un incremento dei punti gioco - ha aggiunto -. Non sono rassicuranti le notizie di una corsa alla creazione di nuove slot che si sarebbe verificata alla fine del 2015 per aggirare il blocco a partire dal 1 gennaio 2016 dei nulla osta per nuovi apparecchi previsto dalla Legge di stabilità". E c’erano le mafie pronte ad approfittarne. L’operazione, chiamata "The imitation game", ha portato in tutto a 13 ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip di Roma su richiesta del pool di magistrati della Procura coordinato da Michele Prestipino: undici già eseguite e due, relative a persone che vivono all’estero, ancora da notificare. L’accusa per tutti è di associazione per delinquere a carattere transnazionale finalizzata al gioco d’azzardo e, a seconda delle posizioni, intestazione fittizia di beni ed estorsione. In manette sono finiti anche un boss della ‘ndrangheta e un imprenditore del settore, collegato ai clan camorristici. Sequestro Soffiantini: ispettore dei Nocs ammazzato dai colleghi, ma l’omicidio è prescritto di Francesco Grignetti La Stampa, 14 gennaio 2016 Sono stati necessari quasi vent’anni, ma alla fine la giustizia ha deciso: l’ispettore Samuele Donatoni, del reparto speciale dei Nocs, le teste di cuoio della polizia, ucciso nel corso di un conflitto a fuoco in una galleria dell’autostrada Roma-L’Aquila mentre si cercava di sbloccare il sequestro dell’imprenditore Giuseppe Soffiantini, fu davvero ucciso dal fuoco amico. Non solo. Due suoi colleghi, Stefano Miscali e Claudio Sorrentino, finiscono sotto processo per aver calunniato i banditi protagonisti del conflitto a fuoco. Miscali, pur sapendoli innocenti perché fu lui a colpire involontariamente il collega, con Sorrentino avrebbe poi accusato i malviventi. Un caso lungo quasi vent’anni, quello per la morte di Donatoni. Era la notte del 17 ottobre 1997 quando gli agenti speciali affrontarono i sequestratori. Appuntamento lungo l’autostrada per consegnare un riscatto fittizio. L’operazione finì malissimo. Nell’inferno di fuoco, Donatoni fu colpito alla testa e morì sull’asfalto. Ma quel che una perizia scientifica avrebbe dovuto appurare con facilità - se il colpo era stato esploso da un kalashnikov come quelli che portavano i banditi o da una pistola in dotazione al reparto - si trasformò in un mistero di Stato. Nel tempo ci sono state perizie e controperizie. L’uomo accusato da Miscali di avere materialmente esploso il colpo di Kalashnikov, Mario Moro, è morto in un altro conflitto a fuoco. I suoi complici, Attilio Cubeddu, Osvaldo Broccoli e Giorgio Sergio, sono stati condannati non solo per il sequestro ma anche per quell’omicidio. Caso chiuso? No. Nel 2005 e nel 2007 una nuova sentenza ha stabilito invece che il colpo era partito da una pistola della polizia. Risultato: i banditi hanno ottenuto uno sconto di pena. Risale a quegli anni la dichiarazione della mamma di Donatoni, la signora Lauretta: "Sono confusa. Ci sono due verità. Una della Cassazione attribuisce la morte di mio figlio all’azione dei banditi, un’altra sentenza parla di "fuoco amico". Se è questa la verità, arriva comunque dopo troppi anni". Ebbene, sono occorsi altri anni e ieri il gup Simonetta D’Alessandro ha disposto il rinvio a giudizio dei due. Dovranno rispondere di calunnia nei confronti dei banditi, essendo prescritto il reato di omicidio colposo. La liberazione anticipata speciale esclude i detenuti ai domiciliari di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2016 Corte di cassazione, Prima sezione penale, sentenza 13 gennaio 2016 n. 987. La liberazione speciale anticipata non si applica a chi è agli arresti domiciliari, ma solo a chi è detenuto in carcere. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 987 della Prima sezione penale depositata ieri, che ha giudicato infondata la questione di legittimità costituzionale avanzata dalla difesa di un detenuto domiciliare che si era visto respingere la richiesta di applicazione del beneficio introdotto nella sua versione definitiva con la legge n. 10 del 2014. Beneficio che si traduce in uno sconto più cospicuo dei giorni di carcere, 75 giorni, al posto degli ordinari 45, per ogni semestre di pena espiata con condotta "regolare e partecipativa". La Cassazione sottolinea che l’istituto della liberazione anticipata speciale ha natura eccezionale si strumento predisposto per contribuire alla soluzione di uno dei problemi storici della giustizia italiana, il sovraffollamento delle carceri. A favore dell’eccezionalità milita poi anche la collocazione nell’Ordinamento penitenziario: non nell’articolo 54 che si occupa della liberazione anticipata ordinaria, ma in una disposizione specifica, dedicata a metterne in evidenza la natura di rimedio particolare e circoscritto nella sua applicazione a favore dei detenuti per un arco di 2 anni. Quanto poi alle finalità della misura sono certo di rieducazione del condannato ma nello stesso tempo anche deflattive e risarcitorie che, per essere realizzate in concreto, presuppongono la l’effettiva permanenza in carcere del condannato nei periodi di riferimento. Si tratta oltretutto di una misura da leggere in chiave europea, indispensabile anzi per adeguarsi a quanto sottolineato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza Torreggiani che ha sanzionato l’Italia per le condizioni degli istituti di pena. Così, la liberazione anticipata speciale, che fa parte di un pacchetto di misure con la medesima finalità, è indirizzata a risolvere le carenze del nostro sistema carcerario, incidendo sui flussi sia in entrata sia in uscita. La Cassazione nega poi qualsiasi rischio di discriminazione rispetto ai detenuti che hanno scontato la pena in un ambiente esterno al carcere. Non può infatti essere confrontata la condizione di chi ha trascorso anni in carcere in condizioni di sovraffollamento che contribuiscono ad aggravare la situazione detentiva e quella di chi è potuto restare nel domicilio scelto, a contatto con congiunti o conviventi. Così, "la constatazione di della più invasiva incidenza delle limitazioni alla libertà personale, della diversa qualità di vita, e della ben maggiore afflittività in genere dell’esecuzione per i condannati effettivamente ristretti in ambito inframurario, giustifica un trattamento di favore "speciale" per quanti abbiano versato in condizioni oggettive di incrementata sofferenza, eccedenti la normale condizione restrittiva". Non vale poi sostenere la discriminazione a danno dei condannati ai domiciliari riferendosi ai condannati ammessi alla semilibertà e ai permessi premio (che invece possono accedere alla liberazione anticipata speciale): si tratta infatti di detenuti che continuano a espiare la pena o parte di questa all’interno delle carceri. Tenuità del fatto esclusa quando l’ebbrezza è grave e c’è un incidente di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2016 Corte di cassazione, sentenza 13 gennaio 2016 n. 1035 Quando il tasso alcolemico è triplo rispetto al consentito e si è messa a repentaglio la sicurezza di più persone, per la guida in stato di ebbrezza non può comunque esserci la non punibilità per tenuità del fatto. La Quarta sezione penale della Cassazione, pur avendo recentemente rimesso alle Sezioni unite la valutazione dell’applicabilità del beneficio a questo reato (si veda Il Sole 24 Ore di sabato scorso, 9 gennaio), ritiene di mettere un punto fermo nel caso di un incidente causato da un guidatore risultato nella fascia di ebbrezza più grave (oltre 1,5 grammi/litro). Circostanze tanto pesanti da non poter essere controbilanciate dal fatto che il conducente fosse incensurato. Una conclusione "di buonsenso" che, in linea generale, non sorprende. Ma va notato che i giudici, per fondare la loro decisione, quando parlano della pericolosità della condotta dell’imputato (che è uno degli elementi in base ai quali si valuta se c’è tenuità del fatto), confermano il giudizio dato dalla Corte d’appello. Che aveva giudicato la pericolosità considerando l’elevato tasso alcolemico e il fatto che l’incidente abbia coinvolto un autobus. Dunque, hanno pesato solo il "franco stato di ubriachezza" e il "numero rilevante di persone" esposte al pericolo. Elementi evidentemente già ritenuti sufficienti, perché nessuna valutazione è stata invece fatta sulle cause più dirette dell’incidente, come le manovre azzardate eventualmente effettuate dal guidatore. Ciò indica che la Quarta sezione penale ha dato molta importanza al fatto che la guida in stato di ebbrezza è un reato di pericolo e non di danno o evento. Una valutazione in linea con l’ordinanza 19089/2015, con la quale aveva rimesso alle Sezioni unite la questione della tenuità del fatto, sottolineando tra le altre cose proprio il fatto che questo reato è di pericolo e per questo è rilevante la mera condotta e non le sue modalità. È sintomatico anche che tutte queste considerazioni siano state svolte dai giudici pur non essendo rilevanti nel caso su cui si stava decidendo. Infatti, la sentenza sottolinea che siamo in presenza di un ricorso inammissibile per cassazione, il che "preclude...la possibilità di rilevare e dichiarare l’esclusione della punibilità". In altre parole, nel caso in esame non sarebbe stato necessario pronunciarsi sulla sussistenza della tenuità. Se lo si è fatto ugualmente, si voleva evidentemente aggiungere un elemento alla discussione giurisprudenziale in corso sulla questione. Nel dopo-Severino interdizione dai pubblici uffici slegata dalla pena principale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2016 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 13 gennaio 2016 n. 1088. Per il reato di corruzione commesso