Via il reato di clandestinità, ma con espulsioni più rapide di Luca Liverani Avvenire, 13 gennaio 2016 Renzi: allo studio un pacchetto di norme organico. L’abolizione del reato di clandestinità si farà, perché è inutile e complica le espulsioni, ma solo quando il governo avrà reso più efficaci le norme contro gli stranieri che delinquono. Matteo Renzi interviene sul tema per rassicurare sia chi preme per la cancellazione della norma, come chiedono in molti dalla magistratura al mondo dell’associazionismo, sia chi teme per la sicurezza del paese. Il guardasigilli Orlando conferma: si deve fare, ma nell’ambito di un intervento complessivo su rimpatri e rifugiati. Ma la destra non molla: "Un errore", "non ha senso", "follia" ripetono Salvini, i governatori Zaia e Maroni e la Meloni. "Il reato di immigrazione clandestina, che non serve a nulla, sarà tolto - dice Matteo Renzi - ma quando sarà chiaro un pacchetto del governo su questa normativa, per rendere più veloce i processi di espulsione e le norme contro chi delinque". Le nuove norme comunque non arriveranno nel prossimo Consiglio dei ministri: "C’è ancora tempo, stiamo lavorando. Non possiamo immaginare che - in un momento in cui l’opinione pubblica avverte l’insicurezza legata all’immigrazione, anche se per molti a-spetti non è così ed i reati sono diminuiti - il compito del governo sia quello di calare schemi dall’alto, ma di governare i processi". E dunque se con una norma si abolisce il reato di clandestinità "contemporaneamente ce ne vuole una - conclude - molto più veloce perle espulsioni e più dura verso chi delinque". Conferma il ministro della Giustizia. L’abolizione del reato, dice Andrea Orlando, "si deve fare", ma "col ministero degli Interni si sta ragionando su un intervento complessivo che riguardi i rimpatri, i tempi per il riconoscimento dello status di rifugiato: l’abolizione del reato può stare dentro quel pacchetto". E spiega: "Se ci vogliono tre gradi giudizio per arrivare a dare una multa, tanto vale dare una multa subito. In realtà la sanzione vera è il rimpatrio, non la sanzione penale. E siccome c’è già un procedimento amministrativo per cui se non sei regolare scatta l’espulsione, non ha senso processare un soggetto perché è entrato nel Paese: costa un sacco di soldi, che pesano sul contribuente, senza risultato". Anzi, "questo meccanismo intralcia quello del rimpatrio". Col ministro dell’Interno Alfano "stiamo ragionando su un intervento complessivo sui rimpatri, sui tempi di riconoscimento dello status di rifugiato. Il tema dell’abolizione del reato di clandestinità può stare dentro quel pacchetto. Questo può evitare strumentalizzazioni". "Il reato va superato - conferma il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini - e prima lo si espunge, meglio è". Il problema, spiega il magistrato, è che questo reato "oltre a non aver risposto alle attese, costituisce a volte un ostacolo alle indagini in particolare in materia di traffico esseri umani". "Sul reato di clandestinità il governo è demenziale. Dice che non serve, ma lo tiene, altrimenti gli italiani si arrabbiano e cala nei sondaggi", dice il leader della Lega Nord Matteo Salvini. Il presidente leghista del Veneto, Luca Zaia, boccia sul nascere l’ipotesi: "Il vero patto sarebbe stato quello di chiudere le frontiere e bloccare i clandestini direttamente nel Paese di provenienza". Il collega lombardo Roberto Maroni dice che "abolire il reato è un grave errore, vuol dire dare il segnale che si può venire liberamente e senza conseguenze". Per il governatore lumbard "bisogna tenere il reato, che è uno strumento utile per le espulsioni, e intensificare i rimpatri". Fratelli d’Italia promette di "dare battaglia contro questa follia", dice la presidente Giorgia Meloni: "Continuiamo a chiedere che anche in Italia vengano introdotte, in tema di immigrazione, le stesse leggi che vigono in Germania e in Francia. In questo quadro, bisogna rivedere anche il reato di immigrazione clandestina, ma in senso restrittivo. Chiediamo che preveda anche la galera e non solo la multa, così come avviene in gran parte d’Europa". Orlando: abolire il reato di immigrazione clandestina con intervento organico Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2016 "Ci vuole una normativa che mentre abolisce il reato di clandestinità, che non serve a niente, come dicono tutti, sia molto più veloce nei processi di espulsione e più dura verso chi delinque". Così Matteo Renzi ha annuncia a Repubblica.tv un "pacchetto di norme" che però non sarà approvato dal consiglio dei ministri questa settimana. "Ci vuole del tempo, ci stiamo lavorando in collegamento con le norme europee". Lo ha detto il premier Matteo Renzi a Repubblica tv, spiegando che le nuove norme non arriveranno però nel prossimo Cdm: "C’è ancora tempo, stiamo lavorando". In mattinata era stato il ministro della Giustizia Andrea Orlando a "Omnibus" su La7 a rilanciare: l’abolizione del reato di immigrazione clandestina "si deve fare", ma "col ministero degli Interni si sta ragionando su un intervento complessivo che riguardi i rimpatri, i tempi per il riconoscimento dello status di rifugiato: l’abolizione del reato può stare dentro quel pacchetto". La decisione di non portare nel prossimo Cdm il decreto legislativo già pronto per depenalizzare il reato di immigrazione clandestina non sembra insomma essere sinonimo di archiviazione del problema nelle intenzioni dell’esecutivo. Del resto era stata la stessa ministra per le Riforme Maria Elena Boschi ieri a "Otto e mezzo" ad assicurare: "Avremo modo di tornarci sopra". Sul reato di immigrazione clandestina "è stato in piedi un messo un meccanismo che spesso intralcia il meccanismo del rimpatrio" ha detto a Omnibus il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Per questo "se si vuole evitare qualunque forma di strumentalizzazione, la sua abolizione la si può mettere dentro un pacchetto dove sia chiaro che il meccanismo delle espulsioni e dei rimpatri non si tocca", ha spiegato Orlando, che si è detto contrario al reato: "È un simulacro di reato", ha aggiunto. Fatto sta che la depenalizzazione del reato di immigrazione clandestina non sarà nel prossimo Cdm. Dopo giorni di polemiche, è stato il premier Matteo Renzi a mettere fine alla querelle. Per il momento, dunque, tutto resta com’è, nonostante le proteste dei magistrati che anche ieri, per bocca dell’Anm, avevano definito il reato "dannoso e inutile". La presa di posizione del presidente del Consiglio è stata in linea con quella del ministro dell’Interno Angelino Alfano, che pur ammettendo che la norma non ha funzionato ha sostenuto che "la gente non capirebbe" un intervento in questo particolare momento. "Secondo i magistrati - ha dichiarato infatti Renzi - il reato non serve, non ha senso e intasa i tribunali. Ma è anche vero che c’è una percezione di insicurezza per cui questo percorso di cambiamento delle regole lo faremo tutti insieme senza fretta". Mattarella: su ricollocazione serve più cooperazione. Oggi, sul tema della ricollocazione dei richiedenti asilo in Europa è intervenuto il capo dello Stato. "È necessaria una più stretta cooperazione internazionale in materia di riconoscimento e ricollocazione dei rifugiati, mirata a contrastare i transiti irregolari, insieme al traffico e allo sfruttamento di esseri umani" ha affermato Sergio Mattarella, in un messaggio al direttore generale di Migrantes, Giancarlo Perego, in occasione della Giornata mondiale del migrante. Dei 160mila migranti che secondo gli accordi presi tra gli stati europei lo scorso settembre avrebbero dovuto essere trasferiti dalla Grecia e dall’Italia agli altri stati membri dell’Ue nei prossimi due anni, solo 272 per ora sono stati effettivamente ricollocati. Legnini e lo scontro sul reato di clandestinità: prima si toglie, meglio è di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 13 gennaio 2016 Giovanni Legnini arriva negli studi di #Corrierelive e non si sottrae: "Il reato di clandestinità? Prima lo si espunge e meglio è". Usa toni pacati il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, ma decisi: "Condivido il punto di vista di Franco Roberti, il procuratore nazionale antimafia: questo reato oltre a non aver risposto alle attese costituisce a volte un ostacolo alle indagini, in particolare in materia di traffico di essere umani. Mi pare che l’opportunità di superarlo sia largamente condivisa". Ci sono Tommaso Labate e Giovanni Bianconi negli studi di #Corrierelive a fare le domande al vicepresidente Legnini che delle telecamere non è un frequentatore abituale. Dal reato di clandestinità a quello di omicidio stradale, il parere di Giovanni Legnini sembra non mutare: "Spero che il Parlamento voglia riflettere meglio sul reato di omicidio stradale, io sono generalmente contrario a tuti gli eccessi di sanzione penale". Il motivo per cui nel caso del codice della strada è contrario a questo eccesso Legnini lo motiva così: "Oggi la sicurezza stradale è già presidiata da un complesso di sanzioni molto esteso, elevato e incisivo: ciascuno sa bene quali siano le conseguenze di comportamenti individuali. Eviterei di considerare l’omicidio stradale alla stregua dell’omicidio doloso o preterintenzionale". Fare il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura vuol dire dover gestire tutte le procure, i tribunali e le Corti d’Italia. Dopo la norma che ha mandato in pensione i magistrati a settant’anni, il Csm si trova a dover decidere centinaia e centinaia di cariche dirigenziali in poco tempo, operazione che non soltanto non spaventa Legnini ma che gli dà l’opportunità di ribadire le nuove regole di "chiarezza e trasparenza" decise dall’organismo di autogoverno della magistratura. Una riforma interna, quella del Csm, preludio di quella che arriverà dall’esterno per volere del governo e oggi allo studio del ministero della Giustiziai e sulla quale "molti timori si sono attenuati, sulla base del dialogo e del confronto che abbiamo avuto con il ministero e con la commissione ministeriale". Ma a proposito di riforme, Tommaso Labate non si fa sfuggire l’occasione e chiede, diretto: cosa voterebbe il vice presidente del Csm al referendum confermativo sulle riforme istituzionali? La risposta di Legnini è istituzionale, ma ben chiara: "I tentativi di cambiare la Costituzione sono stati molti e tutti vani. Credo che vanificare anche questo costituirebbe un problema per le istituzioni e per la democrazia". Detto in due lettere equivale a un "sì", ammette lo stesso vice presidente del Csm. Che prima di rispondere alle domande che arrivano via Twitter dai lettori, accetta la sollecitazione su un caso di attualità, quello di Stefano Cucchi. Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, ha pubblicato su Facebook la foto di uno dei carabinieri indagato per la morte violenta del fratello, un gesto che ha scatenato moltissime polemiche, in ogni direzione. Cosa ne pensa Legnini di un gesto così? Anche in questo caso la risposta è pacata, ma netta: "Sono molto solidale con la famiglia Cucchi, ho molto rispetto per il dramma che ha vissuto, e mi auguro che ottenga giustizia al più presto, ma sono molto distante dalle gogne di questo tipo. Quel gesto è discutibile". Sono tante le domande che i lettori hanno voluto inviare via Twitter a Giovanni Legnini, la sete di giustizia segue anche la via dell’informazione, evidentemente. E fra tutte una: non sarà il caso di dare una stretta ai magistrati che si dedicano alla politica? Il vicepresidente Legnini annuisce con vigore e spiega: "Non soltanto, e non tanto, per i magistrati che si dedicano alla politica, ma soprattutto per i magistrati che finiti gli incarichi politici vogliono tornare al loro posto. Non può essere un passaggio così automatico". Depenalizzazioni. Come fermare il balletto ipocrita sui clandestini di Carlo Nordio Il Messaggero, 13 gennaio 2016 La proposta avanzata - e poi sospesa - dal governo di eliminare il reato di immigrazione clandestina non costituisce, come hanno detto alcuni, il gesto di tirare il sasso e ritirare la mano, ma conferma piuttosto la geniale intuizione di Schiller che la pietra lanciata dall’uomo appartiene al diavolo. Il che significa, in altre parole, che quando decidi una cosa il destino spesso si fa beffe delle tue intenzioni, e ti conduce a risultati contrari. L’idea di depenalizzare questo reato è, in teoria, non solo giusta ma addirittura tardiva. Per il lettore digiuno di diritto dobbiamo infatti chiarire alcuni aspetti. 1) Il nostro sistema penale è così sfasciato da non intimidire neanche chi intende commettere reati puniti con sanzioni severissime. Figurarsi se può scoraggiare il clandestino che rischia la vita per arrivare in Italia, prospettandogli un’ammenda di pochi euro che comunque non pagherà mai. 2) Da noi l’azione penale è obbligatoria, e quindi per ogni clandestino si deve aprire un fascicolo processuale. Aprirne centinaia di migliaia significa paralizzare una giustizia già collassata. 3) Arrestare gli immigrati, come hanno proposto i più arrabbiati, significa trascurare il dato costituzionale che l’arresto dev’essere convalidato da un giudice entro 96 ore. Quando a Gela arrivano cinquecento clandestini, la convalida non la fai neanche mobilitando tutta la magistratura siciliana. 