Il giustizialismo perfetto in nome del Movimento di Marco Demarco Corriere della Sera, 12 gennaio 2016 Le sentenze, anche quella emessa da Grillo, vengono scritte "a prescindere", come si è sempre fatto per i nemici e i traditori: ora vale anche per i compagni di schieramento I giudizi della classe dirigente su Rosa Capuozzo sono cambiati repentinamente. Ha pesato più la Rete o l’intervento di Saviano? Alle 18.39 di domenica 10 gennaio, l’Italia è entrata nell’era del giustizialismo perfetto. La stessa Italia che ha fatto dimettere vari ministri senza che fossero indagati ma solo perché schiacciati da prove ancora meramente mediatiche, ha trovato la sua ultima vittima in Rosa Capuozzo, sindaca pentastellata di Quarto, comune Flegreo finora noto solo per i continui scioglimenti per infiltrazioni mafiose. A quell’ora ha alzato le braccia in segno di resa anche il peggior garantismo, quello peloso, quello che vale per gli amici e giammai per gli altri, a meno che non si tratti di avversari già sconfitti dalla storia come Nicola Cosentino, l’ex sottosegretario berlusconiano agli arresti preventivi e impossibilitato a vedere la moglie da circa 900 giorni. A quell’ora di domenica, Grillo ha postato la sua sentenza liquidatoria: "L’onestà ha un prezzo, chiediamo con fermezza a Rosa di dimettersi". A quell’ora esatta la "cittadina" Capuozzo ha smesso di essere tale, cioè titolare di diritti come quello alla presunzione di innocenza. Addio eroina capace di respingere i ricatti e di tenere la camorra fuori dalla porta. Addio moglie ideale di Cesare, non solo onesta ma palesemente tale a dispetto delle accuse interessate su un presunto abuso edilizio. Grillo, che fino a un minuto prima l’aveva difesa a rischio del ridicolo, cioè facendosi le domande e dandosi le risposte più giacobino che mai l’ha mandata davanti alla ghigliottina: Rosa deve dimettersi per il bene della rivoluzione morale. A quell’ora, dunque, tutti diventano giustizialisti: non solo gli avversari col coltello tra i denti, i democrat in cerca di riscatto dopo la disfatta romana, e fatto salva la vicenda De Luca, tollerata nonostante la violazione della legge Severino, ma anche i compagni di avventura, i grillini che avevano scommesso su di lei e che, come Di Maio e Fico si erano, di recente, dimostrati affettuosi e solidali. Quando il momento arriva, Capuozzo non è indagata, nessuno, tra i leader del movimento, ha ben capito perché da parte lesa è diventa di colpo soggetto contundente, eppure ora tutti la giudicano e la condannano. Le sentenze, quella di Grillo compresa, vengono scritte "a prescindere", come si è sempre fatto per gli altri, con i nemici, appunto, o per gli "infedeli" e i traditori... Il garantismo, nato per tutelare la persona, va a farsi benedire perché la persona in quanto tale non interessa più. Quel che conta è il movimento. Punto. Ma alle 18.39 di domenica non cambia solo la fenomenologia del garantismo. Cambia anche quella della leadership. Un tempo c’erano i partiti-società (la Dc, il Pci) a cui sono seguiti i partiti-Palazzo (quelli dei sindaci eletti direttamente) e il partito-ditta (quello di Bersani) in opposizione al partito personale (Berlusconi). Ora siamo già oltre. Al partito dei leader, dice il politologo Mauro Calise pensando a Renzi e Grillo, i partiti che si mettono al servizio dell’uomo solo al comando. Alle 18.39 di domenica anche questa forma partito, almeno per quanto riguarda il M5S, è andata in crisi. Per due ragioni. Dopo il caso Quarto, è evidente che la selezione dei candidati pentastellati attraverso il web, fortemente voluta dal leader, non regge più. "Abbiamo - dice un grillino "riflessivo" - molte regole: fuori chi ha condanne, chi è iscritto ad altri partiti, chi è della massoneria, ma non abbiamo la cosa più importante, lo scanner del cuore, e senza è difficile individuare gli infiltrati". E poi: è stata forse la Rete a far cambiare idea a Grillo su Rosa Capuozzo? O non è stato piuttosto il giudizio senza appello di Saviano? Nessuno può negarlo: "Saviano locutus causa finita". È bastato che parlasse per chiudere la partita. Alla faccia della partecipazione popolare e della rappresentanza senza mediazione. È la prova che gli stessi leader a cui tutto il partito si piega, non ce la fanno più a reggere la complessità del mondo reale, che è fatta anche di Comuni da amministrare. Hanno ora bisogno di arbitri esterni cui demandare i conflitti più acuti e imbarazzanti. Un segno di debolezza. E qualcuno potrebbe anche pensare che Grillo, nella società, ha bisogno di Saviano come, con tutti i distinguo del caso, Renzi ha bisogno di Cantone nelle istituzioni. Ancora sovraffollamento, le carceri italiane non idonee a garantire i diritti dei detenuti di Ermes Antonucci La Stampa, 12 gennaio 2016 La maglia nera va alla Puglia, dove i detenuti sono 3.114 a dispetto di 2.374 posti disponibili. In una regione italiana su due le carceri continuano a non garantire ai detenuti lo spazio minimo di vivibilità previsto dalla legge. A confermare il quadro, tristemente noto (soprattutto a istituzioni e corti di giustizia internazionali), sono i dati forniti dallo stesso Ministero della Giustizia relativi alla situazione carceraria al 31 dicembre 2015, cioè al chiudersi dell’anno appena trascorso. Rispetto ad un anno fa, il tasso di sovraffollamento complessivo registra una lieve diminuzione, attestandosi al 105% (era il 108% al 31 dicembre 2014), con 52.164 detenuti a fronte di 49.592 posti disponibili, ma nel sistema penitenziario italiano permangono forti asimmetrie. Sono solo nove infatti, su venti, le regioni in cui il numero di persone incarcerate risulta inferiore alla capienza regolamentare degli istituti penitenziari presenti. La maglia nera va alla Puglia, dove i detenuti sono 3.114 a dispetto di 2.374 posti disponibili (sovraffollamento del 131%), ma sono le regioni del nord Italia a spiccare in questa classifica ben poco onorevole: il Friuli-Venezia Giulia è la seconda regione più sovraffollata, con 617 detenuti per 484 posti (127%), seguita da Lombardia (125%), Veneto (122%) e Liguria (117%). Le regioni in cui, invece, le strutture appaiono più idonee a garantire ai detenuti gli spazi minimi di vivibilità - 9 metri quadri più 5 mq per ogni ulteriore detenuto in cella - risultano essere il Trentino Alto Adige (446 detenuti per 509 posti), la Calabria (2.405 detenuti per 2.661 posti) e l’Umbria (1.239 detenuti per 1.324 posti). I dati sulla capienza degli istituti penitenziari, tuttavia, come denunciato più volte dalle associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti, e come ammesso dallo stesso ministero di Via Arenula, non tengono conto di "eventuali situazioni transitorie" (come la chiusura di reparti per lavori di manutenzione), che chiaramente farebbero lievitare il tasso di sovraffollamento ufficiale a cifre ben più alte. Contribuisce al sovraffollamento carcerario non solo la massiccia presenza di detenuti stranieri (circa il 33% del totale), ma soprattutto il numero delle persone incarcerate in via cautelare: sono 18.268 i detenuti ancora non condannati in via definitiva (35% del totale) e di questi ben 8.523, cioè la metà, continuano ad attendere la sentenza di primo grado. Caso depenalizzazioni frenata del governo sulle droghe leggere di Silvia Barocci Il Messaggero, 12 gennaio 2016 Il pacchetto sui reati venerdì in Cdm: resta quello di immigrazione clandestina. Il ministro Orlando: "Sulla cannabis norma da valutare" Il pacchetto delle depenalizzazioni dei reati minori non salterà e andrà all’esame del prossimo consiglio dei ministri, venerdì prossimo. Ma certamente senza il reato d’immigrazione clandestina e forse espungendo anche le norme sulla cannabis. "È in corso una valutazione", si limita a dire il Guardasigilli Orlando. Precisando, da un lato, che l’esigenza di cancellare dal codice penale il reato di clandestinità sia sempre attuale e, dall’altro, che la bozza preparata dal dicastero di via Arenula preveda la depenalizzazione solo per chi, già autorizzato a coltivare cannabis a scopi terapeutici o di ricerca, violi le prescrizioni. In sintesi, far crescere una piantina di cannabis sul terrazzo di casa resterebbe reato. Ma anche un’ipotesi d’intervento minimale sulla legge Jervolino-Vassalli sulle droghe (il secondo comma dell’art. 28 la pena di un anno di carcere verrebbe sostituita da una sanzione amministrativa da 5mila a 30mila euro), mette in fibrillazione la maggioranza. L’unico esponente Ned che prende apertamente posizione è Alessandro Pagano, parlamentare alfaniano: "Respingiamo qualsiasi tentativo di legalizzazione e liberalizzazione, un via libera a drogarsi che non potremmo mai accettare". Inutile che il ministro Orlando spieghi che, intervenendo sul codice per trasformare in una sanzione pecuniaria anche la sola violazione delle prescrizioni per le coltivazioni delle piante di stupefacenti a scopo terapeutico, "si sgravano i tribunali di un carico di lavoro importante". Il copione è simile a quello già visto per il reato d’immigrazione clandestina: la "percezione" della sicurezza, tanto più in vista delle amministrative, per il governo ha politicamente un valore superiore all’indubbia efficacia deflattiva di alcune misure sulla macchina della giustizia. Incassato lo stop alla cancellazione dell’immigrazione clandestina, gli alfaniani mantengono un basso profilo sulla questione droghe leggere. Un antiproibizionista come il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova segnala il "riflesso pavloviano di qualche forza politica, anche di maggioranza, che quando legge parole inerenti a diritti civili, diritti di libertà e responsabilità individuali, fa scattare il niet". Un riflesso che rischia di far saltare anche l’ipotesi minimale contenuta nella bozza Orlando. Invece - aggiunge Della Vedova - "è bene che sulla legalizzazione della cannabis il Parlamento si esprima a prescindere dalla maggioranza di governo". Il riferimento è al ddl Giachetti, ora in Commissione Giustizia alla Camera, che ha raccolto 230 firme di parlamentari di tutti gli schieramenti. La presidente Donatella Ferranti (Pd), ai augura che, se non sull’ immigrazione, almeno sulla questione cannabis il governo recepisca il parere della Commissione ed eserciti la delega: "diversamente, il "contenitore" per la depenalizzazione potrebbe essere la proposta Giachetti". Mentre per modificare (e non depenalizzare) il reato di clandestinità - fa notare il responsabile Giustizia David Ermini - "si pensa d’intervenire con un emendamento alla riforma del processo penale ora al Senato". Prima, però, resta da chiudere la partita depenalizzazioni. La delega scade il 17 gennaio, qualsiasi altro rinvio rischia di far saltare l’intero pacchetto. Depenalizzazioni. La guida senza patente diventa un caso di Dino Martirano Corriere della Sera, 12 gennaio 2016 Nello schema del governo sulle depenalizzazioni non è più reato ma illecito amministrativo Polemica sulla cannabis. Orlando: "Misure diverse solo per chi la produce per usi terapeutici". Il governo, in vista del Consiglio dei ministri di venerdì 15, passa al setaccio la delega sulla depenalizzazione autorizzata dal Parlamento nel 2014 con la legge 67, in scadenza il 17 gennaio. Dal menu dei reati puniti con la sola pena pecuniaria da trasformare ora in illeciti amministrativi (atti osceni, abuso di credulità popolare, noleggio di materiale coperto da copyright, etc.), sono già saltati i piatti forti: l’immigrazione clandestina e il disturbo della quiete notturna e ora balla - sempre con un occhio del premier Renzi rivolto alle reazioni dell’opinione pubblica - anche l’inottemperanza delle prescrizioni per chi è autorizzato a coltivare cannabis per scopi terapeutici. Nell’elenco delle depenalizzazioni resta, però, la guida senza patente. Oggi l’articolo 116 (XV comma) del Codice della Strada prevede la sanzione penale dell’ammenda (da 2.257 a 9.032 euro) per chi guida senza aver conseguito l’esame e per chi circola con la patente scaduta. Lo schema di decreto legislativo preparato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando prevede di trasformare il reato in sanzione amministrativa solo per i casi in cui non ci sia recidiva. In pratica chi sarà scoperto a guidare senza patente per la prima volta eviterà sì il processo penale (che spesso finisce con la prescrizione), ma dovrà pagare una sanzione salatissima: da 5 mila a 30 mila euro. La seconda volta senza patente, nell’arco del biennio, c’è anche l’arresto fino a un anno e il calcolo della recidiva. Donatella Ferranti (Pd), presidente della commissione Giustizia della Camera, e anche gli uffici del ministro sono convinti che la sanzione salatissima sarà più efficace dell’ammenda. Tuttavia a Palazzo Chigi già hanno scelto la via del rinvio con l’immigrazione clandestina e la coltivazione della cannabis terapeutica. E dunque la coincidenza con l’approvazione del reato autonomo di omicidio stradale (previsto per fine mese alla Camera con l’ergastolo della patente, da 15 a 30 anni di sospensione, in caso di incidente mortale) potrebbe scatenare i centristi del Ncd che su droga e immigrazione hanno già guidato il fronte del no. La guida senza patente in caso di incidente mortale, puntualizza la relatrice Alessia Morani, sarebbe però una aggravante dell’omicidio stradale. Il ministro Beatrice Lorenzin (Ncd) è stata la prima a dire ai colleghi che sulla cannabis era meglio "dare un segnale": non depenalizzando perfino le rare inottemperanze delle prescrizioni previste per chi ha l’autorizzazione a coltivare le sostanze per scopi terapeutici. "I casi in cui è applicato questo reato sono pochissimi - ha commentato Orlando - e riguardano gli istituti di ricerca. Dunque, non sposta nulla questa depenalizzazione". Ecco, il reato da depenalizzare (introducendo una sanzione amministrativa fino a 30 mila euro) riguarda le case farmaceutiche autorizzate: "Chiunque non osserva le prescrizioni e le garanzie..." per la fabbricazione autorizzata delle sostanze (articolo 28, comma 2 del Testo unico sugli stupefacenti). Sia chiaro, spiega Donatella Ferranti, "nessuno ha chiesto la depenalizzazione della coltivazione della cannabis che resta sanzionata con il carcere... per cui, su questo reato del tutto marginale, è bene che il governo rispetti i principi di delega votati dal Parlamento". L’articolo 659 del codice penale (disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone) rimane anche se le sanzioni sono modeste (fino a tre mesi di arresto e fino a 309 euro di ammenda) e non spaventano i gestori di discoteche e fiaschetterie. L’unica consolazione per i cittadini tartassati dalla movida sarà quella di poter chiamare ancora carabinieri e polizia. Senza il penale la competenza sarebbe dei vigili. Avrebbe dovuto sparire anche il reato di immigrazione clandestina che magistrati e polizia chiedono di cancellare perché gli stranieri irregolari indagati ("Per i quali spendiamo 1.000 euro ciascuno per l’avvocato d’ufficio", osserva Orlando) poi non possono testimoniare contro gli "scafisti" perché risultano indagati per reato connesso. Renzi, pressato da Alfano, ha chiesto un rinvio. E ora il Guardasigilli sta pensando a come tappare la falla: "Ci potrebbe essere un emendamento del governo al Senato al ddl penale anche per rispondere alla Corte di Strasburgo che, in via generale, ci invita a non applicare per i medesimi comportamenti la sanzione penale e la misura amministrativa". Reato cancellato ma solo nel momento in cui verrà rafforzata l’espulsione dello straniero applicata dal prefetto. Della Vedova: "Ncd sappia che la depenalizzazione entrerà in Italia dalla porta principale" di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 gennaio 2016 Intervista. Parla il Radicale Benedetto Della Vedova, sottosegretario agli Affari esteri: "Il decreto legislativo riguarda solo le strutture autorizzate alla coltivazione della marijuana. E il no del centrodestra alla delega è solo un divieto pavloviano" Sottosegretario Benedetto Della Vedova, con un Radicale come lei che guida l’inter-gruppo parlamentare per la cannabis legale, facciamo subito chiarezza: a chi si applica la depenalizzazione dei reati connessi alla coltivazione della marijuana contemplata nella delega parlamentare affidata nel 2014 al governo perché la trasformasse in legge entro il 17 gennaio 2016? "Si applica solo ai soggetti autorizzati alla coltivazione a scopo scientifico o per la produzione di farmaci. Pensiamo per esempio alle strutture dell’esercito dove è stato avviato il programma sperimentale per la