dopo l’entrata in vigore della legge Severino (190/2012) l’interdizione dai pubblici uffici è sganciata dal riferimento alla soglia minima della pena principale. Criterio che vale solo quando il reato è stato commesso prima che fosse operativa la legge 190/2012. La Corte di cassazione, con la sentenza 1088 depositata ieri, annulla per la parte che riguarda le pene accessorie, la sentenza nei confronti di cinque imputati condannati per corruzione propria, truffa aggravata e falso nell’ambito di un’inchiesta relativa ad appalti truccati. Un colpo di spugna giustificato da interdizioni che non tenevano conto dello spartiacque fissato dalla legge Severino con l’articolo 317-bis, che punisce con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici i reati di peculato, concussione, concussione per atto contrario ai doveri d’ufficio e corruzione in atti giudiziari. Lo stesso articolo precisa però che se, grazie alle circostanze attenuanti la reclusione resta sotto il tetto dei tre anni, l’interdizione sarà solo temporanea. Una disposizione male applicata nella sentenza impugnata in cui l’interdizione dai pubblici uffici era stata imposta per cinque anni: una misura coincidente con quella della durata della pena principale. Riferimento che non valeva essendo stati i fatti contestati commessi dopo l’entrata in vigore dell’articolo 317 del codice penale. La sentenza è annullata con rinvio al tribunale che dovrà rideterminare la pena accessoria. Le nuove soglie di punibilità per la dichiarazione infedele sono retroattive di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2016 Corte di cassazione, Quinta sezione penale, sentenza 13 gennaio 2016 n. 891 Le nuove soglie di punibilità per i reati tributari sono retroattive e si applicano quindi anche ai giudizi in corso, visto il trattamento di favore nei confronti degli imputati. E portano all’annullamento delle condanne già pronunciata, anche se concordate. Ad affrontare la questione è stata la Corte di cassazione con la sentenza n. 891 della Terza sezione penale depositata ieri. Il procedimento approdato alla Corte aveva visto la condanna a 1 anno e 7 mesi di un titolare di impresa individuale per i reati di dichiarazione fraudolenta (articolo 2 del decreto legislativo n. 74 del 2000) e di dichiarazione infedele (articolo 4 del medesimo decreto). Condanna emessa dopo patteggiamento, ma successivamente oggetto di impugnazione. Nel corso del giudizio, avverte la Corte, è però avvenuto un fatto nuovo che cambia del tutto lo scenario: è stato approvato il decreto legislativo n. 158 che riforma le sanzioni tributarie. Provvedimento poi che è entrato in vigore dallo scorso 22 ottobre. Un intervento che ha conseguenze immediate anche sul procedimento in discussione, visto che rivede, alzandole, le soglie di rilevanza penale previste per il reato di dichiarazione infedele. Nel dettaglio, ferma la misura della sanzione che va da un minimo di 1 anno a un massimo di 3 e ferma anche la condotta (indicazione, in dichiarazione, di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo oppure di elementi passivi inesistenti), a cambiare sono i valori dell’imposta evasa che ora deve essere superiore a 150 mila euro, al posto dei precedenti 50mila. Elevato pure il limite dell’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti al Fisco, anche attraverso l’indicazione di elementi passivi inesistenti, che per essere punibile deve essere superiore a 3 milioni di euro, al posto dei precedenti 2. La dichiarazione infedele contestata all’imputato e oggetto dell’accordo con la pubblica accusa, per gli anni d’imposta 2006-2009, se rispettava le vecchie soglie e invece al di fuori di quelle nuove che hanno ristretto il perimetro penale. La conseguenza immediata di cui la Cassazione prende atto nel segno del favor rei è l’annullamento senza rinvio della condanna emessa per insussistenza del fatto. Una formula che la Corte ritiene preferibile a quella "perché il fatto non è previsto dalla legge come reato". Quest’ultima va adottata, osserva la sentenza, quando il fatto non corrisponde a una fattispecie incriminatrice a causa di un’assenza di previsione normativa o di una successiva abrogazione della norma o di una sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità, rimanendo in ogni caso rilevante il fatto in sede civile. Con la formula "il fatto non sussiste" invece, conclude la Cassazione, si esclude ogni rilevanza anche in sede diversa da quella penale e deve essere utilizzata quando manca uno degli elementi costitutivi del reato. La sentenza, infine, chiarisce anche che il patteggiamento rappresenta un accordo relativo al solo profilo del trattamento sanzionatorio e non anche a quello relativo alla confisca "per il quale la discrezionalità del giudice si riespande come in una normale sentenza di condanna", tanto che, anche se un’intesa con il pm c’è stata pure sul punto della confisca, il giudice non è obbligato a recepirlo. Di conseguenza la confisca risulta pienamente applicabile e riguardare indifferentemente ciascuno dei concorrenti nel reato anche per l’intera misura del profitto accertato. Mail, no a controlli indiscriminati di Giampiero Falasca Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2016 La rilevanza mediatica della sentenza con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto legittimi i controlli del datore di lavoro sulle email aziendali è molto superiore rispetto ai risvolti pratici che la decisione potrà avere nel nostro ordinamento. La pronuncia, infatti, non legittima affatto controlli indiscriminati sulla posta dei dipendenti ma si limita a ribadire principi già ampiamente vigenti nel nostro ordinamento e codificati nelle linee guida elaborate sin dal 2007 del Garante Privacy e nello Statuto dei lavoratori (modificato di recente nel Jobs Act). Ma andiamo con ordine, cercando di riepilogare innanzitutto cosa dice la sentenza. La Corte ha riconosciuto l’applicabilità nei confronti delle comunicazioni via email delle tutele previste dalla Convenzione dei diritti dell’uomo per tutto quanto concerne la riservatezza della vita privata; è stata ammessa, tuttavia, la possibilità di superare questa tutela rinforzata, in presenza di alcune condizioni molto stringenti. La prima condizione è che l’utilizzo per scopi personali dello strumento informatico fornito dall’azienda sia espressamente vietato dal datore di lavoro. Questo elemento è essenziale in quanto - come ribadito anche dalle linee guida del Garante privacy italiano - se esiste una "aspettativa di segretezza" delle comunicazioni veicolate dal dipendente con la posta aziendale, nessun controllo da parte del datore di lavoro è lecito. La seconda condizione individuata dalla sentenza riguarda la proporzionalità del controllo. È da escludere - secondo i giudici di Strasburgo, ma anche secondo le norme e le prassi vigenti in Italia - la legittimità di controlli massivi, attivati in assenza di un motivo specifico o comunque eseguiti in maniera troppo estesa rispetto alle finalità che si perseguono. Questi concetti sono pienamente compatibili con le regole che governano nel nostro Paese la questione: tali controlli sono legittimi (e i relativi risultati possono essere utilizzati a fini disciplinari) solo a condizione che gli strumenti informatici non siano coperti da un’aspettativa di segretezza (il Garante privacy ritiene che si debba rimuovere tale aspettativa mediante apposite policy aziendali), e all’ulteriore condizione che le indagini siano effettuate in maniera lecita e proporzionata. Il Jobs Act non ha modificato tale impostazione e, anzi, ha introdotto (nell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori) una tutela ulteriore per i dipendenti, stabilendo che i dati acquisiti tramite i controlli a distanza sono utilizzabili ai fini disciplinari solo se è stata data comunicazione scritta, mediante l’informativa prevista dall’articolo 13 del Codice privacy, della modalità con cui saranno trattati i dati personali. Inoltre, la sentenza di Strasburgo esamina solo il tema della legittimità del controllo, mentre nulla dice in merito alla congruità della sanzione comminata al lavoratore (il licenziamento) che ha dato origine alla controversia. La sentenza, quindi, non è destinata a rivoluzionare le regole esistenti; la sua rilevanza mediatica può, tuttavia, avere l’effetto positivo di sensibilizzare l’attenzione verso un tema troppo spesso sottovalutato. Le aziende dovrebbero trarre spunto dalla pronuncia per verificare l’adeguatezza delle proprie policy rispetto agli standard richiesti dalla normativa, verificando prima di ogni cosa se sono state adottate linee guida che affermano in maniera chiara il divieto di utilizzo degli strumenti aziendali per scopi personali. I lavoratori dovrebbero invece prendere coscienza del fatto che tutti gli strumenti informatici aziendali possono teoricamente essere controllati dal datore di lavoro (nei limiti sopra descritti), e che questo rischio si può evitare mediante piccoli e semplici accorgimenti (ad esempio, l’apertura di una casella di posta personale per tutte le comunicazioni extra lavorative). Livorno: Marcello Lonzi morì in cella nel 2003, riserva Gip su chiusura indagini Ansa, 14 gennaio 2016 Decisione nelle prossime settimane. Legale della madre si oppone. Sarà resa nota nelle prossime settimane la decisione del giudice per la indagini preliminari del tribunale di Livorno sulla richiesta di archiviazione formulata dal pm Antonio Di Bugno nei confronti dei tre medici indagati per la morte di Marcello Lonzi, il detenuto livornese deceduto nel carcere delle Sughere nel 2003. Lo si è appreso al termine dell’udienza preliminare