Pene lunghe, poca rieducazione e tanti rischi per la società Il Mattino di Padova, 11 gennaio 2016 Se si guarda qualsiasi telefilm americano sulla Giustizia, si sente spesso condannare i colpevoli di reati con formule del tipo "Si condanna a una pena da cinque a vent’anni", che significa che dopo un certo numero di anni quella pena può essere rivista. Un altro esempio significativo: in Danimarca l’ergastolo esiste (sono 25 i condannati attualmente presenti negli istituti danesi con tale pena da scontare), ma dopo 12 anni si può già chiedere la liberazione condizionale e, se non concessa, si può tornare a richiederla ogni due anni. L’idea fondamentale, che va affermandosi in molti Paesi, è che le pene detentive troppo lunghe non producono sicurezza, ma distruggono le persone e restituiscono alla società uomini logorati nel fisico e nella mente, incapaci di ricostruirsi delle relazioni, soli e profondamente a rischio. A qualcuno interessa il cambiamento di una persona che ha commesso dei reati? Mi piacerebbe parlare delle lunghe pene che ha il nostro Paese, ma incredibilmente faccio fatica a trovare le parole, eppure io ho una condanna lunga, 30 anni. Penso che in me stia nascendo la cosa più brutta che si può creare dentro ad ogni essere umano, la rassegnazione. Ormai sto iniziando a credere che a buona parte delle istituzioni non interessa il cambiamento di una persona che ha commesso reati. Il cambiamento di una persona detenuta sicuramente è un percorso complicato, doloroso, ma quando questo avviene cosa, c’è oltre? Niente, perché nessuno può modificare la condanna che ti è stata data dieci, venti o anche trent’anni fa. La condanna che hai preso è quella che dovrai scontare e poco importa se la persona negli anni di detenzione mette in discussione il suo passato in maniera critica, questo assolutamente non cambia nulla, l’unica cosa che implica è che ci sarà una persona che con questo contesto carcerario non c’entrerà più nulla, avrà convinzioni diverse, pensieri diversi, un linguaggio diverso, ma dovrà rimanere dentro un ambito che non sente più vicino a lui. Mi ricordo i miei primi ingressi in carcere, sarei un folle se dicessi che ero contento, ma alla fine avevo la consapevolezza che commettendo dei reati poteva accadere che finissi in carcere, e un’altra consapevolezza che avevo era che sapevo vivere qui dentro, conoscevo le regole di questa vita e la prima su tutte era quella di lottare contro chiunque rappresentasse le istituzioni. Ormai sono anni che non ragiono più così, perché sono riuscito ad abbattere quelle convinzioni che ho sempre avuto: io contro tutto il sistema. Oggi però la mia vita, con molta difficoltà, tento di riempirla con pensieri diversi, cercando le vere motivazioni che mi hanno portato a fare una scelta delinquenziale piuttosto che una vita "regolare", provo a comprendere il prossimo, non banalizzo i reati, mentre prima la mia stupida convinzione mi portava a credere che rapinare una banca significasse esclusivamente colpire un’assicurazione e quindi non avere vittime. Ma oggi non banalizzo più neanche un furto, perché ho imparato a mettermi nei panni dell’altro, e provo a immaginarmi di essere una persona che si è vista spuntare in un luogo pubblico un uomo incappucciato e armato, a come starà vivendo oggi la sua vita anche a distanza di anni, provo a pensare a chi ha subito un furto in casa, a come ancora oggi non si sentirà più sicuro in quello che dovrebbe essere un luogo di vera sicurezza personale, l’ambiente dove si sentiva protetto… insomma ho imparato a vedere con gli occhi dell’altro. Ma voi provate a mettervi nei panni delle persone che oggi non sono più quelle del reato commesso? Nei panni di una persona che è in carcere da oltre 20 anni? Il problema che abbiamo nel nostro Paese è che ancora vengono applicate leggi emergenziali del lontano ‘92 e non solo. La ex Cirielli da dove nasce? Da quella legge che venne chiamata Salva Previti nel 2006, ma è ovvio che se qualcuno si deve salvare quelli non possono essere i detenuti. Queste leggi, 4bis e ex Cirielli, non solo alzano le condanne, ma limitano in una maniera devastante l’accesso ai benefici e in altri casi li negano completamente, vedi l’ergastolo ostativo. Nel mio caso l’ingresso ai benefici dovrebbe essere a vent’anni di carcere su una condanna di 30, oggi ho dieci anni già scontati, se mi metto in discussione e mi assumo delle responsabilità, non sarebbe ora che provassi a ridare un senso alla mia vita fuori da questi muri e ripagare in qualche modo la società per il danno che ho recato? Quello che vorrei cercare di far comprendere è che arrivati a un certo punto di una carcerazione fatta in maniera riflessiva, tutti gli altri anni che si è costretti a passare qui dentro assumono solo un significato vendicativo e non più di rieducazione. A cosa servono, alla società, delle persone rinchiuse ancora per anni o per sempre, che potrebbero invece iniziare a dare un contributo alla stessa società? Il carcere ammazza le speranze, i sogni, la voglia di riscatto e a volte dare un senso alla propria pena diventa complicato, e c’è il rischio che una persona inizi a chiedersi a cosa servirà il proprio cambiamento se poi non potrà metterlo in atto. Perché non pensare all’introduzione di leggi dove ogni tot di tempo la condanna del detenuto venga rivista, tenendo in considerazione il percorso che ha fatto e che sta facendo? Il carcere deve avere un senso altrimenti diventerà solo un contenitore di carne umana che prima o poi andrà in putrefazione. Lorenzo Sciacca Uscire dal vicolo cieco della "certezza della pena intesa come galera" Nelle vicende