produzione statale di cannabis terapeutica. Per affrontare il problema più generale del desolante panorama penitenziario, il parlamento intervenne trasformando l’eventuale violazione di alcune regole a cui l’autorizzazione è subordinata da reato penale in illecito amministrativo, con multe comunque fino a 30 mila euro. Non si tratta di una depenalizzazione complessiva". Allora Gasparri, Forza Italia, Ncd, e tutta la destra che si oppone a questa depenalizzazione non hanno capito nulla? "È un riflesso pavloviano: di fronte alla sola parola depenalizzazione vedono rosso e partono con i proclami e i divieti. Ma in questo caso stanno sparando con la spingarda a un povero passerotto perché si tratta solo di una razionalizzazione del sistema penale che riguarda pochissimi soggetti autorizzati. Da un punto di vista politico rimane il problema che come si evocano diritti civili, parte fuoco di fila. Non so perché lo fanno: è un connotato, come direbbe Marco Pannella, da coalizione Fanfani-Almirante degli anni 70". È il centrodestra, l’area a cui lei è sempre stato più vicino… "Sì, ma il centrodestra che ha dimenticato in fretta la rivoluzione liberale e il garantismo, se non è applicato a Berlusconi (che pure io non disapprovo), quello di Bracardi: più galera per tutti. Perciò molti di noi se ne sono andati in tempi non sospetti. Ed è uno dei motivi per cui il governo fa fatica ad andare avanti nelle riforme strutturali del carcere e della giustizia". Se il Cdm di venerdì prossimo non approvasse la norma, si troverebbero in difficoltà anche strutture come lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze dove è avviata la produzione di Stato della cannabis terapeutica? "Che ci sia o meno, questo intervento non interferisce con le autorizzazioni già rilasciate o da dare. Si tratta solo di non gravare ulteriormente sul sistema penale impegnando magistrati, forze dell’ordine, giudici e avvocati". Come per il reato di clandestinità, il governo si muove in base alla percezione comune e non su dati di realtà… "Chiunque fa politica e si misura con il consenso sa che l’emotività è uno degli elementi con cui bisogna fare i conti. Ma se l’obiettivo è trovare soluzioni allora bisogna avere il coraggio di affrontare le critiche e di fare le scelte che si ritengono giuste, nella convinzione che saranno i risultati a placare le preoccupazioni dell’opinione pubblica". Il ministro Orlando dice che nel governo "è ancora in corso una valutazione sul testo". Secondo lei, alla fine, prevarrà la spinta liberale o quella bigotta? "Non so, perché spetta al Cdm decidere. Però voglio dire ai colleghi dell’Ncd che noi dell’inter-gruppo la legalizzazione la vogliamo portare in Italia attraverso la porta principale, cioè con il voto in parlamento. E con un grande dibattito pubblico, a cui stiamo lavorando, nel quale, svincolati da una logica di maggioranza e opposizione come è giusto che sia nell’ambito dei diritti, si confronteranno le ragioni dei proibizionisti e di chi, come noi, crede nella legalizzazione come strumento di sicurezza, di legalità fiscale e di lotta alle mafie. L’iter della legge è già iniziato alla Camera dove le commissioni Giustizia e Affari sociali stanno lavorando e continueranno a farlo, anche questa settimana". Ma come è possibile che in un Paese in cui le forze dell’ordine dettano legge sul reato di tortura o sui codici identificativi, nessuno dia retta alla relazione dell’Antimafia che parla di "fallimento dell’azione repressiva" sullo spaccio e auspica una "depenalizzazione della materia"? "Io la vedo esattamente al contrario: 220 deputati e 70 senatori hanno firmato il pdl per la legalizzazione della cannabis e la liberalizzazione della coltivazione ad uso personale. Dobbiamo essere consapevoli che si sta andando con forza in quella direzione. Non dobbiamo farci condizionare dalle polemiche strumentali contro il governo: è evidente che la battaglia parlamentare si può vincere. E in termini di legalità, salute e bilancio pubblico sarebbe un passaggio rilevantissimo che per una volta l’Italia potrebbe fare prima degli altri. Perché che si arrivi alla legalizzazione della cannabis è certo, il problema è quando". Patrizio Gonnella (Antigone): reato di clandestinità? rischiamo di tornare alla forca di Andrea Scutellà Il Tirreno, 12 gennaio 2016 Il presidente di Antigone spiega che "non può comandare la percezione popolare". Per una volta tutti gli attori in campo sono d’accordo: il cosiddetto reato di "clandestinità" è inutile e dannoso. Persino il governo ha riconosciuto la necessità della depenalizzazione già stabilita dal Parlamento. Ma il premier, sulla questione, "si è fatto impaurire da Matteo Salvini, che è riuscito a convincerlo", spiega Patrizio Gonnella, presidente della Coalizione italiana per la libertà e diritti civili (Cild) e dell’Associazione Antigone. Perché, a quanto sembra dalle ultime dichiarazioni di Matteo Renzi, Maria Elena Boschi e Angelino Alfano, la percezione della realtà è diventata più importante della realtà stessa. Ma occhio a "legittimare una costruzione di norme sulla basata della percezione dei cittadini, perché altrimenti rimettiamo la forca", spiega ancora Gonnella. Renzi, Alfano, Boschi: tutti hanno detto che il reato non si depenalizza perché sulla sicurezza si giocano due partite: una sulla realtà, una sulla sua percezione... "La percezione si forma non in astratto ma in concreto su come gli attori politici e gli opinion makers orientano l’opinione pubblica. Quel reato è un bluff, è un simbolo per racimolare 4 voti. Inoltre un presidente del Consiglio non può legittimare una costruzione di norme sulla base della percezione dei cittadini, perché altrimenti avremo la pena di morte in Italia. Andiamo a chiedere alle persone cosa ne farebbero di uno stupratore o di un pedofilo. Rimetteremo la forca anche per i politici, con questo gioco, sia chiaro". Che cos’è il reato di clandestinità? "È un reato che, in termini tecnici, non ha un bene offeso. Viene chiamato delitto di status, in quanto sei immigrato hai commesso di per sé un reato. Su questo stesso terreno la Corte Costituzionale era già intervenuta, a proposito della circostanza aggravante introdotta sempre dal governo Berlusconi. In quel caso, se a commettere un reato era un immigrato irregolare, avrebbe dovuto avere una pena superiore rispetto a un italiano o a un migrante regolare. La Corte Costituzionale disse che era stato violato il principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Ma l’allora ministro degli Interni Maroni con il collega alla Giustizia Alfano volevano addirittura introdurre un reato di immigrazione irregolare, che prevedesse la sanzione del carcere. Alla fine decisero per un’ammenda, che queste persone poverissime non possono comunque pagare". Perché voi preferite chiamarlo reato di immigrazione irregolare? "La parola clandestino di per sé ha un’accezione negativa, fa ricordare quelli che si nascondevano nelle navi per non pagare un biglietto. I giornalisti più attenti hanno già preso impegni con i loro ordini professionali di usare parole non offensive. Monitorandole con Google trends, ci siamo accorti che nel 2015, per fortuna, ‘profugo’ e ‘rifugiato’ sono state usate di più rispetto alla parola clandestino". Come si riflettono i reati legati all’immigrazione sulla macchina penitenziaria e su quella giudiziaria? "Il reato di immigrazione irregolare ha inciso solo sulla seconda, non sulla prima. Sulla macchina penitenziaria ha pesato un altro reato, l’inottemperanza all’obbligo di espulsione del questore (legge Bossi-Fini del 2002) che adesso non c’è più perché la Corte di giustizia europea ci ha obbligato a disapplicarlo. Per quel reato c’erano 15mila ingressi annui nelle carceri: erano persone per cui pendeva un obbligo di espulsione non ottemperato e restavano in galera da 1 a 4 anni. È rimasto però il reato di ingresso irregolare. I giudici l’hanno usato poco, ma le stanze dei magistrati sono state invase dalle denunce. Nel momento in cui si incriminano mezzo milione di persone, è il criminale vero che sfugge". Quali sono i risultati raggiunti dal reato di immigrazione irregolare? "Poche decine di condanne e uno spostamento dell’attenzione delle forze di polizia. Tutti i soggetti tecnici che si occupano di immigrazione dicono che va depenalizzato: le associazioni, le forze di polizia, la magistratura. Tutti tranne Salvini, che è riuscito a impaurire Renzi e a convincerlo". È un esempio di come in Italia e in Europa più che una politica seria sull’immigrazione, ci sia solo creazione di consenso? "I partiti della destra europea, come la Lega, costruiscono la loro identità su questo terreno: sono escludenti, xenofobi e nazionalisti. L’altro pezzo della politica è pauroso: non ha un’idea e va a rimorchio degli altri. Hanno rinunciato. L’intervista di Renzi è la rinuncia alla funzione pedagogica della politica". Ma il governo può scegliere se cancellare o meno questo reato? "Il governo deve depenalizzare. Può scegliere le modalità, ma deve farlo perché l’ha detto il Parlamento. Non può esercitare discrezionalità. Noi stiamo ragionando in prospettiva su come sollevare questione di costituzionalità sul mancato esercizio della delega. Altrimenti il Parlamento non ha più sovranità legislativa". Riforme costituzionali. Voi al governo, che cosa avete capito? di Gustavo Zagrebelsky Il Manifesto, 12 gennaio 2016 Coloro che vedono le riforme costituzionali gravide di conseguenze negative non si aggrappano alla Costituzione perché è "la più bella del mondo". Sono gli zelatori della riforma che usano quell’espressione per farli sembrare degli stupidi conservatori e distogliere l’attenzione dalla posta in gioco. La posta in gioco è la concezione della vita politica e sociale che la Costituzione prefigura e promette, sintetizzandola nelle parole "democrazia" e "lavoro" che campeggiano nel primo comma dell’art. 1. Quali credenziali possono esibire gli attuali legislatori costituzionali? A parte la questione, bellamente ignorata, dell’incostituzionalità della legge elettorale in base alla quale essi sono stati eletti; a parte la falsificazione delle maggioranze che quella legge ha comportato, senza la quale non ci sarebbero stati i numeri in Parlamento; a parte tutto ciò, la domanda che deve essere posta è: quale visione della vita politica li muove? A quale intento corrispondono le loro iniziative? C’è un "non detto" e lì si trovano le ragioni di tanta enfasi, di tanto accanimento, di tanta drammatizzazione che non si giustificherebbero se si trattasse solo di riduzione dei costi della politica e di efficientismo decisionale. La posta in gioco non è di natura economica e funzionale. Se fosse solo questo, si dovrebbe trattare la "riforma" come una riformetta da discutere tecnicamente, incapace di sommuovere acute passioni politiche. Invece, c’è chi la carica d’un significato eccezionale, si atteggia a demiurgo d’una fase politica nuova e dice d’essere pronto a giocarsi su di essa perfino il proprio futuro politico. Ciò si spiega, per l’appunto, con il "non detto". Cerchiamo, allora, di dirlo, nel quadro delle profonde trasformazioni istituzionali degli ultimi decenni, trasformazioni che hanno comportato un ribaltamento della democrazia parlamentare in uno strano regime tecnocratico-oligarchico che, per sua natura, ha come punto di riferimento l’esecutivo. Viviamo in "tempi esecutivi"! La politica esce di scena. I tecnici ne occupano lo spazio nei posti-chiave, cioè nei luoghi delle decisioni in materia economica, oggi prevalentemente nella versione della finanza, e nel campo della politica estera, oggi principalmente nella versione degli impegni militari. La partecipazione politica che dovrebbe potersi esprimere nella veritiera rappresentazione del popolo, cioè in parlamento, a partire dai bisogni, dalle aspirazioni, dagli ideali non è più considerata un valore democratico da coltivare, ma un intralcio. Così, del fatto che la metà degli elettori sia lontana dalla politica al punto da non trovare attrattive nell’esercizio del diritto di voto, nessuno si preoccupa: pare anzi che ce ne si rallegri. Il fatto che i sindacati trovino difficoltà nel rappresentare i bisogni dei lavoratori, invece che spingere a misure che ne rafforzino la capacità rappresentativa, induce ad atteggiamenti sprezzanti e di malcelata soddisfazione. Che i diritti dei lavoratori siano sottoposti e condizionati alle esigenze delle imprese, non fa problema: anzi il ritorno a condizioni pre-costituzionali si considera un fattore di modernizzazione. Che i partiti siano a loro volta ridotti come li vediamo, a sgabelli per l’ascesa alle cariche di governo e poi a intralci da tenere sotto la frusta del capo e di coloro che fanno cerchio attorno a lui, non è nemmeno da denunciare con più d’una parola. A questa desertificazione social-politica corrisponde perfettamente la legge elettorale. Essa dovrebbe servire a incoronare "la sera stessa delle elezioni" il vincitore, cioè il capo politico che per cinque anni potrà governare controllando il parlamento attraverso il controllo del partito di cui è capo. La piramide si è progressivamente rovesciata e non abbiamo fatto il necessario per impedirlo. La democrazia dalle larghe basi voluta dalla Costituzione è stata sostituita da un regime guidato dall’alto dove si coagulano interessi sottratti alle responsabilità democratiche. L’informazione si allinea; la vita pubblica è drogata dal conformismo; gli intellettuali tacciono; non c’è da attendersi alcuna vera alternativa dalle elezioni, pur se e quando esse si svolgano, e se alternative emergessero dalle urne, sarebbe la pressione proveniente da fuori (istituzioni europee, Fondo monetario internazionale, grandi fondi d’investimento) a richiamare all’ordine; nella scuola si affermano modelli verticistici e i nostri studenti e i nostri insegnanti gemono sotto programmi ministeriali finalizzati a produrre non cultura ma tecnica esecutiva. Può essere che questo è quanto richiedono i tempi che viviamo, i tempi dello sviluppo per lo sviluppo, dell’innovazione per l’innovazione, della competitività che non ammette deroghe, della spremitura degli esseri umani, dei diritti dei più deboli e delle risorse naturali per tenere il passo sempre più veloce della concorrenza. Può essere che solo a queste condizioni il nostro paese sia annoverabile tra i virtuosi, nei quali la finanza sovrana consideri conveniente investire le sue immani risorse; cioè, in termini più realistici, consideri conveniente venire a comperarci, approfittando delle tante privatizzazioni che segnano l’arretramento dello stato a favore degli interessi del mercato. Gli inviti che provengono dalle istituzioni sovranazionali, legate al governo della finanza globale, sono univoci. I moniti che provengono dall’Europa ("ce lo chiede l’Europa") sono dello stesso segno. Perfino una banca d’affari (gli "analisti" della J.P. Morgan) ha dettato la propria agenda, nella quale è scritta anche la riduzione degli spazi di democrazia che le costituzioni antifasciste del II dopoguerra hanno garantito ai popoli usciti dalle dittature (è detto proprio così e nessuno, tra le autorità che avrebbero il dovere di difendere la democrazia e la Costituzione, ha protestato). La riforma della Costituzione, promossa, anzi imposta dall’esecutivo, s’inserisce in questo contesto generale. Il "non detto" è qui. Occorre dimostrare d’essere capaci di rispondere alle richieste. Se, come si dice nella prosa degenerata del nostro tempo, non si riesce a "portare a casa" il risultato, viene meno la fiducia di cui i governi esecutivi devono godere rispetto ai centri di potere che stanno sopra di loro e da cui, alla fine dipende la loro legittimazione tecnica. La chiamiamo "riforma costituzionale", ma è una "riforma esecutiva". Stupisce che tanti uomini e tante donne che hanno nella loro storia politica numerose battaglie per la democrazia, si siano adeguati a subire questa involuzione, anzi collaborino attivamente chiudendo gli occhi di fronte a ciò che a molti appare evidente. La riforma costituzionale è il coronamento, dotato di significato perfino simbolico, di un processo di snaturamento della democrazia che procede da anni. Coloro che l’hanno non solo tollerato ma anche promosso sono oggi gli autori della riforma. Sono gli stessi che ora ci chiedono un voto che vorrebbe essere di legittimazione popolare a un corso politico che di popolare non ha nulla. I singoli contenuti della riforma importano poco o nulla di fronte al significato politico. Contano così poco che chi avesse voglia di