svoltasi oggi durante la quale l’avvocato Chiara Tartari, che rappresenta la madre della vittima ha ribadito la sua opposizione alla richiesta della procura. Sul banco degli imputati rischiano di finire infatti il medico legale Alessandro Bassi Luciani, che eseguì l’autopsia dopo il decesso, e i due medici della casa circondariale livornese, Enrico Martellini e Gaspare Orlando, che tentarono inutilmente di rianimarlo in cella. "Secondo noi - ha spiegato il legale - vi sono elementi per procedere all’imputazione coatta e dunque approdare a un vaglio dibattimentale per alcune ipotesi di reato, mentre per altre ipotesi di reato e in particolare per fare definitivamente luce sulla morte di Marcello riteniamo che siano necessarie ulteriori indagini". Secondo la procura livornese, Lonzi morì in carcere l’11 luglio 2003 per un arresto cardiaco che gli provocò una caduta in seguito alla quale il detenuto riportò serie lesioni alla testa e in altre parti del corpo. La parte civile invece ha sempre sospettato che all’origine della morte vi fosse stato un pestaggio in cella testimoniato proprio dalla presenza di quelle ferite. La ricostruzione ufficiale è smentita, conclude l’avvocato Tartari, anche "da elementi d’indagine già presenti nel fascicolo e per questo abbiamo motivato la nostra opposizione all’archiviazione chiedendo al giudice di tenere in considerazione tutti gli elementi che già sono agli atti, a cominciare dall’ora della morte che non è avvenuta alle 19.50 ma alcune ore prima e ciò è riscontrabile dalle testimonianze di detenuti ma anche di alcuni agenti penitenziari e deducibile dalla scansione temporale della vita carceraria". Oristano: detenuto in sciopero della fame, protesta contro mancata consegna computer alguer.it, 14 gennaio 2016 "Un detenuto del carcere di Massama-Oristano da lunedì rifiuta la terapia farmacologica e il cibo per protestare contro la mancata consegna del computer e della stampante che utilizzava nella Casa Circondariale di Nuoro fino al 25 agosto scorso, quando è stato trasferito. L’uomo, Domenico Papalia, 71 anni, di Platì, ergastolano, in regime di AS1, è iscritto alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Ateneo di Pisa ma lamenta di non poter esercitare il diritto allo studio". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", sottolineando che "cinque mesi per verificare l’idoneità di un computer e di una stampante alle norme penitenziarie appaiono un tempo oggettivamente inconsueto, soprattutto per chi ha intrapreso un corso di studi e intende completarlo". "In una lettera inviata al Direttore della Casa di Reclusione di Oristano Pierluigi Farci e per conoscenza, tra gli altri, al Magistrato di Sorveglianza, al Ministro Orlando, al DAP nonché al Procuratore della Repubblica, nell’annunciare lo sciopero della fame, l’uomo dopo aver spiegato le ragioni del gesto, ricorda che continua a pagare le tasse universitarie - evidenzia Caligaris - senza però poter portare avanti gli studi in quanto il materiale didattico è memorizzato nel computer e pertanto inutilizzabile. Chiede inoltre che venga valutata l’ipotesi di reato di abuso d’ufficio". "Il 25 agosto 2015 - ha scritto Papalia - sono stato trasferito dalla Casa Circondariale di Nuoro alla Casa di Reclusione di Massama-Oristano. Giunto nell’attuale sede mi è stato trattenuto il computer personale il cui utilizzo mi era stato autorizzato da circa 13 anni e già privato dei collegamenti ed accessori non consentiti. A tutt’oggi sono trascorsi quasi cinque mesi attendo che mi venga consegnato il computer. Pago regolarmente le tasse universitarie a Pisa ma non posso studiare senza il materiale didattico". "L’uso dei computer per finalità di studio - ricorda Caligaris - è ammesso dal regolamento penitenziario e nel carcere oristanese viene utilizzato da molti cittadini privati della libertà. È ammissibile che prima della consegna, anche quando si tratta di un trasferimento da un Istituto ad un altro, possa essere sottoposto a controllo. Considerato l’ampio arco di tempo trascorso, occorre tuttavia verificare se non ci sia stato qualche contrattempo che abbia impedito la consegna al detenuto del computer. L’uomo peraltro 18 mesi orsono in seguito a un reclamo all’Ufficio di Sorveglianza di Nuoro in merito alla stampante ne aveva ottenuto l’uso almeno bisettimanale dal Magistrato per poter ottemperare alle sue esigenze di studio e per la stesura di un libro autobiografico. L’auspicio - conclude - è che al più presto si verifichino eventuali problematiche e si permetta al cittadino privato della libertà di proseguire nel suo impegno riabilitativo". Novara: Giornate di recupero del patrimonio ambientale con i detenuti, nuovo protocollo oknovara.it, 14 gennaio 2016 Sono ripartite ieri mattina le Giornate di recupero del patrimonio ambientale realizzate con l’impiego di detenuti della casa circondariale di Novara e coordinate da Assa. Obiettivo del progetto, praticamente unico in Italia, è di realizzare percorsi di inclusione sociale dedicati al recupero del patrimonio ambientale, del decoro urbano e, da quest’anno, dell’edilizia sociale grazie al lavoro dei detenuti prestato in maniera volontaria. Attraverso il protocollo dalla primavera del 2014 a tutto il 2015 sono state realizzate più di 350 giornate dedicate al recupero del patrimonio ambientale con il coinvolgimento complessivamente di 57 persone. Quella di ieri è la prima Giornata del nuovo protocollo che ha durata triennale, sino al 2018, e che vede un aumento delle giornate, in quanto si svolgeranno tutti i mercoledì, e con un maggior numero di soggetti coinvolti: salgono infatti a 9 detenuti volontari partecipanti in permesso premio per ogni giornata. A supportarli logisticamente e operativamente, oltre al personale Assa, vi sono i nuovi detenuti attivi in Assa, quattro a tempo pieno per un totale di 32 ore e mezza settimanali. Il luogo dell’intervento di mercoledì 13 gennaio è stato il parco Giubertoni, compreso tra la via Marco Polo e la via Pacinotti, e l’attività ha previsto il ripristino della staccionata, la riparazione degli arredi, la pulizia e il ripristino dei vialetti e la mondatura della vegetazione. Il sindaco Andrea Ballarè ha voluto essere presente nella grande area verde di Sant’Agabio per salutare il personale impegnato nell’intervento e sottolineare l’importanza del progetto. Il presidente di Assa, avvocato Marcello Marzo, si dice "felice che sia ripresa a pieno ritmo la collaborazione con il carcere di Novara grazie ai nuovi accordi. La durata triennale trasforma un progetto nato come speciale in esempio gestionale di medio periodo". Messina: detenuto in sedia a rotelle si alza e aggredisce cinque poliziotti penitenziari blogsicilia.it, 14 gennaio 2016 Sippe: dotare i poliziotti penitenziari di spray per la difesa personale. Intorno alle ore 16.00 di oggi, nel carcere di Messina Gazzi, un detenuto in sedia a rotelle, per futili motivi, si alza improvvisamente dalla sedia a rotelle e aggredisce cinque poliziotti penitenziari, tra i quali un ispettore di polizia penitenziaria. Il Detenuto avrebbe anche tentato di strangolare un agente mordendogli addirittura l’orecchio quasi a staccarlo. Il Dirigente Nazionale del Sippe Antonino Solano chiede che il Dap provveda a dotare il personale di polizia penitenziaria di spray per la difesa personale perché è inammissibile subire continue aggressioni. Solano chiede anche al Direttore del Carcere di accertare come sia stato possibile che un detenuto costretto a stare sulla sedia a rotelle sia potuto alzare improvvisamente ed aggredire agevolmente 5 poliziotti penitenziari. Padova: "Domani, forse"; i detenuti sospesi, la loro attesa in un video Gente Veneta, 14 gennaio 2016 "Domani, forse": questo il titolo del video artistico di 8 minuti che sarà presentato venerdì 15 gennaio alle ore 15 nella Casa Circondariale di Padova e realizzato con i detenuti da Tam Teatromusica, durante il laboratorio "Io era tra color che son sospesi". Dopo vent’anni di attività teatrale presso il Carcere Penale Due Palazzi, Tam Teatromusica nel 2014 ha dato vita a un progetto socio educativo dedicato alle persone detenute nella Casa Circondariale e che si è svolto dal novembre 2014 al novembre 2015, grazie al sostegno della Regione del Veneto. Il lavoro è stato ideato e condotto da Flavia Bussolotto, Loris Contarini e Raffaella Rivi, con l’aiuto di Nicolò Serafin. Il video è stato realizzato da Raffaella Rivi. Quello del Circondariale è un ambiente caratterizzato dalla sosta, dall’attesa e dalla sospensione, condizioni tipiche di coloro che sono in attesa di giudizio. È un luogo in cui è presente un flusso continuo di persone. Tam, dunque, porta anche in questo istituto la lunga esperienza maturata presso il Carcere Penale per offrire alle persone detenute nel Carcere Circondariale le stesse opportunità di coloro che sono detenuti nel Penale. Il video è allora il risultato di una riflessione condivisa con chi si vede privare la libertà proprio sul concetto di sospensione e attesa. Punto di partenza l’idea che la casa circondariale sia per sua natura una sorta di limbo e il verso di Dante che dà il titolo al progetto restituisce con efficacia la condizione di recluso in attesa di giudizio. Si è scelto di considerare questi temi come metafora di una condizione esistenziale universale. Napoli: "Sottozero", presentato lo spettacolo teatrale ispirato alla vita di Pietro Ioia di Mimmo Sica Roma, 14 gennaio 2016 Sabato e domenica andrà in scena, al teatro Bolivar, "Sottozero-Morte e rinascita di un uomo in gabbia", crudo e forte dramma carcerario di Sandro Dionisio, Pietro loia ed Antonio Mocciola. Lo spettacolo