processuali si pronuncia spesso la frase "certezza della pena", che viene intesa come "carcerazione del reo fino all’ultimo giorno indicato nel dispositivo di condanna". È l’espressione che caratterizza un concetto della pena basato sul rispondere al male con altrettanto male. Si rinchiude il condannato in un luogo dove "retribuirà", con una quantità almeno uguale di sofferenza, quanto di male ha fatto alla società. Un desiderio del genere, di tipo vendicativo, dimostra una visione limitata dello scopo e del possibile utilizzo della pena detentiva in carcere. Si desidera solo rinchiudere il colpevole senza riflettere sulle conseguenze che un percorso del genere può comportare sulla società stessa. A meno che non lo si condanni all’ergastolo ostativo, quello che comporta l’uscita dal carcere solo da morto, prima o poi ci sarà un ritorno in società del detenuto. Il suo comportamento sarà di certo influenzato da come ha vissuto quel periodo di detenzione. Puntare tutto sulla sofferenza del condannato dà risultati scadenti in termini di recupero. Con tassi di recidiva del 70 %, per chi non ha svolto nessun tipo di attività significativa nel corso della detenzione, si certifica il fallimento di un sistema impostato sulla retribuzione e si perde di vista lo scopo più importante, quello del recupero dell’individuo. Volendo uscire da questo vicolo cieco della "certezza della pena intesa come galera", perché, anziché quella della pena, non richiedere la certezza della rieducazione? Si parte con pene più basse, più umane, e si verifica, concretamente, nel corso dell’esecuzione della pena, se il soggetto dimostra di aver abbandonato le tendenze criminali dimostrate commettendo il reato. Da un sistema statico di certezza della pena ad uno dinamico, dove è interesse del detenuto intraprendere un percorso di cambiamento profondo. Nel primo vieni inserito in un tritacarne, le nostre carceri si possono paragonare a questo strumento, e macinato per un tot di tempo. Il più lungo possibile per i sostenitori del carcere ad oltranza. Nel secondo invece vieni inserito in un meccanismo dove sei sollecitato a fare un percorso, da progettare in funzione delle caratteristiche e delle attitudini dimostrate, in cui il lavoro su se stesso è il fondamento per la propria presa di coscienza. Per quanto riguarda il mio caso, sono autore del più grave dei delitti contro la persona, mi sono trovato incapace di gestire uno tsunami emotivo generato dalla vicenda sentimentale in cui ero coinvolto. Sono arrivato ad una situazione limite convinto di poterla gestire e uscirne senza grossi danni, e invece la caduta ha avuto un prezzo elevatissimo, la scomparsa prematura, per mia responsabilità, della persona con cui ho condiviso gli ultimi sette anni di vita. Un fallimento su tutti i fronti da cui cerco di risollevarmi mettendomi in discussione ogni volta in cui si presenta l’occasione di farlo. Uno dei motivi che ha portato a questo esito tragico è stata l’incapacità di chiedere aiuto. Per farlo dovevo mettere da parte quell’orgoglio che mi illudeva di essere sempre in grado di gestire ogni situazione. Era necessario un bagno di umiltà, che mi avrebbe consentito di accettare le conseguenze di quanto avevo provocato senza perdere il contatto con la realtà che mi circondava. Reduce da un’esperienza profondamente destabilizzante come questa, devo lavorare su me stesso per imparare ad agire in modo diverso se mi dovessi trovare in una situazione analoga. La rieducazione parte all’interno dell’istituto di pena e prosegue, nella sua parte più consistente, al di fuori di esso. Solo un percorso di recupero del genere può dare una garanzia alla società che riaccoglie la persona in uscita dal carcere. Per questo insistere con condanne insensatamente lunghe e con un limitato utilizzo delle pene alternative, impedisce la messa in pratica di un progetto di reinserimento che dovrebbe fondarsi sulla certezza della rieducazione. Andrea D. Legnini (Csm): l’ergastolo ostativo? come cittadino sono contrario di Carmine Perantuono rete8.it, 11 gennaio 2016 Spiraglio aperto dal Vice Presidente del Csm Legnini: "Sull’ergastolo ostativo sono contrario, come cittadino". Plauso di Rita Bernardini e dei radicali. Questa la dichiarazione del vice presidente del Csm Giovanni Legnini a Sulmona, durante una manifestazione nel carcere di Via Lamaccio: "Non ho nessuna difficoltà ad aggiungermi, perché ne sono convinto da tempo, a coloro che sono contrari, e anche io sono contrario, all’ergastolo ostativo. Lo dico perché penso che tutti, parlo da cittadino e non impegno la mia funzione, abbiano il diritto ad avere una speranza". Legnini è intervenuto alla premiazione dei detenuti che hanno realizzato 21 dipinti per raccogliere fondi per un villaggio africano del Togo. L’iniziativa è sostenuta dal comico abruzzese ‘Nduccio. Insieme a Legnini erano presenti il sindaco di Sulmona, Peppino Ranalli, il presidente del tribunale, Giorgio Di Benedetto e il procuratore della Repubblica di Sulmona, Giuseppe Bellelli. Presenti anche il direttore di Radio Radicale Alessio Falconio e l’esponente radicale Rita Bernardini, candidata alla carica di Garante dei detenuti in Abruzzo, che ha dichiarato: "Dopo il capo del Dipartimento Amministrativo Penitenziario, che si pronunci anche il vicepresidente del Csm sull’abolizione dell’ergastolo ostativo mi sembra qualcosa di istituzionalmente molto importante. È chiaro che Giovanni Legnini l’ha fatto a titolo personale, perché non può investire tutti gli altri - ha proseguito Bernardini - però ha un grande significato". Immigrazione clandestina: processi costosi e senza