4) Se c’è una possibilità (remota) che il clandestino aiuti la polizia a individuare lo scafista, essa svanisce di fronte al fatto che l’indagato può avvalersi della facoltà di tacere, e quindi non collabora. Queste e altre considerazioni dovrebbero bastare a convincere anche l’opinione pubblica più esasperata che questo reato è un’altra favola vuota, raccontata dai vari governi precedenti - di destra e di sinistra - per eludere il problema fondamentale: che quando il clandestino è entrato nel Paese non c’è più niente da fare. Perché? Perché una volta qui, l’immigrato illegale non può più esser cacciato via. Non può esserlo di diritto, perché ha a sua disposizione una serie di ricorsi davanti al giudice ordinario e a quello amministrativo che impediscono il suo rientro forzoso. E non può esserlo di fatto, perché mancano i mezzi per riportarlo materialmente a casa. Il grande inganno di questi anni è stato quello di contrabbandare i cosiddetti provvedimenti di espulsione come se avessero efficacia reale. No, non è mai stato così. Questi decreti sono pezzi di carta che il clandestino continua a stracciare, restandosene dov’è. E anche le rarissime volte in cui l’espulso viene accompagnato all’aeroporto, l’escamotage è bello e pronto: si aggredisce l’agente, commettendo un reato che impone l’arresto, e si viene ricondotti nella prigione più vicina, salvo uscirne dopo poche ore nell’attesa del futuro processo. Il governo queste cose le sa, e intende eliminare questo reato inutile e dannoso. Se poi vuole farlo nell’ambito di una più generale depenalizzazione di centinaia di reati bagattellari, che intasano i tribunali senza aggiungere nulla alla sicurezza collettiva, tanto meglio: sono anni che predichiamo che il nostro sistema penale è paralizzato da norme stupide e obsolete. E tuttavia, come il ministro Alfano si è subito accorto, ha scelto il più sbagliato dei momenti sbagliati: non occorre evocare il disastro di Colonia per giustificare l’allarme di una situazione che rischia di sfuggire di mano all’intera Unione Europea. Per di più c’è una contraddizione nella nostra legge che gli lega le mani: è quella che riguarda gli scafisti. Tutti dicono che bisogna punire questi trafficanti di carne umana, piuttosto che i poveri trasportati. Ebbene, se l’accoglienza di questi ultimi è una doverosa e cristiana manifestazione di solidarietà, perché dovremmo incriminare quelli che, sia pure a caro prezzo, ne assecondano le legittime aspettative? Risposta: perché siamo un pochino ipocriti. E perché questi immigrati non vengono accolti per amore, ma perché non sappiamo che altro fare. Non siamo generosi, siamo rassegnati. Ma se non vogliamo punire chi arriva clandestinamente, per fuggire, così si dice, dalle oppressioni e dalle guerre, non dovremmo prendercela, per coerenza, nemmeno con chi li trasporta. Ecco la pietra di cui il diavolo si è impadronito, e che grava sul collo del governo che rischia di restarne soffocato. Detenuti. No a permessi per "consumare" le nozze di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2016 Niente permesso allo scopo di fare sesso con la moglie per un detenuto sottoposto a pesante condanna (24 anni, 5 mesi e 25 giorni di reclusione) per gravi reati (tra cui l’estorsione e l’associazione di tipo mafioso). La Corte di cassazione, con la sentenza 882 depositata ieri, ha così respinto il ricorso di un detenuto che, dopo essersi sposato nel corso della detenzione (nell’aprile 2009 ) con la compagna dalla quale ha avuto due figli (di sette e dieci anni), chiedeva il permesso-necessità di andare in una casa di accoglienza di Padova dove incontrare la compagna per avere rapporti intimi. Permesso negato dai giudici di piazza Cavour, che hanno ricordato che "l’esercizio dell’affettività, inteso come espressione della sessualità, non rientra nella previsione di cui all’articolo 30, comma secondo dell’ordinamento penitenziario quale evento famigliare di particolare gravità". Nel dettaglio, la Prima sezione penale - giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo alla mano - ha ricordato che "qualsiasi detenzione regolare per sua stessa natura comporta una restrizione della vita privata e familiare dell’interessato e che tali restrizioni sono legittime se non abbiano ecceduto quanto è necessario della medesima Convenzione, alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, in una società democratica". Nel caso in questione, ha annotato ancora la Suprema Corte, "considerata la gravità dei reati per cui la condanna è in espiazione, il lontano fine pena (2034) e la non remota decorrenza di essa (dal 18 settembre 2010), le limitazioni subite dal ricorrente nella sua vita privata e familiare risultano del tutto proporzionate agli scopi legittimamente perseguiti attraverso l’esecuzione della pena senza che lo Stato abbia oltrepassato il margine di apprezzamento di cui gode in materia". La Cassazione ha quindi convalidato l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Venezia del 19 novembre 2014 che, peraltro, richiamava la conforme giurisprudenza della Corte di legittimità, per gli effetti della sentenza n. 48165 del 2008. L’esercizio dell’affettività, intesa come espressione della sessualità, allo stato della normativa vigente è quindi assicurato al detenuto dalla concessione di un permesso premio, "supponente una soglia minima di pena già espiata e la positiva valutazione della condotta in carcere". Braccialetto elettronico, motivazioni estese di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 842/2016. Anche il giudice dell’appello cautelare deve indicare le ragioni per le quali non ritiene idonei i domiciliari con il braccialetto. La Corte di cassazione, con la sentenza 842 depositata ieri, torna sull’obbligo di motivare il no alla sostituzione della misura carceraria con quella meno afflittiva degli arresti domiciliari con le procedure di controllo elettronico chiarendo che anche il giudice dell’appello cautelare ha il dovere di spiegare la sua scelta. Viene così accolto il ricorso di un indagato per reati di spaccio per il quale, secondo i giudici, nessuna misura poteva dirsi idonea a scongiurare il rischio di recidiva tranne il carcere. Decisione che la Suprema corte considera basata su congetture che non tengono conto del tempo trascorso dal fatto incriminato e, soprattutto, non rispettosa di quanto imposto da nuovo articolo 275, comma 3 bis del codice di procedura penale. La norma contenuta nel codice di rito prevede, infatti, che "nel disporre la custodia cautelare in carcere il giudice deve indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all’articolo 275-bis, comma 1". La Cassazione ammette che la norma sembra riferirsi al solo giudice dell’ordinanza genetica, come si deduce dalla frase "nel disporre la misura cautelare". Per la Suprema corte è però altrettanto vero che, in considerazione della natura limitatamente devolutiva dell’appello cautelare, quando oggetto della domanda della difesa è la revoca o la sostituzione della massima misura di custodia con un’altra meno afflittiva anche il giudice investito della richiesta e di conseguenza il tribunale del riesame, sono chiamati a motivare. Un onere imposto, precisa la Cassazione, dalla legge 47/2015 che ha dettato nuove disposizioni in tema di misure cautelari e modificato il codice di rito introducendo l’articolo 275 comma 3 bis. La riforma rende ormai superata la giurisprudenza della Cassazione in base alla quale, in tema di arresti domiciliari, la prescrizione del braccialetto elettronico, non essendo una ulteriore misura coercitiva ma una modalità ordinaria di cautela domiciliare, non richiede un obbligo di motivazione aggiuntiva perché tale motivazione è ormai imprescindibile. E i giudici della terza sezione, abbracciando la tesi estensiva, precisano che neppure il giudice chiamato esprimersi in sede di appello cautelare può esimersi dal motivare il no al braccialetto. Un orientamento certamente garantista secondo il penalista Mario Papa ma che non risolve un punto nodale della recente riforma. "È fondamentale che la Suprema corte abbia imposto di spiegare analiticamente, anche in sede di istanza e dunque di appello cautelare, le ragioni per cui non risulterebbe applicabile una misura meno afflittiva di quella carceraria - afferma Mario Papa - ma resta il fatto che una tale conquista di civiltà è svilita dagli arresti domiciliari con braccialetto elettronico che valgono solo sulla carta ma che, a causa del mancato reperimento di quei dispositivi di controllo, si traduce nella assurda conferma, di fatto, del carcere". La Cassazione non sempre ha dato seguito a due sentenze con le quali ha affermato che la scarcerazione del detenuto, giudicato idoneo ai domiciliari, non può essere subordinata alla disponibilità della cavigliera (sentenze 35571/2015 e 39529/2015). Sempre ieri la Cassazione ha affrontato ancora il tema dispositivi elettronici (sentenza 843) precisando che il mancato superamento, come nel caso esaminato, della presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere non comporta per il giudice che deve disporre la misura, nessun onere di motivazione aggiuntiva sul punto. Controllabile la mail "aziendale" di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2016 Il controllo della posta elettronica aziendale da parte del datore di lavoro è sì un’ingerenza nel diritto alla vita privata, ma è compatibile con la Convenzione dei diritti dell’uomo se di portata limitata. È la Corte europea a scriverlo nella sentenza depositata ieri nel caso Barbulescu contro Romania. A rivolgersi a Strasburgo un cittadino rumeno, dipendente di una società privata che, su richiesta del datore di lavoro, aveva creato un account per rispondere ai quesiti dei clienti. Era sorta una controversia perché il datore di lavoro sosteneva che l’indirizzo mail era stato usato per fini personali. Di qui il licenziamento e poi, dopo i procedimenti dinanzi ai giudici nazionali, l’approdo a Strasburgo su ricorso del lavoratore. Prima di tutto, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto che le mail rientrano nel diritto alla corrispondenza e, quindi, sono tutelate dall’articolo 8 della Convenzione che assicura il diritto al rispetto della vita privata, nella quale sono incluse telefonate e mail anche dagli uffici. Inoltre, a meno che non sia avvertito del contrario, il lavoratore ha una ragionevole aspettativa alla tutela della propria privacy tanto più che, nel caso di specie, non è stato chiarito se il datore di lavoro avesse avvisato il dipendente del controllo sulla posta elettronica e, quindi, sul trattamento dei dati. Detto questo, però, la Corte valuta la proporzionalità dell’ingerenza, distinguendo tra l’account personale e quello aziendale. Nel caso arrivato a Strasburgo, l’account era stato attivato su richiesta dell’azienda ed è indiscutibile che il lavoratore sapesse che era proibito utilizzare computer e risorse aziendali per fini personali. Un elemento che fa propendere la Corte europea verso la legittimità dell’ingerenza nella vita privata del dipendente, tanto più che il datore di lavoro ha il diritto di verificare l’adempimento dei compiti professionali durante l’orario lavorativo. Non solo: il datore di lavoro era entrato nell’account del lavoratore credendo che vi fossero comunicazioni con i clienti. Un elemento decisivo, per la Corte, che dà anche rilievo al fatto che l’azienda non ha controllato altri dati o documenti contenuti nel computer del dipendente. Segno della ragionevolezza e della proporzionalità dell’ingerenza. Inoltre, il lavoratore ha potuto rivolgersi ai giudici nazionali per verificare un’eventuale violazione della privacy e non ha spiegato perché ha utilizzato l’account aziendale per fini personali. Per escludere, poi, la violazione della Convenzione, la Corte considera che durante il procedimento giurisdizionale nazionale sono stati utilizzati diversi accorgimenti per non svelare l’identità delle persone con cui il dipendente si era scambiato mail e il contenuto dei messaggi è stato diffuso in modo limitato, solo per dimostrare che non si trattava di attività professionali, senza che lo stesso contenuto sia stato determinante per il licenziamento. Di qui la conclusione di un giusto bilanciamento tra i diversi diritti in gioco. Falso in bilancio, sì alle valutazioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2016 L’estate passata, infatti, un’altra pronuncia della stessa Cassazione - la 33774, depositata il 30 luglio - si era invece attestata sull’irrilevanza penale delle valutazioni nel falso in bilancio. Se tutto questo preluda già a un futuro pronunciamento delle Sezioni unite è presto per dirlo, anche perché bisognerà attendere se è destinata a consolidarsi una delle due linee interpretative del nuovo articolo 2621 del Codice civile. Intanto, con le motivazioni depositate ieri, i giudici della Quinta sezione prendono posizione in maniera netta sostenendo che una tesi diversa avrebbe effetti dirompenti, visto che - ammettono essi stessi - la stragrande maggioranza delle voci di bilancio è frutto di una qualche valutazione. Così, se la riforma avesse fatto evaporare il peso penale delle valutazioni, di fatto si avrebbe un’abrogazione della nuova fattispecie; ipotesi quest’ultima che i giudici, scrivono, deve essere bollata come "improponibile a fronte di alternative e più pertinenti esegesi del dato normativo". Quali siano queste più plausibili esegesi è oggetto del nucleo della sentenza che parte dalla considerazione che la legge n. 69 del 2015 (che contiene un pacchetto di norme anticorruzone valorizzate adesso dalla Cassazione in una prospettiva finalistica per la quale cancellare la punibilità delle valutazioni avrebbe la conseguenza di legittimare la costituzione di fondi neri da utilizzare anche per il pagamento di tangenti) ha modificato in maniera profonda le vecchie fattispecie del Codice civile. In particolare a conservare rilevanza penale è l’esposizione nei bilanci o nelle comunicazioni sociali di fatti materiali rilevanti, con la cancellazione di quell’ espressione, "ancorché oggetto di valutazioni", che era stata utilizzata dal precedente intervento del 2002. Intervento che fa dire alla Cassazione che non ci può essere discussione sulla punibilità delle falsità che riguardano enunciati descrittivi, cioè fatti di rilievo verificatisi nel corso della gestione, con la precisazione che falso non è il fatto in sé, ma solo la rappresentazione che ne viene data. Diverso è il discorso, come detto, per il falso valutativo. La sentenza sottolinea allora che il bilancio è composto in larga parte da enunciati estimativi o valutativi, frutto di operazioni concettuali che associano a determinate componenti un dato numerico nell’espressione di un giudizio di valore. "Non può allora dubitarsi - osserva la sentenza - che nella nozione di rappresentazione dei fatti materiali e rilevanti (da intendere nelle accezioni anzidette) non possano non ricomprendersi anche e soprattutto tali valutazioni". I giudici non eludono poi l’obiezione per la quale ogni valutazione ha in sé un coefficiente di soggettività e, di conseguenza, di opinabilità che non deve automaticamente essere oggetto di sanzione penale. Tuttavia ricordano che quando la valutazione deve essere parametrata a criteri predeterminati, di legge o di prassi universalmente accettate, costituisce falsità l’elusione da quei criteri nel senso di discordanza da un vero legale rappresentato da un modello di verità convenzionale che può essere conseguito solo nel rispetto di quei parametri. E la Cassazione fa un passo ulteriore sottolineando che le valutazioni espresse in bilancio non sono allora frutto di semplici congetture o arbitrari giudizi di valore, ma devono uniformarsi a criteri valutativi determinati dalla disciplina civilistica - tra i quali il nuovo articolo 2426 del Codice civile - dalle direttive e regolamenti di diritto comunitario (da ultimo, ricorda la Corte, la direttiva 2013/34/Ue), dagli standard internazionali Ias/Ifrs e da prassi contabili generalmente accettate come per esempio i principi contabili nazionali elaborati dall’Oic. "Il mancato rispetto - conclude la sentenza che ha confermato il giudizio di merito della Corte d’appello di Torino sulla rilevanza penale della dissimulata esistenza di un’elevatissima - il 62% del totale - percentuale di crediti incagliati, nel bilancio di una Srl - di tali parametri comporta la falsità della rappresentazione valutativa, ancora oggi punibile ai sensi del nuovo articolo 2621 del Codice civile, nonostante la soppressione dell’inutile inciso "ancorché oggetto di valutazioni". Furto: la nozione di privata dimora. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2016 Reati contro il patrimonio - Furto - Circostanze aggravanti - Introduzione in abitazione - Nozione di privata dimora ex articolo 624 bis cod. pen. - Furto realizzato all’interno di un edificio adibito ad attività commerciale durante l’orario di chiusura - Configurabilità. Integra il reato previsto dall’articolo 624 bis c.p. la condotta del soggetto che, per commettere un furto, si introduca all’interno di un edificio adibito ad attività commerciale durante l’orario di chiusura, poiché il concetto di privata dimora è più ampio di quello di abitazione, comprendendo tutti i luoghi non pubblici nei quali le persone si trattengano per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 8 gennaio 2016 n. 428. Reati contro il patrimonio - Furto - Circostanze aggravanti - Introduzione in abitazione - Nozione di privata dimora ex articolo 624 bis cod. pen. - Furto realizzato all’interno di un ristorante - Configurabilità. Integra il reato previsto dall’articolo 624-bis cod. pen., la condotta del soggetto che, per commettere un furto, si introduce all’interno di un ristorante durante l’orario di chiusura, poiché il concetto di privata dimora è più ampio di quello di abitazione, ricomprendendo tutti i luoghi non pubblici nei quali le persone si trattengano per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata. • Corte di Cassazione, sezione II, sentenza 11 giugno 2015 n. 24763. Reati contro il patrimonio - Furto - Aggravanti - introduzione in abitazione - Furto realizzato all’interno di uno spogliatoio di un circolo sportivo - Configurabilità. Integra il delitto di furto in abitazione previsto dall’articolo 624 bis cod. pen. il fatto commesso nello spogliatoio di un circolo sportivo. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 23 marzo 2015 n. 12180. Reati contro il patrimonio - Furto - Circostanze aggravanti - Introduzione in abitazione - Nozione di privata dimora ex articolo 624 bis cod. pen. - Individuazione. La nozione di "privata dimora" nella fattispecie di furto in abitazione è più ampia di quella di "abitazione", in quanto va riferita al luogo nel quale la persona compie, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 18 febbraio 2015 n. 7293. Reati contro il patrimonio - Furto - Circostanze aggravanti - Introduzione in abitazione - Nozione di privata dimora ex articolo 624 bis cod. pen. - Individuazione. In tema di furto in abitazione il luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora è qualsiasi luogo nel quale le persone si trattengano per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della loro vita privata, comprese le parti accessorie di un edificio. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 18 febbraio 2015 n. 7266. Reati contro il patrimonio - Furto - Circostanze aggravanti - Introduzione in abitazione - Nozione di privata dimora ex articolo 624 bis cod. pen. - Furto in camper - Configurabilità. Ai fini della configurabilità del reato di cui all’articolo 624 bis cod. pen. il camper costituisce un luogo di privata dimora per la naturale destinazione all’uso abitativo quale "casa mobile" nella quale si espletano attività della vita privata. • Corte di Cassazione, sezione VII, ordinanza 18 febbraio 2015 n. 7204. Reati contro il patrimonio - Furto - Circostanze aggravanti - Introduzione in abitazione - Nozione di privata dimora ex articolo 624 bis cod. pen. La nozione di privata dimora, ex articolo 624 bis, cod. pen. è più ampia di quella di abitazione, in quanto deve essere intesa come il luogo nel quale la persona compia, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 21 gennaio 2015 n. 2768. La verità sulla giustizia di Andrea Orlando L’Unità, 13 gennaio 2016 Rispondo alla lettera di Deborah Cianfanelli, esponente del Partito Radicale che accusa il Governo di essere sordo rispetto alla grave condizione in cui versa la giustizia nel nostro Paese Nei giorni scorsi è stata pubblicata la lettera di Deborah Cianfanelli, esponente del Partito Radicale che accusava il Governo e il Ministero della Giustizia di essere sordi rispetto alla grave condizione in cui versa la giustizia nel nostro Paese. Sento il dovere di rispondere sia a tale accusa che alle imprecisioni riportate. Sin dall’inizio del mandato, questo governo si è posto la priorità di superare alcune emergenze che in materia di giustizia minavano la credibilità del nostro Paese, indebolivano la fiducia nella giurisdizione e pesavano sull’economia. Nel 2014 gravava sul Paese da un lato l’onta di una condanna della Corte Europea dei diritti dell’Uomo per trattamenti inumani e degradanti a causa del sovraffollamento carcerario, dall’altro una situazione della giurisdizione segnata da tempi lunghi e sottoposta più volte a censure da parte della Cedu. Il superamento di tali emergenze rappresentava il presupposto per agire con interventi di carattere organico e strutturale. Per quanto riguarda le carceri, i numeri raccontavano di 60.828 detenuti presenti nei nostri istituti a fronte di 47.857 posti disponibili con un tasso di sovraffollamento del 127%. A fine 2015, la popolazione detenuta è scesa a 52.164 unità a fronte di 49.592 posti disponibili, sono cresciute le misure alternative al carcere, è diminuito il numero dei soggetti reclusi in attesa di primo giudizio e soprattutto la Cedu ha chiuso il contenzioso e il Consiglio d’Europa ha indicato l’Italia quale Paese da imitare per affrontare il tema del sovraffollamento. Ora, con gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale e la delega di riforma dell’ordinamento penitenziario, è in atto il processo di riforma strutturale del sistema penitenziario. Per quanto riguarda la giustizia civile, a tre mesi dall’insediamento del governo è stata introdotta l’obbligatorietà del processo civile telematico e varato l’ufficio del processo. Ad agosto 2014 abbiamo presentato l’intera riforma della giustizia in cui il settore civile rappresentava il cuore dell’intervento riformatore; pochi giorni dopo il decreto sulle degiurisdizionalizzazioni e di riforma del processo esecutivo e contestualmente il ddl delega di riforma organica del processo civile, attualmente in Parlamento. A maggio 2015 un ulteriore decreto in materia fallimentare ha dato vita al marketplace nazionale delle vendite giudiziarie, con lo scopo di preparare il terreno a una più vasta riforma del diritto fallimentare, a breve in Cdm e fra le riforme più importanti nel 2016. Abbiamo stanziato 260 milioni nella finanziaria 2015, di cui oltre 150 dedicati ad investimenti informatici. E, per la prima volta, il ministero della Giustizia è stato interessato dalla gestione diretta di fondi europei per 100 milioni da dirigere in progetti di innovazione. Dal punto di vista degli interventi, il lavoro fatto in questi primi 20 mesi sul settore civile non ha precedenti negli ultimi 20 anni. Abbiamo inoltre avviato il più ampio ingresso di personale nella giustizia degli ultimi 30 anni: 4000 unità, di cui 500 hanno preso già servizio, per rafforzare le cancellerie entro la fine del 2016. E sono arrivati i primi risultati: il calo del contenzioso (a fine 2015, 4,2 milioni di cause pendenti contro i 6 milioni del 2009), il calo del 20% di nuove iscrizioni, un aumento dei mezzi alternativi di risoluzione delle liti, compresa la nuova negoziazione assistita tra gli avvocati a cui nell’ultima finanziaria abbiamo assegnato consistenti risorse per incentivi fiscali. Nello stesso tempo è stata portata a compimento la riforma della geografia giudiziaria che aiuterà a rafforzare il processo di specializzazione della giurisdizione, a partire dal tribunale delle imprese che nei primi 3 anni di vita ha registrato performance di straordinario rilievo: l’80% delle cause di primo grado definite in un anno. Il processo civile telematico poi, oltre ai risparmi stimati per 130 milioni di euro, sta producendo una sensibile riduzione dei tempi. Numerosi organismi internazionali hanno riconosciuto questo sforzo. L’ultimo rapporto Doing business oltre a segnalare una riduzione dei tempi delle dispute commerciali, fa scalare all’Italia 13 posizioni in un solo anno proprio in questo specifico settore. La stesso Consiglio d’Europa nel dicembre scorso ha osservato la bontà delle "misure ad ampio raggio adottate e previste per risolvere il problema dell’eccessiva durata dei processi civili", archiviando 177 casi pendenti del nostro Paese. Gli stessi dati citati nella lettera sono il frutto di una delle più importanti operazioni di trasparenza di una amministrazione pubblica italiana: il Dataware House della giustizia civile che ha messo a disposizione di tutti i cittadini la mappatura costante delle performance, dell’arretrato e dei tempi di risoluzione in primo grado di tutti i tribunali italiani. Questo è quanto abbiamo prodotto in 20 mesi e i molti numeri e dati citati sono la prima testimonianza oggettiva della bontà di questo lavoro. Non ho mai affermato, in nessuna sede, tantomeno in Europa, che avevamo risolto tutti i nostri problemi, ma che la febbre era scesa, il malato iniziava a muoversi e ora è possibile affrontare con più determinazione i limiti strutturali che hanno causato la malattia. Siamo un Paese colmo di rare eccellenze nell’elencazione dei problemi, come se bastasse elencare le questioni per aggredire i nodi che le determinano. In questi 20 mesi ci siamo sottratti a questa tentazione: abbiamo fatto un bel po’ di salita e siamo convinti che ne resti ancora da fare, ma abbiamo la consapevolezza di aver intrapreso la strada giusta per dare ai cittadini e alle imprese un servizio giustizia degno di tale nome. Sul G8 di Genova l’indecenza del governo, la miseria del parlamento di Lorenzo Guadagnucci (Comitato Verità e Giustizia per Genova) Il Manifesto, 13 gennaio 2016 Tortura. Perché non accetterò il risarcimento di uno Stato fuori dalla legalità minima richiesta dall’Europa. Nell’epoca in cui tutto, ma proprio tutto, è mercato, succede che il governo italiano decida che 45 mila euro a testa siano il prezzo da pagare per limitare (poiché evitare non si può) una bruttissima figura politica sullo scenario internazionale. La materia è fra le più spiacevoli, giacché si parla di tortura e dell’incapacità dello stato italiano di garantire il rispetto dei diritti fondamentali e un equo corso della giustizia quando questi siano stati violati. Ossia ciò che sta scritto nella sentenza del 7 aprile 2015 dalla Corte europea per i diritti umani sul caso "Cestaro vs Italia" in merito alla violenta "perquisizione" della scuola Diaz nel luglio 2001. Un altro centinaio di ricorsi analoghi a quello di Cestaro - per la Diaz e per le torture nella caserma-carcere di Bolzaneto - pendono ancora a Strasburgo e il governo italiano ha mobilitato l’Avvocatura dello stato per convincere i ricorrenti a ritirare le proprie istanze. Non è bello - devono aver pensato a Roma - subire una pioggia di condanne così sgradevoli, occorre provvedere. Almeno limitiamone il numero. Gli accordi raggiunti, una trentina, riguardano solo una parte dei ricorsi: molti dei malcapitati passati fra Diaz e Bolzaneto, a 15 anni dai fatti e a "sentenza Cestaro" ottenuta, preferiscono comprensibilmente accettare l’obolo e chiudere i conti con lo Stato; ma ce ne sono molti altri (io fra questi) che mettono al primo posto la questione di principio, anzi di giustizia. Il punto è che l’attivismo dell’Avvocatura dello stato è l’altra faccia dell’ignavia di parlamento e governo. Un’ignavia che corrisponde a una precisa scelta politica: farsi beffe della sentenza della Corte di Strasburgo. La quale, è bene ricordarlo, ha stabilito che il cittadino Cestaro non ha ottenuto giustizia, nonostante le condanne inflitte a 25 funzionari e dirigenti. Non c’è stata giustizia perché prescrizione e indulto hanno quasi cancellato le pene; perché gli autori materiali dei pestaggi non sono mai stati identificati; perché la polizia di stato ha ostacolato l’accertamento della verità giudiziaria. La Corte, nel condannare l’Italia, ha dato anche precise indicazioni d’intervento, al fine di rimediare alla sua "strutturale incapacità" di garantire il rispetto dei diritti fondamentali: sottoporre a procedimenti disciplinari (con sospensioni e rimozioni) i poliziotti condannati; approvare una legge sulla tortura; obbligare gli agenti a portare codici identificativi sulle divise. Governo a parlamento, da aprile a oggi, si sono presi gioco della Corte. Il premier Renzi aveva sbrigativamente indicato, come risposta a Strasburgo, l’approvazione di una legge sulla tortura, dimenticando tutto il resto. Ma nemmeno questa "rispostina" è arrivata a compimento, perché il parlamento è tenuto in scacco dal "partito della polizia", un coacervo di soggetti e di interessi che comprende i vertici dell’apparato di sicurezza, gran parte dei sindacati di settore e i numerosi sponsor politici delle forze dell’ordine. La Camera, nell’aprile scorso, approvò in fretta e furia, sull’onda dello scandalo suscitato dalla sentenza Cestaro, un testo di legge minimalista e arretrato (la tortura come reato generico e non specifico del pubblico ufficiale, la prescrizione ancora possibile), cercando di non scontentare troppo le nostre forze dell’ordine, da sempre contrarie all’introduzione del crimine nel nostro ordinamento. Ma perfino quel testo era troppo e così abbiamo assistito nell’estate scorsa a un’autentica sollevazione del "partito della polizia", con mobilitazioni di piazza dei sindacati e infuocati interventi in parlamento dei capi di polizia, carabinieri e finanza, ascoltati nella commissione del senato chiamata a esaminare il testo uscito da Montecitorio. In quale altro paese potrebbe avvenire qualcosa di simile? Alla fine è stato approvato un testo surreale e imbarazzante: un caso raro di legge sulla tortura, ma non contro la tortura, visto che l’incriminazione scatterebbe solo in caso di violenze reiterate, ammettendo quindi come leciti atti di tortura singola. Un testo assurdo, che il presidente della Repubblica non potrebbe firmare. In aggiunta, altro gesto beffardo, il ministro Alfano ha inventato una "soluzione" per i codici identificativi: l’Italia potrebbe introdurli, ma solo per identificare i reparti, non i singoli. Sembra uno scherzo ma è un drammatico indicatore dello stato di salute della cultura democratica nel nostro paese. Tanto per fare un esempio non casuale, nell’inchiesta Diaz i pm conoscevano