è stato presentato alla stampa nel foyer del teatro. Sono intervenuti il regista, gli autori e i protagonisti Ivan Boragine. Marina Biliwiller, che è anche assistente alla regia, e Diego Sommaripa. Il viaggio nell’incubo di un ragazzo napoletano. "Il teatro è l’ascolto del reale - ha dichiarato Sandro Dionisio - con questo progetto un po’ folle, abbiamo costruito lo spettacolo con grande umiltà. "Sottozero" si ispira alla storia vera di Pietro loia ed è il viaggio nell’incubo di un ragazzo napoletano che invecchia nel carcere di Poggioreale e ne esce dopo 22 anni trovando la forza di raccontare le vessazioni subite e le ingiustizie patite. E una denuncia che facciamo al sistema carcerario. Penso che un teatro ben assistito possa cambiare la cultura di un popolo. La scenografia è sobria ed essenziale e non mancano scene molto dure". Pietro, da detenuto ad attivista. Pietro Ioia, che nello spettacolo interpreterà il ruolo del suo secondino aguzzino, ha trasformato la sua vita, da detenuto ad attivista. Oggi è il presidente dell’associazione "Ex Detenuti di Poggioreale". "È giusto che chi sbaglia paghi - ha dichiarato - ma è assolutamente necessario gestire il tutto con dignità e rispetto. I drammi della cella zero del carcere di Poggioreale umiliano gratuitamente i carcerati attraverso torture fisiche e psicologiche che non possono continuare ad esistere, ed attraverso questo spettacolo si condannerà quest’aspetto oscuro della vita dietro le sbarre. Due anni fa sono stato il primo a denunciare questo stato di cose alla Procura delle Repubblica e qualche cosa è cambiata. Lo Stato ha fallito perché chi esce dal carcere non trova lavoro e riprende a delinquere". Le atroci torture della cella zero. Ivan Boragine vestirà i panni di Pietro loia, quindi del detenuto costretto a subire atroci torture nella crudele cella zero. "È stato fondamentale avere il vero protagonista della vicenda reale come compagno di lavoro. Grazie a lui ho costruito il mio personaggio che è molto difficile e complesso. La nostra è una denuncia al sistema". Dello stesso avviso Diego Sommaripa, nei panni del compagno di cella del protagonista, entrato in seconda battuta nel cast dello spettacolo, ma fiero di poter dare il proprio contributo a questo lavoro di denuncia sociale. Marina Biliwiller, unica donna del cast, vestirà i panni della moglie del protagonista, vittima parallela di un esilio lungo 22 anni. Dare voci a fatti che non riescono a farsi sentire. "Con questo spettacolo - ha affermato - il teatro vuole dar voce a fatti che non riescono a farsi sentire. Da avvocato, è doveroso dire come in molti conoscano le tristi vicende della cella zero di Poggioreale, ma in pochissimi hanno il coraggio di denunciare le atroci sofferenze gratuite subite dai carcerati". Antonio Mocciola, deus ex machina del progetto, è stato folgorato da un’intervista a Pietro loia ed ha deciso di contattarlo per trovare il modo di raccontare questa vicenda senza le edulcorazioni della fiction e senza i fronzoli di un film hollywoodiano: è nato così "Sottozero", uno spettacolo volutamente crudo e molto fedele alla ricostruzione della realtà, senza risparmiarsi scene di violenza e di umiliazione esplicite. L’eutanasia legale in Aula, alla Camera, a marzo. L’Italia rompe il tabù di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 gennaio 2016 Per la prima volta il parlamento si prepara a discutere una legge sull’eutanasia. Nel calendario trimestrale dei lavori della Camera ora è fissata anche una data di massima: entro marzo. Così ha deciso ieri la conferenza dei capigruppo inserendo nell’agenda dell’Aula il testo sul "Fine vita" presentato da Sinistra italiana che ricalca la proposta di legge di iniziativa popolare depositata nel settembre 2013 e sottoscritta da oltre 105.000 cittadini nell’ambito della campagna "Eutanasia legale" promossa soprattutto dalla galassia del Partito radicale. La notizia arriva via twitter dal presidente dei deputati di Si, Arturo Scotto, proprio nel giorno in cui trapelano indiscrezioni sulla morte di David Bowie che, secondo la ricostruzione di alcuni media Usa, avrebbe fatto ricordo al suicidio assistito, peraltro legalizzato dall’ottobre scorso anche in California, il quinto degli Stati uniti dopo l’Oregon, il Vermont, Washington e il Montana. Non è stato facile aprire questo primo spiraglio italiano, riferisce Scotto: "Da quattro mesi mi batto contro l’opposizione delle destre e la freddezza di Pd e M5S, ma ora siamo riusciti ad inserirla nelle proposte in quota Sel. La legge dovrà arrivare in Aula entro marzo a meno che non sia concluso l’iter nelle commissioni Affari sociali e Giustizia dove al più presto verrà avviato". Gioiscono Marco Cappato, Filomena Gallo e Mina Welby, a nome dell’Associazione Luca Coscioni e di Radicali italiani: "Abbiamo compiuto un altro importante passo verso la legalizzazione e il governo di un fenomeno sociale sempre più importante nella società italiana". I tre radicali si dicono fiduciosi "nell’opera che gli oltre 225 Parlamentari aderenti agli obiettivi dell’intergruppo compiranno ora in Commissione e in Aula". Anche Sinistra italiana assicura che non abbasserà la guardia ma in ogni caso i Radicali promettono: "La battaglia prosegue per realizzare il prossimo traguardo: l’effettiva trattazione prima in Commissione e poi in Aula della legge di iniziativa popolare per la legalizzazione dell’eutanasia e del testamento biologico". Nei dodici articoli del testo della legge calendarizzata, a prima firma della deputata di Sel Marisa Nicchi che coordina l’intergruppo parlamentare, sono normate le dichiarazioni anticipate di fine vita e l’eutanasia, ossia "l’atto praticato da un terzo, che mette volontariamente fine alla vita di una persona" che lo ha esplicitamente richiesto. L’articolo 2 prescrive le condizioni nelle quali "ogni persona maggiorenne, qualora tema di perdere la propria capacità di intendere e di volere, mediante un’apposita dichiarazione scritta anticipata, può esprimere la volontà che gli venga praticata l’eutanasia". E viene istituita "presso il Ministero della salute, la Commissione nazionale di controllo e valutazione". Un primo ma importante passo che è stato ottenuto grazie anche alla battaglia di alcuni malati terminali, ricordano i Radicali, "a partire da Luigi Brunori, che proprio nei giorni scorsi è morto, a Max Fanelli, Walter Piludu e Ida Rescenzo, che si sono rivolti a più riprese al parlamento. Non saremmo arrivati a questo risultato senza la forza e la generosità della militante radicale Dominique Velati, che ha restituito alla conoscenza degli italiani un tema altrimenti tabù per il potere italiano". E da quando, a dicembre, Cappato si è autodenunciato per aver aiutato anche economicamente l’infermiera malata di cancro a raggiungere una clinica svizzera dove ha potuto ottenere il suicidio assistito con l’aiuto dell’associazione Dignitas, sono circa 50 le persone che si sono rivolte all’associazione radicale "Sos Eutanasia". Matteo Minardi ne traccia una sorta di identikit: "Sono uomini e donne in egual misura, soprattutto residenti nel Nord Italia, per la maggior parte malati di cancro ma anche di patologie degenerative come la Sla o la distrofie muscolari". Se la procura non aprirà un fascicolo sull’operato di Cappato (e al momento non lo ha fatto) per tutti loro si aprono nuove prospettive: "Lo consideriamo - conclude Minardi - un via libera ad aiutare altri malati terminali". Le migrazioni di massa in Europa non possono essere fermate di Gideon Rachman Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2016 Nel 18° e 19° secolo l’Europa ha popolato il mondo. Oggi il mondo sta popolando l’Europa. Al di là delle tensioni scatenate dall’arrivo nel 2015 in Germania di oltre un milione di rifugiati, si impone la realtà delle grandi tendenze demografiche. L’attuale crisi migratoria è alimentata dalle guerre nel Medio Oriente, ma altre dinamiche ancor più rilevanti fanno sì che l’immigrazione verso l’Europa continuerà a rappresentare una questione controversa ben oltre la fine della guerra in Siria. L’Europa è un continente ricco che sta invecchiando e la cui popolazione è stagnante. Al contrario, l’Africa, il Medio Oriente e l’Asia del Sud, aree più giovani e povere, crescono velocemente. Al culmine dell’età imperiale, nel 1900, i Paesi europei vantavano il 25% della popolazione mondiale. Oggi, gli europei sono circa 500 milioni e rappresentano attorno al 7% degli abitanti del pianeta. In Africa, al contrario, ci sono ora più di un miliardo di persone e, secondo l’Onu, diventeranno 2,5 miliardi nel 2050. La popolazione dell’Egitto è raddoppiata dal 1975, raggiungendo gli oltre 80 milioni di oggi. La Nigeria aveva 50 milioni di abitanti nel 1960, che ora sono cresciuti a 180 milioni e nel 2050 saranno oltre 400. Le migrazioni in Europa di africani, arabi e asiatici segnano il capovolgimento di una tendenza storica. Nell’era coloniale, l’Europa praticò una sorta di imperialismo demografico, con le sue popolazioni bianche che emigravano ai quattro angoli del mondo. Nel Nord America e in Australia gli indigeni furono sottomessi, spesso uccisi, e interi continenti furono trasformati in propaggini dell’Europa. I Paesi europei, inoltre, crearono colonie ovunque e vi insediarono i propri emigranti, mentre allo stesso tempo diversi milioni di persone furono costretti a emigrare con la forza, come schiavi, dall’Africa verso il Nuovo Mondo. Quando gli europei popolavano il mondo, spesso lo facevano attraverso una "migrazione a catena". Dapprima, il membro di una famiglia si insediava in un nuovo Paese come l’Argentina o gli Usa; poi, notizie e denaro