esito tra interpreti e avvocati d’ufficio di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 11 gennaio 2016 Il procuratore di Agrigento Renato Di Natale, nella cui giurisdizione rientra Lampedusa, ha già sottolineato, come altri suoi colleghi, la "totale inutilità" del reato; in più ha aggiunto le cifre: 13.000 extra-comunitari indagati nel 2011, oltre 16.000 nel 2014, 26.000 nel 2013. Da una parte c’è l’opportunità politica, il "problema della percezione" chiamato in causa per giustificare il freno del governo sull’abolizione del reato di immigrazione clandestina; dall’altra c’è la realtà, riconosciuta da tutti gli addetti ai lavori: quel reato è inutile, non ha avuto e continua a non avere effetti pratici sul fenomeno da contenere (e reprimere, se si vuole), né di deterrenza. Di più: ha un costo per le casse dello Stato difficile da quantificare, ma certamente molto superiori ai benefici che porta. Le ammende. Un procedimento penale, infatti, non si apre né si conclude senza incidere sulla spesa pubblica, non fosse che per il tempo che devono dedicarvi magistrati e impiegati. Anche quando non si riesce ad arrivare a nulla, come nel caso delle ammende da 5.000 a 10.000 euro da infliggere a chi viola le norme sull’ingresso in Italia; impossibili da incassare dal momento che chi dovrebbe pagarle non ha i soldi né beni da sequestrare. Le procedure sono le stesse per tutti i fascicoli giudiziari, e la "via breve" del decreto penale di condanna spesso si interrompe perché è impossibile reperire le persone per la notifica. A quel punto scatta la revoca e s’imbocca la via ordinaria, più lunga e più costosa. Un iter complesso. Dopo l’iscrizione sul registro degli indagati scattano le inevitabili garanzie, come la nomina di un difensore d’ufficio, che probabilmente sarà a carico dello Stato vista la generale indigenza dei clienti. I migranti che sbarcano clandestinamente non conoscono la lingua italiana e dunque bisogna trovare (e pagare) gli interpreti per la traduzione degli atti. Poi le alternative diventano molte a seconda che le persone da sottoporre a giudizio siano reperibili o meno, ma in ogni caso, quando si arriva alla condanna, la multa resta senza effetti. E la susseguente espulsione può essere esercitata solo al termine dei tre gradi di giudizio, cioè dopo la conferma della Cassazione. Se tutto va bene ci vuole qualche anno, e nel frattempo chissà dov’è finito il clandestino. Tutto questo iter dall’esito pressoché nullo dovrebbe replicarsi per ogni clandestino, e i numeri sono altissimi. Il procuratore di Agrigento Renato Di Natale, che gestisce la frontiera più avanzata (nella sua giurisdizione rientra Lampedusa), ha già sottolineato, come altri suoi colleghi, la "totale inutilità" del reato; in più ha aggiunto le cifre: 13.000 extra-comunitari indagati nel 2011, oltre 16.000 nel 2014, 26.000 nel 2015. In teoria si dovrebbe aprire un fascicolo per ognuno ma ad Agrigento Di Natale ha deciso di contenere tutte le iscrizioni derivanti da uno sbarco in un unico fascicolo, "per snellire la procedura". A Catania l’ex procuratore Giovanni Salvi ha evitato molte iscrizioni grazie a un’interpretazione giuridica della norma (confermata dalla Cassazione) secondo cui la responsabilità dell’ingresso clandestino doveva ricadere sugli scafisti e non sui trasportati. L’invito alla razionalità. Proprio a questo aspetto ha fatto riferimento il superprocuratore antimafia Franco Roberti, quando ha detto che trattare i migranti da indagati anziché da testimoni (con ciò che ne consegue in tema di obbligo di rispondere e di dire la verità) rende più difficile proprio l’identificazione dei trafficanti di uomini. Lo stesso Salvi ha invitato governo e Parlamento ad affrontare il problema "con razionalità", basandosi su dati di fatto e provando a mettere da parte enunciazioni di principio che non trovano riscontro. E l’intervento di ieri del capo della polizia Alessandro Pansa, il quale ha invitato a una riforma che tenga conto delle perplessità avanzate dalla magistratura sull’intasamento delle Procure, va nella stessa direzione. Ma tradurre in intervento concreto le considerazioni per cui sul piano tecnico non si intravede una sola ragione per conservare il reato introdotto dal governo Berlusconi nel 2009, evidentemente non è così semplice. Forse perché nella maggioranza convivono partiti che appartengono per cultura e ispirazioni a schieramenti diversi, sinistra e destra, e si rivolgono a elettorati diversi. E allora, come avviene per altre questioni che attengono alla giustizia (vedi la riforma della prescrizione), la coesistenza tra Pd e Ncd si trasforma in freno. Per necessità politica, a prescindere dalla realtà. Il Capo della Polizia Pansa: "il reato di clandestinità così com’è intasa le Procure" La Repubblica, 11 gennaio 2016 Il capo della polizia ritiene necessaria una riforma per rendere più snella la gestione degli immigrati, ma senza sottovalutare la percezione della sicurezza da parte dei cittadini. Alfano: "Non è il momento per modificare la norma". La clandestinità resta reato, almeno per il momento. Ma così com’è rende difficile il lavoro delle Procure. Ne è convinto il capo della polizia Alessandro Pansa, secondo il quale "il problema reale è dato dal fatto che (il reato di clandestinità, ndr) intasa l’attività delle procure. Questo è il problema principale". È necessaria, quindi, almeno una riforma: "Probabilmente è preferibile che venga riformato, con un meccanismo che renda più agevole la gestione degli immigrati quando transitano per i nostri confini in maniera illegale". Però non si può non tener conto del fattore