leggere e cercare di capire ciò su cui ci si chiede di esprimerci nel referendum resterebbe sconcertato (…). Siamo di fronte a un testo incomprensibile. Verrebbe voglia di interrogare i fautori della riforma - innanzitutto il presidente della Repubblica di allora, il presidente del Consiglio, il ministro - e chiedere, come ci chiedevano a scuola: dite con parole vostre che cosa avete capito. Qui, addirittura, che cosa avete capito di quello che avete fatto? Saprebbero rispondere? E noi, che cosa possiamo capirci? Parla la madre del bimbo sciolto nell’acido: "inaccettabile il permesso-premio a Brusca" di Laura Anello La Stampa, 12 gennaio 2016 Vent’anni fa la morte di Giuseppe Di Matteo: Brusca, condannato per l’omicidio, è uscito dal carcere per tre giorni. "Capisco che c’è una legge che lo consente, ma lui deve restare in cella. Soltanto Dio può fare giustizia". Permesso premio? Bel premio si merita questo mostro". Fa una smorfia di disgusto, gli occhi rossi, furiosi e gonfi delle lacrime che non ha mai smesso di piangere. Vent’anni di lacrime. Tanto è passato da quando la mafia uccise il suo bambino, Giuseppe Di Matteo, dopo 779 giorni di prigionia. Prima rapito con l’inganno, poi trascinato di covo in covo con una catena al collo, infine - era l’11 gennaio del 1996 - strangolato e sciolto nell’acido. La violazione del tabù dei tabù. Il fondo dell’abisso. E lei il nome del mandante di quel delitto, Giovanni Brusca, il più crudele dei boss di Cosa Nostra, Scannacristiani, l’uomo che premette il bottone del telecomando di Capaci e che - tra le polemiche - ha appena avuto tre giorni di permesso fuori dal carcere, non riesce a farlo, non vuole farlo. "Per me è il mostro, e basta. Capisco che c’è una legge e va rispettata, ma mi sembra inaccettabile che non resti in carcere tutta la vita. Lui può tornare a casa dai suoi figli, io mio figlio non posso più abbracciarlo". La guardi, Franca Castellese, 63 anni, tanto provata da non riuscire a partecipare ieri alle commemorazione di "Libera" per il ventennale della morte del figlio, e fatichi a pensare che possa reggere sulle sue spalle il peso di una storia che sa di tragedia greca. Il marito mafioso Santino Di Matteo che comincia a collaborare con la giustizia, il figlioletto Giuseppe rapito per far tacere il padre, un groviglio di sensi di colpa e di accuse incrociate, lei che si sveglia e capisce che la sua vita non era niente di quel che aveva creduto. "So che è difficile credermi, ma io avevo gli occhi foderati di prosciutto. Per questo non perdono mio marito, perché è colpa sua se io ho perso il mio bambino. Ha sbagliato a pentirsi? Dico di più. Ha sbagliato a essere mafioso, ha sbagliato prima", racconta accanto all’avvocato Monica Genovese, in lacrime anche lei "perché questa storia è come l’Olocausto, il punto di non ritorno". L’altro figlio, Nicola, il piccolo cresciuto all’ombra del fratello maggiore, è ancora più diretto: "Non perdonerò mai mio padre - ha detto. Se Giuseppe non c’è più è colpa sua e dei suoi amici mafiosi. Mio padre fu il primo a parlare della strage di Capaci, parlò per salvarsi. E non si preoccupò di quello che avrebbero potuto fare alla sua famiglia". Lui, Santino Di Matteo, prima vita da impiegato del macello comunale del paese di Altofonte (uccideva le bestie con un colpo preciso in mezzo agli occhi), seconda vita da killer obbediente e affidabile di Cosa Nostra (freddava gli uomini con la stessa spietata routine) adesso è ospite di una comunità religiosa a Roma, l’Opera San Giustino. "Ero un soldato, o ammazzavo io o mi ammazzavano", ha sempre detto. Chi non può più parlare è Giuseppe, almeno dal 23 novembre 1993, il giorno in cui - aveva undici anni - fu prelevato con l’inganno dal maneggio del paese di San Giuseppe Jato in cui montava il suo amatissimo cavallo, da sei mafiosi travestiti da poliziotti. "Vieni, ti portiamo da tuo padre", gli dissero. E lui, che il padre pentito e protetto a Roma non lo vedeva da mesi, li seguì come un agnellino. "Gioia mia, sangue mio". Il seguito si fa fatica a sentirlo. Il bambino ancora sorridente e fiducioso che si fa caricare su un furgone, il corteo che si ferma sull’autostrada Palermo-Catania per cedere l’ostaggio alla famiglia di Agrigento. "Che facciamo, lo leghiamo?". "Ma perché mi dovete legare?", risponde lui mentre capisce. "In quel momento abbiamo perso l’ultimo pizzico di umanità", ha ammesso in aula Gaspare Spatuzza piangendo. Ecco, come si fa a sostenere tutto questo? Pensando ai giorni felici, sentendo ancora il calore dell’abbraccio di quel figlio vivacissimo, irrefrenabile, che sin da piccolo andava pazzo per i cavallini, di legno, a dondolo, di pezza. Che a quattro anni si buttò tra le zampe di una puledra, che a sei cavalcò il suo primo animale. "Ci parlo ogni giorno - racconta la madre - ci parlo quando mi alzo dal letto ogni mattina, quando entro in macchina per andare a lavorare, ci parlo quando parlo con la gente, quando vado a letto. Ci parlo quando ho bisogno di aiuto, quando non mi sento bene, perché solo lui mi può aiutare. Non ho una tomba su cui piangerlo, ma lui è il mio angelo". Già, una tomba non c’è perché non c’è un corpo. I trenta chili che restavano di lui dopo due anni di prigionia furono sciolti nell’acido per non lasciare traccia. "Era come di burro, non aveva più muscoli, strangolarlo è stato facilissimo" hanno raccontato Giuseppe Monticciolo e Vincenzo Chiodo, i due esecutori materiali del delitto", ricorda l’avvocato Genovese. I due incaricati di agire dal grande capo, Giovanni Brusca, il giorno in cui apprese dalla tv di essere stato condannato per l’omicidio di Ignazio Salvo, il potente capo delle esattorie siciliane colpevole di non essere riuscito ad "aggiustare" in Cassazione la sentenza del maxiprocesso. Con quella condanna Di Matteo non c’entrava niente, ma tanto bastò per fargli saltare i nervi. "Alliberatevi d’u cagnoleddu", disse. Liberatevi del cagnolino. Il cagnolino era il piccolo Giuseppe, che in prigionia aveva compiuto tredici anni. "Io penso ai giorni felici - ricorda la madre - una gita con la scuola ai templi di Agrigento che lo avevano incantato, i giorni in cui si metteva sulle mie ginocchia tornando da scuola". Tutti i giorni di una madre. Il primo giorno di scuola all’asilo con il grembiulino azzurro a pois bianchi, le malattie esantematiche, la scoperta che Babbo Natale non esiste. "È stata fatta giustizia? Quella terrena sì, con decine di condanne. Ma solo Dio può fare giustizia. E io aspetto la sua". Non può essere esteso l’arresto in quasi flagranza di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2016 Un freno a un utilizzo troppo esteso della "quasi flagranza". Lo mettono le Sezioni unite penali che hanno dato risposta negativa alla domanda se si può procedere all’arresto in flagranza sulla base di informazioni della vittima o di terzi fornite nella immediatezza del fatto. Si tratta di definire i confini della legittimità dell’operazione della polizia giudiziaria nei confronti di chi "subito dopo il reato è inseguito dalla polizia giudiziaria, dalla persona offesa o da altre persone, ovvero è sorpreso con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima". Le motivazioni saranno disponibili solo tra qualche tempo e saranno scritte da Piercamillo Davigo, ma intanto è già possibile sottolineare che l’orientamento delle Sezioni unite appare contrario a quella tesi che ritiene possibile l’arresto quando la polizia giudiziaria ha proceduto dopo ricerche immediatamente poste in essere non appena ricevuta la notizia di reato, anche se non concluse immediatamente, ma comunque protratte senza interruzioni. Secondo questa linea interpretativa, tradotta per esempio nella sentenza n. 28246 del 2014 con la quale è stato convalidato l’arresto di un imputato avvenuto 7 ore dopo i fatti oggetto di indagine, la nozione di inseguimento del colpevole, elemento chiave per la quasi flagranza, deve essere intesa in un senso più ampio "di quello strettamente etimologico di attività di chi corre dietro, tallona e incalza a vista la persona inseguita, esprimendo tale nozione un concetto comprensivo anche dell’azione di ricerca, immediatamente eseguita, anche se non immediatamente conclusa, purché protratta senza soluzione di continuità". Ricerca peraltro avviata sulla base delle indicazioni delle vittime, dei correi o di altre persone comunque a conoscenza dei fatti. La stessa Cassazione ha avuto modo di precisare che l’inseguimento può avvenire anche dopo un periodo di tempo necessario alla polizia giudiziaria per giungere sul luogo del delitto, acquisire notizie utili, e iniziare le ricerche: era quindi da ritenere legittimo l’arresto eseguito dagli agenti intervenuti nell’immediatezza della commissione del fatto, che, dopo circa 4 ore, avevano trovato gli indagati sulla base delle indicazioni ricevute da testimoni e sospetti (Cassazione n. 44369 del 2010). A questo orientamento se ne contrappone un altro, sul quale sembrano ora essersi attestate le Sezioni unite, in base al quale non esiste la condizione di quasi flagranza se l’inseguimento dell’indagato da parte della polizia giudiziaria è stato iniziato solo dopo l’acquisizione di informazioni da parte di terzi. Si tratta di una linea, osserva l’ordinanza che ha rinviato la questione alle Sezioni unite, la n. 12282 del 2015, che valorizza il fatto che la privazione della libertà della persona di iniziativa della polizia giudiziaria, in assenza di un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, rappresenta un elemento straordinario che non autorizza letture estensive. Allora, la dilatazione della nozione di quasi flagranza sino a prescindere dal legame tra percezione diretta del reato e il successivo intervento di privazione della libertà dell’autore, non può essere consentita. Il concetto di inseguimento cioè non può sfociare in quelli collaterali, ma distinti, delle ricerche e tantomeno delle investigazioni tempestive. L’assenza dell’imputato che vuole comparire deve essere giustificabile di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2016 Nulla la sentenza se l’imputato non è presente in giudizio come aveva richiesto, a causa di un disguido della cancelleria. La Cassazione, con la sentenza 50443 del 23 dicembre scorso, precisa che il diritto fondamentale del detenuto a partecipare all’udienza in cui si decide della sua responsabilità e della sua pena non può arretrare davanti alla burocrazia. La Suprema corte accoglie il ricorso di un detenuto che aveva presentato il giorno prima dell’udienza di una camera di consiglio - relativa al rito abbreviato che si era celebrato in primo grado - la richiesta di presenziare. La domanda, tempestivamente ricevuta dalla Corte d’Appello era stata trasmessa in cancelleria solo alle 13 e 30 dello stesso giorno in cui si celebrava il processo: troppo tardi per rispettare il diritto del ricorrente detenuto nella stessa città in cui doveva essere giudicato. I giudici della terza sezione penale ripercorrono la strada tracciata dalla giurisprudenza europea e da quella di legittimità ricordando diritto e doveri dell’imputato che vuole assistere al rito che lo riguarda. La parte interessata ha l’onere di comunicare in tempo utile l’intenzione di essere presente nella sala d’udienza, informando il giudice d’appello che deve procedere perché possa disporre la traduzione. Il diritto ad assistere riguarda sia l’imputato in cella nella circoscrizione in cui si procede, sia quello che sta in un carcere fuori dalla circoscrizione della Corte d’appello. Se la Corte d’appello procede perché non ha ricevuto l’istanza, e dunque legittimamente presume che l’interessato abbia rinunciato, entra in gioco il difensore che ha un duplice dovere: informare il giudice della volontà dell’imputato di comparire e segnalare la tempestività della domanda. Un’istanza, precisano i giudici, che non è soggetta a termini di decadenza, ma deve rispettare il solo requisito della tempestività ed essere indirizzata ad un destinatario ben individuato. Nessun inadempimento può essere in ogni caso contestato all’imputato che si trova nell’oggettiva impossibilità di fare la comunicazione in tempo. In tal caso, come nell’ipotesi in cui la traduzione è stata impedita da un disguido o da un ritardo dell’amministrazione, questa dovrà essere disposta per una successiva udienza. Quando, invece se si è proceduto in assenza, come nella vicenda esaminata, l’interessato può "eccepire e il giudice rilevare d’ufficio la nullità derivante dalla mancata traduzione nella sala d’udienza". Diritti, sottolinea la Corte, che devono essere interpretati ed applicati in modo rigido: il giudice che considera la richiesta tardiva ha il dovere di motivare adeguatamente le ragioni per le quali l’imputato non è stato portato in aula. È quanto la Cassazione invita i giudici della Corte d’appello a fare, dopo aver precisato che l’errore amministrativo non può andare a scapito del diritto fondamentale del ricorrente e che la richiesta avanzata un giorno prima dell’udienza doveva essere considerata tempestiva perché lo spostamento del detenuto avveniva all’interno della circoscrizione. La motivazione - Il diritto dell’imputato ad essere tradotto deve essere interpretato ed applicato in modo rigido, sia nel senso che la richiesta potrà ritenersi tardiva soltanto allorché in concreto non vi sia possibilità pratica di assicurare la presenza in udienza dell’appellante, sia nel senso che il giudice, qualora ritenga intempestiva la richiesta, deve dar conto, con adeguata e congrua motivazione, delle specifiche ragioni per le quali in quel determinato caso non era possibile effettuare la traduzione dell’imputato in udienza, prendendo in considerazione tutte le specifiche circostanze del caso concreto, quali ad esempio, il tipo di limitazione della libertà personale, il luogo in cui l’imputato si trova ristretto e così via. È infatti evidente che diverso è il caso in cui l’imputato sia detenuto in carcere in un’altra città da quello in cui sia agli arresti domiciliari nella stessa città, sicché diversa deve essere la valutazione circa l’eventuale tardività della richiesta. Il "disagio" e "l’allarme sociale" non bastano per il foglio di via di Vittorio Italia Il Sole 24 Ore, 12 gennaio 2016 È illegittimo il foglio di via obbligatorio che il Questore ha emesso nei confronti di una persona indigente e invalida con problemi psichici, che viveva saltuariamente e bivaccava all’interno di un presidio ospedaliero (Tar Marche, sezione 1, sentenza 21 dicembre 2015, n. 916). La vicenda. Il fatto che ha dato origine a questa controversia ha riguardato la vita - per molti profili triste e penosa - di una persona indigente, senza mezzi di sostentamento e malata mentalmente. Questa persona, senza alloggio, si era ridotta a vivere saltuariamente nel presidio ospedaliero dove era stata all’inizio curata, dormiva su un giaciglio di fortuna, e - così recita la sentenza - bivaccava dentro l’ospedale. Questo comportamento era indubbiamente fastidioso per gli altri degenti e per il personale ospedaliero, e integrava probabilmente anche i reati di invasione di terreni ed edifici. Questi fatti si erano ripetuti nel tempo e a questa persona era stata già irrogato nel 2014 un foglio di via obbligatorio. Nel 2015 il Questore ha emanato un altro foglio di via obbligatorio, che è stato impugnato davanti al Tar, che ha accolto il ricorso. La decisione. La sentenza, dopo avere indicato nella narrativa di fatto la grave situazione di questa sventurata persona, ha esaminato il problema sotto il profilo giuridico e ha valutato i presupposti necessari per il foglio di via obbligatorio, e che devono riguardare: 1) persone che sono ritenute abitualmente dedite a traffici delittuosi; 2) coloro che vivono abitualmente, anche in parte, con proventi di attività delittuose; 3) coloro che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza e la tranquillità pubblica. I giudici del Tar hanno ritenuto che, anche se i comportamenti di questa persona provocavano "disagio e allarme sociale", non si riscontravano in essi quei presupposti che giustificavano il foglio di via. Essi hanno anche argomentato che il foglio di via avrebbe allontanato questa persona dal capoluogo dove, almeno, vi erano delle strutture di cura. Il foglio di via è stato perciò ritenuto illegittimo ed è stato annullato. La valutazione della sentenza. La sentenza è corretta e ha applicato le leggi vigenti e traspare, tra le righe della motivazione della sentenza, un senso di pietà per le condizioni di vita di questa sventurata persona. Vi è