arrivavano a casa e, infine, non molto tempo dopo, altri emigranti seguivano le orme dei primi. Ora, la catena si muove nella direzione opposta: dalla Siria alla Germania, dal Marocco ai Paesi Bassi, dal Pakistan alla Gran Bretagna. Tuttavia, di questi tempi non è più questione di una lettera giunta a casa e seguita da un lungo viaggio per mare. Nell’era di Facebook e degli smartphone, l’Europa appare vicina anche se vi trovate a Karachi o a Lagos. Negli ultimi quarant’anni, Paesi come il Regno Unito, la Francia e l’Olanda sono diventati molto più multirazziali. E i Governi che si impegnano a imporre un giro di vite all’immigrazione, come l’attuale esecutivo inglese, si sono accorti che è poi molto difficile mantenere le promesse. Una carta dei valori per i profughi di Giovanna Zincone La Stampa, 14 gennaio 2016 Giorni duri e forti sfide per Angela Merkel. All’esterno, l’atto terroristico di Istanbul, che ha colpito cittadini tedeschi, genera un supplemento di inquietudine. All’interno, alle aggressioni di Capodanno seguono ronde neonaziste ed emergono progetti di attentati a centri profughi e moschee: è un pericoloso "scontro di inciviltà" che va sedato in tempo. Tra i due eventi ci sono, purtroppo, spinosi punti di contatto. Il kamikaze di Istanbul, un infiltrato saudita, aveva fatto domanda di asilo, l’aggressione anti-ragazze ha coinvolto anche molti profughi. La politica di Merkel di apertura ai rifugiati, che già aveva suscitato forti opposizioni nel suo partito ed era in fase di revisione, oggi è in aperta crisi. Altro punto di contatto tra Colonia e Istanbul: i Paesi di provenienza dei facinorosi sono musulmani, anche se di ben diverse colorazioni. Dopo gli eventi in Germania, l’opinione pubblica europea, quella femminile in particolare, torna a interrogarsi sulla compatibilità tra religione musulmana e rispetto delle libertà, della dignità delle donne. Ma se vogliamo aprire la questione a partire dal Capodanno nero, su quell’evento serve più chiarezza. Chi sono gli aggressori? Non devoti dell’Islam, altrimenti non girerebbero in preda a ubriachezza più che molesta. Si comportano piuttosto da maschi primitivi frustrati nei loro appetiti. Assaltano le ragazze di un ricco Paese che non dà loro quanto sperano di avere. Esternano avidità e rabbia saccheggiando: rubano soprattutto sesso, ma non solo. Spero di sbagliarmi, ma la violenza dello Stato Islamico, anche quella attuata in Paesi musulmani come la Turchia, rafforza il primitivismo aggressivo se è percepita come vincente. A quel primitivismo si deve, perciò e a maggior ragione, rispondere con sanzioni forti ed esemplari. Rimane aperto, però, il problema più generale. Una parte di chi arriva da società culturalmente arretrate, da Paesi prevalentemente musulmani (ma non solo da lì), mostra un rispetto nei confronti delle donne ben più basso di quello che mediamente si pratica in Europa, che pure non è eccelso. Come ha ribadito chiaramente Emma Bonino su "La Stampa", ai profughi "va fatto capire che i diritti umani, compresi quelli delle donne, sono universali", perciò se vogliono accoglienza devono rispettarli. Quindi, chi chiede a qualunque titolo ospitalità nei nostri Paesi deve conoscere i principi cardine dei nostri ordinamenti e della nostra cultura pubblica e impegnarsi a rispettarli. La carta dei valori, voluta da Amato quando era ministro dell’Interno, che dovrebbe sottoscrivere chi immigra in Italia, va presa più sul serio. Dovrebbe essere resa comprensibile anche da persone impreparate e culturalmente distanti, andrebbero ridotte le attuali troppo numerose esenzioni, per cui a sottoscriverla sono di fatto ben pochi, e infine dovrebbe essere presentata anche ai richiedenti asilo. Certo, l’integrazione degli immigrati, rifugiati inclusi, si gioca su una scacchiera ben più vasta di questo genere di interventi: lo stato di salute del mercato del lavoro, l’atteggiamento diffuso e quotidiano nei confronti degli immigrati, e degli immigrati verso i nazionali, il contesto internazionale e quant’altro. Ma se crediamo, seppure limitatamente, alle misure di integrazione mirate, come la carta dei valori o i corsi di educazione civica, è il caso sia di rafforzarle, sia di indirizzarle più sistematicamente anche ai rifugiati. Chi solleva critiche formali e sostanziali a questo tipo di strategia, dovrebbe tener presente che accettare doveri e compiti giova soprattutto agli stessi rifugiati, perché hanno un disperato bisogno di recuperare solidarietà nei Paesi che li "accolgono" sempre più obtorto collo. Non vogliamo che siano le troppe morti di bambini nel Mediterraneo a comprare quella solidarietà. Chiedere ai richiedenti asilo di sottoscrivere la carta dei valori, avendone capito il senso, è un passo nella direzione giusta: così facendo affermerebbero pubblicamente di sapere in quale territorio culturale e giuridico stanno entrando e di accettarne le regole. Un altro passo utile per abbassare la temperatura dello "scontro di inciviltà" consiste nell’includere i rifugiati in attività di volontariato; tra l’altro, li salva dal peggiore dei loro mali: la noia. A questo scopo basta estendere sistematicamente esperimenti già fatti. Su questi progetti il Piemonte è all’avanguardia e i suoi amministratori locali si muovono con accortezza: ad esempio, per evitare la solita reazione del "pensate sempre a loro e mai a noi italiani", sulle pettorine dei rifugiati che puliscono le strade a Savigliano si legge che lo fanno a titolo gratuito. Sono strategie che servono a togliere un po’ di combustibile allo "scontro di inciviltà". In questo scontro, che vede al centro anche la condizione delle donne, quale dovrebbe essere la posizione di noi femministe? Che posizione dovremmo prendere, in particolare, nei confronti del credo musulmano? Quella religione, che ha molte versioni e fazioni, è nelle sue interpretazioni prevalenti sostanzialmente sessista, talora violentemente sessista, come lo sono tante religioni, nei tempi, nei luoghi e nelle comunità che non hanno subito processi di modernizzazione liberale, dove i movimenti femministi non hanno potuto far sentire la propria voce. La nostra voce femminista, quella di noi che possiamo esprimerci, dovremmo farla sentire più spesso, senza imbarazzi da correttezza politica. La Danimarca confischerà ori e averi ai profughi di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 14 gennaio 2016 È sbarcata ieri nel Palazzo di Christiansborg, sede del parlamento, la proposta di legge del premier liberale Lars Løkke Rasmussen per requisire ori, gioielli e soldi ai profughi in arrivo in Danimarca come contributo per le spese di soggiorno. Non è ancora chiaro se i denti d’oro saranno compresi nel "bottino", che però ufficialmente viene definito "prelievo fiscale" e si inserisce in una legge più complessiva, una riforma, che va a modificare la legge sull’immigrazione risalente al 1951. Le opposizioni socialdemocratiche e rosso-verdi con le loro critiche al vetriolo - le confische somigliano tanto le razzie dei nazisti agli ebrei in fuga e internati nei campi, lo ha detto anche l’Unhcr - finora hanno portato il governo di destra solo a alzare il tetto dei beni non confiscabili perché di scarso valore, passato dalle 3 mila corone, pari a 402 euro, della versione iniziale presentata prima di Natale alle attuali 10 mila corone, circa 1.350 euro. Restano esentati dalla confisca i beni "di particolare significato personale" come fedi nuziali e orologi d’epoca, ma resta da vedere l’interpretazione della norma e la sua effettiva applicazione. L’obiettivo del provvedimento sui sequestri, che dovrebbe essere votato il prossimo 26 gennaio dalla Folketing, la Camera danese, è esplicito: scoraggiare gli arrivi di profughi. è lo stesso relatore, la ministra per l’Integrazione - si chiama così il suo dicastero - Inger Støjberg a parlarne nei termini di "misure di austerità per ridurre al minimo l’afflusso di migranti", insieme all’estensione dei controlli ai valichi di frontiera con la Germania che da pochi giorni hanno sospeso il trattato di Schengen. "Se un cittadino danese ha beni di valore superiori a 10mila corone deve venderli se vuole accedere al sussidio di disoccupazione", ha dichiarato la ministra per difendere la pretesa universalità della misura. Il partito del premier (Venstre) non ha vinto le elezioni della scorsa estate ma è riuscito lo stesso a spodestare i socialdemocratici, rimasti primo partito dopo le dimissioni della leader Helle Thorning-Schmidt, travolta da uno scandalo, solo grazie all’appoggio esterno del partito nazionalista e xenofobo Dansk Folkeparti (Partito del Popolo). La nuova legge sull’immigrazione e la politica anti immigrati è il collante fondamentale dell’alleanza. Il fatto che ciò "alimenti la paura e la xenofobia", come denuncia l’agenzia Onu per i rifugiati, non è un deterrente per i proponenti. Anzi, come fa notare la portavoce della Coalizione rosso-verde Johanne Schmidt-Nielsen, il governo non teme di far finire la Danimarca in cattiva luce "credo sia piuttosto soddisfatto, perché scoraggia i profughi dal chiedere asilo in Danimarca". Non che siano tantissimi: l’anno scorso i richiedenti asilo in Danimarca sono stati 21 mila ma in base alla ripartizione in quote decisa dalla Commissione europea dovrebbero raggiungere i 160 mila. La nuova legge sull’immigrazione inserisce altri deterrenti: i tempi per i ricongiungimenti familiari slittano a tre anni, ottenere la residenza sarà più difficile e i minori non accompagnati (oltre 2 mila nel 2015) dovranno passare 6 mesi nei centri di prima accoglienza per poi passare alla tutela delle famiglie affidatarie. Il premier bulgaro Borisov "chiudiamo