sicurezza e della percezione dei cittadini: "In questo momento è anche indispensabile che il nostro Paese lanci qualche segnale dissuasivo, per far capire che noi gestiamo il fenomeno dell’immigrazione con umanità, con correttezza, con rispetto delle regole nazionali e internazionali, ma lo gestiamo con grande rigore. Quindi l’opportunità di comunicare un pò meglio questa trasformazione di questa norma - ha concluso Pansa - è sicuramente molto importante ai fini della percezione della sicurezza". Le parole del capo della polizia non piacciono al leader della Lega Nord, Matteo Salvini, che su Facebook attacca e chiede le dimissioni: "Il capo della polizia chiede di depenalizzare la clandestinità. Ma come mai la clandestinità è un reato efficace in mezza Europa e in mezzo mondo, e solo in Italia non si riesce ad applicarlo? Il capo della Polizia dovrebbe difendere i suoi uomini e gli italiani, invece di leccare le scarpe di Renzi: si dimetta!" Il clima intorno alla questione, dunque, resta acceso. Dopo un primo slittamento alla prossima settimana per l’approvazione del decreto che avrebbe depenalizzato il reato di immigrazione clandestina, la decisione per ora pare archiviata. La scelta più opportuna, secondo il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, che, pur condividendo le "ragionevoli obiezioni" tecniche di Franco Roberti, il procuratore nazionale antimafia, e quelle "altrettanto ragionevoli" del ministro Andrea Orlando, sulla legge del 2009, è certo "non è questo il momento opportuno per andare a modificare quel reato. La gente non capirebbe". La norma, però, non piace soprattutto ai magistrati e agli addetti ai lavori, ha sottolineato il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, che in un’intervista al Corriere della Sera ha evidenziato come la richiesta di depenalizzare il reato arrivi proprio da loro. Ma sulla tempistica Boschi è d’accordo con chi ritiene che non sia adeguata: "Penso che in questa specifica fase storica e politica per poter depenalizzare i reati di immigrazione clandestina, occorra preparare prima l’opinione pubblica, non perché abbiamo paura in termini di consensi, ma perché c’è un problema di percezione della sicurezza...Se eliminando questo reato la percezione dei cittadini è quella di una minore sicurezza questo è un problema". Questo non esclude che il governo tornerà ad affrontare il problema: "Forse si può arrivare a eliminare quel reato se si prepara bene il terreno, oggi non credo che sia giusto farlo", ha aggiunto. Niente abolizione del reato, ma sì a una discussione immediata per trovare soluzioni adeguate. Lo sostiene il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, che lancia un invito: "Sediamoci già lunedì mattina ad un tavolo per trovare delle soluzioni che raggiungano due obiettivi: la diminuzione del numero degli ingressi; l’aumento del numero delle espulsioni. Chiedo che si sospenda l’assurda discussione sulla cittadinanza regalata facilmente agli stranieri, per sostituirla, in Commissione affari costituzionali al Senato, con il confronto sulle nuove procedure di espulsione. Solo in questo modo si risponde con serietà a un Paese che si rivolterà contro Renzi, che sta ribadendo la sua preferenza per gli stranieri, rispetto alla tutela della sicurezza degli italiani". Depenalizzazione negata sul reato di clandestinità…. vale di più la "percezione"? di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 11 gennaio 2016 Le interviste sul reato di immigrazione clandestina rilasciate dai ministri delle Riforme e dell’Interno a Corriere della Sera e Repubblica sono uno straordinario documento per il nitore con il quale dichiarano la resa della politica al populismo giudiziario: cioè alla strumentalizzazione delle valenze simboliche del diritto penale, in chiave di rassicurazione collettiva rispetto a paure ingigantite o addirittura create proprio da campagne politiche e/o mediatiche volte a metterne a reddito elettorale gli enfatizzati rischi. Per motivare la marcia indietro del governo sull’abolizione del fallimentare reato, caldeggiata (a favore di più snelle sanzioni amministrative) dal capo della polizia come dal procuratore nazionale antimafia, Maria Elena Boschi prende atto dell’unanimità "degli addetti ai lavori", ma aggiunge che "in questa specifica fase per poter depenalizzare i reati di immigrazione clandestina occorre preparare prima l’opinione pubblica". Lei stessa snocciola i dati sui crimini diminuiti nel 2015 rispetto al 2014, ma valorizza di più il fatto che, "se guardiamo ai mezzi di comunicazione, il fenomeno sembra triplicato e questo aumenta la percezione dell’opinione pubblica. Forse si può arrivare a eliminare quel reato se si prepara bene il terreno, oggi non credo giusto farlo". Allo stesso modo, Angelino Alfano trova normale "giocare due partite intrecciate ma diverse: una sulla realtà e l’altra sulla percezione della realtà". La realtà "è che calano i reati", ma "non dobbiamo dare agli italiani l’idea di un allentamento della tensione sulla sicurezza proprio mentre chiediamo di accogliere i profughi". Dai due importanti ministri si deduce quindi che nel governo ci si orienta a non fare una cosa che si ritiene giusta, o ad adottare una soluzione che si sa sbagliata, solo in considerazione del dividendo di consensi che si immagina di poterne lucrare o del dazio elettorale che si teme di doverne pagare. La seconda lezione è che nel rapporto con i cittadini i ministri mostrano di ritenere che la logica sia un optional, le opzioni penali una specie di segnaletica simbolica, e il reato un cartello stradale la cui destinazione sia il seggio