però un altro punto sul quale si deve fermare l’attenzione. Sulla base delle leggi vigenti, i giudici hanno esattamente annullato il foglio di via, ma in tal modo la pesante situazione del bivacco all’interno del presidio ospedaliero, è rimasta immutata, e sono stati vanificati gli interventi del Questore, probabilmente sollecitato dalle stesse Autorità ospedaliere. Il cuore del problema è che le leggi vigenti non tengono conto dei problemi che vi sono dietro un foglio di via, e della necessità che per queste sventurate persone "povere e malate" si trovino delle soluzioni almeno provvisorie. Conviene rammentare che in passato era previsto il domicilio di soccorso (Rd 30 dicembre 1923, n. 284), che consentiva un soccorso per le persone povere che erano nate e avevano dimorato in un Comune per due anni, e i Comuni avevano l’obbligo di rimborsare le spese di assistenza e ospedalità. L’istituto del domicilio di soccorso non risulta più vigente, ed è stato sostituito da varie leggi sul servizio sanitario nazionale e sull’assistenza, ma sono rimaste insolute molte situazioni, come quella rivelata dalla sentenza. Il problema dovrà quindi essere risolto dal legislatore, perché i giudici non possono fare altro che applicare le leggi, alle quali (e soltanto a esse) sono soggetti. Le conseguenze per gli altri enti ospedalieri e Comuni. La sentenza deve essere presa in considerazione dagli altri Enti ospedalieri nonché dai Comuni e dalle Regioni, e appare opportuno che il legislatore statale o regionale, consideri l’opportunità della reviviscenza dell’antico istituto del domicilio di soccorso, adattato alle esigenze del nostro tempo, che consentiva di dare almeno una risposta parziale e provvisoria a situazioni gravi e dolorose. I principi che rallentano la nostra giustizia di Massimo Krogh (Avvocato) Corriere della Sera, 12 gennaio 2016 Si racconta con sgomento della giustizia lumaca (Corriere, 6 gennaio), processi rinviati di vari anni, uno rimesso al 2019 da un giudice renitente a sottoporsi ai "lavori forzati". Si guarda soprattutto alle cause civili, ma la giustizia penale non scherza, i processi conclusi per prescrizione non si contano né gli innocenti prosciolti dopo anni d’ingiusto calvario. Nei progetti di riforma nulla di risolutivo si rinviene sul tema. Il nodo da sciogliere è la durata del processo, ma l’efficienza processuale non può essere accettata come una compressione delle garanzie spettanti all’accusato. Dunque, il problema è delicato. Nella fase delle indagini preliminari, i meccanismi processuali connessi alla contiguità di giudici e pm amputano alla difesa l’esile spazio di cui dispone. Si supplisce con un garantismo di tipo verticistico in un ritardante ginepraio di gravami, sconosciuto all’effettivo rito accusatorio, stante la parità delle parti dalla nascita dell’accusa. In Inghilterra, nel 1215 nasceva con la Magna Charta il processo accusatorio, divenuto il rito dei Paesi di common law. Nello stesso 1215 il IV Concilio Lateranense istituiva il processo inquisitorio. Secoli di diversità culturale che una legge non annulla. Di qui la crisi di rigetto del processo (semi)accusatorio introdotto da noi nell’88. Oggi la giustizia soffre uno stallo da cui bisogna uscire; andrebbe attenuato il principio di obbligatorietà dell’azione penale, che provoca un intasamento proibitivo. La Corte Costituzionale ha definito tale principio, il "punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale" (legalità, uguaglianza, indipendenza del pubblico ministero). Non può viversi di principi. Nei Paesi più rappresentativi dell’Unione Europea, Belgio, Francia e Germania, vige il principio di "opportunità", i cui parametri sono regolati dai vertici dell’ufficio d’accusa. Peraltro, una parziale obbligatorietà resta in Germania, ma solo per i delitti molto gravi. In Inghilterra, l’esercizio dell’azione penale è discrezionale. Da noi, da anni si studia e si parla intorno ad un principio di "priorità" sottoposto a regole uniformi, ma mentre il medico studia il malato muore. Altro momento di fermo del processo sta nell’antiquato regime delle notificazioni; finché non torna l’avviso di ricevimento (in un Paese dove la posta non funziona al top), si rinvia per cominciare da capo. Su queste cose, non so quante volte dette, si dovrebbe intervenire realizzando garanzie che non siano pretesti per non fare i processi ma una cintura di sicurezza per il loro sollecito e giusto esito. Le parole di un prete che nessuno ascolta di Conchita Sannino La Repubblica, 12 gennaio 2016 "La sicurezza in Italia la deve garantire lo Stato". Sono le parole del sindaco che, evidentemente, non è (non si sente) Stato. Ed ancora: "Questo mese, dal Natale all’Immacolata, è stato storico per la nostra città. In un mese milioni di persone. Uno tsunami di sorrisi e serenità. Benissimo i consumi, l’economia, il lavoro. L’industria turistico-culturale produce. Stiamo costruendo Napoli Autonoma. Napoli che vuole diventare sempre più la capitale dell’amore". Quindi, esorta il primo cittadino, "andiamo insieme nei luoghi della sofferenza e della devianza. E convinciamo tutti a lasciare le armi per prendere violini, chitarre, pianoforti, trombe". Viene da chiedersi: e i mandolini? A distanza di poche ore, a Forcella, "Repubblica" coglie la drammatica denuncia di un prete, don Angelo Berselli. Un parroco non avvezzo ai social, non abituato ai comizi. Parla a voce bassa da un rione che, oggi come ieri, è disseminato dalle invisibili lapidi dei morti innocenti: tre nomi in pochissimi metri, Annalisa Durante che aveva 14 anni quando fu uccisa nel 2004, Luigi Galletta ucciso il 21 luglio scorso in via Carbonara, Maikol Russo ammazzato a 27 anni per errore mentre le ronde in scooter sparavano colpi di mitra. Da questo crocevia, don Angelo dice, con evidente provocazione, come una lama piantata nel petto della confortevole narrazione cittadina: "Io sono a favore della camorra. La camorra qui è l’unica cosa che funziona. Lo dico per far capire che dovremmo prendere esempio per come si prende cura dei detenuti, delle famiglie, di chi non ha lavoro". Reazioni delle istituzioni? Nessuna. Tutto cade nel vuoto. Nonostante don Angelo abbia puntato il dito anche contro responsabilità precise: "Le telecamere qui non funzionano. Le fanno funzionare i camorristi, le loro, e noi no". Chissà se ricordava quando il sindaco, lo scorso autunno, annunciò con rituale baldanza altre gare di appalto per la sorveglianza. Le due città, quella dei Decumani da vetrina e quella della Forcella da vivere e rischiare, restano lontane. Anche se sono legate, persino geograficamente. E cucire tra loro "le città" di Napoli, connettere il sentire di quel rione alle emozioni natalizie della famiglia vomerese, allacciare la rabbia dei dimenticati alla soddisfazione legittima di chi si gode un bagno di folla nell’arte diventa l’obiettivo ultimo da raggiungere. Perché, sotto la tempesta di parole della campagna elettorale che verrà, è in questo snodo la vera sfida. Specie per chi intenda comprendere una metropoli così complessa, e magari sentirsi in grado di assumere un ruolo salvifico e portarla alla svolta. Perché non c’è "Napoli Autonoma" senza Stato. Marche: recepito Accordo della Conferenza unificata sull’assistenza sanitaria nelle carceri ilfarmacistaonline.it, 12 gennaio 2016 Ai detenuti verranno garantite cure adeguate nell’ambito detentivo, anche attraverso l’attivazione di sezioni dedicate. A questo scopo sarà stipulata una convenzione con la Regione Emilia Romagna per fornire l’assistenza intensiva (Sai) non disponibile negli istituti penitenziari delle Marche. Recepito nelle Marche l’Accordo della Conferenza unificata sull’assistenza sanitaria negli istituti penitenziari per adulti. L’intesa garantisce ai detenuti nelle strutture marchigiane le stesse opportunità di cura previste dai Lea (Livelli essenziali di assistenza) per tutti i cittadini. L’Asur (Azienda sanitaria unica regionale) dovrà organizzare la rete sanitaria intra penitenziaria, territoriale e ospedaliera, in collaborazione con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Ai detenuti verranno garantite cure adeguate nell’ambito detentivo, anche attraverso l’attivazione di sezioni dedicate. A questo scopo sarà stipulata una convenzione con la Regione Emilia Romagna per fornire l’assistenza intensiva (Sai) non disponibile negli istituti penitenziari delle Marche. L’Osservatorio regionale sulla sanità penitenziaria attiverà un monitoraggio semestrale di controllo sul funzionamento delle rete. Attualmente nelle Marche operano sette servizi intra penitenziari, di cui quattro sono "servizi medici di base" (Fossombrone, Ancona Barcaglione, Camerino, Fermo), due "multi professionali integrati" (Pesaro, Ancona Montacuto) e uno "multi professionale integrato con sezione specializzata" (Ascoli Piceno). Sono poi operative tre sezioni specializzate: custodia attenuata tossicodipendenti (Ancona Barcaglione), ridotta capacità motoria (Ancona Montacuto) e salute mentale (Ascoli Piceno). Le camere di detenzione per malattie infettive sono sette (una in ciascun istituto penitenziario), mentre altre per la degenza e il ricovero dei detenuti sono predisposte presso le Aziende ospedaliere Marche Nord e Ancona, gli Ospedali di Camerino, Civitanova Marche, Fermo, Ascoli Piceno, San Benedetto del Tronto. Una recente ricerca nazionale (16 mila le persone coinvolte) evidenzia che oltre il 70% dei detenuti è affetto da almeno una patologia e oltre il 40% da almeno una patologia psichiatrica (ansia, nevrosi, depressione, adattamento). La dipendenza da sostanze è la patologia più diffusa e riguarda il 24% dei detenuti. Seguono quelle infettive (epatite C e B, Hiv), ipertensione, dislipidemia, diabete mellito di tipo 2, malattie dell’apparato digerente (le più diffuse, dopo quelle psichiatriche). Un’emergenza è rappresentata dai tentativi di suicidio e dai gesti di autolesionismo: nel 2014 il 5% dei detenuti ha messo in atto, almeno due volte, un gesto autolesivo. Sardegna: "no a jihadisti all’Asinara, sì a Parco come strumento per riabilitare detenuti" algheroeco.com, 12 gennaio 2016 L’opinione di Carmelo Spada, delegato Wwf per la Sardegna. Sull’isola dell’Asinara, dopo la chiusura del carcere nel 1997, riaffiorano ogni tanto delle nostalgiche proposte per la riapertura di "un carcere leggero" se non addirittura di uno speciale per "detenuti soggetti al 41 bis". La novità dell’ultima ora vorrebbe trasformarla in una sorta di Guantánamo per terroristi jihadisti. In alcuni settori, non si è ancora pienamente preso atto che l’isola dell’Asinara, oltre ad essere un parco nazionale, è circondata da un’area marina protetta: situazioni incompatibili con qualsiasi struttura carceraria. Il parco, tuttavia, potrebbe essere uno strumento utile per la riabilitazione sociale di detenuti in semilibertà. Si pensi, in tal senso, al lavoro svolto grazie ad un progetto di reinserimento sociale, nel parco regionale di Porto Conte: i faldoni dei documenti dell’ex colonia penale di Tramariglio (ora casa del parco) sono stati studiati, catalogati e digitalizzati da persone in regime di semilibertà, lavoro che ha consentito di ricostruire le storie individuali e la vita collettiva che inesorabilmente sarebbero andate perdute. I parchi possono assolvere anche questi compiti non strettamente legati alla conservazione della natura, ma non possono ospitare strutture carcerarie. Questo deve essere un punto fermo irrinunciabile. Lo scopo prioritario delle aree protette deve essere la sostenibilità ambientale e la tutela della biodiversità. Le aree protette rappresentano una piccola percentuale del territorio nazionale (pari a poco più del 10%) che andrebbe incrementata in quanto sono uno stimolo importante per l’economia. Infatti, il loro valore è misurabile in termini non soltanto ecologici, ma anche economici. L’ effetto parco, cioè la capacità di creare ricchezza e benessere da parte delle imprese localizzate nelle aree soggette a tutela ambientale come parchi nazionali, siti della rete Natura 2000 e nelle aree marine protette, è documentato nell’ultimo rapporto (sett-2014) realizzato dal Ministero dell’Ambiente e da Unioncamere: "L’economia reale nei parchi nazionali e nelle aree naturali protette". Nello specifico del Parco nazionale dell’Asinara, quindi della popolazione di Porto Torres, si registrano dati significativi: diverse decine le imprese di tipo turistico, di cui 25 sorte con la nascita del Parco nazionale, che registrano un volume d’affari di oltre 3 milioni di euro con oltre 100 mila visitatori l’anno. Anche questi numeri portano a sostenere che il futuro dell’Asinara è esclusivamente quello della protezione e della fruizione sostenibile della natura - anche secondo le indicazioni dell’Unione Europea - magari con piani di riforestazione, auspicabili per l’intera Sardegna, che contribuirebbero alla compensazione delle emissioni di Co2 e quindi a contrastare i dannosi cambiamenti climatici. Roma: Mordeglia (Cnas), Regina Coeli non-luogo che segna il grado di civiltà di un Paese Agenparl, 12 gennaio 2016 "La recente visita a sorpresa del Ministro Orlando al carcere romano di Regina Coeli offre lo spunto per segnalare alla politica - ma anche dell’intera collettività - la necessità di perseguire un rinnovato interesse alla qualità della condizione carceraria, interesse di cui il gesto del Ministro rappresenta un significativo ed apprezzato segnale. Il carcere non deve più essere un luogo all’interno del quale la dignità umana viene negata! Un non luogo che diseduca alla società! Il Paese e l’opinione pubblica, nel loro stesso interesse, hanno bisogno di rafforzare la consapevolezza che la strada da percorrere è quella di coniugare sicurezza e rieducazione attraverso processi normativi ed organizzativi che assicurino certezza, flessibilità ed umanizzazione della pena". Così Silvana Mordeglia, presidente del Consiglio nazionale degli Assistenti sociali. "Gli Assistenti sociali che operano nell’area penale sono tenacemente in prima linea, in mezzo a mille difficoltà e problemi, nello sforzo di veder affermato - dice ancora Mordeglia - un modello di esecuzione della pena che risponda pienamente al dettato dell’articolo 27 della Costituzione e ciò non solo per una mera questione di dignità e di diritti, ma anche nella consapevolezza che ogni detenuto recuperato alla legalità significa maggiore sicurezza per l’intera comunità. A loro e a chi con loro lavora con i medesimi obiettivi va il grazie della comunità professionale". "Il carcere - prosegue - non deve essere più un non luogo all’interno del quale attività lavorative, culturali, sportive, sociali e ricreative, progetti di affettività con il coinvolgimento delle famiglie sono marginali. La privazione della libertà deve divenire occasione di cambiamento, opportunità di riflessione e di ripensamento. L’augurio è che la riforma in corso d’implementazione valorizzi al massimo il lavoro penitenziario in ogni sua forma, intramuraria ed esterna, quale strumento di responsabilizzazione individuale e di reinserimento sociale dei condannati e attività di giustizia riparativa quale momento qualificante del percorso di recupero sociale". Mordeglia sottolinea poi che l’espiazione dolorosa - che, come ricordato da Gustavo Zagrebelsky in un recente intervento su un quotidiano, rappresenta un retaggio della pre-modernità - è contraria anche all’istanza di eticità dell’intervento dello Stato. La giustizia è un affare della comunità: occorre un’opera di trasformazione che soffochi logiche ancora intrise di violenza. "Pur con forti differenze tra le diverse aree del Paese, a seguito degli interventi avviati dal Governo sull’onda delle sanzioni dell’Unione europea - dice ancora - è diminuito significativamente l’indice di affollamento delle carceri, cioè il rapporto tra detenuti presenti e posti letto previsti: è passato da 131 del 2013 a 108 del 2014, come certificato dall’Istat proprio in questi giorni". "Un dato importante - conclude la presidente degli Assistenti sociali italiani - che segna il grado di civiltà di un Paese: è in questo senso, dunque, che va letta la visita - quasi una ispezione - del Ministro Orlando a Regina Coeli, un modo per sostenere anche plasticamente il processo di riforma in atto dell’intero sistema carcerario italiano". Firenze: Amato (Gruppo Misto) "mancata attivazione Icam, bambini ancora detenuti" gonews.it, 12 gennaio 2016 "Lo stabile di Via Fanfani cade a pezzi". La storia dell’istituto a custodia attenuata per madri detenute, mai attivato, nasce il 