frontiere, necessario per arrestare flusso rifugiati" Nova, 14 gennaio 2016 È necessario chiudere le frontiere per interrompere l’afflusso di rifugiati. Lo ha detto il primo ministro della Bulgaria, Bojko Borisov, durante una sessione parlamentare che si è svolta oggi a Sofia. Il premier ha dichiarato che è necessaria la chiusura delle frontiere per fermare l’afflusso di rifugiati, aggiungendo che il governo bulgaro ha sempre mantenuto una posizione ferma sulla crisi dei rifugiati. Secondo il primo ministro bulgaro l’accordo di Dublino, sull’accoglienza dei migranti, non starebbe funzionando poiché necessita di essere implementato con l’applicazione delle quote di rifugiati e la chiusura immediata delle frontiere. Borisov ha chiesto l’immediato arresto dell’afflusso di rifugiati, così come fatto dagli Stati Uniti, riferisce il quotidiano "Dnevnik". Secondo Borisov fino a quando l’attuale crisi non si risolverà i nuovi rifugiati non dovrebbero essere ammessi nei paesi. Secondo il primo ministro bulgaro coloro che sono già entrati nell’Ue devono essere ricollocati, integrati e messi nella condizione di lavorare, di ricevere istruzione e assistenza sociale. Il premier bulgaro rimane fermo dell’idea che solo i profughi in fuga dalle guerre dovrebbero essere ammessi, mentre tutti gli altri dovrebbero tornare nei rispettivi paesi. Borisov ha sottolineato poi che attualmente i migranti detenuti alle frontiere bulgare sono prevalentemente di origine afgana. La Bulgaria - ha detto - ha sostenuto la politica delle quote, ma la loro attuazione risulta difficile poiché lo spostamento dei migranti all’interno dell’Unione europea è difficile da controllare. Inoltre in Bulgaria ci sono stati molti casi di migranti in fuga dal centri di accoglienza per rifugiati. Borisov ha osservato che gli Stati europei hanno mantenuto opinioni diverse sulla questione dei migranti e che i recenti eventi hanno dimostrato che la loro integrazione sarà difficile. La vicenda dei marò. Affari e missili, i dossier segreti di Danilo Taino Corriere della Sera, 14 gennaio 2016 Il caso dei due marò sta lentamente uscendo dall’esclusiva gestione indiana. Primo, Massimiliano Latorre è in Italia, in convalescenza, e dovrebbe rimanerci fino a quando un collegio arbitrale internazionale non avrà deciso dove si terrà il processo per l’uccisione di due pescatori dello Stato indiano del Kerala, il 15 febbraio 2012 (decisione che probabilmente non ci sarà prima del 2017). Secondo, Salvatore Girone è ancora a Delhi, in libertà provvisoria, ma una richiesta italiana affinché sia lui sia Latorre possano attendere in patria i risultati del giudizio arbitrale sulla giurisdizione è già stata avanzata al collegio dei cinque arbitri stesso: una decisione è attesa entro marzo. Terzo, la richiesta della Corte Suprema, ieri, al governo indiano per sapere come e con che tempi intende affrontare l’arbitrato internazionale sottintende il fatto che la Corte stessa ha accettato l’idea che d’ora in poi la decisione procedurale su come e dove tenere il processo ai due militari italiani non sia più in mano alla giustizia indiana, che lo ha gestito per oltre tre anni, ma a un collegio arbitrale internazionale composto da cinque giudici, uno italiano, uno indiano e tre indipendenti. Il fatto che il governo indiano non si sia opposto a questa interpretazione è un dato di fatto positivo, soprattutto considerando la reazione molto forte che si era scatenata martedì sera in India dopo che il senatore Nicola Latorre (nessuna parentela), presidente della Commissione Difesa del Senato, aveva assicurato che il marò Latorre non sarebbe tornato in India (dichiarazione discussa anche ieri nell’udienza della Corte Suprema). Quarto, su un livello diverso da quello giudiziario, è in corso un’iniziativa diplomatica di Roma per spingere Delhi a favorire una soluzione non conflittuale della questione della giurisdizione, cioè su dove tenere il processo a Girone e Latorre. Su questo versante, durante l’udienza di ieri a Delhi il governo indiano ha un po’ deluso le aspettative di Roma, presentandosi, attraverso l’avvocato dello Stato, senza dire nulla di nuovo. Nelle prossime settimane, però, l’esecutivo guidato da Narendra Modi dovrà probabilmente uscire allo scoperto. Non solo perché la Corte Suprema gli ha chiesto di presentare in forma scritta, il 13 aprile, la sua posizione sull’arbitrato. Quanto perché le pressioni diplomatiche italiane in corso suggeriscono che nei prossimi mesi Delhi avrebbe interesse a essere collaborativa, a trovare un modo pacifico per attendere che il collegio arbitrale decida sulla giurisdizione (il che significa favorire, nel frattempo, il rientro in Italia di Girone). Non è detto che il governo indiano si muova verso un atteggiamento accomodante, finora non l’ha fatto. Fatto sta che, se continuerà a tenere una posizione di chiusura, continuerà a rallentare almeno un paio di dossier che il governo Modi ritiene importanti. Uno è la riapertura dei colloqui per un trattato bilaterale tra India e Ue per la liberalizzazione commerciale. I colloqui sono bloccati da tempo, l’idea sarebbe quella di riaprirli (nei prossimi giorni si terrà una riunione tecnica) ma l’Italia potrebbe rallentare il processo, come pare abbia già fatto in passato al punto che lo stesso Modi ha dovuto cancellare un viaggio a Bruxelles proprio perché la vicenda dei due marò impediva che si facessero passi avanti su questo dossier. Il secondo è l’accesso dell’India a un club di Paesi, l’Mtcr, che controlla il commercio di tecnologia missilistica. Roma ha già messo il veto sull’ingresso di Delhi in autunno e promette di farlo di nuovo a una riunione che si terrà in primavera se la vicenda dei marò non farà passi avanti. Della questione si interessa anche la Casa Bianca: Barack Obama aveva promesso a Modi l’ingresso nel prestigioso Mtcr ma l’opposizione italiana tiene fermo tutto. A fine marzo, il primo ministro indiano sarà a Washington per una conferenza sul nucleare e se tornasse a casa senza ottenere niente sul versante Mtcr, che al nucleare è collegato, dovrebbe dare qualche risposta politica. Detto questo, l’India non è famosa per cedere sui contenziosi internazionali. Nonostante le iniziative di Roma, nonostante la pressione di Obama potrebbe volere tenere rigida la posizione sui marò. Tutto, in quel caso, resterà nelle mani dell’arbitrato internazionale. Turchia: fiori e arresti, Istanbul blindata. "Il killer era arrivato come profugo" di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 14 gennaio 2016 L’attentatore sarebbe Nabil Fadli, nato in Arabia Saudita nel 1988, di recente vissuto in Siria, molto probabilmente militando tra i ranghi di Isis, e quindi arrivato in Turchia come profugo. L’esplosione ha letteralmente smembrato e ridotto a pezzettini il corpo del kamikaze, che martedì mattina ha ucciso dieci turisti e ferito altri quindici, quasi tutti tedeschi. Gli agenti della scientifica turca lo avrebbero comunque egualmente identificato grazie ai monconi delle dita ritrovati sul luogo dell’attentato. Il premier Ahmet Davutoglu ha aggiunto ieri nuovi particolari alle rivelazioni che aveva già fatto martedì sera. Si tratterebbe di Nabil Fadli, nato in Arabia Saudita nel 1988, di recente vissuto in Siria, molto probabilmente militando tra i ranghi di Isis, e quindi arrivato in Turchia come profugo. Un centro di accoglienza per migranti, a Istanbul lungo il Bosforo, ha registrato la sua richiesta di asilo il 5 gennaio. Come per tutti, sono state rilevate le sue impronte digitali. Da qui il riconoscimento. Con lui c’erano altri quattro giovani. Che siano altrettanti potenziali attentatori? La domanda è legittima e giustifica lo stato d’allarme che adesso prevale in Turchia. A Istanbul la polizia è onnipresente sui luoghi turistici, di fronte agli edifici pubblici, in particolare all’entrata di grandi alberghi, stazioni degli autobus e aeroporti. "Mai stati così controllati. Ci sono ora più agenti in borghese che visitatori. Forse sarebbe stato meglio ci fossero prima", sostengono tra l’ironico e lo scettico nei ristorantini e negozietti che attorniano Sultanahmet, non lontano dal cosiddetto Obelisco di Teodosio, dove è avvenuto il massacro. I media locali offrono il quadro di una massiccia caccia all’uomo. Ai 59 arrestati di martedì, ieri se ne sono aggiunti un’altra quindicina, di cui almeno quattro indicati come militanti inequivocabili di Isis. In tutto dunque ben oltre 70: non è chiaro quanti siano stati rilasciati. E le operazioni delle forze sicurezza avvengono a ventaglio in tutto il Paese. Perquisizioni e fermi ad Ankara, dove pare fosse imminente un attentato, ma anche a Smirne, Salinurfa, Adana e soprattutto nei centri urbani e le regioni lungo i 1.000 chilometri di confine con la Siria. Uno dei villaggi più delicati resta Kilis, che sino a pochi mesi fa era un vero e proprio passaggio di frontiera con tanto di timbri che dalla Turchia permetteva di raggiungere Aleppo attraverso i posti di blocco controllati da Isis. Ad Antalya, la cittadina costiera nota per le spiagge e gli stabilimenti balneari molto gettonata tra le agenzie viaggio di Mosca, sono stati arrestati anche tre cittadini russi. Potrebbero essere ceceni, o comunque provenienti dalle province a maggioranza islamica (sono circa 3.000 i russi militanti con Isis tra Siria e Iraq). Una mossa che pare comunque creare poche preoccupazioni tra i rari turisti russi ancora nel Paese dopo le recenti tensioni tra Ankara e Mosca. "Una volta il nostro presidente Putin e quello turco Erdogan erano amici per la pelle. Poi hanno cominciato a spararsi contro. Sono due autoritari con poco senso delle