della prossima consultazione elettorale, in vista della quale gli italiani vadano trattati come bambini sprovveduti, incapaci di comprendere una realtà sfaccettata, ma bisognosi di "essere preparati" a essere impressionati favorevolmente da una "percezione" anziché persuasi da un ragionamento. La terza lezione è che la scusa della "percezione" vale solo quando conviene: poche settimane fa, quando un’altra (complessivamente sennata) depenalizzazione ha spostato dal binario penale a quello amministrativo le sanzioni di taluni illeciti fiscali, bersagliato dalle critiche il governo Renzi si è ben guardato dal rimangiarsela e dall’adoperare l’argomento che gli italiani in quelle norme magari avrebbero potuto "percepire" un via libera all’evasione fiscale. E del resto, tanto sulla legge elettorale e sulle modifiche del Senato, quanto sul Jobs Act e sulla riforma della scuola, il governo, a torto o a ragione ma legittimamente convinto delle proprie ragioni, ha fatto spallucce alle "percezioni" aspramente dissenzienti di parte dell’opinione pubblica. Strappa infine un sorriso la buffa contraddizione per la quale di colpo basta che sull’immigrazione i giornali e tv più vicini all’opposizione facciano "buu!" al governo, ed ecco che a far finta di spaventarsi è proprio l’esecutivo che teorizza la "disintermediazione" e propugna l’irrilevanza dei giornali di cui contesta e irride i titoli che non gli garbano. Coltivazione di cannabis, Ncd stoppa la linea soft di Liana Milella La Repubblica, 11 gennaio 2016 Dopo il no sull’immigrazione i centristi bloccano la depenalizzazione per chi coltiva anche una sola pianta. Pansa: "Il reato di clandestinità intasa le procure". Renzi: "Crea problemi, ma va cambiato senza fretta". Dopo lo stop degli alfaniani sul reato di clandestinità, che pure il premier Matteo Renzi critica ma ritiene non cancellabile su due piedi, arriva adesso anche il niet di Ncd sulla droga. Resterà il carcere fino a un anno e la multa da uno a 4 milioni di euro per chi coltiva anche una sola piantina di cannabis, fosse pure a scopo terapeutico. I centristi puntano i piedi. Per Renzi il reato di clandestinità "crea problemi, intasa le procure, non serve", ma non ritiene utile cambiarlo adesso perché "c’è una percezione della sicurezza per cui questo percorso di cambiamento lo faremo con calma, tutti insieme, e senza fretta". Niente dunque al consiglio dei ministri di venerdì. Una decisione politica supportata dal parere tecnico del capo della polizia Alessandro Pansa che boccia il reato "perché intasa le procure", ma anche lui ne ipotizza la modifica solo in modo da non intaccare "la percezione della sicurezza", "per far capire che gestiamo il fenomeno immigrazione con umanità ma anche con rigore" Per la stessa ragione è destinata a cadere la depenalizzazione della droga. Anche in questo caso, "se fosse portata a termine così su due piedi, senza un’adeguata sensibilizzazione dell’opinione pubblica" dicono fonti del governo, rischierebbe di ingenerare il dubbio che si stia cedendo nella lotta agli stupefacenti. Niente da fare allora per la trasformazione del reato contenuto nel testo unico sulle droghe del 1990, tante volte contestato aspramente dai Radicali, e che sarebbe potuto diventare un illecito amministrativo, punito con una sanzione e relativa multa, "da 5 a 30mila euro". A essere "incriminato" è sempre lo stesso decreto legislativo, quello messo a punto dal ministero della Giustizia. Un testo giunto ormai al suo ultimo passaggio, quindi destinato, qualora fosse stato approvato, a diventare legge il giorno dopo. Ma la cancellazione del reato di immigrazione e delle pene se coltivi pianticelle di cannabis rischia di trascinare con se tutto il testo. Che dopo il 17 gennaio non potrà più essere recepito dal consiglio dei ministri perché scade la delega concessa dal Parlamento nel 2014 all’interno della legge sulla "messa alla prova". Le due questioni, clandestinità e droga, hanno subito lo stesso stop and go. Inserite nella legge delega, vengono eliminate dal governo nella prima stesura del decreto legislativo. La commissione Giustizia della Camera, nel parere di dicembre, le reintroduce entrambe, anche se con una formula diversa. Pone come "condizione" di cancellare il reato di clandestinità, mentre "osserva" che sarebbe opportuno trasformare in illecito la coltivazione delle piantine di cannabis. Ma per la droga come per l’immigrazione, il passo indietro è dettato da una "paura" politica, perché entrambe le questioni, come dimostrano le polemiche degli ultimi giorni sulla clandestinità, sono un argomento forte della destra, su cui la Lega, ma anche quello che resta di Forza Italia, non si farebbero sfuggire duri attacchi al governo. Quindi meglio soprassedere. Aumentare le pene per lo spaccio di lieve entità, la mossa per "riacciuffare" i pusher di Gabriele Guccione La Repubblica, 11 gennaio 2016 Da via Ormea al Senato il passo è stato breve. Un problema per certi versi "local", anche se diffuso in molte altre metropoli, diventa lo spunto da cui partire per intervenire sul codice penale e tornare, a un anno e mezzo dall’alleggerimento delle pene per lo spaccio di "lieve entità", ad affilare le armi della giustizia nella lotta ai pusher su strada. Una proposta di legge sarà presentata in Parlamento dal senatore dem Mauro Maria Marino per rivedere l’entità delle pene per gli spacciatori. L’obbiettivo è evitare, come denunciato ieri su "Repubblica" dal procuratore aggiunto Paolo Borgna, che "nelle 48 ore successive all’arresto per spaccio di un modesto quantitativo di droga il pusher venga sicuramente liberato". Un effetto