21 gennaio 2010 "ma ad oggi, lo stabile di via Fanfani dove l’Icam sarebbe dovuto nascere, cade a pezzi per assenza di manutenzione mentre a Sollicciano si trova anche una bimba di pochi mesi" è la denuncia di Miriam Amato. "Sono dai 95 ai 105mila circa i bambini in Italia che entrano in contatto con il carcere. Alcuni di loro, si trovano in una condizione di separazione dal genitore detenuto altri, invece, in una condizione di detenzione - continua Amato - e secondo la legge italiana, infatti, le donne in attesa di giudizio o in esecuzione della pena possono finire dietro le sbarre con i propri bambini, se questi hanno da zero a sei anni. Una misura che evita il dramma della separazione tra madre e figlio, ma che pone di fronte alla questione di piccoli innocenti, a loro volta reclusi". "I bambini costretti a trascorrere l’infanzia dietro le sbarre, insieme alle loro mamme, vivono relazioni alterate, affetti interrotti e traumi difficili da superare che si ripercuotono, inevitabilmente, sullo sviluppo psicofisico e nella strutturazione della loro personalità. Figli che, in un modo o nell’altro, condividono le pene: in palese violazione alla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, che vuole sì garantito e protetto il diritto del bambino a crescere con i propri genitori, ma in un ambiente adeguato". Ai delicati problemi legati ai rapporti con i figli, per i detenuti, si aggiungono poi quelli del sovraffollamento delle carceri o delle condizioni precarie della struttura. "L’obiettivo, deve essere quello di tirare fuori dalle carceri tutti i bambini, accogliendoli in case famiglia Protette, dove i più piccoli possano vivere insieme alle loro mamme, oppure nei cosiddetti Icam (Istituti di custodia attenuata per madri detenute), sezioni speciali che propongono un modello di vita familiare comunitaria, in cui ai bambini è garantita un esperienza di vita e relazionale con il mondo esterno e per le madri ci siano corsi riabilitativi e di formazione, in vista di una nuova vita fuori dalla struttura. Ma purtroppo ad oggi - è l’amara constatazione di Miriam Amato - niente è stato fatto e le istituzioni pubbliche troppo spesso si dimenticano di quei bambini innocenti dietro le sbarre". Parma: presunte violenze nel carcere sul detenuto Rachid Assarag, la Procura replica di Maria Chiara Perri La Repubblica, 12 gennaio 2016 Fa discutere la richiesta di archiviazione dell’indagine a carico di otto agenti per presunte violenze sul detenuto Rachid Assarag. Gli inquirenti giustificano le violenze sui detenuti definendole "lezioni di vita carceraria"? Non è affatto così, specifica il procuratore capo di Parma Antonio Rustico in relazione alla richiesta di archiviazione dell’indagine a carico di otto agenti della Penitenziaria accusati di presunti maltrattamenti dal detenuto Rachid Assarag, notizia anticipata da Repubblica. Quelle parole sono state estrapolate da un contesto più ampio e non si riferiscono alle presunte aggressioni ma a un dialogo tra il detenuto e un agente, registrato da Assarag e pubblicato dall’Espresso nel settembre 2014, tre anni dopo i presunti fatti contestati che risalgono al 2010 e 2011. L’agente dice che "dentro il carcere comandano loro e che non esistono né avvocati né giudici". Un’affermazione che il pm Emanuela Podda definisce nell’atto di archiviazione "decisamente inquietante". In tutto il discorso, però, la guardia afferma di essere stato corretto, di non aver mai dichiarato il falso nei suoi rapporti e di non aver mai usato violenza, circostanza confermata anche da Assarag. Per questo, osserva il pm, quelle affermazioni paiono essere "lezioni di vita carceraria" impartite al detenuto più che delle minacce o delle affermazioni di supremazia assoluta e negazione dei diritti. La richiesta di archiviazione è stata depositata lo scorso 15 dicembre. Si tratta di un documento di dodici pagine, in cui si ripercorrono le tappe dell’inchiesta. L’indagine è stata aperta nel 2011 dopo tre denunce per lesioni presentate da Rachid Assarag, detenuto nel carcere di via Burla tra il 2010 e il novembre 2011. Le denunce sarebbero state presentate circa due mesi dopo gli episodi, cosa che ha reso difficile acquisire elementi sulle lesioni. Assarag è finito in tre rapporti della Penitenziaria per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Un quarto rapporto, per fatti avvenuti mesi dopo quelli oggetto d’indagine, ha dato il via al processo che vede Assarag imputato a Parma. L’inchiesta, spiega il procuratore, all’epoca subì dei ritardi perché l’ufficio era ingolfato dai procedimenti Parmalat. Il pm che ha in seguito preso in carico il fascicolo ha ascoltato Assarag nel carcere di Sanremo e ha disposto numerosi accertamenti con l’esame di medici, mediatori culturali, psicologi e agenti di polizia in servizio nel penitenziario. Approfondimenti disposti anche in seguito alla pubblicazione, nel settembre 2014, delle conversazioni catturate dal detenuto con un registratore. "Nonostante questa mole di accertamenti non ci sono stati riscontri - dice il procuratore Rustico - fatti del genere, se provati, suscitano non solo l’attenzione ma anche l’azione di questo ufficio, che in altri casi non si è tirato indietro". Il riferimento è a un’altra inchiesta per il pestaggio di un ingegnere italiano detenuto per violenza sessuale, che ha portato alla sospensione dal servizio di uno dei due agenti indagati. Nel caso di Assarag, in particolare, il detenuto non avrebbe riconosciuto i presunti responsabili da un fascicolo fotografico, indicando invece agenti che non erano in servizio. I testimoni, tra sanitari ed educatori, non hanno riferito di essere a conoscenza di lesioni subite dall’uomo. Solo un altro detenuto nordafricano avrebbe dichiarato di aver visto molti agenti entrare nella cella del marocchino indossando guanti neri e di aver sentito Assarag urlare. "Non risponde al vero, come si è fatto intendere, che il pm abbia giustificato botte e aggressioni definendole "lezioni di vita carceraria" conclude il procuratore. L’avvocato: "porteremo il caso al parlamento europeo". Il legale difensore di Rachid Assarag, Fabio Anselmo, ha annunciato che si opporrà alla richiesta di archiviazione. Non solo. "Porteremo il caso all’attenzione del Parlamento europeo" dichiara, contattato da Repubblica Parma. Inoltre proprio in questi giorni il gruppo parlamentare di Sel ha deciso di presentare un’interrogazione sulla questione. Foggia: il carcere di San Severo non chiude. Il Sindaco "salvi 200 posti di lavoro" immediato.net, 12 gennaio 2016 "La casa circondariale di San Severo non sarà penalizzata dalla riorganizzazione dei penitenziari che il Governo si appresta ad operare sul territorio nazionale". Ad annunciarlo il sindaco Francesco Miglio, che nelle scorse settimane con il comandante del penitenziario locale Giovanni Serrano si erano preoccupati di evidenziare gli aspetti positivi della presenza del carcere in città, sia per la rieducazione dei detenuti e il loro reinserimento sociale, che in termini occupazionali. "Tra le varie figure a servizio del penitenziario - spiega il sindaco Francesco Miglio - trovano occupazione circa 200 persone. Un dato occupazionale che la città è riuscita a preservare grazie all’ottimo lavoro svolto in questi anni dalla polizia penitenziaria e dai rispettivi direttori e comandanti che si sono succeduti alla guida della casa circondariale e alla garante delle persone private della libertà personale, Rosa Lacerenza in Solimene, che hanno consentito l’avvio di progetti di reinserimento sociale apprezzati a livello nazionale". La presenza della casa circondariale sul territorio in una realtà difficile per molti aspetti come quella sanseverese, inoltre, è importante anche per la rieducazione e reinserimento sociale dei detenuti stessi. "Il penitenziario sanseverese - aggiunge il comandante Giovanni Serrano - ha una capienza massima di 105 detenuti e in media sono presenti circa 90 detenuti perlopiù locali. Per quanti devono espiare la pena essere vicini alla famiglia e al proprio territorio è importante ai fini della rieducazione e reinserimento sociale. Infatti hanno la possibilità di incontrare i propri familiari e gli stessi non sono costretti a vivere disagi legati ai lunghi viaggi o alle spese da sostenere per far visita ai propri detenuti. Questo aspetto è molto importante al fine di evitare che il detenuto, una volta espiata la propria pena e rientrato nel proprio tessuto sociale urbano, torni a delinquere". Una notizia positiva che sarà ufficializzata dal Governo nei prossimi giorni e che, secondo il primo cittadino, eviterà di perdere sul territorio una struttura che seppur piccola riesce a svolgere un ruolo importante per molti aspetti. Ancona: Mastrovincenzo e tre Consiglieri regionali visitano il carcere di Montacuto Corriere Adriatico, 12 gennaio 2016 Il Garante dei detenuti Andrea Nobili ha organizzato una nuova serie di visite negli istituti di pena marchigiani. L’invito è stato allargato ai parlamentari e ai consiglieri regionali. Il primo appuntamento è stato nel carcere di Montacuto ad Ancona: vi hanno partecipato il presidente del Consiglio regionale Antonio Mastrovincenzo e i consiglieri Gianni Maggi, Luigi Zura Puntaroni, Sandro Zaffiri, Elena Leonardi. "Positivo - ha commentato Mastrovincenzo - il confronto con la direttrice Lebboroni, utile l’incontro con alcuni detenuti. Tra gli elementi positivi riscontrati, oltre al superamento del sovraffollamento che negli anni passati ha caratterizzato la casa circondariale, l’organizzazione interna degli spazi riservati ai detenuti. Restano alcune negatività, che andranno affrontate nel prossimo futuro, come la carenza di educatori". In base agli ultimi dati, la popolazione detenuta a Montacuto, parzialmente chiuso per lavori di ristrutturazione, è pari a 133 unità (la capienza massima è di 173). Gli agenti di polizia penitenziaria effettivamente in servizio sono 121 (180 in pianta organica e 166 assegnati) e uno soltanto l’educatore operativo (ne sono previsti 5 più un capo area, ne risultano assegnati 4 più uno). L’assistenza sanitaria copre le 24 ore, mentre sussistono ancora difficoltà determinate dalle barriere architettoniche. Reggio Emilia: sopralluogo dell’Ausl in carcere "termosifoni spenti e 11 gradi nelle celle" La Repubblica, 12 gennaio 2016 La conferma dell’Ausl dopo un controllo: "A dicembre il riscaldamento è stato acceso solo due volte al giorno per un’ora". Detenuti al freddo nel carcere di Reggio Emilia. La conferma arriva dai tecnici dell’Ausl, che il 21 dicembre scorso hanno visitato la struttura, in una relazione che parla di temperature "molto al di sotto della percezione di benessere termico". Il disagio era stato appurato, già a novembre scorso, anche dalla garante regionale delle persone private della libertà personale Desi Bruno. La situazione risulta difficile in particolare nelle celle della sezione femminile, dove si sono rilevate temperature tra gli 11,1 e i 13,4 gradi, con risultati poco migliori per gli uomini, nei cui spazi si sono registrati tra i 14,5 e i 15,8 gradi. Tutto ciò in un periodo che risulta essere eccezionale e più mite rispetto alla stagione invernale. Secondo quanto rilevato dall’azienda sanitaria, i termosifoni vengono accesi solo due volte al giorno per un tempo massimo di un’ora, alle 6 e alle 16, mentre di notte risultano freddi. E già mesi fa la garante aveva parlato di "detenute costrette a coprirsi a strati con più coperte e a soggiornare in una unica saletta dove viene acceso un piccolo calorifero a corrente elettrica, abbracciate alle borse dell’acqua calda", e quindi "allo stremo della sopportazione e preoccupate per la rigidità della temperatura esterna che ancora deve arrivare". Per questo l’Ausl chiederà ai ministeri ed enti competenti un "celere ripristino delle migliori condizioni microclimatiche, con particolare cura rivolta alla tutela delle salute delle persone sottoposte a limitazione della libertà personale, in particolare per le donne. La guerra globale contro le donne di Guido Viale Il Manifesto, 12 gennaio 2016 Colonia. Di certo l’obiettivo dell’attacco era accrescere la tensione tra comunità islamiche e cittadini europei. E la violenza contro le donne, la più radicale di tutte, nell’aggressione di giovani uomini immigrati o profughi, è una vera e propria sfida alla loro emancipazione. Perché il rispetto nei loro confronti viene meno quando minori sono le possibilità di frequentarle liberamente. E nella politica di accoglienza bisogna lavorare contro nuove segregazioni. Alla fine il bubbone è scoppiato ("È bene che gli scandali avvengano"). L’aggressione contro decine e decine di donne a Colonia e in altre città, ma anche in Svizzera, Austria, Svezia e Finlandia, di folti gruppi di uomini, prevalentemente arabi, mette in evidenza le enormi difficoltà della convivenza; ora, dopo l’arrivo in Europa di un milione di profughi in un anno, molto di più che in passato. E proprio per questo mette del pari in evidenza la grande cura con cui questa difficoltà va affrontata. È un evento, questo di Colonia, che non va né sottodimensionato né sottovalutato; non solo perché a impedire di farlo già provvedono e provvederanno sempre più sia la furia razzista delle organizzazioni di destra che le dissertazioni pseudoculturali sulla civiltà europea della stampa e dei media di regime; e non solo perché è verosimile che, seppure in altre forme, eventi come questo siano destinati a ripetersi; ma soprattutto perché comprendere il meccanismo che lo ha messo in moto e il modo in cui maneggiare questa materia così delicata e incandescente è tutt’altro che semplice: volenti o nolenti, ci terrà impegnati a fondo nei prossimi anni. Alcuni punti possono essere però sottoposti alla nostra riflessione fin da ora. Innanzitutto si tratta di una manifestazione particolarmente disgustosa di una guerra di uomini contro donne: una guerra in corso, con diversa intensità e diverse manifestazioni, da sempre e su tutto il globo. Proprio per questo ci coinvolge tutti: nessuno può chiamarsene fuori senza chiedersi se non c’è qualche nostro atteggiamento, comportamento o omissione, espliciti o rimossi, che quella guerra contribuisce in qualche modo ad alimentare o a perpetuare. Per questo va rigettata qualsiasi interpretazione che tenda a riportare quell’evento a uno scontro di culture o di civiltà: musulmani contro cristiani, o arabi rozzi e incolti contro europei civili, o popoli che soggiogano e disprezzano le donne contro quelli che "le hanno" emancipate e le rispettano: non c’è certo più violenza in quello che è successo a Colonia di quanto vanno a fare milioni di turisti del sesso in tanti paesi dove è loro concesso farlo, o di quanto si ritengono in diritto di fare tante truppe di occupazione: e non solo in guerra; si pensi per esempio alla lunga lotta delle ragazze giapponesi vittime per decenni delle violenze perpetrate dai militari delle basi americane in Giappone. Ma, per restare vicini a noi, vale la pena ricordare che il modello di quanto messo in atto a Colonia la notte di Capodanno è facilmente riconducibile a manifestazioni come l’Octoberfest di Monaco, dove, senza bisogno di profughi e migranti, le molestie contro le donne - solo in alcuni casi apparentemente consenzienti perché in preda ai fumi dell’alcol - sono all’ordine del giorno e le denunce di stupro, solo dopo l’ultima edizione, sono state oltre duecento. Peggio ancora è il grido di battaglia rigurgitato da alcuni dei maggiori esponenti della cultura italica mainstream: "Difendiamo le nostre donne!", dove quel "nostre" dice tutto. Le "nostre donne" vanno difese perché sono "cosa nostra". La sorte delle altre donne al più non ci riguarda, quando non le si considera direttamente "a disposizione". E quel "nostre" può oscillare dalla ristretta cerchia di un nucleo familiare (salvo violarle in vari modi all’interno di quella stessa famiglia) alla cerchia larghissima della "famiglia europea", o di una sua componente "legittima": purché ci sia un "fuori", ci siano delle altre donne nei cui confronti il dovere di tutela non vale, e non deve valere. È un sentire diffuso, speculare, ancorché spesso inconsapevole, al possesso delle donne esplicitamente rivendicato dalle manifestazioni più estreme delle politiche islamiste: le "loro" donne vanno tenute sotto chiave e nascoste dietro un velo o un burka: le altre possono essere fatte oggetto delle più feroci forme di violenza. Queste sono considerazioni di ordine generale, ma non vanno trascurate le specificità. Anche se, come alcuni