i reparti impiegati nell’operazione - senza bisogno dei codici di Alfano - ma non sono riusciti a identificare i singoli autori delle violenze, perciò gli abusi alla scuola Diaz sono rimasti in gran parte impuniti, portando l’Italia alla condanna alla Corte di Strasburgo. In sintesi, stiamo assistendo a una penosa vicenda politica, nella quale il nostro governo, anziché rispettare le prescrizioni della Corte europea, tenta di ridurre l’impatto delle sue annunciate sentenze: meno sono, meglio è. I 45 mila euro offerti alle vittime di Genova G8 sono il prezzo da pagare all’analfabetismo democratico della politica italiana. L’obiettivo è minimizzare la figuraccia; la sostanza non conta. Chissenefrega se abbiamo regole inadeguate; se abbiamo forze di polizia insofferenti alle regole correnti nelle altre democrazie europee; se decine di persone, umiliate oltre ogni misura nel luglio 2001 alla Diaz e a Bolzaneto, sono costrette a rivolgersi a Strasburgo per tentare di spingere il vile parlamento del proprio paese ad assumersi le responsabilità che gli spettano. Conciliazione per Bolzaneto. Il mio ruolo di avvocato di Barbara Randazzo Corriere della Sera, 13 gennaio 2016 Nell’articolo pubblicato sul Corriere di domenica 10 gennaio 2016 "Offerta del governo per Bolzaneto. "Alle vittime 45 mila euro"" viene citato il mio nome attribuendomi un commento alla proposta del governo. In realtà nella mia qualità di difensore dei ricorrenti in uno dei ricorsi collettivi presentati nel 2010, non solo non ho mai pronunciato l’espressione che mi viene attribuita, ma non ho mai parlato con nessuno, men che meno con giornalisti, dell’offerta del governo in vista di una eventuale procedura di regolamento amichevole. La Convenzione e il regolamento della Corte europea impongono alle parti un obbligo di riservatezza su questo tipo di procedura. Ciò che invece è pubblico, e non da ora, sono i fatti di Bolzaneto e la vicenda parlamentare relativa all’introduzione del reato di tortura. I fatti come accertati dalle sentenze dei giudici italiani rappresentano una pagina nera della storia delle nostre forze dell’ordine, i cui appartenenti coinvolti sono rimasti sostanzialmente impuniti sia sul piano disciplinare sia sul piano penale, grazie all’intervenuta prescrizione in mancanza di una adeguata previsione sanzionatoria. Come cittadina italiana, prima che come avvocato, non posso non essere indignata per il perdurante indugio del Parlamento di fronte ad una questione che mette in discussione in radice la qualità della nostra democrazia e in particolare la fedeltà alla Costituzione repubblicana delle forze dell’ordine, chiamate a proteggerla. Per loro e non contro di loro è necessario che l’ordinamento si doti di uno strumento idoneo di prevenzione e repressione di condotte lesive della dignità umana. Sono rimaste senza seguito le rassicuranti dichiarazioni del governo all’indomani della sentenza Cestaro dello scorso aprile, in cui la Corte europea ha già condannato l’Italia per i fatti della scuola Diaz, prevedendo espressamente fra gli obblighi dello Stato quello di rimediare alla lacuna legislativa. E i fatti di Bolzaneto sono addirittura più gravi perché compiuti nei confronti di persone inermi completamente sotto il controllo della polizia, e per di più arrestate ingiustamente perché non colpevoli di alcun reato. Nessuno dei ricorrenti apparteneva infatti a coloro che hanno devastato la città e che per questo sono stati condannati anche duramente. La mia vita (anche privata) su @corriere.it… e adesso? di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 13 gennaio 2016 Mi autodenuncio: da 20 anni uso la mail aziendale anche per la mia vita privata. Un’unica casella consente di risparmiare tempo e dedicare più passione al lavoro. Questo potrebbe essere l’ultimo commento che scrivo per il Corriere della Sera. La Corte europea dei diritti umani ha stabilito infatti che chi utilizza la posta aziendale per questioni private non solo può essere controllato, ma può essere licenziato. Quindi, tanto vale confessare subito. Dal 1995 ho utilizzato il mio indirizzo @corriere.it per prenotare vacanze, chiedere consiglio, organizzare incontri, fare gli auguri a vecchi amici, rispondere a inviti personali, discutere con collaboratrici polemiche. Non avendo nulla da nascondere, ho pensato fosse più semplice concentrare tutta la corrispondenza in un unico indirizzo. Ho una sola speranza. Poiché tutti i colleghi del Corriere hanno fatto lo stesso, e per gli stessi motivi, Rcs dovrebbe licenziare in massa la redazione, qualsiasi inviato, ogni editorialista, tutti. Qualcuno dirà: la mail aziendale la fornisce l’azienda e si usa solo per questioni aziendali! Sillogismo apparentemente corretto. Di fatto, un’assurdità. Anzi: l’avallo di un’aberrazione. Vuol dire considerare i lavoratori dei simpatici fetenti, pronti a usare il tempo e gli strumenti dell’azienda per farsi gli affari propri. È vero esattamente il contrario. Nella grande maggioranza dei casi i dipendenti, anche nel tempo libero, dedicano tempo, passione e attenzione a questioni aziendali. Se non ci credete, ascoltate le conversazioni dei colleghi in pausa-pranzo, o partecipate a una cena con medici, insegnanti o giornalisti. I giudici di Strasburgo, queste cose, non le sanno? Usare un’unica casella di posta consente di risparmiare tempo ed essere più efficienti. Il resto è un’ipocrisia. Napoli: due morti in poche ore in carcere a Poggioreale napolitoday.it, 13 gennaio 2016 Padre colpito da infarto prima del colloquio col figlio detenuto e per malore muore un tossicodipendente ristretto. Il carcere di Napoli Poggioreale, tra i più grande ed affollati d’Italia, al centro delle cronache per due tragedie accadute nelle ultime ore. Prima un tossicodipendente detenuto che perde la vita per un malore in cella e poi la tragedia del padre colpito da infarto prima del colloquio col figlio ristretto. Ne da notizia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. "Ci troviamo a commentare due tragedie", commenta Donato Capece, segretario generale del Sappe. "Un padre che muore prima di fare il colloquio col figlio detenuto ed un ristretto con problemi di droga che si accascia per un malore sono due eventi davvero tragici, che purtroppo colpiscono la sensibilità di tutti. A poco è servito il pur tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari, dei medici e degli infermieri in entrambi i casi. Ogni tentativo di soccorso si è purtroppo rivelato vano". Capece ricorda di avere richiamato la sensibilità delle istituzioni e dell’opinione pubblica sulla situazione sanitaria del carcere il giorno di Santo Stefano, quando fu data la notizia di un altro detenuto morto per infarto ad Avellino: "La situazione sanitaria nelle carceri resta allarmante: almeno una patologia è presente nel 60-80% dei detenuti. Questo significa che almeno due detenuti su tre sono malati. Tra le malattie più frequenti, proprio quelle infettive, che interessano il 48% dei presenti. A seguire i disturbi psichiatrici (32%), le malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%)". Rispetto a questi temi, il Sappe punta sul potenziamento del ricorso all’area penale esterna per i detenuti non socialmente pericolosi. "Il carcere dev’essere l’estrema ratio. Da tempo sollecitiamo una inversione di tendenza sui modelli che caratterizzano la detenzione in Italia, modificando radicalmente le condizioni di vita dei ristretti e offrendo loro reali opportunità di recupero attraverso un potenziamento nell’area penale esterna e l’affidamento di lavori di pubblica utilità". E di questi temi se ne occuperà il Convegno organizzato dal Sappe per lunedì 18 gennaio, nel contesto del VI Congresso nazionale del Sappe che si terrà a Napoli, al quale interverrà, tra gli altri, anche il Ministro della Giustizia Andrea Orlando. Cagliari: Caligaris (Sdr); in 13 mesi i detenuti a Uta sono passati da 340 a 570 (+60%) Sardegna Oggi, 13 gennaio 2016 "I detenuti della Casa Circondariale di Cagliari-Uta in poco più di un anno sono passati da 340 a 570, facendo registrare un aumento di circa il 60%. Invariato però è rimasto il numero degli Agenti e degli Educatori. Dati oggettivi sui quali occorre riflettere anche perché le presenze nel Penitenziario cagliaritano eccedono la capienza regolamentare (557) e hanno determinato l’inserimento nelle celle, progettate per due, di un terzo letto". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", ricordando che "il trasferimento dei 340 detenuti da Buoncammino a Uta è avvenuto il 23 novembre 2014". "Esaminando i dati diffusi dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che fotografano la realtà detentiva al 31 dicembre 2015, non si può fare a meno di considerare - aggiunge Caligaris - la crescita esponenziale dei cittadini privati della libertà ristretti nelle celle del Villaggio Penitenziario nell’area industriale di Cagliari a circa 23 chilometri dal capoluogo di regione. Numeri che confermano la tendenza a saturare in breve tempo gli spazi disponibili senza però considerare le scarse opportunità di lavoro per chi deve scontare la pena". "Il carcere di Cagliari-Uta, come precedentemente Buoncammino, continua ad essere - sostiene la presidente di Sdr - la cartina di tornasole del sistema detentivo in Sardegna. A preoccupare è l’altissimo numero di tossicodipendenti (40%), di anziani affetti da diverse patologie (un uomo e una donna di 83 anni) e perfino di un obeso di 250 chilogrammi. Il Centro Diagnostico Terapeutico, nonostante la nuova struttura, non è in grado di accogliere più di 24 pazienti e in assenza di Operatori Socio Assistenziali l’accudimento delle persone con gravi patologie è garantito da detenuti-volontari. La struttura, articolata in diversi edifici, è dispersiva e di difficile gestione". "Relativamente ai numeri però si può affermare che la situazione è particolarmente critica nelle due Case di Reclusione destinate ai detenuti in regime di alta sicurezza: Nuchis-Tempio (196 ristretti per 167 posti regolamentari) e Massama-Oristano (279 detenuti per 260). La situazione, peraltro al limite a Sassari (413 detenuti per 455), rischia di peggiorare con la chiusura del San Daniele di Lanusei (35 per 33 posti). In quest’ultimo carcere infatti sono reclusi sex offender e protetti che saranno distribuiti tra Bancali e Uta. Davanti a questo quadro occorre infine collocare la carenza di Direttori (in trasferimento Carla Ciavarella, restano stabili solo 5 per dieci Istituti) e un Provveditore a scavalco. E c’è pure - conclude ironicamente Caligaris - chi vuole riaprire l’Asinara!". L’Aquila: il ministero pensa all’accorpamento delle carceri di Avezzano e Sulmona primadanoi.it, 13 gennaio 2016 Nel mese di gennaio il Ministero della Giustizia potrebbe accorpare le sedi penitenziarie di Avezzano e Sulmona. Secondo lo schema di decreto il provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per l’Abruzzo sarebbe soppresso e al suo posto nella sede di Pescara sarebbe istituito, con sede presso l’istituto penitenziario, un distaccamenti del provveditorato stesso. I distaccamenti, che costituiscono uffici non dirigenziali, svolgono compiti di segreteria tecnica del provveditore per le relazioni con gli organi territoriali dello Stato, gli enti locali, le associazioni che cooperano al trattamento dei detenuti. Potrebbero venire meno alcune autonomie penitenziarie quali quelle di Avezzano e di Chieti. "Fortunatamente siamo solo a livello di bozza per cui suscettibile, ci auguriamo, di modifiche", commenta Mauro Nardella della segreteria provinciale Uilpa. "Qualora non dovessero ascoltare le indicazioni chieste lo scenario che si aprirà agli occhi degli esperti del settore sarà devastante. Sulmona ed Avezzano si ritroveranno con un solo direttore e un solo comandante di reparto che dovranno fare i conti con 72 detenuti in più e per giunta posti ad una distanza di oltre 50 km". Il tutto senza considerare il fatto che a breve Sulmona sperimenterà l’apertura del nuovo padiglione in grado, quest’ultimo, di ospitare ulteriori 200 detenuti. Chieti, seppur con i suoi 129 detenuti potrebbe dire tranquillamente la sua in maniera del tutto autonoma, potrebbe essere inglobata nella direzione della casa circondariale di Pescara. "La ridisegnazione dei circuiti penitenziari voluta dall’allora ministro della Giustizia Rosanna Cancellieri", spiega Nardella, "ha consentito di costruire condizioni di vita, nelle sezioni detentive di tutti gli istituti oggetto del paventato accorpamento, molto più tranquille e rispettose dei regolamenti. A Chieti sono state implementate sezioni femminili comuni e per sex offender, sezioni Maschili di media sicurezza e una sezione maschile per sex offender. In esso è inoltre attivo un ambizioso progetto elaborato di concerto con l’Università cittadina e la Asl e rivolto al recupero dei detenuti macchiatesi di reati sessuali e che a quanto pare sta producendo soddisfacenti risultati". L’accorpamento, secondo il sindacato, "destabilizzerebbe gli ottimi rapporti con le istituzioni locali. Chieti bisogna ricordarlo è anche sede di tribunali non indifferenti quali la corte di Assise e la Corte di Appello e a breve con la chiusura dei tribunali di Vasto e Lanciano diverrà sede giudiziaria unica per l’intera Provincia. Chi ha disegnato questa bozza dimostra poca conoscenza del territorio e delle medesime istituzioni. Se di accorpamento non se ne potrà fare a meno sarebbe stato molto più logico pensare di unire la realtà di Vasto a Chieti e non miscelando istituzioni extra provinciali citando Pescara quale unità penitenziaria da associare a Chieti. Stessa cosa dicasi per Avezzano. Per quest’ultima se proprio non si potrà fare a meno di mantenerla autonoma sarebbe il caso di assoggettarla alla Casa Circondariale dell’Aquila (anch’essa sede di importantissime istituzioni giudiziarie) lasciando inalterato l’assetto organizzativo della Casa Reclusione di Sulmona". Saluzzo: al via il progetto "Mai+Dentro" nella Casa di reclusione targatocn.it, 13 gennaio 2016 L’iniziativa è stata ideata dall’associazione "Mai+Sole", in accordo con la casa di reclusione locale. Voglio ri-cucire la mia vita... questa frase esprime la necessità di un cambiamento importante su quello che è il corso della propria vita e un riscatto sugli errori commessi da questi uomini che hanno portato ad uno strappo, come sul tessuto, tra quello che doveva essere e quello che è la loro esistenza. Dalla necessità di comprendere cosa ha portato a questo strappo e come poterlo ricucire, nasce il progetto mai+dentro dell’Associazione Mai+Sole" di Savigliano, realizzato presso la Casa di Reclusione di Saluzzo. In particolare si è cercato di aprire una finestra sull’altra parte del cielo con delle domande importanti e per nulla banali su "come viene visto il reato da chi lo compie e qual’ è il suo vissuto?". Questo progetto quindi ha previsto delle attività di condivisione e creazione che potessero portare ad un dialogo tra i detenuti e le volontarie: comprendere la complessità della violenza e poterla combattere in modo costruttivo implica necessariamente prendere coscienza dei vari aspetti che la compongono, sia verso la vittima ma anche da chi la mette in atto. Il laboratorio di sartoria sicuramente è stata una proposta innovativa, non solo per il luogo scelto ma anche per i destinatari, che come riferisce un partecipante "persone che non hanno solitamente una propensione all’arte del cucito". Le attività hanno portato alla realizzazione di borse con tessuti riciclati, create dai detenuti con l’aiuto delle volontarie dell’Associazione mai+sole nelle persone di Anna Maria Luciano, Lina Arese (sarta), Elena Barbero (sarta) e Adonella Fiorito. Il progetto ha previsto un appuntamento settimanale di due ore per quasi tutto il 2015, i prodotti creati sono stati presentati a delle fiere da parte dell’Associazione e il ricavato è stato devoluto ai detenuti partecipanti, per l’acquisto di beni di prima necessità. Dal contatto con queste persone è emerso che alcuni di loro non hanno un sostegno di una famiglia al di fuori del carcere e spesso sono soli, non a caso il valore aggiunto di questo laboratorio, è stata la nascita di amicizie tra detenuti reclusi in settori diversi. Il progetto ha avuto una buona compliance da parte dei partecipanti ed è stato percepito come un momento di evasione dalla "fortezza" in cui si trovano (come riporta un detenuto) in cui il tempo che passa pare eterno; inoltre l’apprendere nuove competenze che, una volta rilasciati, potranno essere messe a disposizione di altri, "può essere un’opportunità per noi fuori da queste mura". Tutti i partecipanti hanno espresso il desiderio che il progetto possa proseguire nel anno successivo e di potervi partecipare. L’Associazione Mai+Sole, colpita positivamente dai risultati, ripropone il progetto nel 2016 con inizio tra febbraio e marzo. Un particolare ringraziamento, oltre ai partecipanti del laboratorio, viene rivolto al Direttore della Casa di Reclusione di Saluzzo Dott. Giorgio Leggieri, all’amministrazione penitenziaria e alle educatrici Dott.ssa Nicolisi, Dott.ssa Sannelli, Dott.ssa Andolina e Dott.ssa Boragna, senza la cui collaborazione non sarebbe stato possibile mettere in pratica il progetto. Sassari: Mario Dossoni nuovo Garante comunale dei diritti dei detenuti sardegnadies.it, 13 gennaio 2016 La nomina martedì pomeriggio da parte del Consiglio comunale dopo tre votazioni. Il Consiglio comunale di Sassari ha nominato il nuovo garante dei diritti delle persone private della libertà personale. È Mario Dossoni, che ha ricevuto 24 voti; nove voti sono invece andati a Simonetta Sotgiu. L’elezione è avvenuta al terzo scrutinio. La prima era stata nell’ultima seduta del 2015, a ridosso di Natale. La seconda oggi, che si è conclusa con il risultato di 22 voti per Mario Dossoni, nove per Simonetta Sotgiu e due nulle. Non essendo stato raggiunto il quorum, è stato necessario procedere con un terzo scrutinio. Parma: violenza in carcere, la solidarietà dell’Anm al sostituto procuratore Podda La Gazzetta di Parma, 13 gennaio 2016 L’Associazione Nazionale Magistrati, sottosezione di Parma, esprime solidarietà alla collega, dr.ssa Emanuela Podda, destinataria di recenti attacchi mediatici su scala nazionale, in ordine al contenuto di una richiesta di archiviazione presentata a carico di taluni agenti della locale Polizia Penitenziaria in relazione a presunte violenze in danno del detenuto Rachid Assarag. Pur senza entrare nel merito della vicenda processuale che sarà affrontata nelle sedi competenti, si stigmatizza la scelta di estrapolare, peraltro in modo non corretto, singole espressioni da un corposo provvedimento di dodici pagine (il cui contenuto è totalmente omesso nel contesto mediatico), stravolgendone completamente il significato, al fine di attribuire all’estensore la volontà di "legittimare la violenza in carcere", con seguenti valutazioni espresse in sede politica di "ingenuità e/o irresponsabilità". Questa sottosezione, nel rilevare che le riserve diffusamente manifestate, soprattutto dall’avvocatura, in ordine ai cd processi mediatici e agli effetti potenzialmente condizionanti su chi è chiamato a decidere non possono che avere valenza generale, ritiene necessario ribadire con forza che la legittima critica ad ogni provvedimento giudiziario in nessun caso può tradursi nel gratuito dileggio o peggio ancora nell’insulto a carico del magistrato che ne è autore. Roma: Regina Coeli, ispettore Polizia penitenziaria aggredito, detenuto lo prende a testate Il Messaggero, 13 gennaio 2016 Ancora un’aggressione a una guardia penitenziaria nel carcere di Regina Coeli a Roma. Un detenuto italiano di 40 anni, martedì pomeriggio, si è scagliato contro un vice ispettore colpendolo con una forte testata, tanto da spaccargli il setto nasale e da mandarlo in ospedale con una prognosi di trenta giorni. L’episodio è avvenuto intorno alle ore 15, nella terza sezione, la stessa che ospita personaggi del calibro dei Casamonica, al momento del rientro e del conteggio dei reclusi. Il sottufficiale, originario di Siena, avrebbe sollecitato il rientro del detenuto che per tutta risposta lo ha preso a male parole e poi lo ha avvicinato fino a colpirlo. Il quarantenne è recidivo: si sarebbe già reso protagonista di aggressioni ai poliziotti anche nei carceri di Rebibbia, da dove proveniva, e di Viterbo. Dopo i fatti di martedì, ora è in isolamento. Dura la condanna di Uil-Pa penitenziari e Cisl Fns. "Ormai la presenza della polizia penitenziaria all’interno delle sezioni di Regina Coeli sta diventando sempre più esigua e inefficace - denuncia Daniele Nicastrini, segretario Uil - con conseguenze che vanno dal semplice insulto ad aggressioni vere e proprie da parte dei delinquenti". Per la Cisl, "si devono inasprire le pene per i detenuti autori di tali aggressioni". Roma: il detenuto Zhang da Padova con Benigni incontra Papa Francesco di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 13 gennaio 2016 Si chiama Zhang Agostino Jiangquing, ha 29 anni, è cinese, da dieci è in carcere al Due Palazzi di Padova. Non è in regime di semilibertà, anche se ne ha fatto richiesta, ma da un anno gode di permessi. Uno di questi permessi lo ha portato a Roma dove ieri ha incontrato papa Francesco, essendo tra gli invitati della consegna da parte di Marina Berlusconi, presidente di Mondadori, della prima copia dell’edizione italiana del libro intervista del pontefice "Il nome di Dio è Misericordia". E non è finita: Zhang Agostino questa mattina partecipa alla presentazione del libro all’Istituto Patristico Augustinianum, sempre a Roma, assieme a monsignor Giuseppe Costa (direttore della Libreria Editrice Vaticana), all’autore del libro-intervista Andrea Tornielli, a Roberto Benigni (invitato direttamente da Bergoglio), al segretario di Stato Vaticano il vicentino Pietro Parolin. Cosa ci faccia un giovane cinese, detenuto a Padova, in cotanta santa compagnia è spiegato dal fatto che Zhang Agostino è diventato un "caso" da quando lo scorso aprile (non che sia un caso unico) ha ricevuto battesimo, comunione e cresima al Due Palazzi dalle mani del vescovo Mattiazzo. Questo al termine di un percorso durato tre anni di avvicinamento alla religione. Un intenso percorso guidato da don Pozza cappellano del carcere e da uno dei diaconi che fanno parte dell’équipe diocesana distaccata dietro le sbarre. Mesi fa Zhang Agostino aveva già avuto un permesso "speciale": era nel gruppo di detenuti (anche padovani) che sono stati ricevuti dal papa. È diventato un po’ un simbolo, Agostino Jiangquing, i cui genitori abitano e lavorano nel Nord Italia e in aprile hanno partecipato al battesimo. Quanto a lui, descritto come persona tranquilla e simpatica, in ottobre aveva iniziato a frequentare la prima superiore in carcere ma per ora ha smesso visto che ha avuto l’opportunità di lavorare, dentro il Due Palazzi, nel laboratorio di montaggio. Bergamo: Dante entra in carcere, l’Inferno recitato dai condannati diventa un video Corriere della Sera, 13 gennaio 2016 Il progetto della casa circondariale di Bergamo: quindici detenuti alle prese con la Divina Commedia. Anche in arabo. "Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensiero rinnova la paura, tant’è amara che poco è più morte". Probabilmente in rare occasioni il sommo poeta è stato più vissuto, più sentito nel profondo dell’animo. A declamare i famosi versi non è uno studente, ma un detenuto del carcere di Bergamo, trentenne, di nazionalità peruviana, in un video pubblicato su Youtube. Come si ricorderà, ministeri e italianisti, lo scorso ottobre, avevano lanciato il progetto "Dante a mezzogiorno", ideato per le scuole e le università. In realtà, il padre della letteratura italiana è entrato nelle biblioteche, nei circoli di lettura, nelle librerie, nei musei e perfino in cella. La comunità di via Gleno ha risposto scegliendo di celebrare l’anniversario dei 750 anni della nascita del Poeta a modo suo, studiando prima i versi con la perifrasi, riflettendoci e recitandoli poi accanto alla finestra con le sbarre o seduti nell’aula di lezione, come se si trattasse di studenti qualsiasi. L’iniziativa è stata registrata e si è trasformata in un filmato di 13 minuti (vedi la versione integrale). L’ideatore del progetto è il professor Marco Rovaris, salito in cattedra lo scorso ottobre dopo che 114 colleghi avevano rinunciato al posto di lavoro in via Gleno. Ad aiutare il professore sono stati un compagno dei tempi dell’università, Stefano Ruffinoni, esperto di cinema, e le insegnanti Elena Gotti e Luciana Mariano. Per il regolamento di sicurezza del carcere, i detenuti non hanno potuto celebrare il Poeta con il flash mob "Dante a mezzogiorno", come è stata consuetudine in tutta la Penisola. Ma non hanno rinunciato. L’iniziativa è stata, infatti, libera e all’insegna della creatività. Il libro scelto, l’Inferno. Lo studio è cominciato a ottobre e ci è voluto un mese e mezzo di lavoro in classe. Sono una quindicina gli alunni "speciali" coinvolti nel progetto letterario, tutti uomini, e rinchiusi nella "sezione comuni". "I versi iniziali sono stati scelti da quattro detenuti, compreso un arabo che ha recitato nella lingua del Corano - spiega Marco Rovaris. Un ragazzo cinese ha voluto leggere il Canto 7 legato alla fortuna perché l’ha portato a pensare sul significato del destino e su quanto incida rispetto alla volontà. Un altro ha fatto rivivere la leggenda di Giasone. Il mio migliore alunno si è cimentato nel quinto canto, quello di Paolo e Francesca, il più apprezzato per quelle due fiammelle che si muovono in coppia e che ancora suggestionano. A lui è dedicata la parte centrale del documentario". Ma il passaggio più emozionante è corale, tante voci e tanti colori, per rendere le sfumature di Ulisse, con il coordinamento di Elena Gotti. "Ulisse è il simbolo della scoperta, della conoscenza che rende l’uomo superiore a qualsiasi altra creatura, certo anche emblema di libertà, di evasione. Perché no?", conclude il prof. Sullo sfondo, i carboncini, meravigliosi, di un carcerato artista. Milano: "InGalera", cronaca di una cena nel ristorante in carcere più stellato d’Italia di Daniele Biella Vita, 13 gennaio 2016 InGalera, la nuova realtà culinaria situata all’interno della Casa di reclusione di Bollate, è aperto a tutti, bambini compresi. Ecco il resoconto in salsa leggera - scritto dal collaboratore di Vita.it Daniele Biella, entrato nel ristorante "in borghese", per una festa familiare - di un’esperienza che ribalta i paradigmi e, a partire da qualità di cibo e servizio, può avvicinare più che mai la cittadinanza al mondo dietro le sbarre "Mamma, dove vuoi andare a cena per il tuo compleanno?". "InGalera". "Dove?". Inizia così, in una serata invernale, un dialogo nato come surreale ma cresciuto di lì a poco come una delle esperienze più reali e significative che abbia mai vissuto. "Sì, al ristorante InGalera, quello che hanno aperto da poco nel carcere di Bollate". Ah, ecco. Mia madre mi ha colto sul fatto, perché dovevo saperlo eccome: qualche tempo prima avevo dedicato un articolo di lancio proprio all’iniziativa culinaria lanciata dalla coop sociale Abc La sapienza in tavola - gestore anche di un efficiente servizio di catering - e da tempo copro con interesse umano ancor prima che giornalistico le vicende del carcere modello d’Italia, quello dove il reinserimento socio-lavorativo è all’avanguardia e, a occhio esterno, "non sembra nemmeno di essere in carcere". Ovviamente carcere lo è (chiedetelo ai reclusi!) ma la lungimiranza dei programmi avviati al suo interno abbattono la recidiva e i luoghi comuni. Così, in una sera dicembrina, a quasi un mese di distanza dalla prenotazione (quando ci andrete, riservate per tempo) eccoci: la festeggiata, il marito, i due figli, nuora e genero e i due - finora - nipoti. Proprio così: per la prima volta sono entrato in una struttura penitenziaria con due anime saltellanti di sei e due anni. Che emozione: "Papà, c’è da avere paura?", chiede il maggiore. "No, vieni che ti spiego bene come funziona". E funziona così: nel carcere ci entri davvero, il primo controllo lo superi e ti lasci il cancellone d’ingresso alle spalle, "scortato" da un giovane tirocinante di una scuola alberghiera che ti porta fin sotto gli uffici del personale carcerario - la zona detentiva è almeno un paio di centinaia di metri e un altro controllo più in là - dove è stato installato quello che ora è il fiore all’occhiello della struttura: InGalera, appunto, "Il ristorante del carcere più stellato d’Italia", come recita il cartello all’ingresso (in tutto 52 posti a sedere, aperto a pranzo e a cena, sei giorni su sette. Si mangia quick lunch a pranzo dal lunedì al venerdì, mentre il sabato a pranzo e tutte le sere c’è cena alla carta). Sette i detenuti impiegati, più uno chef e un maître esterni. Quest’ultimo ci viene incontro all’ingresso, accompagnato dalla persona senza la quale tutto questo non sarebbe stato possibile: Silvia Polleri, presidente di Abc La sapienza in tavola ma soprattutto attiva da almeno un trentennio nel fare progettazione sociale in carcere. È lei che accoglie gli invitati: non gliel’avevo detto che sarei arrivato, non mi aspettavo di trovarla lì in prima linea, il piacere è genuino e reciproco. L’atmosfera gioviale va di pari passo con un arredamento moderno e una qualità all’apparenza destabilizzanti, al pensiero di essere in un carcere. All’apparenza, perché fatto il primo passo capisci che è il posto giusto nel luogo giusto. La cucina? Non parlo certamente