collaterale del cosiddetto decreto "svuota carceri", che nella primavera 2014 ha abbassato la pena massima da 5 a 4 anni, sostituendo la custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari. Cosa c’entra via Ormea con il Senato? L’estate scorsa proprio il senatore Marino fa parlare di sé denunciando di aver contato durante un giro di "fitwalking" (per i profani, una specie jogging ma più lento) oltre 50 pusher sotto casa sua, in via Ormea appunto. Da quella situazione sortisce la proposta, avanzata dal capogruppo Pd, Michele Paolino, longa manus di Marino in Consiglio comunale, di chiudere la strada alle auto con una specie di Ztl notturna "antispaccio". Scoppiano le polemiche. Le forze dell’ordine e il Comune si affrettano a far sapere che non si sta con le mani in mano, ma che il problema sono le leggi. Da quell’episodio nasce una collaborazione tra il senatore Pd e il pm Borgna, responsabile del pool "Sicurezza urbana", "per cercare - rivela Marino - di incidere su un problema diffuso che tocca la qualità della vita delle persone e che, con gli attuali strumenti, non è possibile risolvere". La proposta di legge "Marino-Borgna" prevede la revisione delle pene per i reati di spaccio. "Proporremo - chiarisce il senatore dem - di aumentare il massimo della pena sullo spaccio di lieve entità per superare la possibilità degli arresti domiciliari e di diminuire il minimo della pena per lo spaccio di quantità più ingenti, fissata attualmente a 8 anni, e non sempre di facile applicazione perché molto pesante". Secondo Marino, "la somma di queste due cose permetterà di intervenire con efficacia sugli spacciatori abituali, al contrario di quanto avviene con una norma da una parte troppo rigida e dall’altra troppo debole che rende difficile l’intervento delle forze dell’ordine". Il procuratore aggiunto Borgna ha parlato anche della possibilità di istituire delle "case comunità" sul modello di quanto fatto a Brescia, dove far scontare ai pusher che non hanno un domicilio la pena degli arresti domiciliari. "Il domicilio virtuale in Comune - annota il senatore Marino - è un’alternativa possibile, ma sarebbe meglio usare le poche risorse disponibili per dare una mano ai senza tetto piuttosto che per gli spacciatori". L’assessore alla Sicurezza, Giuliana Tedesco, dichiara che l’amministrazione cittadina "valuterà attentamente, per quanto possa fare un Comune con i mezzi che ha a disposizione, il dossier prodotto dal procuratore Borgna nell’ambito dello studio sull’esecuzione della pena ordinato dal ministro Orlando". Per il resto "sul problema dello spaccio non c’è solo un’interlocuzione duratura con la procura, ma anche una collaborazione diretta con l’impiego della polizia municipale nelle attività di indagine". Giudici onorari appesi alla proroga di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2016 Anno nuovo, vecchie consuetudini. Alla magistratura onoraria il 2016 ripropone il rito, che si trascina ormai da più di un decennio, della proroga. Per non lasciare gli uffici sguarniti di giudici di pace, magistrati onorari di tribunale (Got) e vice- procuratori onorari, il 90% dei quali ha da tempo esaurito il mandato, la manovra di fine anno (legge 208/2015, comma 610) ha mantenuto tutti in servizio. Ma questa volta si tratta di una corsa contro il tempo, perché la proroga è di soli cinque mesi, fino al 31 maggio. Nelle intenzioni del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, la situazione della giustizia onoraria si risolverà con la riforma all’esame del Parlamento. E cinque mesi bastano. Così il Guardasigilli ha spiegato ai rappresentanti della magistratura onoraria che gli chiedevano conto della proroga limitata. "Ci ha detto - spiega Gabriele Di Girolamo, presidente dell’associazione nazionale giudici di pace - che i tempi stretti servono per velocizzare l’iter della riforma. Se così non fosse, dal primo giugno gli uffici saranno vuoti. A meno che non si ricorra a un’altra proroga". Taglia corto Calogero Ingrilli, presidente del coordinamento magistrati onorari: "Non ce la si potrà mai fare. A meno che non scelgano di mandarci tutti a casa, sarà necessaria una nuova proroga". Il fatto è che in questo lasso di tempo il Parlamento dovrebbe approvare la riforma presentata dal Governo a inizio dello scorso anno e che al momento ha incassato solo il sì della commissione Giustizia del Senato e ancora non è stata calendarizzata per l’Aula. Poi dovrà affrontare l’iter alla Camera. Non solo: anche ammesso che il Parlamento riesca a licenziare la proposta di legge in tempi veloci, ci sono da mettere in conto i decreti di attuazione, considerato che si tratta di una legge delega. Le probabilità che la riforma diventi operativa entro la fine di maggio sono, dunque, molto basse. Anche perché si tratta di un intervento articolato, che punta al riassetto totale della giustizia onoraria. L’obiettivo è arrivare a uno statuto unico dei magistrati onorari, con il transito dei Got nell’ufficio del giudice di pace e l’inserimento dei vice-procuratori onorari in una struttura ad hoc della procura della Repubblica presso il tribunale. Questo significa porre mano alle piante organiche e ripensare le modalità di accesso alla magistratura onoraria, salvaguardando però le professionalità di quanti si trovano in servizio e ai quali viene offerta una chance per continuare l’attività. Costoro, infatti, possono - previa verifica dell’idoneità - essere confermati per tre o (se hanno meno di 40 anni di età) per quattro quadrienni. Secondo le previsioni il nuovo assetto dovrebbe andare a regime nel giro di quattro anni, con una graduale