proporzioni. Se sono diventati nemici tanto velocemente, con altrettanta facilità potrebbero tornare a cooperare. In ogni caso, non è un buon motivo per rovinare le nostre vacanze", dicono Tatiana Apt, 68 anni, e il marito Alexander, 65, due pensionati moscoviti incontrati presso la biglietteria della moschea di Agia Sofia. La visita ieri sul luogo dell’attentato da parte del ministro degli Interni tedesco Thomas de Maizière è stata l’occasione per rinsaldare il già solido rapporto tra Ankara e Berlino. Una relazione antica quella turco-tedesca, ultimamente corroborata dai fondi europei voluti da Angela Merkel per aiutare il governo Erdogan a far fronte all’emergenza migranti e limitarne il flusso verso l’Europa. Il ministro degli Interni turco, Efkan Ala, ha approfittato della conferenza stampa col tedesco per ribadire le difficoltà del suo Paese costretto a far fronte alla cifra di due milioni e mezzo di profughi siriani dal 2011. "Il terrorista suicida non era su alcuna lista di ricercati locale o internazionale, ma era stato registrato da noi come immigrato", ha ribadito, specificando che negli ultimi giorni ben 36.000 persone provenienti da 124 Paesi hanno fatto richiesta di asilo in Turchia. Tunisia: Essebsi concede grazia a 1.609 detenuti, tra cui 885 consumatori di cannabis Nova, 14 gennaio 2016 Il presidente della Tunisia, Beji Caid Essebsi, ha deciso oggi di concedere la grazia a 1.609 detenuti, tra cui 885 condannati per consumo di cannabis, alla vigilia del quinto anniversario della rivoluzione che ha deposto il regime di Ben Ali il 14 gennaio 2011. In tal senso il capo dello Stato ha ricevuto quest’oggi a Palazzo Cartagine il nuovo ministro della Giustizia, Omar Mansour, e una delegazione del dicastero. Nel corso della riunione, il presidente Essebsi ha parlato della revisione della legge 52 in materia di consumo di droga, auspicando che questa legge eviti che il futuro dei giovani sia distrutto per uno spinello. La legislazione approvata lo scorso 30 dicembre dal Consiglio dei ministri evita il carcere per chi viene sorpreso per la prima volta a fumare cannabis. "Fumando uno spinello un giovane rischia un anno di prigione, e questo è un peccato. Ho letto il progetto preparato dal ministero della Giustizia; questo testo contiene diverse modifiche sulle sanzioni ed è una buona cosa", ha detto il presidente Essebsi nei giorni scorsi. Proprio ieri il Polo democratico modernista tunisino (al Qutb) ha invitato il presidente Essebsi a concedere la grazia a coloro che sono stati condannati per il consumo di cannabis. Attraverso una nota, al Qutb ha spiegato che questa proposta è stata lanciata per alleviare le sofferenze dei detenuti e delle loro famiglie e per aiutare i detenuti nel loro reinserimento nella società. Iran: lo strano caso dei 10 marinai detenuti dai pasdaran di Chiara Cruciati Il Manifesto, 14 gennaio 2016 Dopo poche ore Teheran rilascia i marinai fermati nello Stretto di Hormuz. La Casa Bianca ringrazia e smorza le tensioni, la Repubblica Islamica tiene il punto e salva lo stop alle sanzioni. Mentre Obama parlava alla nazione, nello Stretto di Hormuz si consumava l’ennesimo screzio tra Stati uniti e Iran. L’episodio si è concluso con un nulla di fatto, ma resta indicativo delle permanenti tensioni che stritolano il Medio Oriente. A pochi giorni dalla fine delle sanzioni contro Teheran, lascito dell’accordo sul nucleare, la Repubblica Islamica ricorda alle potenze occidentali che si accingono al tavolo del negoziato siriano che quella striscia di mare è iraniana e che Teheran è partner essenziale per la pace diplomatica. Un episodio dal sapore di guerra fredda: martedì notte la marina iraniana ha intercettato e fermato due navi statunitensi vicino all’isola di Farsi nel Golfo Persico. Le due imbarcazioni militari erano entrate in acque iraniane poco prima. Dieci marinai sono stati prelevati e detenuti dalle Guardie Rivoluzionarie, che li hanno interrogati in merito allo sconfinamento. Secondo un funzionario della difesa Usa, le imbarcazioni si trovavano nella zona per fare rifornimento, sulla via dal Kuwait al Bahrain. Una volta verificato - dicono le autorità iraniane - che si era trattato di un atto involontario, i marinai sono stati rilasciati. Prima del rilascio Teheran avrebbe chiesto a Washington di scusarsi ufficialmente, per poi chiudere il caso definendolo un "incidente": "Le prove mostrano che sono entrati involontariamente in acque iraniane per un errore del sistema di navigazione", ha detto il protavoce delle Guardie Rivoluzionarie. Ieri pomeriggio, scortati dagli iraniani, i dieci sono tornati a bordo delle proprie imbarcazioni, secondo quanto dichiarato dalla marina di Washington. Che, come Teheran, affossa l’episodio e smorza la tensione: "Non ci sono indicazioni che i marinai siano stati maltrattati durante la breve detenzione", si legge in un comunicato della marina, mentre il segretario di Stato Kerry ringraziava le autorità iraniane "per la loro cooperazione nel risolvere velocemente la questione". Per la Casa Bianca il caso è chiuso. È necessario stemperare fonti di tensione a 12 giorni dal negoziato siriano in cui l’Iran gioca un ruolo centrale. Ma soprattutto Obama (che nel discorso sullo stato dell’Unione ha celebrato l’accordo sul nucleare) non intende macchiare uno dei principali risultati archiviati dalla sua amministrazione, che sul collo ha il fiato dei repubblicani che continuano a minacciare di cancellarlo una volta alla presidenza. Stesso dicasi per la Repubblica Islamica che si è limitata a compiere un atto simbolico, mentre il mondo sta per sospendere definitivamente le sanzioni economiche. La fine dell’embargo permetterà una rifioritura dell’economia iraniana che aspetta lo scongelamento di beni finanziari per un valore stimato che va dai 56 ai 100 miliardi di dollari, oltre agli affari che compagnie pubbliche e private potranno ora stipulare con quelle europee e statunitensi. Un ammontare di denaro con cui finanziare progetti infrastrutturali e dare così una decisa spinta all’occupazione. Zimbabwe: pubblico ministero, esecuzioni capitali sospese a causa della mancanza di boia Nova, 14 gennaio 2016 Le autorità dello Zimbabwe non stanno portando avanti le esecuzioni capitali a causa della mancanza di boia. È quanto dichiarato oggi dal pubblico ministero di Harare, Olivia Zvezdi, in risposta a una causa intentata dai condannati a morte che lamentano l’incertezza del loro periodo trascorso nel braccio della morte, definito incostituzionale dai loro avvocati. Secondo questi ultimi, come riporta l’emittente britannica "Bbc", il lungo periodo trascorso in attesa di essere giustiziati costituisce un trattamento "degradante e inumano, in quanto provoca uno stato d’animo di angoscia psicologica paragonabile alla tortura". I detenuti chiedono pertanto che le loro condanne a morte siano commutate in ergastolo. L’ultima volta che un prigioniero è stato condannato a morte nello Zimbabwe è stato nel 2005. Attualmente nel paese ci sono 76 detenuti nel braccio della morte, alcuni dei quali da più di 20 anni. In risposta alla causa portata avanti dai condannati, è atteso nelle prossime settimane un pronunciamento della Corte costituzionale. Tunisia: torture e test umilianti per i gay incarcerati di Paolo Hutter La Repubblica, 14 gennaio 2016 La testimonianza di uno studente condannato insieme ai suoi amici dopo la denuncia del guardiano del campus. La polizia aveva trovato video gay nel computer. In prigione i ragazzi sono stati sottoposti a violenze psicologiche e fisiche. Depenalizzazione degli atti omosessuali o effettiva applicazione dell’articolo 230 che li punisce. La partita è più che mai aperta in Tunisia, il paese che proprio in questi giorni festeggia i 5 anni della sua rivoluzione contro la dittatura. Nei primi mesi dell’anno scorso ha fatto sensazione l’esordio pubblico della associazione Shams per la depenalizzazione dell’omosessualità in Tunisia autorizzata dal governo. Le pressioni islamiche. Ma, pressato dall’ala islamista, il governo sta facendo marcia indietro e ha disposto una sospensione di Shams, ora sotto esame della magistratura. Nell’autunno una corte ha condannato a un anno e mandato in prigione un ragazzo, Marwen, sottoposto a un "test anale" - condannato dalle Ong e da molti media per la sua assurdità. L’avvocata Fadoua Braham l’ha fatto scarcerare in appello, dove la condanna è stata ridotta a due mesi. A Kairouan il primo dicembre 6 studenti sono stati condannati a ben 3 anni di carcere. Ma il processo d’appello si svolge nella più evoluta città di Sousse, dove l’avvocata Braham è riuscita a farli scarcerare su cauzione, in attesa del processo. Una prepotenza sconcertante. Cercando di capire meglio questa vicenda sono venuto in contatto con uno dei ragazzi scarcerati, che racconta di un gruppo amicale di 18-21 enni timidamente ma coscientemente gay, e di come l’omofobia della polizia di Kairouan e del sistema carcerario li abbiano aggrediti con una prepotenza sconcertante per la mite Tunisia. Il ventenne Jihed, uno pseudonimo, si presenta con questo testo in Internet, quasi una poesia giovanile di protesta: "Il mese e mezzo che si è appena concluso: i giorni peggiori della mia vita. Un mese e mezzo con i suoi giorni, le ore, i minuti, i secondi. Ogni giorno equivaleva a 1000 anni. La Tunisia mi ha mostrato quanto era magnifica. Mi ha permesso di crescere due volte.. Mi ha mostrato il suo secondo volto. Ero cieco? Da piccoli ci insegnavano che il mondo era bello. "La Tunisia mi ha calpestato". La Tunisia mi ha appena privato dei miei studi, che erano la mia unica ragione di vita. Mi ero detto, dato che la mia famiglia non