da palato fino, ma dall’aperitivo al dolce è un susseguirsi di cura non scontata verso ogni dettaglio. I tre camerieri di turno, detenuti lavoratori, sono solerti e pronti a ricevere dritte dall’inflessibile quanto simpatico maître. "È faticoso tenere il ritmo, ma ce la mettiamo tutta, perché una volta fuori c’è da rimboccarsi le maniche almeno il doppio di qui", sottolinea uno di loro. Anche il cane di piccola taglia (l’ho omesso nell’elenco precedente, ma è ammesso) di mia madre apprezza il luogo, trovando una posizione che non abbandonerà fino a fine serata, a parte un momento di estrema simpatia con tanto di latrato per un cameriere. Tutt’attorno a noi - in posizione centrale, nel tavolo rotondo - una clientela varia, età dai 30 agli almeno 60 anni, giovialità e leggerezza che permettono anche ai bambini di girare liberamente tra i tavoli e la zona con un paio di puntuali divanetti. "Allora com’è andata? Dimmelo sinceramente, mi conosci: se c’è qualcosa che non va bene, voglio saperlo", mi esorta Silvia Polleri al momento dei saluti. "Tutto benone". "Allora tornate presto, e fateci pubblicità, mi raccomando". Certo, Silvia. Non vi basta il mio parere - o quello di mia madre, soddisfatta di avere soffiato le candeline dentro le mura di una Casa circondariale - pensandolo magari sotto qualche influenza particolare? Eccovi una dritta: chiedete il parere a uno dei commensali che quella sera era al tavolo di fianco al nostro. L’abito non fa il monaco, certo, ma il nome, Alessandro Profumo, può forse dirvi qualcosa. Eboli (Sa): inaugurato il parco giochi dei detenuti dell’Icatt, dedicato a De Andrè salernonotizie.it, 13 gennaio 2016 Si è svolta in mattinata presso l’Istituto a Custodia Attenuata per il Trattamento delle Tossicodipendenze di Eboli, diretto dalla dottoressa Rita Romano, la cerimonia di inaugurazione del parco giochi intitolato a Fabrizio De Andrè realizzato nell’area del carcere destinata agli incontri tra i detenuti e i loro figli. Un’altalena biposto e alcune giostre a molla sono state acquistate grazie ai fondi raccolti durante la serata di beneficenza "MusIcatt al Castello - BandeAmì canta De Andrè" che si è tenuta nel settembre scorso con il concerto della cover band del grande Faber, evento inserito nel programma di manifestazioni della Fondazione De Andrè. Scelta non casuale quella del tributo al cantautore ligure, molte sue canzoni parlano di libertà, giustizia sociale, di emarginati ma anche di ribelli. Musica catartica, che tocca l’anima l’iniziativa è stata promossa dal gruppo musicale ebolitano BandeAmì a sostegno del progetto "Genitori senza Barriere", percorso di supporto alla genitorialità dei padri reclusi nel penitenziario portato avanti sin dal maggio scorso grazie al lavoro, a titolo volontario, della psicologa e criminologa clinica Angela Mastrolorenzo, dalla sociologa e counselor Raffaella Terribile, dall’educatrice e counselor Enza La Padula. "Quale socio porto i saluti della Fondazione De Andrè che ci ha annunciato inserirà il parco giochi ebolitano tra le strutture dedicate al grande Faber elencate sul sito istituzionale - dichiara Nicola Danza, portavoce del gruppo musicale BandeAmì. Il volontariato deve contribuire attivamente portando risultati concreti delle iniziative di beneficenza che si organizzano. Oggi siamo testimoni di questa fattività e ne andiamo orgogliosi. Il nostro percorso continua, con altre iniziative e serate. Il 18 febbraio saremo al Caffè 21 Marzo di Battipaglia, bar confiscato alla camorra che oggi rivive grazie al lavoro di 6 associazioni tra cui c’è anche l’Icatt di Eboli". "Padri dentro", essere genitori dietro le sbarre non è semplice, soprattutto quando i bimbi vengono al mondo in assenza del loro papà. Questa mattina è stato posto un primo tassello per attrezzare a misura di bambino l’area del carcere in cui si svolgono gli incontri genitori-figli. Un primo passo verso la realizzazione di un’area giochi dedicata con "L’obiettivo di favorire il contatto e la relazione tra i piccoli e i loro papà -precisa la direttrice dell’Icatt, Rita Romano. Un rapporto messo in discussione dall’esperienza della reclusione che recide i rapporti con l’esterno e in particolare con le famiglie. È nostro impegno nonché compito istituzionale ricucire i rapporti del detenuto con i familiari e soprattutto con i proprio figli nell’ottica di un recupero anche della personalità stessa del soggetto. De Andrè canta l’esclusione, la sofferenza quotidiana che riguarda anche la nostra utenza. Non potevamo non intitolare a lui questo parco giochi". Per l’acquisto delle giostre sono stati spesi circa 2 mila euro di cui 700 euro raccolti nel corso della serata di beneficenza, la quota restante coperta grazie alla solidarietà di alcuni sponsor: PlayCasoria, Costruire s.r.l., Litter Relaxing, Di Canto S.p.a., Sarim. L’iniziativa si avvale del patrocinio del Comune di Eboli, il sindaco Massimo Cariello sottolinea: "Questo è un ulteriore tassello che poniamo alla proficua collaborazione tra l’ente e l’Icatt. A breve presenteremo un protocollo d’intesa anche in sinergia con il Piano di Zona per l’inserimento socio-lavorativo dei detenuti. Quella di stamattina è un’iniziativa importantissima, i veri cambiamenti dipendono molto anche dal rapporto che si recupera con le famiglie. L’affetto delle persone care, in questi casi in particolar modo, è fondamentale". I BandeAmí, promotori dell’intera iniziativa, nascono come gruppo di amici con la passione per la musica e la forte intenzione di proporre brani dai temi e sentimenti forti, poco scontati e privi di convenzioni dominanti. Da qui l’avvicinarsi della band alla musica di Fabrizio De Andrè, la formazione vede alla voce Patrizia La Porta; Nicola Alberto Danza, all’armonica e voce; Enzo Greco al basso; Enrico La Rocca alla batteria; Agostino D’Incecco alla chitarra e la partecipazione di Ernesto Pumpo al sax soprano. Siena: Uisp; sport sociale nelle carceri, inaugurate le attività nel Santo Spirito di Gian Luca Pasini Gazzetta dello Sport, 13 gennaio 2016 Sono iniziate ufficialmente oggi le attività Uisp organizzate all’interno del carcere Santo Spirito di Siena. Dopo l’inaugurazione dell’impianto, il 24 settembre scorso, realizzato grazie alla collaborazione di Ecopneus, che ha messo a disposizione la gomma riciclata prodotta con pneumatici fuori uso (Pfu), sono al via le attività organizzate dall’Uisp Siena per gli ospiti del carcere. Stamattina si è tenuto un quadrangolare di calcio a cui hanno preso parte due squadre di detenuti, una rappresentativa dell’Uisp Siena e una del Comune di Siena, formata da vigili urbani e consiglieri comunali. I detenuti hanno consegnato al Comitato Uisp un quadro realizzato durante l’attività ricreatoria di laboratorio artistico svolta assieme ai volontari della Croce Rossa. "È una grande soddisfazione per noi seguire lo sviluppo di questo intervento di sport sociale, promosso in collaborazione con il carcere Santo Spirito e il Comune di Siena - racconta Simone Pacciani, vicepresidente nazionale Uisp. È la conferma che il nostro impegno verso le persone recluse è riconosciuto e premiato dalle comunità sociali e dalle Istituzioni". "Lo sport - ha sottolineato il direttore del carcere di Siena Sergio Lamontagna - è importantissimo nel progetto di recupero dei detenuti, per far comprendere come questo luogo, tradizionalmente separato, sia al contrario parte della società e della città". Il quadrangolare, che è stato vinto da una rappresentativa di detenuti, dà il via alle attività sportive che da oggi diventano stabili e costanti. Tra le varie proposte, segnaliamo il corso di formazione per arbitri di calcio che avrà inizio il 1 febbraio, a cui hanno aderito 15 detenuti. Tra le materie di formazione è prevista una parte tecnica e lo studio delle aree comuni, come quella dell’educazione ai valori dello sport. Inoltre, domenica 3 aprile alcuni ragazzi usciranno dalle mura del carcere per correre Vivicittà a Siena, la nota corsa podistica Uisp che si terrà simultaneamente in decine di città italiane ed estere. Tra le leggi e i valori esiste una corrispondenza nelle società democratiche di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 13 gennaio 2016 Il rischio è credere che sia reale il mondo levigato e confortevole dove regna la morale del politicamente corretto In India essere cattolico è un’impresa che può costare anche la vita. Sarebbe buona norma che prima di criticare un testo lo si leggesse con un minimo di attenzione. Mi sorprende che invece Carlo Rovelli - per giunta uno scienziato di vaglia - si sia fatto prendere dalle sue emozioni e dai suoi pregiudizi obiettando a cose che io non ho mai scritto. A differenza di quanto egli mi attribuisce non ho mai scritto, infatti, che "la nostra società deve essere guidata da un sistema di valori e dalle regole dettate (corsivo mio) dai comportamenti socialmente ammessi". Ho scritto di condividere l’opinione della cancelliera Merkel secondo cui chi immigra da noi deve integrarsi "nel sistema di valori, di regole e di comportamenti socialmente ammessi che vigono da noi". Come si vede una cosa ben diversa da quella immaginata da Rovelli (non ho mai pensato né scritto, cioè, che debbano essere i comportamenti socialmente accettati a dettare le regole. E mi chiedo: può specialmente un uomo di scienza permettersi una simile leggerezza? Può farne l’architrave del suo ragionamento senza accorgersi dell’errore?). Il fraintendimento ora detto, chiamiamolo benevolmente così, consente a Rovelli, che vi insiste più e più volte, di prodursi in una lunga discettazione sulla necessità che le nostre società siano "regolate dalle leggi, non da sistemi di valori e giudizi individuali su cosa siano comportamenti socialmente ammessi", sdegnandosi adeguatamente del fatto che io, invece - secondo l’opinione che egli manipolando le mie parole mi attribuisce - auspicherei il contrario. Evviva le leggi, abbasso i valori: questo è la sostanza del punto di vista di Rovelli, convinto, si capisce benissimo, di esprimere in tal modo una visione altamente democratica e razionale come si conviene a un vero scienziato. Peccato però che in questo caso si tratti di un punto di vista e di una visione sbagliati. Le leggi di una qualunque società, infatti, derivano da null’altro che dai suoi valori. E da dove altro se no? Salvo rarissimi casi tra le une e gli altri non vi può essere che una sostanziale coincidenza: pena, altrimenti, la non osservanza delle prime o la necessità di dure misure repressive per ottenerne il rispetto. "Le leggi vengono discusse dalla politica" scrive Rovelli. Appunto: e su che cosa egli crede che verta tale discussione, che cosa crede che rispecchi la sua conclusione in un testo legislativo, se non ciò che pensa, che crede, che spera chi vive in quella società? Cioè i suoi valori? Valori che poi, naturalmente, non possono non influenzare in modo significativo anche i comportamenti socialmente ammessi. In ogni società - e tanto più direi nelle società democratiche - tra leggi, valori e comportamenti c’è una sorta di necessaria circolarità, di necessaria corrispondenza (esattamente come io avevo scritto nella frase da Rovelli manipolata). L’evidente scarsa dimestichezza di Rovelli con tali argomenti si manifesta in pieno quando egli si mette a parlare della cultura in generale e di quella della nostra penisola in particolare (ma in fin dei conti lo capisco: non si può possedere in eguale misura la bibliografia sui neutrini e quella sulla storia d’Italia). Cultura è una parola complessa, dalle molte accezioni; un po’ come filosofia. Ebbene Rovelli parla di cultura come chi a proposito di filosofia parlasse allo stesso modo della filosofia idealistica e della "filosofia del parmigiano", cioè non distinguendo la sostanziale differenza tra gli usi diversi dello stesso termine. Certo che "ogni cultura non è mai unica", come un po’ alla buona scrive Rovelli. Certo che ogni cultura degna di questo nome si forma attraverso la confluenza nel proprio alveo di influssi e ibridazioni. Ma l’alveo è decisivo, per l’appunto. E ogni alveo è diverso da un altro. Dunque, credere che l’Italia sia un esempio preclaro di multiculturalismo solo perché della sua identità fanno parte cose diverse come il Rinascimento toscano e l’Illuminismo milanese, o perché Peppone e don Camillo votavano partiti opposti, è un’idea di un’approssimazione e di un’ingenuità che un minimo, ma proprio un minimo, di preparazione sull’argomento sarebbe stata sufficiente ad evitare. La verità è che non ci si può mettere a sentenziare su queste cose in modo impressionistico, basandosi su un buon liceo e sulla lettura dei giornali. È come se io mi mettessi a disquisire sui "buchi neri" o a dire la mia sugli anelli di Saturno. Egualmente è di un’ingenuità e di un’approssimazione intellettuali da far cadere le braccia credere, come il mio interlocutore crede, che la cultura italiana di oggi sia profondamente diversa da quella dei nostri nonni. Cioè, bisognerebbe dedurne, che la cultura di un Paese - quella vera, quella profonda, frutto di innumerevoli stratificazioni a cominciare da quella religiosa - cambi ogni settanta, ottanta anni. Non è così. Ciò che cambia è semmai il costume, caro Rovelli, il costume, non la cultura, non i tratti dell’identità e dei suoi valori di fondo. Sono cose assai diverse, come lei sa, e la conoscenza dovrebbe consistere innanzi tutto nella capacità di distinguere. Che dire infine di New York, Shanghai o Mumbai additate in queste righe quali eden di una "tolleranza serena delle diversità", della "convivenza pacifica", di "un senso civico comune", di "una nuova identità plurale"? Ma ha mai provato chi scrive tali cose a passeggiare di notte nel Bronx o a tenere un comizio antigovernativo su un marciapiede del Bund? Ed è mai venuto a conoscenza che, certamente non nei quartieri centrali di quella grande città, ma sicuramente in moltissime zone dell’India, essere cattolico è, per esempio, un’impresa a rischio che si può pagare con la vita, ovvero, per dirne un’altra, che lo stupro delle giovani donne è pratica diffusa, molto spesso ancora oggi impunita? Ma andiamo, di che cosa stiamo parlando? La verità è che il multiculturalismo di cui parla Rovelli e che suscita la sua entusiastica adesione non ha molto a che fare con nulla di reale, con la storia, con le culture, con i problemi reali (da lui infatti del tutto ignorati perché, immagino, attribuiti a pure "superstizioni" che il progresso prima o poi cancellerà). È un multiculturalismo da vip lounge aeroportuale, un multiculturalismo da campus di Yale, da prestigiose summer school riservate ai "migliori studenti", come egli scrive. Un mondo levigato e confortevole dove regna il politically correct che lo obbliga a credere che esistano leggi