video hanno evidenziato, tra le donne molestate a Colonia ce ne erano diverse di aspetto mediorientale, il cuore dell’evento è stato una aggressione di giovani uomini, immigrati o profughi, contro donne tedesche: e non, principalmente, per derubarle durante i palpeggiamenti, ma, caso mai, per palpeggiarle mentre le derubavano. Una vera e propria sfida nei confronti della loro emancipazione, del loro abbigliamento, del loro andare in giro di notte e, beninteso, del loro avere una vita sessuale libera che agli aggressori è negata tanto dalla cultura da cui provengono quanto dalla loro condizione di uomini soli, destinati a rimaner tali per molto tempo o per sempre. Qui la prima considerazione da fare è che il rispetto per le donne viene meno quanto minori sono le possibilità di frequentarle liberamente e su un piede di parità, sia che questo dipenda da vincoli culturali o religiosi, sia da una condizione di segregazione, come è di fatto quella di molti migranti. Poi va riconosciuto che queste aggressioni sembrano programmate e organizzate. Avrà contato anche, e molto, il passaparola; ma la contemporaneità dello stesso evento in tante città, le sue modalità, il fatto che alcuni degli aggressori avessero in tasca un foglio con le parole con cui accompagnare i loro approcci scomposti, il fatto di stracciare il permesso di soggiorno vantandosi di poterne ottenere un altro il giorno dopo, e soprattutto il dato che l’epicentro sia stata una città governata da una donna fatta oggetto di un attentato e di un’aggressione politica per le sue scelte di accoglienza nei confronti dei profughi non dovrebbero lasciare dubbi in proposito. Non è alle centinaia di migliaia di profughi che hanno affrontato con figli e famiglie un viaggio carico di pericoli, di umiliazioni, di fatica e di stenti che può essere attribuito un comportamento del genere. Anche se verrà accertato che tra gli aggressori ci sono dei profughi arrivati di recente, la cosa non può essere spiegata che con il fatto che si siano aggregati a bande di connazionali già costituite e cresciute nella segregazione. Di certo l’obiettivo era accrescere la tensione tra comunità islamiche e cittadini europei. Difficilmente le indagini potranno fare chiarezza, ma se vi fosse stato anche qualche apporto istituzionale di infiltrati nelle comunità islamiche o tra i profughi è da questo che Frau Merkel dovrebbe guardarsi ben più che da un eccesso di nuovi arrivi. Quello che i fatti di Colonia ci insegnano, ci aiutano a capire meglio, è che accogliere significa, sì, il contrario di tutto quanto l’Unione europea sta facendo: corridoi umanitari sicuri, abolizione del permesso di soggiorno e dei vincoli di Dublino III, sistemazione decente e lavoro per tutti (cioè un piano europeo vero, in grado di creare milioni di posti di lavoro sia per profughi e migranti che per i cittadini europei disoccupati), reddito garantito per chi non trova lavoro e, quindi, rovesciamento radicale delle politiche di austerità. Ma accoglienza significa soprattutto - e qui contano molto gli atteggiamenti soggettivi - creare un ambiente dove profughi e migranti non si sentano e non vengano trattati come un corpo estraneo nei confronti del resto della popolazione; perché è in quei corpi estranei che si costruiscono o si consolidano quelle identità separate che poi si manifestano in forme di contrapposizione sempre più violente e atroci; di cui la violenza contro le donne è la più radicale di tutte. D’altronde il mantenimento o la riconquista di un controllo pieno sulle vite delle donne sono anche la vera posta in gioco delle tante guerre che si combattono ai confini dell’Europa e ora anche al suo interno. Certo, parlare di accoglienza in questi termini appare lontano mille miglia dallo stato di cose presente. Ma la strada della nostra emancipazione, di uomini e donne, comincia con il mettere in chiaro dove vogliamo arrivare. E se non cominciamo a farlo andando a fondo, senza ipocrisie, nei modi in cui viviamo i rapporti tra uomini e donne, anche tutto il resto rischia di sfuggirci di mano. Parlano gli italiani convertiti all’Islam: "così abbiamo trovato le risposte che cercavamo" di Karima Moual La Stampa, 12 gennaio 2016 Tra i connazionali che hanno scelto di abbracciare la religione di Allah. Chi per curiosità, chi per inseguire un amore, chi per una scelta politica. Per tutti fondamentale il Web Asmaa P., ex cattolica praticante 50 anni, preferisce restare anonima: "Ho paura". "Quando nel 2005 mi sono convertita, l’islam era come il demonio. C’era stato da poco l’attentato alle Torri Gemelle. L’attenzione verso l’islam era forte, soprattutto in una visione negativa". "Fu in que l momento che la mia curiosità si accese verso quella religione. Volevo capire cosa c’era davvero di cattivo. Dopo due anni di studi e ricerche abbracciai l’Islam, io e anche mio marito". A raccontarsi è Asmaa P., italiana di 50 anni, della quale si intravedono solo gli occhi - il resto del corpo è interamente coperto da un lungo Niqab. Asmaa P. chiede che venga divulgato solo il suo nome arabo e le iniziali del cognome, perché in quest’ultimo periodo ha paura. "Vivo ormai quasi reclusa in casa dopo i fatti di Parigi, perché continuo a subire minacce e insulti. Uno ha cercato anche di investirmi con la macchina. Ormai col Niqab esco solo in compagnia di mio marito". Il dibattito sul Niqab riaccende i riflettori sull’Islam italiano, e questa volta fa emergere l’Islam dei convertiti italiani. Sorprende la presenza di molte donne italiane che lo indossano e di altre che vorrebbero. Un dato che spinge a indagare sulla storia e l’ideologia di questa minoranza italiana, prima sotto traccia e oggi attiva e partecipe nel dibattito dell’Islam in Italia. (Bergamasco, 40 anni, ha scelto l’islam sciita. Khomeini è la sua guida). Quello verso l’Islam - racconta Paolo Jafar Rada, 40 anni, di un paesino nel bergamasco di 5 mila anime - è stato un cammino lento ma di continua consapevolezza che il mondo occidentale era lontano dai valori e ideali che lui cercava. Ne è convinto al punto da fare una diagnosi lucida: "Nella fase attuale, noi ci troviamo nell’epoca che l’induismo ha definito come kali yuga, ovvero l’epoca oscura, l’epoca dove predominano le masse informi, le quali senza guida divina sono in uno stato di abbrutimento totale. L’Europa oggi vive in uno stato di materialismo diffuso o di pseudo religiosità laica. Un umanità decaduta distaccandosi da Dio". Paolo Jafar sceglie dunque l’Islam sciita, e nella figura di Khomeini trova la guida: "Colui che ha ricondotto sulla via maestra". Perché la chiesa, secondo Jafar, ha perso quando si è arresa alla modernità andando verso l’uomo invece che verso Dio. Italiani in continua ricerca di Dio, quindi. "Da sempre - dice Asmaa - sono stata una cattolica praticante. Poi è arrivato un momento nella mia vita in cui ho sentito che la mia religione non era abbastanza. Fu in quel momento che ho iniziato un percorso di ricerca spirituale. Ho letto di tutto, finanche il buddismo". Dal Buddismo al Salaf. Questo è il percorso di Asmaa: "Seguo la dottrina dei Salaf - afferma - quella dell’Islam puro, perché è quello che si rifà all’Islam tradizionale e letteralista, quello delle prime tre generazioni di musulmani, ossia quella del profeta e le due successive". Quello seguito da Arabia Saudita e Qatar, per intenderci. E per farlo ha la sua guida spirituale, lo Sheikh Abu Ameenah Bilal Philips, un canadese convertito all’Islam, famoso divulgatore del messaggio salafita con programmi Tv islamici trasmessi da Qatar. Lo Sheikh Abu Ammeenah Bilal Philips è anche rettore e fondatore della Islamic Online University con sede a Doha, che Asmaa segue da due anni come tanti convertiti nel mondo, grazie anche al fatto che è in inglese e on line. A dimostrazione di come il web sia centrale nella divulgazione dell’Islam. (Sarda, 40 anni, ha iniziato a cercare informazioni sul web prima di convertirsi). Anche per Elena Hayam Murgia, 40 anni, sarda ma residente a Milano, il web è stato fondamentale per la conversione. "Quando ero ancora sposata - racconta -, mio marito lavorava in un’impresa con molti operai musulmani e qualche volta gli hanno regalato dei libri sull’Islam. Fu così che ho iniziato a leggerli e a conoscere l’Islam. Da quel momento ho iniziato, di nascosto da mio marito, a cercare sul web risposte a miei quesiti in lingua italiana. Nel 2011 mi sono recata da sola alla moschea di Sarocco per la conversione". Una decisione presa escludendo il marito, ma che non può nascondere a lungo. Inizia a portare il velo e a cambiare. La fine del suo matrimonio ora è imminente. Ma Elena non si sente sola, ha Allah al suo fianco. E segue alla lettera, come Asmaa, la dottrina Salaf. Per entrambe la via maestra è quella segnata da sapienti come Ibn Taymiyyah, Ibn Qayyim al-Jawziyyah, Ibn Al B’z, al-Alb’n’. Il salafismo, anche se prende varie forme, fa alzare il livello di guardia di molti paesi perché lo ritengono un varco verso la radicalizzazione. Elena Hayam è furiosa per la decisione di limitare la libertà delle donne di indossare il Niqab in Lombardia. "Certo, non è obbligatorio ma è consigliato soprattutto nei periodi di Fitna". Secondo un’interpretazione salafita, la Fitna è il momento storico che viviamo, periodo di prove alle quali è sottoposto il genere umano; è molto forte in Occidente con la sua strumentalizzazione del corpo della donna. (Veneziano, 38 anni, è diventato islamico grazie alla moglie). Di tutt’altra opinione è Matteo Ali Scalabrin, 38 anni, di Venezia: "Il mio abbraccio all’Islam è stato l’incontro con Rachida. La mia attuale moglie, grazie a lei ho conosciuto una cultura e una religione che mi ha fatto innamorare. Mi sono convertito in Marocco. Rachida mi ha seguito in ogni passo della conversione. Era il 2000. La mia vita è cambiata in meglio, con l’Islam. Ormai sono musulmano da 16 anni, abbiamo due figli, mia moglie ha due lauree, lavora in Italia e se in Marocco portava il velo qui in Italia lo ha tolto. Io cerco di seguire tutti i precetti islamici, ma sto alla larga dalle interpretazioni dell’Islam hanbalita e salafita, che sono il vero problema per la riforma dell’Islam perché non attualizzano i precetti islamici, non dividono il testo dal contesto. Invece c’è l’esigenza dei grandi sapienti che provano a fare un lavoro di riforma della teologia islamica, cercando di attualizzarla con i diritti umani. Ci sono sapienti musulmani contemporanei che seguo con molto interesse, come Abdullahi Ahmed Annaim, Tariq Ramadan e Mohammad Arkun solo per fare qualche esempio". Ali attraverso islamitalia.it cerca di divulgare il riformismo islamico. (Studentessa triestina, 28 anni, convertita grazie al Corano). Anche Silvia Aaminah Ianello, 28 anni, studentessa di giurisprudenza a Trieste, ha incontrato l’Islam grazie a un amico musulmano. "Il mio incontro con l’Islam c’è stato grazie a un ragazzo tunisino - racconta -. Sono rimasta colpita dalla sua cultura e dal suo credo Islamico, che era tutt’altro rispetto a ciò che si raccontava. Mi colpì moltissimo che il Corano, rispetto alla Bibbia, era un testo che non era mai stato snaturato, modificato dall’uomo. Il mio cammino verso la conversione è avvenuto attraverso lo studio dei libri, Internet ma soprattutto la frequentazione della moschea, dove mi sono convertita. Mi ricordo ancora il giorno, quando, nonostante i miei famigliari fossero scettici per questa mia scelta, non mi hanno mai lasciata sola. Sono andata in moschea accompagnata da mia madre, da mia zia e un mio caro amico. Mi portarono persino una torta per festeggiare. Fu un momento di grande commozione. Da quel momento la moschea diventò la mia seconda casa". Sul Niqab, nonostante la giovane età e il fatto che si sia convertita poco meno di un anno fa, Silvia Aaminah non ha dubbi: "Non escludo di metterlo, un giorno". Non è un principiante dell’Islam, invece, Luigi Ammar De Martino, 78 anni, napoletano e sciita. Nella sua cucina, un ritratto di Khamenei che versa il tè; sulla sua scrivania, almeno due ritratti di Khomeini. È stato uno dei primi convertiti all’Islam sciita. "Mi convertii all’Islam nell’83 - racconta - ma prima fu una conversione politica, alla rivoluzione in Iran che portò, attraverso il referendum del ‘79, alla Repubblica islamica. Io, che ero un militante politico peronista, fui colpito dalla storia di quel popolo perché era contro l’imperialismo occidentale e il social imperialismo sovietico. La miscredenza e il materialismo contro una fede e un messaggio. Nell’Islam - dice - non esiste divisione tra religione e politica, perché in fondo cosa non è di Dio se non tutto". Dunque il ruolo della Sharia è fondamentale. E se da Occidente vengono criticate alcune pratiche sharaitiche perché contro i diritti umani, è difficile sentire qualche voce contro. La Sharia è la legge di Dio, dicono. Asmaa quindi mette il Niqab, era una cantante e ha smesso di cantare. Presto però andrà a vivere in Qatar "almeno lì potrò vivere libera l’Islam nel mio Niqab". Elena Hayam Murgia non ha mai messo piede in un paese islamico, se non in Albania per il suo secondo matrimonio. Jafar e De Martino stanno bene in Italia e l’Iran lo hanno certamente visitato, e per seguire la guida Khamenei basta un’antenna parabolica e un buon wi-fi. L’Islam italiano si ispira al purismo, sciita o sunnita. Cerca di superare gli stessi musulmani con lo studio e la ricerca, e difendono il Niqab. La sfida finale sull’Islam italiano, forse, sarà tra i convertiti e il resto, tra chi è più musulmano. E allora, forse, la battaglia è già persa in partenza. A Colonia è caccia all’immigrato: 12 feriti, per i fatti di Capodanno indagati 19 stranieri La Repubblica, 12 gennaio 2016 Merkel: "Nulla giustifica ostilità contro musulmani". Su Capodanno secondo la polizia locale non risulta un piano degli attacchi. Per le violenze di Colonia la polizia locale indaga su 19 sospetti: 10 sono richiedenti asilo, 9 sono presunti clandestini. È quello che emerge dal rapporto del ministro della Westfalia Ralf Jaeger. Nessuno dei sospettati è di cittadinanza tedesca. Quattro, già in stato di fermo, sono accusati di furto. Dal rapporto non emerge di quali rati siano accusati gli altri. A questo proposito la polizia tedesca ha fatto sapere che "dalle indagini sulla notte di San Silvestro finora non risulta che gli attacchi alle donne a Colonia siano stati "organizzati o guidati". Sarebbe stata invece pianificata su Facebook, un’iniziativa di un gruppo di hooligan, rocker e buttafuori che ha lanciato una "caccia all’uomo nel centro storico di Colonia", come reazione alle violenze subìte dalle donne a San Silvestro. La polizia sta indagando su eventuali collegamenti con una serie di aggressioni a stranieri avvenute ieri sera nelle quali sono rimasti feriti 12 profughi. "Nulla giustifica quello che è stato riferito dal presidente del Consiglio centrale dei musulmani tedeschi", ha detto il portavoce di Angela Merkel Steffen Seibert, rispondendo ad una domanda sulla denuncia fatta dal presidente dei musulmani tedeschi sull’ondata d’odio che sta colpendo i musulmani in Germania dopo le violenze di Colonia. Si indaga quindi su una possibile rappresaglia alle violenze subìte da centinaia di donne (516 le denunce, di cui il 40% per molestie sessuali) la notte di Capodanno nel capoluogo della Renania. Nella notte almeno 12 profughi sono stati aggrediti a Colonia da gruppi xenofobi. In totale l’ultimo bilancio fornito della polizia è di 6 pakistani, 3 immigrati dalla Guinea, due siriani ed un africano la cui nazionalità non è stata resa nota. Nel corso di una sessione speciale del Parlamento regionale del Nordreno-Vestfalia, il ministro degli Interni, Ralf Jaeger ha confermato che la gran parte delle persone sospettate per le violenze, per lo più a sfondo sessuale, avvenute nella stazione centrale di Colonia sono di origine straniera, e fra queste vi sono anche rifugiati arrivati in Germania negli ultimi mesi. "Tutti i segnali indicano che queste persone siano nord africani o del mondo arabo", ha aggiunto. Jaeger - riporta la Bild - ha anche addebitato alle forze di polizia "gravi errori" e ha escluso che vi siano stati suggerimenti a nascondere l’origine straniera dei responsabili. "Il fatto che dietro alle aggressioni ci siano stranieri non deve lasciare in silenzio ma non deve neanche portare a un sospetto generalizzato nei confronti di tutti i rifugiati e migranti", ha spiegato il ministro dell’Interno della Germania, Thomas de Maiziere, definendo le violenze "completamente inaccettabili". Migranti gettati in