potrà mai festeggiare il mio matrimonio, potrà almeno festeggiare il mio successo scolastico. La Tunisia mi ha gettato in prigione a causa del mio orientamento sessuale. Mi ha calpestato. All’inizio ho cercato di mentire, con i miei altri cinque amici, dicendo che eravamo arrestati per consumo di cannabis, ma la vera causa del nostro arresto era già arrivata alle orecchie degli altri prigionieri due giorni prima del nostro trasferimento in carcere. La Tunisia ci ha fatto onore, e abbiamo ricevuto la più cordiale accoglienza: calci, insulti, torture, intimidazioni, vergogna.. La Tunisia ci ha condannato a tre anni di carcere. La Tunisia mi ha spinto a idee suicide, e c’è anche chi mi minaccia di morte. Tunisia, grazie". L’ho contattato sul web. Ecco il nostro dialogo: "Sono libero, sono a casa mia, chiuso nella mia stanza, non me la sento di uscire". Com’è che siete finiti in carcere? "Siamo sei ragazzi della Casa dello studente a Kairouan, studenti fuori sede perché siamo della regione di Tunisi. Abbiamo fatto amicizia, sì probabilmente si può dire che siamo gay, ma non facevamo sesso, abbiamo preso l’abitudine di vederci una volta alla settimana, di cenare insieme, di scherzare, guardare video. Ma il guardiano ha chiamato la polizia dicendo che gli sembravamo strani". Il guardiano vi ha parlato prima? Voleva qualcosa? "No, credo pensasse che fumavamo cannabis. C’è stato anche il fatto che un nostro amico, che non è del collegio universitario, aveva litigato coi suoi, se n’era andato, era venuto a cena da noi e forse la polizia ha avuto anche quella segnalazione. Non hanno trovato niente, neanche birre (non vietate dalla legge ma dai regolamenti interni NdR) ma in uno dei computer c’erano video gay. Per quello ci hanno portati via". E vi hanno arrestato solo per i video nel pc? "Ci hanno tenuto tre giorni nella "piccola prigione", in commissariato. Poi ci hanno portato dal medico per il test, cioè il test anale. Io mi ribellavo non lo volevo fare ma i poliziotti mi hanno malmenato e spaventato finché non mi sono arreso. Il medico ci diceva "abbàssati come per fare la preghiera" poi ci metteva qualcosa nell’ano e guardava dentro. E ha detto che siamo gay". Ma è incredibile... "Sì mio dio ha detto proprio così.." E poi cosa è successo, dopo il dottore? "Che ci hanno portato in carcere, dove purtroppo tutti sapevano, a cominciare dai secondini, che eravamo gay. Gli abusi sono cominciati subito, a partire dalla prima notte in cui ci hanno fatto dormire per terra senza materassi né coperte. I secondini ci trattavano malissimo, ci hanno portato dal barbiere malmenandoci e insultandoci e ci hanno fatto rasare a zero. La cosa peggiore tra tutti gli orrori era che i secondini, tutte le volte che si annoiavano, ci facevano portare da loro, e in una quindicina ci torturavano per divertirsi, coi bastoni, a pedate, insultandoci, facendoci la tortura dell’acqua. Ci lasciavano andare quando eravamo stremati". E con gli altri detenuti? "Erano 190 in uno spazio piuttosto ristretto e sono stati praticamente aizzati dai secondini a darci contro. Una volta ci hanno creato un cerchio tutt’intorno, ci facevano domande intime provocatorie e una specie di loro capo ci dava dei colpi di bastone a seconda di come rispondevamo o per farci danzare. E di notte c’era chi ci diceva "vedrai cosa ti faccio quando chiudi gli occhi per dormire". Non potevamo mai stare tranquilli. Ci fregavano anche il cibo e i vestiti che ci avevano mandato le famiglie". Sono accuse molto gravi, forse è meglio che con l’avvocata vi dedichiate a documentarle. "Per cosa? Quando riesco ad accantonare i pensieri suicidi penso solo che me ne voglio andare dal paese. Io sogno solo di vivere in una casetta, andare all’università e avere qualche buon amico. Voglio scaldarmi il latte e cioccolato e guardare i film, voglio essere libero e sorridere sempre ma non ci riesco, sto piangendo tutto il tempo". Jihed, le organizzazioni internazionali dei diritti umani raccoglieranno queste denunce e la Tunisia non può ignorare le pressioni in questo senso. "Vi ringrazio se ci aiuterete". Brasile: "Piango nell’Inferno dantesco delle carceri" di Luciano Zanardini La Stampa, 14 gennaio 2016 Dom Carlos Verzeletti, vescovo di Castanhal in Brasile, racconta la situazione dei penitenziari: "Nella loro miseria vedo la mia e la nostra miseria perché siamo tutti miserabili". In questo Anno della Misericordia ha firmato un decreto per la costruzione di una chiesa dedicata al beato Paolo VI e ha rilanciato l’impegno per la "Tavola della Carità". "L’Anno santo della Misericordia ci chiede di aprire le porte del nostro cuore, delle nostre case, delle nostre comunità agli esclusi e scartati dalla nostra società". Dom Carlos Verzeletti è un pastore tra la gente: in Brasile dal 1982, dal 2004 guida la diocesi di Castanhal nello stato del Parà. Ogni anno nella prima settimana di ottobre, entra in tutte le 13 carceri del territorio, perché "è sempre un momento di grazia. Un’esperienza unica che mi fa toccare e riconoscere nella loro carne la presenza viva di Gesù che si identifica con loro". La situazione delle case penali non è certo delle migliori. "Il quadro che incontro in alcune celle - racconta dom Carlos - mi ricorda le immagini dell’Inferno dantesco: il volume altissimo di due o tre televisori, la più turpe pornografia sulle pareti, l’odore acre che esala dalla loro carne, gli avanzi gettati nel corridoio che marciscono nell’acqua ristagnante; le urla e le volgarità di chi gioca a carte si mescolano con quelle degli esorcismi dei proseliti delle chiese pentecostali che rifiutano la nostra presenza". Ogni volta è un nuovo inizio. "Ho la sensazione che sto scendendo nel più basso e mortale gradino del degrado umano e penso che è proprio qui dove il Signore mi vuole e mi aspetta; è qui, dove parrebbe assurda la sua presenza, che Lui si fa incontrare. E in questi buchi scandalosi incontro alcuni che esprimono la gioia di essere visitati. Li guardo negli occhi e li ascolto attentamente mentre le mie mani, attraversando le sbarre, stringono le loro. Molte volte piango con loro...". In quella condizione si può rileggere tutta l’esperienza umana. "Nella loro miseria vedo la mia e la nostra miseria perché siamo tutti miserabili: miserabili a causa del nostro egoismo e orgoglio, del nostro peccato e malizia, delle nostre ipocrisie e falsità, ma Dio, spinto dalla sua grande misericordia, ha aperto le porte del suo cuore, è sceso in mezzo a noi per rimanere con noi". La misericordia "sfida la nostra diocesi a riorganizzare la pastorale carceraria, purtroppo ancora limitata. Nel ritiro di Natale, finalmente, 13 sacerdoti si sono impegnati a motivare e organizzare nella loro parrocchia la pastorale carceraria". Oggi sono più di 6.000 i detenuti, "stipati in celle strette, senza aria, puzzolenti, immonde, ciascuna delle quali con 15 o venti persone, costretti a fare i turni per dormire". Dom Verzeletti lavora in una diocesi giovane (eretta nel dicembre del 2004) che ha messo a punto un intenso lavoro di evangelizzazione a 360°, in particolare, sul piano pastorale, gli sforzi del vescovo si sono concentrati nell’attivazione "di piccole comunità, basate sui rapporti stretti tra le persone, trasformando le parrocchie in "comunità di comunità"". In questi anni non sono certo mancate le opere: con la collaborazione della Comunità Giovanni XXIII sono sorte due case di accoglienza e di recupero ("dai suggestivi nomi "Resurrezione" e "Santissima Trinità"") contro la dipendenza dalla droga e dall’alcol. Come "prolungamento" dell’adorazione perpetua, che si tiene nella cripta della Cattedrale, è nata "la "Tavola della Carità" per offrire ospitalità e alimento al popolo della strada, proponendo agli adoratori di vivere una spiritualità incarnata: Cristo adorato nell’eucaristia è accolto e alimentato nel povero". Per rispondere alla necessità di aiutare le famiglie è stato, invece, attivato un consultorio familiare; a livello di educazione e promozione umana è stata avviata una Scuola delle Arti (con l’appoggio dell’8 per mille) "per togliere i giovani dalla marginalizzazione e per permettere loro di sviluppare i talenti". Recentemente ha firmato un decreto per la costituzione di una parrocchia, dedicata al beato Paolo VI, nella periferia di Castanhal che coprirà un’area di 25mila abitanti. E ha scelto l’8 dicembre, anniversario della chiusura del Concilio e dell’inizio del Giubileo, come data simbolica, "immensamente grato al Signore per il rinnovamento della Chiesa provocato dal Concilio Vaticano II, con il proposito che questo avvenimento continui vivo nella memoria delle future generazioni; riconosco la straordinaria testimonianza di amore del beato Paolo VI alla Chiesa e agli uomini. E papa Francesco rilancia lo spirito di Montini, spingendo la Chiesa a uscire da se stessa per riprendere con entusiasmo il cammino missionario annunciando la misericordia, cuore del Vangelo". Egitto: trasferito d’urgenza in ospedale leader fratelli musulmani detenuto Aki, 14 gennaio 2016 Mohamed Badie, il leader spirituale dei Fratelli Musulmani egiziani, è stato trasferito dal carcere a sud del Cairo dove si trova al carcere di Aqrab all’ospedale di Qasr al-Aini per sottoporsi a un intervento chirurgico d’urgenza. Lo riferisce all’Anadolu l’avvocato Sayyed Nasr, vicino ai Fratelli Musulmani, gruppo fuorilegge in Egitto. Si prevede che Badie resti ricoverato per diversi giorni prima di tornare in carcere, ha aggiunto Nasr. Badie, 72 anni, è stato arrestato ad agosto dopo la deposizione del presidente islamico Mohammed Morsi da parte delle forze armate guidate dall’attuale presidente Abdel Fattah al-Sisi.