disincarnate dettate da una morale universale mentre - che bello! - in una strada da qualche parte "i giovani di tutto il mondo si parlano". È il mondo al riparo del mondo dove solo può vivere in un cieca autoreferenzialità l’idillio buonista di tante élite intellettuali dell’Occidente, avvolte nel compiacimento dei privilegiati che neppure sospettano di esserlo. Le leggi (non i valori) regolino l’accoglienza di Carlo Rovelli Corriere della Sera, 13 gennaio 2016 Che l’integrazione sia possibile lo dimostrano città di Paesi e continenti diversi tra loro. La convivenza non deve essere legata a sistemi di giudizi individuali sui comportamenti socialmente ammessi. Il 10 gennaio scorso Ernesto Galli Della Loggia ha espresso su questo giornale alcune idee sull’integrazione. Ha sostenuto, fra l’altro, che la nostra società deve essere guidata da un sistema di valori e dalle regole dettate dai comportamenti socialmente ammessi che devono essere imposti a chi arriva dall’estero; che quando si possiede una cultura, e si ha intenzione di mantenerla, è molto difficile, pressoché impossibile, adottarne insieme un’altra; e che società multiculturali non esistono. Vorrei esprimere un punto di vista diverso su queste questioni. Ritengo che la nostra società debba essere regolata dalle leggi, non da sistemi di valori e giudizi individuali su cosa siano comportamenti socialmente ammessi. È questo il senso stesso della legge, che ci ha lasciato in eredità la grandezza dell’impero romano, esempio principe di società multi-culturale, tollerante delle diversità. La legge stabilisce, anche nel dettaglio, cosa non è lecito. Voglio vivere in una società dove ciò che non è lecito è sancito in maniera chiara e trasparente dalla legge, non lasciato nel vago di "comportamenti socialmente ammessi" o "valori condivisi". Il motivo è che anche fra noi molto spesso non abbiamo gli stessi valori; e abbiamo idee diverse su cosa siano i comportamenti socialmente accettabili. Molto probabilmente, anzi certamente, per esempio, Galli della Loggia ed io abbiamo alcuni valori diversi, e giudizi diversi sui comportamenti che apprezziamo. Ma conviviamo pacificamente, rispettandoci reciprocamente, aspettandoci l’uno dall’altro il rispetto della legge. Se non rispettiamo la legge, ci sono polizia e sistema giudiziario. Le leggi vengono discusse dalla politica e rappresentano la costante mediazione fra le molteplici culture del Paese. Sostenere che la nostra società debba essere regolata da "comportamenti socialmente ammessi" anziché dalla legge mi sembra un pericoloso ritorno ad una ideologia premoderna, dove le norme non sono scritte ma aleggiano nell’aria misteriose e si possono condannare le persone anche se non violano leggi. Ha ragione Galli della Loggia sul fatto che i comportamenti illeciti devono essere puniti, e nessuno deve essere scusato "perché straniero". Ma devono essere puniti perché violano le leggi, come devono essere puniti i cittadini nazionali che li commettono, non per altro. A chi viene a vivere nei nostri Paesi non dobbiamo chiedere di adottare valori, comportamenti, usanze, cultura o, peggio, religione: dobbiamo semplicemente chiedere di rispettare le leggi, come lo chiediamo ai cittadini italiani. Il secondo punto in cui non mi trovo d’accordo con Galli della Loggia è quando scrive "Quando si possiede una cultura, e si ha intenzione di mantenerla, è molto difficile, pressoché impossibile, adottarne insieme un’altra. Se si crede in certi valori, è difficilissimo farne propri allo stesso tempo anche altri". Forse Galli della Loggia parla di se stesso, ma, in generale, penso che le cose non stiano così. Chiunque abbia viaggiato abbastanza, o abbia vissuto in Paesi diversi e fra popolazioni diverse, sa bene come sia possibile imparare ad apprezzare culture, comportamenti, e anche valori diversi dai propri ed arricchirsi in questo, senza per questo rinunciare a se stessi. La cultura italiana stessa è largamente una sovrapposizione, un’ibridazione, con radici che affondano nel Rinascimento toscano come nell’Illuminismo milanese e napoletano, nella Torino filofrancese come nella Trieste imperial-regia, negli innumerevoli strati culturali della Sicilia come nelle tradizioni antiche delle terre Sannite o Grecaniche. E lo splendore di Venezia è stato soprattutto lo splendore di una grande apertura alle culture dell’Oriente, che ha aperto all’Europa le porte del mondo moderno. Per non parlare delle differenze culturali fra Peppone e Don Camillo, e tutte le innumerevoli discordie che hanno fatto la ricchezza culturale italiana. La grande forza culturale italiana non è nata dalla chiusura in difesa di una identità nazionale: è nata dalla ricchezza della varietà delle componenti e delle influenze che l’hanno nutrita. La cultura non è mai unica, è sempre una sovrapposizione di strati, e più strati abbiamo più la nostra cultura è ricca. Sopratutto, la cultura non è una roccia immobile, è una continua evoluzione di idee. L’odierna cultura italiana, dalle idee politiche all’evoluzione del senso religioso, dal cibo al modo in cui uomini e donne si guardano, o dipendenti e datori di lavoro interagiscono, è profondamente diversa da quella di solo settant’anni fa. Perché? Perché ci siamo aperti a influenze di idee esterne, e siamo orgogliosi di averlo fatto. Alcuni comportamenti che giustamente condanniamo in chi immigra oggi in Europa erano comportamenti leciti per parecchi dei nostri nonni. Se i nostri nonni si fossero arroccati nella difesa della cultura locale, sarebbero ahimè ancora comportamenti nostri. Lasciamoci serenamente influenzare da quello che ci convince, e diciamo serenamente no, con la legge, senza timori, a quanto giudichiamo negativo. L’ultimo punto su cui non sono d’accordo è l’idea che società multiculturali non esistano. Chiunque può verificarlo da sé: prenda un aereo, oramai costano pochissimo, e vada a Londra, a New York, a Shanghai, a Mumbai, o a Toronto, dove il nuovo governo canadese rispecchia il multiculturalismo fin nel suo Consiglio dei ministri. Nel rispetto reciproco e nel rispetto comune della legge, comunità diversissime convivono pacificamente in moltissimi luoghi del mondo. Chiunque abbia vissuto in questi luoghi ne conosce la vivacità culturale. La tolleranza serena delle diversità non significa accettare comportamenti riprovevoli: significa rendersi conto che ci sono mille modi apprezzabili di vivere diversi dal nostro, altrettanto buoni. Dalla diversità e dalla tolleranza nasce un senso civico comune e una nuova comune identità plurale. Alla fine, le cose che ci uniscono come esseri umani e che condividiamo sono sempre molte di più di quelle che ci differenziano. Il mondo è da sempre un mischiarsi di culture diverse e da questo mischiarsi nasce il meglio. La vivacità culturale odierna dell’America è il risultato dell’essere, come essa stessa si definisce, un melting pot: un crogiolo di influenze culturali disparate. Ma è sempre stato così: fra i testi scritti più antichi di cui disponiamo, ci sono dizionari Sumero-Accadico: l’inizio della civiltà è stato un mescolarsi di culture. Sto scrivendo queste righe da una cittadina vicino a Dakar, in Senegal. Sono qui in visita all’Aims, l’Istituto Africano di Studi Matematici. È una scuola che ha come obiettivo quello di raccogliere i migliori studenti africani e offrire loro una formazione scientifica della più alta qualità possibile. Lo slogan di ispirazione per la scuola è "il prossimo Einstein sarà un’africana". È un posto splendido, dove ragazzi da tutti i Paesi d’Africa vivono insieme, provenendo da culture assai più diverse fra loro che quelle fra una sponda e l’altra del Mediterraneo. Si mescolano, imparano l’uno dall’altro e da insegnanti che vengono dal Canada, dall’Olanda, da Israele, dalla Cina. E io imparo da questi ragazzi molto di più che leggendo giornali italiani. In posti come questo, come nelle strade di innumerevoli città del mondo dove le persone si mescolano, e giovani di tutto il mondo si parlano, sta nascendo il futuro migliore: un futuro fatto della ricchezza del mescolamento, non della paura del diverso. L’irresistibile ascesa della percezione xenofoba di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 13 gennaio 2016 Migranti. Quando Merkel, oggi sotto tiro, ha aperto le porte ai rifugiati ha sottovalutato forse l’impatto in Germania. Come ha chiarito Renzi, il rinvio dell’abolizione del reato di immigrazione clandestina ha un significato "psicologico". In un momento in cui la presenza degli immigrati è collegata dall’opinione pubblica alla violenza contro le donne o al terrorismo, l’abolizione del reato farebbe perdere consensi a favore della Lega, di Grillo e persino dell’agonizzante Forza Italia. Non importa che il reato sia giuridicamente dubbio e penalmente ininfluente e che i tecnici che dovrebbero applicare la relativa norma, cioè i magistrati, la considerino controproducente. Quella che conta è la "percezione dell’insicurezza", cioè un’emozione. La psicologia vince. La realtà perde. D’altra parte, questa è la dimensione dell’irresistibile ascesa di Trump a candidato repubblicano negli Usa, dei bombardamenti di Hollande e dello stato permanente di eccezione in Francia, della chiusura delle frontiere nell’Europa dell’est e della xenofobia che monta dovunque: la psicologia, la percezione, il panico. Ma di che parliamo? Di un sentimento diffuso, empiricamente avvertibile, reale, che produce un discorso collettivo - o di un discorso mediale che produce la sensazione collettiva? La differenza c’è, ed è tra senso della realtà e spirale incontrollabile di allarmismo e luoghi comuni xenofobi, tra gestione di un fenomeno complesso e scorciatoie forcaiole, tra nervi saldi e grida di vendetta ("Non avete voluto fare la guerra all’Isis? Ed ecco che pagano le nostre donne!", questa è l’acuta analisi di un ex gauchiste nostrano su un giornale di destra). Se parliamo di qualche centinaio di mentecatti, in grande maggioranza stranieri, tra cui alcuni rifugiati (sembra), che nella notte di San Silvestro a Colonia, hanno lanciato petardi ad altezza d’uomo, scippato e molestato sessualmente decine di donne, e violentato due - ebbene stiamo parlando di realtà (che sarà ovviamente verificata in sede giudiziaria). Ed è più o meno quella emersa, in questi giorni, sulla stampa tedesca, che in generale, tranne i giornali più populisti, è stata molto attenta a non scambiare l’emozione del momento per politica sull’immigrazione. Ma se si parla, come è avvenuto a caldo in Italia, di "decine di donne stuprate", di "migliaia di immigrati ubriachi che imperversano davanti alla cattedrale di Colonia", di "orrende notizie che non vorremmo dare" (ma che vengono date con evidente soddisfazione), non si fa un buon servizio né al giornalismo né alla realtà. E tanto meno alla libertà delle donne. Che oggi, in Europa, abitata da poco meno di 500 milioni di abitanti, di cui più o meno la metà appartiene al genere femminile, le donne non siano più libere di uscire la sera, per la presenza di immigrati, ovviamente musulmani, è un’idiozia enorme, che pure è capitato di leggere. Ma un’idiozia pericolosa, anche se minoritaria Perché comporta il rifiuto della realtà, e non il suo cambiamento. Porta a vedere nel "nordafricano", nell’"medio-orientale" ecc. non un essere che magari ha difficoltà di adattarsi al nostro mondo, come è del tutto comprensibile, ma un alieno da cacciare. E questo non lo aiuta quando è tra noi, e non aiuta noi con lui. Rispettare la libertà delle donne è un dovere per chiunque, per lui come per noi. Ma fa francamente ridere, anzi piangere, che oggi a straparlare di immigrati violentatori e di diritti delle donne siano giornalacci specializzati nel gossip più abietto e in natiche femminili. Quando Angela Merkel, oggi sulla graticola, ha aperto le porte ai rifugiati siriani, senza coordinarsi con gli stati europei confinanti, ha probabilmente sottovalutato l’impatto che l’iniziativa avrebbe avuto sul suo stesso paese e sul resto d’Europa. Ma resta il fatto che l’apertura ai rifugiati sarà difficilmente revocabile, nonostante i fatti di Colonia. E dunque la realtà resta, anche se è offuscata dalla violenza di alcuni e dal montare del panico alimentato da una certa opinione pubblica. Bloccando o rimandando l’abolizione del reato di immigrazione clandestina, Renzi, evidentemente preoccupato dai sondaggi, mostra di ignorare i fatti e di cedere all’opinione. Questo è comprensibile per un affabulatore che sembra aver perso da tempo il senso della realtà, come il suo predecessore Berlusconi. Ma i problemi restano e prima o poi chiederanno il conto al gioviale statista di Rignano sull’Arno. Droghe, la Svizzera sceglie l’innovazione di Matteo Ferrari Il Manifesto, 13 gennaio 2016 La politica svizzera delle tossicomanie ha ripreso vivacità e vi sono presagi d’un riavvio della discussione pubblica, anche se il tema oggi interessa poco, dopo un’innegabile normalizzazione che ha tolto il consumo di sostanze dalla ribalta della cronaca. A cavallo tra gli anni 80 e 90, infatti, il dibattito era aspro anche perché l’epidemia d’eroina in corso aveva sullo sfondo l’Hiv, le morti per overdose e le scene aperte, con consumo in pubblico e forte degrado sociale. Sul campo nacque allora la politica dei quattro pilastri, che aggiungeva la riduzione del danno ai tre pilastri teorizzati negli anni 70, quando s’introdusse la punibilità del consumo nella convinzione che avrebbe favorito la prevenzione, la terapia e la repressione. Si sperimentò anche il trattamento a base d’eroina, che si è rivelato efficace. I quattro pilastri, riduzione del danno compresa, dal 2011 sono ancorati nella legge nazionale approvata con voto popolare nel 2008. È però stata una riforma parziale, che ha consolidato quanto rivelatosi efficace nelle pratiche di presa in carico, ma che non ha osato affrontare il consumo ricreativo di canapa. L’unica innovazione, elaborata in un tortuoso iter legislativo, è la previsione per il consumo di canapa di una multa. Dal 2013, a determinate condizioni, in particolare la maggiore età e la detenzione d’un massimo di 10 grammi, il pagamento di 100 franchi (90 euro) estingue il reato. Gli sforzi delle tre commissioni su alcol, tabacco e droga sembrano essere stati recepiti dalle autorità della Confederazione. Andando con ordine, nel 2006 con psychoaktiv?.ch la commissione droga ha tematizzato le modalità di consumo, indicando che la necessità d’intervento dipende dalla situazione, poiché le sostanze si consumano con modalità differenti: consumi non problematici, consumi problematici e dipendenze che richiedono una presa in carico. Si suggeriva d’andare oltre il paradigma legale/illegale nell’impostare le politiche e le pratiche sulle sostanze. Nel 2010 le tre commissioni su alcol, tabacco