mare davanti alla costa salentina: una donna morta, si cercano dispersi di Chiara Spagnolo La Repubblica, 12 gennaio 2016 Ricerche a largo di Santa Maria di Leuca: sono stati recuperati 36 profughi sbarcati in tre punti diversi della penisola salentina. Sette persone in ospedale per ipotermia. Nelle acque del Canale d’Otranto tornano a sprofondare i corpi di anime innocenti. Uno, questa volta, ma il timore è che il bilancio della tragedia possa essere più grave se si pensa che almeno un altro migrante, forse una donna, è disperso mentre altre sette persone (tra cui un bimbo di dieci anni e una donna incinta) sono ricoverate negli ospedali del Salento per contusioni e ipotermia. Altri quattro migranti, invece, sarebbero fuggiti subito dopo lo sbarco. La nuova tragedia del mare è avvenuta a Capo di Leuca, in quel Canale d’Otranto che negli anni scorsi è stato teatro di molti naufragi con centinaia di morti accertati, ma anche di clandestini scomparsi tra i flutti dopo essere stati gettati in mare dagli scafisti e mai più ritrovati. La vittima è una donna somala di 32 anni che i traghettatori, attorno alle 3.30 della notte fra domenica e lunedì, hanno scaraventato in acqua assieme a sei ragazze. La donna era a bordo di un semicabinato sul quale c’erano complessivamente 42 migranti partiti un paio di giorni fa dalla Grecia. Il corpo è stato recuperato vicino a uno scoglio, in località Felloniche, non lontano dal Capo di Leuca. È stato avvistato da un pescatore che ha dato l’allarme dopo aver visto un gomito sporgere dall’acqua. La vittima indossava un paio di jeans arrotolati e un reggiseno. Il maglione le era stato sfilato dal movimento del mare. La salma ha ricevuto la benedizione del vescovo di Ugento-Santa Maria di Leuca, Vito Angiuli, arrivato sul posto per assistere i migranti terrorizzati. "Queste tragedie - ha detto il vescovo - dovrebbero portare tutti, soprattutto coloro che hanno la responsabilità politica, ad affrontare questi problemi, ad accelerare i passi, perché non accadano più. Non servono più soltanto dolore e pietà". Dell’immigrazione ha parlato anche papa Francesco davanti al Corpo diplomatico in Vaticano. "Una particolare riconoscenza - ha detto il Papa - desidero esprimere all’Italia, il cui impegno deciso ha salvato molte vite nel Mediterraneo e che tuttora si fa carico sul suo territorio di un ingente numero di rifugiati. Auspico che il tradizionale senso di ospitalità e solidarietà che contraddistingue il popolo italiano non venga affievolito dalle inevitabili difficoltà del momento, ma, alla luce della sua tradizione plurimillenaria, sia capace di accogliere e integrare il contributo sociale, economico e culturale che i migranti possono offrire". Gli sbarchi della notte sono avvenuti in tre punti diversi della costa salentina: prima a Marina di Novaglie, in località Ciolo, dove un primo gruppo di migranti è stato trovato sugli scogli, poi a Leuca e infine a Felloniche dove i migranti sono stati ritrovati lungo una strada. Complessivamente sono state rintracciate e soccorse 36 persone. Sulla vicenda la Procura di Lecce ha avviato un’indagine per identificare i traghettatori e l’organizzazione criminale che gestisce i traffici verso la Puglia. Papa Francesco sui migranti: "L’Europa non vacilli". E ringrazia l’Italia La Repubblica, 12 gennaio 2016 Il discorso ai diplomatici in Vaticano partendo dai timori per le reazioni di chiusura dopo "gli atti di terrorismo": "Una particolare riconoscenza all’Italia, il cui impegno deciso ha salvato molte vite nel Mediterraneo e che tuttora si fa carico sul suo territorio di un ingente numero di rifugiati". I "massicci sbarchi" e i "timori per il terrorismo" "sembrano far vacillare il sistema di accoglienza" dell’Europa, ma questa deve superare "i timori per la sicurezza" e, ripete il Papa, non perdere le "basi del suo spirito umanistico". Lo ha detto in un discorso al Corpo diplomatico rendendo espliciti tutti i timori per le polemiche dopo i fatti di Colonia. "Molti migranti provenienti dall’Asia e dall’Africa, - ha rimarcato il Papa - vedono nell’Europa un punto di riferimento per principi come l’uguaglianza di fronte al diritto e valori inscritti nella natura stessa di ogni uomo, quali l’inviolabilità della dignità e dell’uguaglianza di ogni persona, l’amore al prossimo senza distinzione di origine e di appartenenza, la libertà di coscienza e la solidarietà verso i propri simili". "Tuttavia, - ha sottolineato Bergoglio - i massicci sbarchi sulle coste del Vecchio Continente sembrano far vacillare il sistema di accoglienza, costruito faticosamente sulle ceneri del secondo conflitto mondiale e che costituisce ancora un faro di umanità cui riferirsi. Di fronte all’imponenza dei flussi e agli inevitabili problemi connessi, sono sorti non pochi interrogativi sulle reali possibilità di ricezione e di adattamento delle persone, sulla modifica della compagine culturale e sociale dei Paesi di accoglienza, come pure sul ridisegnarsi di alcuni equilibri geo-politici regionali". "Altrettanto rilevanti sono i timori per la sicurezza, esasperati oltremodo della dilagante minaccia del terrorismo internazionale. L’attuale ondata migratoria sembra minare le basi di quello ‘spirito umanistico’ che l’Europa da sempre ama e difende. Tuttavia, non ci si può permettere di perdere i valori e i principi di umanità, di rispetto per la dignità di ogni persona, di sussidiarietà e di solidarietà reciproca, quantunque essi possano costituire, in alcuni momenti della storia, un fardello difficile da portare. Desidero, dunque, ribadire il mio convincimento che l’Europa, aiutata dal suo grande patrimonio culturale e religioso, abbia gli strumenti per difendere la centralità della persona umana e per trovare il giusto equilibrio fra il duplice dovere morale di tutelare i diritti dei propri cittadini e quello di garantire l’assistenza e l’accoglienza dei migranti". Poi il ringraziamento all’Italia per il lavoro di accoglienza svolto in questi mesi: "Una particolare riconoscenza all’Italia, il cui impegno deciso ha salvato molte vite nel Mediterraneo e che tuttora si fa carico sul suo territorio di un ingente numero di rifugiati". "Auspico - ha detto - che il tradizionale senso di ospitalità e solidarietà che contraddistingue il popolo italiano non venga affievolito dalle inevitabili difficoltà del momento, ma, alla luce della sua tradizione plurimillenaria, sia capace di accogliere ed integrare il contributo sociale, economico e culturale che i migranti possono offrire". Il Papa ha poi definito "importante" che "le Nazioni in prima linea nell’affrontare l’attuale emergenza non siano lasciate sole, ed è altrettanto indispensabile avviare un dialogo franco e rispettoso tra tutti i Paesi coinvolti nel problema - di provenienza, di transito o di accoglienza - affinché, con una maggiore audacia creativa, si ricerchino soluzioni nuove e sostenibili". Tra gli argomenti trattati anche il nucleare. "Fanno ben sperare per il futuro le importanti intese internazionali, tra le quali l’Accordo sul nucleare iraniano" ha affermato Francesco che ha parlato di "gesti significativi e particolarmente incoraggianti". Il Papa ha auspicato in particolare che il risultato raggiunto con l’Iran "contribuisca a favorire un clima di distensione nella Regione". Suscitano però apprensione nel Pontefice "i gravi contrasti sorti nel Golfo Persico" e "il preoccupante esperimento militare condotto nella penisola coreana". "Da parte sua - ha detto il Pontefice - l’anno da poco iniziato si preannuncia carico di sfide, e non poche tensioni si sono già affacciate all’orizzonte". "Auspico - ha scandito - che le contrapposizioni lascino spazio alla voce della pace e alla buona volontà di cercare intese". Siria: Madaya ha fame, non è possibile aspettare di Davide Frattini Corriere della Sera, 12 gennaio 2016 La fame come arma di denutrizione di massa per spezzare chi non si vuole arrendere, anche ridotto a un ramo secco come gli abitanti di Madaya. Per la prima volta da ottobre il regime siriano ha concesso che cibo, medicine, generi di prima necessità entrassero nella città accerchiata dal suo esercito e dalle milizie libanesi di Hezbollah, tutt’intorno sono state piazzate le mine anti-uomo-donna-bambino. Le Nazioni Unite hanno dovuto mediare, negoziare, scendere a compromessi con Bashar Assad per ottenere l’accesso e poter distribuire gli aiuti. Usare la fame come in un assedio medievale è contrario alla legalità internazionale (e di certo spietato): un anno fa il Consiglio di sicurezza ha votato all’unanimità una risoluzione per imporre ai contendenti di permettere la distribuzione di aiuti. Da allora - calcola l’Onu - i siriani intrappolati sono cresciuti da 240 mila a 400 mila: la metà dalle truppe e dai sostenitori del clan al potere, altrettanti circondati dallo Stato Islamico, due villaggi dai ribelli. Quando Sarajevo rimase sotto assedio per tre anni e dieci mesi la comunità internazionale lanciò quello che Laura Boldrini, la presidente della Camera, ha celebrato come "il più lungo ponte aereo della Storia", la nostra Aeronautica Militare consegnò 34.600 tonnellate di carichi umanitari. Madaya non è dall’altra parte del confine italiano come l’ex Jugoslavia ma per raggiungerla dal Libano ci vogliono 40 secondi di volo per un C-130 da trasporto. Lo spauracchio dei "sofisticati" missili contraerei del regime non regge, i cieli della Siria sono già affollati di jet impegnati nei bombardamenti, la coalizione guidata dagli americani non ha chiesto il permesso ad Assad e non coordina i raid con Damasco. Una missione umanitaria per paracadutare gli aiuti ai civili affamati è realizzabile. Stati Uniti: l’eredità (in)visibile di Obama di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 12 gennaio 2016 Con una misura notata da pochi che limita l’uso dei condizionatori d’aria, Barack Obama ha creato le premesse per ridurre dell’1% i consumi energetici americani. Altri cali arrivano dalle auto con le norme che obbligano i costruttori a produrre vetture capaci di raddoppiare la distanza percorsa con un litro di benzina. Così cominciano a cambiare i comportamenti degli americani. E per la prima volta, grazie anche alla maggiore estrazione di shale gas e alla chiusura delle centrali a carbone più inquinanti, negli Usa diminuiscono le emissioni che scaldano l’atmosfera e alterano il clima. Non ci sono solo la riforma sanitaria, il dimezzamento dei disoccupati, il rilancio dell’economia e il salvataggio dell’industria dell’auto nell’eredità che Obama lascia all’America. Anche se i cittadini, che gli assegnano un basso indice di gradimento (poco superiore a quello di George W. Bush nel 2008, ma lontano dalla popolarità di Clinton e Reagan a fine mandato) non gliene danno atto, la presidenza del primo leader nero della storia Usa si lascia dietro i semi di un cambiamento che, dalla scuola alla finanza, sarà più profondo di quanto non appaia a prima vista. Stanotte, pronunciando il settimo e ultimo Discorso sullo stato dell’Unione, Obama rivendicherà davanti al Congresso le cose fatte. E, nonostante le difficoltà e gli insuccessi in politica estera, presenterà un quadro ottimista del futuro del Paese per arginare la cupa narrativa dei candidati repubblicani alla Casa Bianca che parlano di un’America in declino. Sul giudizio negativo dei cittadini pesano soprattutto la sensazione di un declino degli Usa per il loro minor peso geopolitico: un calo che è figlio della moltiplicazione dei conflitti, della rinuncia di Washington a continuare a fare il "gendarme del mondo" e dell’espansione apparentemente incontenibile dell’influenza dell’Isis. Accusato dai repubblicani di aver abbracciato un pacifismo rinunciatario e velleitario, Obama sostiene di aver fatto quello che poteva per mantenere alta la guardia senza riportare in guerra un’America esausta dopo 13 anni di conflitti in Iraq e Afghanistan. Così, aggiunge la Casa Bianca, abbiamo tenuto il Paese al riparo da attacchi terroristi: un argomento solo in apparenza indebolito dalla strage di San Bernardino, condotta da "cani sciolti", non da cellule attive dei grandi movimenti sovversivi come Al Qaeda o lo Stato Islamico. Ma la maggior parte degli americani boccia Obama anche per quello che ha fatto all’interno: la destra lo condanna accusandolo di aver perseguito politiche dirigiste, ispirandosi a modelli socialisti. La sinistra liberal lo considera, invece, un presidente che si è accontentato di una serie di mezze misure poco efficaci. In realtà Obama ha fatto anche cose molto importanti. Che sono però difficili da presentare come tali sul piano della comunicazione. Quando, sei anni fa, l’allora ministero del Tesoro, Tim Geithner, gli disse che sarebbe passato alla storia come il presidente capace, dopo il crollo del 2008, di evitare all’America un’altra grande depressione, Obama replicò secco: Non mi basta". Ma le cose realizzate in una realtà che è sempre più complessa non sono nitide come le promesse elettorali di cambiamenti radicali fatte nel 2008. O come i programmi di Donald Trump, che vuole un muro al confine col Messico, o quelli del progressista Bernie Sanders che invece promette "college" gratuito per tutti i ragazzi americani. Obama ha riformato Wall Street e il finanziamento dello studio, ma le nuove regole per il mercato finanziario sono giudicate da molti lacunose nonostante abbiano fin qui impedito il ripetersi di gravi crisi. In campo scolastico, poi, il presidente ha evitato la bancarotta di un’intera generazione di laureati schiacciati da un debito di studio troppo elevato, trasferendone gradualmente l’onere alla fiscalità generale. Mossa poco pubblicizzata per non farsi accusare di aver imposto un’altra tassa occulta ai contribuenti, ma che ha evitato un disastro sociale. Forse, alla fine, il giudizio da rivedere sarà quello di un Obama gran comunicatore: Bill Clinton si vantò per anni di aver messo la museruola a "big tobacco", ma poi è stato Obama a regolare, in silenzio, l’industria del fumo. Mentre dei 90 miliardi federali spesi per decuplicare la produzione di energie alternative si parla quasi solo per denunciare un unico scandalo: quello di una società del solare, Solyndra, fallita dopo aver avuto 535 milioni di sussidi pubblici. Stati Uniti: Amnesty International "chiudere carcere Guantánamo, simbolo d’ingiustizia" Redattore Sociale, 12 gennaio 2016 In occasione del 14esimo anniversario dell’apertura, Amnesty International afferma: "È diventato il simbolo della tortura". In occasione del 14esimo anniversario dell’apertura di Guantánamo, Amnesty International ha dichiarato che gli ostacoli posti dal Congresso americano alla chiusura del centro di detenzione rischiano di porre gli Usa tra i paesi che continuano stabilmente a violare gli standard internazionali condivisi in materia di giustizia e diritti umani. "Guantánamo rimane aperto perché la politica intende sfruttare la paura genuina di attacchi terroristici da parte dell’opinione pubblica. Invece di individuare misure efficaci e legali per prevenire quegli attacchi, i membri del Congresso passano il tempo a giocare con le vite di decine di uomini che potrebbero morire dietro le sbarre senza neanche essere stati processati", ha dichiarato Naureen Shah, direttrice del programma Sicurezza e diritti umani di Amnesty International Usa. Che ha aggiunto: "Guantánamo è diventato il simbolo internazionale della tortura, delle rendition e della detenzione a tempo indeterminato senza accusa né processo. Chiudere il centro non significa semplicemente spostare i prigionieri altrove, bensì porre fine a tutte quelle pratiche e assumere le responsabilità per le violazioni dei diritti umani che vi hanno avuto luogo". A Guantánamo si trovano attualmente 104 detenuti, 45 dei quali rimangono reclusi anche se ne è stato già autorizzato il rilascio. Quando s’insediò alla presidenza, nel gennaio 2009, il presidente Barack Obama firmò un ordine esecutivo che prevedeva la chiusura del famigerato centro di detenzione entro un anno. Sette anni dopo, Guantánamo è ancora aperto. Il presidente Obama ha parlato del progetto di chiudere Guantánamo, trasferendo in carceri in territorio statunitense alcuni prigionieri per continuare a sottoporli a detenzione a tempo indeterminato. "Così facendo, cambierebbe solo il codice di avviamento postale di Guantánamo e si darebbe alle prossime amministrazioni un precedente pericoloso. Il presidente Obama deve porre fine, e non spostarla altrove, alla detenzione a tempo indeterminato senza processo - ha sottolineato Shah. La popolazione carceraria