e droga evocano una sfida alle dipendenze rammentando come vadano affrontate nel paradigma di una società liberale, che ricorre a mercati accessibili 24h su 24 e senza più riferimenti territoriali. Tale contesto non consente più obblighi e divieti, bisogna mirare ad alleanze con produttori e commercianti e al dialogo con i consumatori. Nel 2013 le tre commissioni esplicitano la loro visione: la regolamentazione di produzione, lavorazione, commercio e consumo con la creazione e il rafforzamento delle competenze al consumo saranno fattori strategici. Su queste basi il governo svizzero a fine 2015 ha approvato una strategia nazionale dipendenze 2017-2024 che va oltre gli stupefacenti ed estende a tutte le sostanze (nonché al gioco d’azzardo) il modello dei quattro pilastri. È ragionevole attendersi che il governo segua anche le indicazioni Ungass 2016 della sua commissione consultiva: maggiore attenzione ai diritti umani e alla riduzione del danno, con conseguente revisione delle convenzioni Onu. Il tema che però farà più discutere è la raccomandazione di promuovere modelli di regolamentazione basati sulla pericolosità delle sostanze e non sul loro statuto legale. L’ultimo lavoro della commissione droga, appena divenuta commissione dipendenze, s’intitola "Le droghe sono pericolose?": un rapporto che esamina più studi e mostra quanto sia complesso classificare le sostanze. La commissione conclude che la legislazione basata sul divieto non è più sufficiente: tutte le droghe sono pericolose e allo stesso tempo innocue. Bisogna sviluppare modelli di regolamentazione per tutte le sostanze, legali o illegali, per renderle accessibili e controllate dallo Stato. L’India a muso duro sui marò: Latorre deve tornare La Stampa, 13 gennaio 2016 Il 16 gennaio scade il permesso del militare che si trova in Italia per curarsi dopo l’ictus. "I marine italiani hanno commesso un crimine sul territorio indiano e sono tenuti a rispondere alla legge indiana. Oggi stesso il governo del Kerala chiederà al premier Modi di far tornare il marine in India". È quanto ha detto il premier del Kerala, Oommen Chandy, replicando, riporta la stampa indiana, alle dichiarazioni del presidente della commissione Difesa di Palazzo Madama, Nicola Latorre, che ha affermato che il fuciliere non tornerà in India. "Oggi stesso chiederò al premier di intervenire ed intraprendere passi decisi per riportare indietro i colpevoli", ha aggiunto Chandy parlando ai giornalisti alla vigilia dell’udienza in cui la Corte Suprema indiana si riunisce per fare il punto sulla vicenda che vede contrapposte Roma e Dehli. Sul tavolo dei magistrati indiani il dossier sulla permanenza in Italia del marò Massimiliano Latorre, il cui permesso per le cure ottenuto dalla fine del 2014 dopo un intervento al cuore a causa di un ictus, accordato dalle autorità indiane, scade questa settimana, il 16 gennaio. Già altre volte, all’approssimarsi della scadenza della licenza di Latorre, l’Italia ha chiesto una proroga alle autorità indiane. Puntualmente, a una prima risposta a muso duro è seguito un atteggiamento più accomodante. In realtà Delhi non si è mai opposta a prolungare il permesso al militare italiano, anche in considerazione del fatto che Salvatore Girone è tutt’ora in India, all’interno dell’ambasciata italiana. Il capogruppo di Fi in Commissione Difesa alla Camera Elio Vito ha annunciato che giovedì alle 15 farà un quesion time con il ministro della Difesa Pinotti sulla vicenda del permesso in scadenza. Istanbul colpita al cuore, un kamikaze fa strage uccisi dieci turisti otto erano tedeschi di Marco Ansaldo La Repubblica, 13 gennaio 2016 Esplosione in Piazza Sultanahmet: l’attentatore un saudita di origine siriana arruolato nel Califfato. Erdogan accusa gli "intellettuali stupidi" e l’espansionismo russo in Siria. Ora, Nella notte, c’è solo silenzio. E poliziotti al lavoro in tuta bianca e copri scarpe azzurri per rilievi che compiono chinandosi a terra, misurando distanze, parlandosi sottovoce dopo che anche il corpo dell’ultimo turista tedesco è stato rimosso. Ma a Piazza Sultanahmet, nel quadrilatero che i viaggiatori di ogni parte del mondo conoscono, fra la Moschea blu, la basilica di Santa Sofia, il Topkapi e la Cisterna, i jihadisti hanno lasciato per terra una macchia scura. Nessuno riesce a lavarla. Colpendo al cuore l’unica città al mondo che si estende su due continenti, cerniera fra Asia e Europa, hanno voluto spezzare l’ultimo lembo di dialogo che adesso sarà difficile ricostruire. Come sempre Tayyip Erdogan, l’uomo forte della Turchia, voce tonante e ciglio asciutto, lancia accuse all’esterno. L’altro ieri lo faceva contro i militari, contro i curdi, poi gli alleati islamisti, la finanza mondiale e i media internazionali. Oggi allunga la lista al terrorismo e agli "intellettuali stupidi". Ma per molti osservatori indipendenti è proprio l’ambiguità mostrata dal suo governo con il Califfato nero, durata quasi tre anni e giocata sul filo di un’acquiescenza criticata da molti, a essere considerata come la causa reale dell’attentato nel centro di Istanbul. Dove l’accordo raggiunto con Angela Merkel e con un’Europa convinta infine a concedere all’alleato turco tre miliardi euro in cambio della lotta al terrorismo e dell’aiuto nel controllare frontiere sempre più porose per lo sbarco di profughi e per l’attraversamento di terroristi, non ha salvato i turisti tedeschi. Solo lo scorso anno sono stati 5 milioni e mezzo dalla Germania. Il prevedibile crollo del turismo, adesso, e le difficoltà dell’economia turca faranno riconsiderare a molti l’affidabilità del loro Presidente. Tutti i 10 morti sono stranieri e ben 8 quelli tedeschi saltati in aria con l’attentatore, un kamikaze saudita di origine siriana che il premier Ahmet Davutoglu ha spiegato essersi arruolato nel cosiddetto Califfato islamico (secondo alcune fonti, si sarebbe registrato come rifugiato). Alle 10,20 ora locale (le 9,20 in Italia), Piazza Sultanahmet per fortuna non era zeppa di turisti come d’estate. Il freddo incombente in questa stagione in Turchia ha contribuito a tenere molti visitatori lontani. Gruppi di autobus stazionavano comunque davanti alla Moschea blu. Ed è qui, nel piazzale antistante, colmo di giardini fioriti e di fontane, nei pressi dell’obelisco di Teodosio, che l’attentatore si è fatto esplodere. Una deflagrazione tanto potente da essere percepita fino nella parte asiatica. "La terra ha tremato e c’era un odore pesante che mi ha bruciato le narici", ha raccontato una turista tedesca. "Abbiamo sentito un boato fortissimo - dice Turgut, il portiere di uno degli alberghi nella zona, tantissimi ormai e quasi sempre di ottimo livello visto il copioso giro di affari - ma dobbiamo avere paura qui: sia per il nostro lavoro, perché le gente ha subito disdetto molte prenotazioni; sia per la Turchia, ora al centro di giochi che passano sopra le teste di noi cittadini". A guardarli bene negli occhi, i turchi oggi hanno volti affranti: visi impauriti, e pensieri che si immaginano incapaci di immaginare un futuro di pace, stretti come sono fra la minaccia terrorista, la guerra curda riscoppiata in Anatolia, le tensioni con la Russia, e un braccio di ferro irrisolto con l’Europa. Passa una manciata di ore, e Erdogan compare alla tv. Ne ha per tutti. "La Turchia continuerà a lottare sino a quando le organizzazioni terroristiche non saranno totalmente annientate. Il problema oggi è il terrorismo, non la questione curda. Dobbiamo dirlo al mondo. Sono stupidi gli intellettuali che imputano al governo di aver compiuto qualche tipo di strage. Il governo conosce come il palmo delle sue mani il Sud-Est dell’Anatolia, mentre loro non lo conoscono e non sanno neppure il nome delle strade". Sotto tiro gli intellettuali, gli scrittori, gli accademici, come il sociologo americano Noam Chomsky: tutti colpevoli di criticare l’operato del governo: "Queste persone devono scegliere se stare dalla mia parte o dalla parte dei terroristi". E poi accuse a Russia e Mosca, "che vogliono espandere la loro area di influenza in Siria". Metà Turchia applaude Erdogan. Lo dimostrano le elezioni stravinte lo scorso novembre, quando ne è uscito premiato con oltre il 49 per cento dei voti, perché considerato l’uomo della stabilità. L’altra metà letteralmente lo odia, giudicando come irresponsabile il suo obiettivo di polarizzare il Paese, mettendo in un angolo avversari politici, magistratura e media, licenziando e facendo arrestare i giornalisti per i loro scoop antigovernativi. In serata la sua polizia scate- na la caccia ai terroristi, e arresta nella capitale Ankara 16 sospetti jihadisti. Ma questo è un Paese che vive ormai nella paura del terrorismo, alla media di un attacco ogni due mesi. A giugno a Diyarbakir 6 morti, poi a Suruc i 32 giovani che volevano ricostruire la biblioteca della città siriana di Kobane, quindi il 10 ottobre le 102 vittime curde ad Ankara poco prima delle elezioni. Ora l’attacco più duro per l’immagine del Paese. Con un governo che sull’esplosione di Piazza Sultanahmet impone il silenzio stampa, vietando, decreta il tribunale di Istanbul, "tutti i tipi di notizie, interviste, critiche e pubblicazioni simili sulla carta stampata, le televisioni, i social media e tutti gli altri tipi di mezzi di informazione su Internet". La Libia tra raid anonimi e operazioni umanitarie di Chiara Cruciati Il Manifesto, 13 gennaio 2016 L’Isis colpito a Sirte da un bombardamento che nessuno rivendica. Prove generali di un intervento con l’Italia che frena legandosi al futuro governo: portati in Italia con un C130 15 reclute ferite a Zliten. Un raid anonimo, un’operazione "umanitaria", la prospettiva di un intervento militare: in Libia è escalation delle tensioni belliche. Domenica è stato colpito un convoglio Isis a Sirte. Nessuno si assume la responsabilità di un’azione in cerca d’autore: potrebbero essere stati i jet francesi o i britannici, l’aviazione di Tobruk o quella di Tripoli. Silenzio da Parigi e Londra. Sono loro, però, dice Sky News Arabia, insieme agli Usa, a far volare aerei da guerra sopra la Libia. Mille soldati britannici sono già sul terreno, i jet di Sua Maestà volano a Cipro; marines sono già nel paese e 6mila francesi, inglesi e statunitensi (scrive il Daily Mirror) sono pronti a partire. Un’operazione che avrebbe come target la Mezzaluna petrolifera, tra Sirte e Bengasi. Ad accelerare sono Gran Bretagna e Francia, l’Italia frena. Ieri il premier Renzi ha visto i ministri Pinotti, Gentiloni e Alfano e i capi di stato maggiore e polizia a poche ore dalla missione "umanitaria" dell’Aeronautica per soccorrere 15 feriti nell’attacco Isis al centro di addestramento della polizia libica a Zliten. I feriti sono stati portati all’ospedale militare del Celio. Secondo quanto emerso, è stato il premier designato dell’esecutivo di unità al-Sarraj ad aver chiesto l’intervento italiano. Forse vuole soffocare così la rabbia libica che giovedì scorso ha avuto come target proprio il suo convoglio, assaltato a Zliten da una folla inferocita. L’operazione non è meramente umanitaria: Roma - nel rapporto diretto con un governo che ancora non vede la luce - si pone come riferimento per non perdere influenza su un paese ricchissimo di risorse e vecchio partner commerciale, in un momento in cui gli alleati scaldano i motori della guerra. Lo farà fornendo basi aeree ma puntando così al ruolo di guida del fronte occidentale. Lo farà perché deve arginare il bellicismo francese e britannico e garantirsi così il controllo delle porzioni di costa più ricche, attraverso un nuovo governo con cui ha già stabili contatti e la partecipazione dell’Eni nelle operazioni di messa in sicurezza dei giacimenti. Arabia Saudita: arrestata sorella del blogger Badawi. Amnesty: altro colpo ai diritti umani La Stampa, 13 gennaio 2016 Samar Badawi, sorella del blogger saudita Raif Badawi, condannato da Riad a 10 anni di prigione e mille frustate, è stata arrestata in Arabia Saudita: la notizia arriva da Amnesty International, che definisce il fermo "un nuovo colpo allarmante ai diritti umani" nel Paese. Samar Badawi, moglie dell’avvocato saudita per i diritti umani Waleed Abu al-Khair, è stata arrestata martedì a Gedda, insieme alla figlia di due anni, interrogata dalla polizia per quattro ore e poi trasferita nel carcere di Dhahran, riferisce l’Ong nel suo sito web. Secondo Ensaf Haidar, la sorella di Raif Badawi, "è stata arrestata con l’accusa di aver animato l’account Twitter @WaleedAbulkhair" dell’ex marito, attivista dei diritti umani. La prigione centrale di Dhahran è la stessa dove si trovano tanto il fratello, Raif Badawi, che il marito, Waleed Abdulkhairm, scrive su Twitter Ensaf Haidar, che si è rifugiata in Quebec con i tre figli, due femmine e un maschio. Anche Human Rights Watch (Hrw) ha chiesto alle autorità saudite di "liberare immediatamente" Samar Badawi e di "cessare di perseguire le persone unicamente per le loro critiche alle pratiche saudite in materia di diritti umani. Secondo Amnesty, Samar Badaoui, comparirà oggi dinanzi a un giudice. La donna era stata fatta oggetto di un divieto di lasciare il regno wahabita nel dicembre 2014. In carcere dal 2012, Raif Badawi ha ricevuto le sue prime 50 frustate nel gennaio 2015, ma dopo un’ondata di proteste internazionali la condanna è stata sospesa. Il 29 ottobre ha ottenuto il premio Sakharov per la libertà di espressione assegnato dal Parlamento Europeo, che ha anche chiesto la sua liberazione "immediata". Tunisia: partito al Qutb invita presidente Essebsi a graziare condannati per uso di cannabis Nova, 13 gennaio 2016 Il Polo democratico modernista tunisino (al Qutb), ha invitato oggi, tramite un comunicato stampa, il presidente Beji Caid Essebsi, a concedere l’amnistia a coloro che sono stati condannati per il consumo di cannabis. La richiesta arriva a pochi giorni dalle commemorazioni della rivoluzione tunisina del 14 gennaio. Nella nota al Qutb spiega che questa proposta è stata lanciata per alleviare le sofferenze dei detenuti e delle loro famiglie e per aiutare i detenuti nel loro reinserimento nella società. Lo scorso 30 dicembre il Consiglio dei ministri tunisino ha deciso la revisione della legge 52 in materia di consumo di droga. Nell’occasione il presidente Beji Caid Essebsi ha spiegato che la revisione mira ad evitare che il futuro dei giovani consumatori sia distrutto. Il presidente ha commentato "tenendo conto della situazione nel paese, e del fatto che il futuro di molti giovani tunisini è stato distrutto a causa di questa legge, è necessario rivederla. Fumando uno spinello un giovane rischia un anno di prigione, e questo è un peccato. Ho letto il progetto preparato dal ministero della Giustizia; questo testo contiene diverse modifiche sulle sanzioni ed è una buona cosa".