di Guantánamo potrebbe essere sensibilmente ridotta trasferendo le decine di detenuti di cui è stata già approvato il rilascio. Il Pentagono dovrebbe ricevere dal presidente chiare direttive per il loro trasferimento verso paesi considerati sicuri". "I detenuti che non possono essere trasferiti dovrebbero essere processati nei tribunali federali oppure rilasciati e dovrebbero essere aperte indagini sulle torture e sulle altre violazioni dei diritti umani commesse a Guantánamo - ha concluso Shah. Il presidente Obama ha appena un altro anno per tradurre in realtà il suo impegno a chiudere Guantánamo. Sono in gioco il suo lascito in tema di diritti umani, così come quello degli Usa. Non sarà facile, ma il presidente Obama può e deve riuscirci". Spagna: Paesi Baschi, la sinistra in piazza per i prigionieri di Davide Angelilli Il Manifesto, 12 gennaio 2016 I detenuti sono ancora 402 e la repressione non si ferma. Una questione poco presente nei media europei, quella dei prigionieri politici baschi. Da quando, il 20 ottobre del 2011, l’organizzazione basca Eta dichiarò la cessazione definitiva della sua attività armata, il numero dei detenuti politici baschi è notevolmente diminuito. Ma, se nel 2011 erano 755, oggi sono ancora in 402 le persone detenute con l’accusa di aver partecipato o collaborato con le azioni di Eta. Di queste, solamente 5 stanno compiendo la condanna in centri penitenziari ubicati in Euskal Herria, nel Paese Basco; 87 si trovano in carcere in Francia; una in Portogallo; mentre le altre 300 circa scontano la pena dentro i confini dello Stato spagnolo, ma in località molto distanti da casa. In totale, i prigionieri politici baschi sono distribuiti in 72 centri penitenziari, il 90% di loro si trova a più di 400 chilometri di distanza da casa. In sostanza, come segnala uno studio dell’organizzazione Exterat e del giornale basco Gara, "sebbene il numero dei detenuti sia diminuito di circa il 40% dal 2011, quello delle carceri è diminuito appena e la distanza media del luogo di detenzione da quello di residenza dei prigionieri è aumentata, sia nello Stato spagnolo che in quello francese". La questione della dispersione (la politica penitenziaria che spedisce i prigionieri lontano da casa) è centrale per le organizzazioni basche che sostengono i diritti dei detenuti politici. Subito dopo la scelta di Eta di dichiarare la tregua definitiva, a gennaio del 2012 scesero in piazza centodiecimila persone per chiedere un cambiamento radicale delle misure carcerarie. Da quella storica manifestazione, ogni gennaio, la sinistra indipendentista, con l’appoggio di altre forze politiche basche, organizza per le strade di Bilbao manifestazioni di solidarietà con i detenuti politici e le loro famiglie. Lo scorso sabato, per la prima volta, la manifestazione si è svolta contemporaneamente a Bilbao e a Baiona: con la partecipazione complessiva di più di settantamila persone. Presente alla manifestazione, uno dei leader della sinistra catalana e del partito della Cup, David Fernández, ha dichiarato che la "dispersione è uno degli aspetti più silenziati e negati del conflitto basco". Uno studio appena pubblicato dall’Università del Paese Basco (Upv) afferma esplicitamente che il vigente regime penitenziario produce una negazione permanente dei diritti dei prigionieri baschi. "Questa negazione di diritti si utilizza con finalità politiche, non esiste nessuna base giuridica che permetta ai poteri pubblici di agire in questo modo". Significativo che i richiami e le segnalazioni del Tribunale europeo dei diritti umani siano stati completamente ignorati e disattesi dallo Stato spagnolo. Ad oggi, infatti, oltre a non essere stata applicata la legge che consente ai detenuti di scontare la condanna nelle vicinanze delle abituali residenze, Madrid ha completamente ignorato la normativa dell’Unione europea sulla validità degli anni di carcere scontati in altri Stati. Negli ultimi mesi, il sistema giudiziario iberico si è rifiutato di riconoscere ai prigionieri politici baschi la parte di pena scontata nelle carceri di altri stati dell’Unione europea. Questo doppio strappo alle norme giuridiche prodotte dal Tribunale Europeo - segnala ancora lo studio - "viola i diritti fondamentali dei prigionieri e delle prigioniere politiche basche, nello specifico il loro diritto alla vita privata e familiare", garantito dall’articolo 8 della Corte europea dei diritti umani, ma anche nell’articolo 18 della Costituzione spagnola. La politica penitenziaria d’eccezione utilizzata con il collettivo di detenuti politici baschi risponde a un chiaro disegno politico del Partido Popular, ancora al governo. Un disegno appoggiato e sostenuto anche dal potere giudiziario. Sono in molti, quindi, a sperare che lo scossone politico portato dalle ultime elezioni possa significare un cambiamento anche in questo scenario. "Già da qualche mese si sente il rumore di nuovi venti che spazzano via il marciume dalla politica spagnola, e anche dal paesaggio basco", scrivono da Sare, la rete cittadina che promuove la manifestazione. Infatti, se il premier Mariano Rajoy ha più volte manifestato l’intenzione di mantenere l’attuale regime penitenziario, su cui è fermo l’appoggio del Psoe e del nuovo partito Ciudadanos, il programma elettorale di Izquierda Unida metteva tra i suoi punti la fine della dispersione dei prigionieri politici baschi. Per quanto riguarda Podemos, invece, il punto era assente dal programma elettorale, ma Iñigo Errejon e Pablo Iglesias hanno espresso pubblicamente la volontà politica di cambiare le misure penitenziarie d’eccezione che permettono la dispersione. Dentro la coalizione Bildu, la questione dei prigionieri politici è sicuramente uno dei punti più spinosi e delicati che compongono la nuova fase aperta dalla fine del conflitto armato. Bildu ha più volte segnalato come il nuovo tempo ha segnato il passaggio da "una fase di resistenza e risposta a uno scenario di risoluzione e accumulazione di forza, dallo scontro alla risoluzione". Tuttavia, con il "nuovo tempo" l’atteggiamento ostile e repressivo dello Stato spagnolo non è mutato di una virgola. Non esiste ad oggi nessuno strumento di risoluzione attivo e la repressione continua ad essere sistematica, non solamente rispetto al collettivo di prigionieri politici, ma anche verso il movimento giovanile, sindacale e sociale della sinistra indipendentista basca. Per questo, alcuni settori della izquierda abertzale, la sinistra patriottica, già da qualche mese stanno promuovendo un percorso alternativo a quello preso dalla colazione di Bildu e dal partito di riferimento, Sortu. Rivendicando il conflitto sociale come unica via per raggiungere l’amnistia per i detenuti politici, criticano apertamente alla strategia ufficiale di voler smuovere la politica penitenziaria solamente attraverso la logiche giuridiche dei Diritti umani, occultando invece le radici politiche del problema. Critiche che hanno portato tutto il movimento e i partiti a un vivace dibattito, amplio e partecipato, che durerà fino a primavera. Al di là delle questioni interne alla sinistra indipendentista, l’agibilità politica della izquierda abertzale è fortemente limitata dalla continua repressione. Nell’Europa che si erige a paladina dello Stato di Diritto, i tribunali e i poteri pubblici di Madrid - che hanno appena licenziato la famosa Ley Mordaza - possono costantemente ignorare e trasgredire le normative provenienti dai Tribunali europei. Inoltre, i processi contro militanti di organizzazioni basche non sono finiti, anzi se ne potrebbero aprire di nuovi. E, proprio in questi giorni, sono chiamati a testimoniare di fronte all’Audiencia Nacional ventisette persone, di diverse organizzazioni e con diverse accuse: dal riciclaggio all’apologia di terrorismo. Tra questi c’è anche Maurizio Faedda, un giovane sardo residente da sei anni a San Sebastian, e militante dell’organizzazione internazionalista Askapena, che rischia di essere messa fuori legge. "Mi accusano di aver partecipato a un Ongi Etorri, una delle feste popolari organizzate per festeggiare la liberazione di un detenuto politico e accoglierlo in strada - dice al manifesto -. Quando ho chiesto perché, tra le tante persone che c’erano, stessero chiamando proprio me, alcuni compagni mi hanno risposto che probabilmente mi vogliono intimidire. Da quando sono qui, milito politicamente con il movimento indipendentista". In una recente intervista, Arnaldo Otegi, il leader della sinistra indipendentista ancora per pochi mesi in carcere, ha ricordato come il potente apparato militare e poliziesco dello Stato spagnolo limiti le possibilità che si apra effettivamente un nuovo scenario di risoluzione democratica del conflitto, nonostante la storica decisione di Eta: "È chiaro - ha detto Otegi - che lo Stato pretende di giocare a scacchi con i guantoni da boxe e questo è semplicemente impossibile". Nord Corea: appello disperato di un detenuto statunitense alla Cnn "salvatemi" di Giulia Melodia Secolo d’Italia, 12 gennaio 2016 Dalla Nord Corea arriva ancora una storia da regime illiberale: l’ennesima. Una vicenda di spionaggio e di complotti che sarebbe rimasta relegata nel silenzio e che le stesse autorità nord-coereane hanno lasciato trapelare concedendo alla Cnn di intervistare un presunto prigioniero Usa arrestato per spionaggio. Una storia apparsa da subito come particolarmente intricata, nei cui meandri si sono addentrate le telecamere della Cnn nel tentativo di provare a fare luce intanto sulla reale identità (e nazionalità) del prigioniero finito in cella con un’accusa tra le più temibili: quella di spiare e raccogliere informazioni in nome e per conto del nemico di sempre, la Corea del Sud. L’uomo si è identificato come Kim Dong Chul, di 62 anni, originario di Fairfax in Virginia. Nell’intervista, rilasciata in un hotel di Pyongyang, dove il detenuto è stato condotto sotto la stretta sorveglianza di alcune guardie, l’uomo dice di essere agli arresti da ottobre, di aver spiato per conto di "elementi conservatori della Corea del Sud" e prova a lanciare un appello a Corea del Sud e Usa per essere salvato. "Chiedo al governo Usa o sudcoreano di salvarmi", ha detto Kim Dong Chul nell’intervista, condotta in coreano con l’aiuto di un interprete. L’uomo - di cui viene anche esibito il passaporto - sostiene di aver avviato un’attività imprenditoriale in una zona di confine nordcoreana, e di aver cominciato a lavorare come spia nell’aprile 2013, corrompendo residenti locali per "raccogliere importanti materiali" da vendere alla Cina o alla Corea del Sud. Ma alla domanda se avesse mai lavorato per gli Usa, il detenuto ha risposto categoricamente di "no". Sarebbe stato arrestato lo scorso ottobre mentre incontrava una sua fonte per ottenere una chiavetta Usb e una macchina fotografica da utilizzare per raccogliere segreti militari. Nei suoi due anni di spionaggio, Kim afferma di aver ricevuto solo circa 35 mila yuan, pari a 35 mila dollari, ma precisa di non averlo fatto per soldi. L’uomo, sposato e padre di due bambine, è apparso in buone condizioni, e alla fine ha lanciato un appello perché gli Usa, dopo il successo del test di Pyonyang su una presunta bomba H, abbandonino la loro politica ostile e trovino un modo per riconciliarsi con la Corea del Nord. Se confermato, Kim sarebbe l’unico cittadino Usa prigioniero in Corea del Nord, dopo il rilascio nel novembre del 2014 di Kenneth Bae e Matthew Miller. Ma, giallo nel giallo, ad oggi il dipartimento di Stato Usa ha riferito di non poter confermare se Kim Dong Chul sia un cittadino americano, spiegando alla Cnn che "parlare pubblicamente di casi specifici di detenuti Usa può complicare i nostri instancabili sforzi di garantire la loro libertà". Messico: El Chapo detenuto nel carcere da dove evase grazie a un tunnel sotterraneo di Guido Olimpio Corriere della Sera, 12 gennaio 2016 El Chapo è di nuovo nella prigione dell’Altiplano, la stessa da dove era fuggito l’11 luglio. Gli hanno assegnato la matricola 3578, ma soprattutto hanno rafforzate le misure per impedire che scappi ancora. Cominciamo dall’esterno. Oltre al check point con un paio di blindati armati di mitragliatrici, sono stati creati posti di controllo volanti e pattugliamenti a largo raggio. Chiunque entri nella zona deve essere controllato. Almeno questa è la promessa. Sarebbero stati anche riattivati i sensori infilati nel terreno attorno al carcere: in luglio non erano funzionanti - è stato spiegato - perché c’erano dei grandi lavori per la posa di tubi, un aspetto che aveva favorito la realizzazione del tunnel che portava fino alla cella. Il fatto è che l’attività di scavo continua e non è chiaro come non infici la "sensibilità" dei sensori. All’interno i metal detector sono stati tarati di nuovo e il braccio speciale dove è rinchiuso Guzman è stato modificato. Sono state aggiunte piastre d’acciaio a fare una sorta di guscio, quindi aggiunto un "pavimento" di sbarre. Due guardie siederanno davanti al cubicolo 24 ore su 24, sorveglianza che si aggiunge a quella via telecamera. Le ispezioni saranno più frequenti e ci sarà un filtro maggiore sulle visite per il prigioniero. Durante l’altra detenzione El Chapo ha ricevuto oltre 400 persone, in gran parte suoi avvocati ma anche figure a lui vicine. Difficile non pensare che lo abbiano aiutato per mettere a punto la grande fuga. Le informazioni diffuse dalle autorità in queste ore sono una risposta a quanti giurano che il boss scapperà di nuovo e contestano la scelta dell’Altiplano. Sempre su questa linea l’annuncio che la procedura di estradizione verso gli USA è iniziata, anche se richiederà tempi lunghi e dovrà resistere alle obiezioni presentate dai legali. Si parla da un minimo di sei mesi fino ad un anno o forse ancora di più. Sarà certamente una battaglia. I dissidi interni ai narcos. Fermento anche nel clan di Sinaloa. Indiscrezioni sostengono che alcuni esponenti dell’organizzazione sarebbe furiosi con i figli del padrino. I narcos li accusano di aver contribuito alla realizzazione del progetto del film e all’intervista apparsa su Rolling Stone. Una violazione dei codici di sicurezza che alla fine è stata probabilmente decisiva nella cattura del capo clan. Altre tensioni sono sorte per la decisione de El Chapo di affidarsi a personaggi di fiducia, ma troppo noti agli inquirenti che li avrebbero "filati" con determinazione. Aldilà delle speculazioni non c’è dubbio che la tattica ha funzionato. E chissà che qualcuno nella gang non nutra dubbi sul ruolo di Penn. Durante le premiazioni del Golden Globe hanno fatto battute sull’artista - definito un informatore - ma c’è poco da scherzare. Le indagini e l’intervista "incriminata". L’intervista sulla rivista continua poi ad essere tema di rivelazioni e interrogativi. Il quotidiano El Universal ha scritto che l’intelligence messicana ha tracciato Kate del Castillo in tutti i suoi contatti con gli avvocati del padrino seguendone tutte le mosse: sul sito del giornale è apparsa una foto dell’attrice con la star americana e un emissario del narco. È stata scattata poco prima che i due raggiungessero il nascondiglio del latitante. Secondo il quotidiano queste le tappe di Kate e Sean Penn: 1) il 2 ottobre volano da Los Angeles a Guadalajara con un jet privato. 2) Prendono delle stanze in un hotel dove è in attesa un avvocato del criminale. 3) Si spostano in auto a Tepic, Nayarit, e da qui si imbarcano su un velivolo bimotore che li trasferisce nella regione di Durango, quindi, a bordo di un paio di jeep, arrivano fino al rifugio. Nonostante le smentite è evidente come la storia del film abbia rappresentato un aspetto importante nelle operazioni poi conclusesi con la cattura del capo di Sinaloa. Il covo. Continuano infine a trapelare ricostruzioni sulla cattura. Guzman, quando è stato individuato dai marines in un edificio di Las Mochis, è scappato attraverso un passaggio segreto celato da un grande specchio: un tunnel che portava alla rete fognaria. Mentre la sua scorta ha ingaggiato un conflitto a fuoco con i soldati, il boss si è infilato nei sotterranei e vi sarebbe rimasto per alcune ore. I soldati, accortisi della manovra, sono scesi anche loro nelle gallerie. Braccato, il padrino è sbucato, insieme al suo responsabile per la sicurezza El Cholo, a circa 3 chilometri di distanza ed ha sequestrato un’auto. Non sono però andati lontano: una pattuglia della polizia li ha intercettati vicino al Doux Hotel. Le tv hanno anche diffuso un breve video della battaglia, con i soldati che sparano con fucili d’assalto e lanciano granate.