diminuzione, per effetto dei pensionamenti, degli attuali magistrati in servizio (si veda la tabella) e l’innesto di circa 900 nuove professionalità, che per i primi quattro anni saranno inserite nell’ufficio per il processo, potenziando lo staff al servizio del magistrato ordinario. La riforma rivede anche il sistema delle indennità, che nel corso del quadriennio aumenteranno per i Got e i vice procuratori onorari (raggiungendo i 25mila euro lordi annui contro una media attuale, rispettivamente, di 7mila e 14mila euro) e invece diminuirà per i giudici di pace, che ora guadagnano "a cottimo" (un tanto a sentenza, con una media di 47mila euro lordi l’anno) e invece, in prospettiva, avranno un fisso di 25mila euro lordi. Un taglio che già l’ultima legge di Stabilità (comma 609) prevede, chiedendo di risparmiare quest’anno almeno 6,6 milioni e dal prossimo anno 7,5 milioni sulle indennità di giudici di pace e Got. E poi c’è il capitolo competenze (aumentano quelle dei giudici di pace) e formazione (obbligo di partecipare alle riunioni trimestrali organizzate dal presidente del tribunale, frequenza di corsi di aggiornamento almeno ogni sei mesi). Il conto alla rovescia per realizzare tutto questo in cinque mesi è appena partito. Il dovere del giudice di motivare in ordine alla sussistenza di esigenze cautelari Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2016 Misure cautelari personali - Ordinanza del giudice - Motivazione in ordine alla sussistenza - Motivazione congrua, esauriente ed idonea - Insuscettibilità di censure in sede di legittimità. La valutazione della sussistenza delle esigenze cautelari, di cui all’art. 274 c.p., integra un giudizio di merito, che se supportato da motivazione congrua, esauriente e idonea a dar conto dell’iter logico-giuridico seguito dal giudicante e delle ragioni del decisum, è insindacabile in cassazione. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 4 gennaio 2016 n. 1. Misure cautelari personali - Ordinanza del giudice - Motivazione (requisiti) - Legge n. 47/2015 - Modifiche in tema di motivazione delle ordinanze cautelari - Autonoma valutazione - Ammissibilità della motivazione "per relationem". La previsione dell’autonoma valutazione delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza (ad opera dalla legge 16 aprile 2015 n. 47 che ha novellato l’art. 292 co. 1 lett.c cod.proc.pen. ) non ha carattere innovativo, essendo espressione del principio generale per cui l’esercizio di un autonomo potere comporta il dovere di esplicitare le ragioni che giustificano la decisione. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 19 novembre 2015 n. 45934. Misure cautelari personali - Ordinanza del giudice - Motivazione - Giudice del riesame - Limiti al potere di integrazione della motivazione del provvedimento impugnato. Il potere-dovere del Tribunale del riesame di integrazione delle insufficienze motivazionali del provvedimento impugnato non opera quando l’apparato argomentativo, nel recepire integralmente il contenuto di altro atto del procedimento, o nel rinviare a questo, si sia limitato all’impiego di mere clausole di stile o all’uso di frasi apodittiche, senza dare contezza alcuna delle ragioni per cui abbia fatto proprio il contenuto dell’atto recepito o richiamato, o comunque lo abbia considerato coerente rispetto alle sue decisioni. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 13 marzo 2014 n. 12032. Misure cautelari personali - Ordinanza del giudice - Motivazione - Ordinanza motivata riproducendo integralmente la richiesta del Pm - Validità. Non è nulla, per difetto assoluto di motivazione, l’ordinanza applicativa in cui risulti trasfusa integralmente e alla lettera la richiesta del Pm, sempre che risulti che il giudice abbia preso cognizione del contenuto delle ragioni dell’atto incorporato, senza recepirlo acriticamente. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 18 aprile 2012 n. 14830. Abbandono (rientrato) dei domiciliari per una lite con la moglie: peccato veniale di Aurelio Panetta Italia Oggi, 11 gennaio 2016 Deve ritenersi inoffensiva la condotta di colui che, trovandosi agli arresti domiciliari presso la propria abitazione, se ne allontani per un litigio con la moglie, in attesa dell’arrivo dei Carabinieri, prontamente informati della sua intenzione di volere andare in carcere. Questa la rilevante conclusione cui è pervenuta la sesta sezione della Corte di cassazione, nella motivazione della sentenza n. 44595 depositata il 4 novembre 2015. Il caso giudiziario. Il caso trae origine da un ricorso per cassazione proposto dall’imputato avverso la sentenza della Corte d’Appello di Messina con la quale aveva confermato quella emessa dal locale Tribunale che, in esito a giudizio abbreviato, aveva condannato R.F. per il reato di evasione dagli arresti domiciliari. La Corte territoriale rilevava che all’atto del controllo, l’imputato si trovava fuori della propria abitazione e il motivo che lo aveva a ciò indotto (un litigio con la moglie seguito da comunicazione all’utenza 113 dell’imminente allontanamento per tale ragione dal domicilio coatto) non poteva incide sull’elemento soggettivo del reato, che richiede unicamente il dolo generico. La decisione. La Corte di cassazione, affrontando la questione, ha rovesciato la posizione della Corte d’appello annullando senza rinvio la sentenza impugnata così ritenendo fondati i motivi con cui l’imputato, lamentava l’insussistenza del reato. Non si tratta di una sentenza di solo annullamento, ma per certi versi molto di più. Invero, la Corte nel richiamare esplicitamente il 2 comma dell’art. 49 c.p., espressione del principio di offensività del reato, "nullum crimen sine iniura" (in dottrina, v. Vassalli, Bricola, Fiore, Gallo, Mantovani, Neppi-Modona) conclude per l’assenza di offensività concreta della condotta, atteso che in nessun momento egli si è sottratto alla possibilità per gli addetti di effettuare le dovute verifiche, restando nelle immediate vicinanze del domicilio coatto. La stretta connessione - aggiunge la sentenza - tra comunicazione dell’imminente violazione dei divieti di allontanamento, permanenza nei pressi del domicilio al precipuo scopo di far rilevare l’allontanamento stesso e manifestazione dell’intento di volersi assoggettare a un regime cautelare più rigoroso, determina l’irrilevanza dell’infrazione, non risultando, violata la ratio giustificativa del precetto. Risarcimento del danno da querela calunniosa o infondata. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2016 Diffamazione - Rapporto tra giudizio civile e penale - Assoluzione in sede penale - Richiesta di condanna del querelante alle spese di giudizio e al risarcimento del danno - Omessa pronuncia - Successiva azione civile per il risarcimento del danno da querela calunniosa - Ammissibilità. Nel caso di sentenza assolutoria dal reato di diffamazione, qualora il giudice penale abbia omesso di pronunciarsi sulla richiesta di condanna del querelante alle spese e al risarcimento del danno, gli imputati assolti possono agire in sede civile per ottenere il risarcimento del danno da querela calunniosa, non essendo maturata alcuna preclusione processuale, in quanto il giudicato penale ha riguardato soltanto la diffamazione e non già la calunnia. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 16 ottobre 2015 n. 20926. Querela - Proscioglimento o assoluzione del querelato - Domanda di rimborso delle spese sostenute dal querelato - Competenza - Giudice del processo penale - Obbligo di provvedervi su domanda di parte - Sussistenza. La condanna del querelante alla rifusione delle spese sostenute dal querelato deve essere richiesta davanti al giudice del procedimento penale ed è obbligatorio provvedersi solo quando ne sia fatta domanda, poiché nel processo penale, in tema di regolamento delle spese, ai sensi dell’art. 427 cod. proc. pen., si debbono applicare le norme di cui agli art. 91 e 92 cod. proc. civ., e, quindi, l’unico limite è costituito dal divieto di condanna alle spese della parte vittoriosa. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 8 febbraio 2012 n. 1748. Risarcimento del danno - Presupposti di risarcibilità del danno da reato - Qualificabilità del fatto illecito come reato - Querela infondata - Risarcimento - Ammissibilità. Il diritto al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, patiti per effetto del processo penale non presuppone la qualificabilità del fatto illecito come reato, giacché anche una denuncia-querela rivelatasi infondata può ledere beni costituzionalmente tutelati quali la dignità, l’onore e il prestigio della persona. • Corte cassazione, sezione III, sentenza 17 gennaio 2012 n. 543. Giudice di pace - Giudizio secondo equità - Impugnazione (Limiti) - Principio costituzionale della natura personale e soggettiva della responsabilità - Condanna alle spese del querelante - Censurabilità in cassazione della sentenza di condanna alle spese del querelante per il solo fatto dell’assoluzione del querelato. Contrasta con i principi costituzionali sulla natura personale e soggettiva della responsabilità la previsione di un automatismo tra assoluzione del querelato perché il fatto non sussiste e condanna del querelante al rimborso delle spese; è censurabile in sede di legittimità la decisione assunta secondo equità, che, condanni al rimborso delle spese il querelante per il solo fatto dell’assoluzione del querelato. • Corte cassazione, sezione I, sentenza 8 giugno 1999 n. 5617. Diritti sul web: i mille paletti all’oblio su internet di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2016 Essere dimenticati dalla Rete potrebbe non essere così semplice. A oltre un anno dalla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea che ha definitivamente sancito il diritto all’oblio per la tutela della riservatezza di tutti gli utenti di internet, sono arrivate le prime sentenze interpretative dei tribunali nazionali, che ne ridisegnano in parte la cornice applicativa. Innanzitutto non esiste una soglia temporale minima in grado di garantire il diritto all’oblio. Una notizia di oltre quarant’anni fa può ancora essere considerata attuale e perciò degna di essere indicizzata dai motori di ricerca, se il fatto riacquista interesse pubblico in virtù di nuovi episodi di cronaca ad esso collegati. Lo ha stabilito il Tribunale di Milano, con la sentenza 7610 dell’11 giugno scorso e lo hanno ribadito altre pronunce che negli ultimi mesi hanno ricordato la necessità di valutare caso per caso la rilevanza sociale degli argomenti trattati. La responsabilità del provider e il relativo obbligo di cancellazione della notizia scattano soltanto nei casi in cui nel giudizio di bilanciamento tra il diritto all’identità personale e il diritto della collettività a conoscere determinati avvenimenti prevalga il primo. A incidere sul giudizio di prevalenza ci sono alcuni elementi, dettati dall’articolo 29 del Data protection working party del 26 novembre 2014, e valutati sempre più spesso dai tribunali italiani. Tra questi, il ruolo pubblico rivestito dall’interessato e in generale le proprie funzioni lavorative o sociali, che potrebbe allungare i tempi di permanenza di una notizia on line e la gravità del fatto in grado di fare assumere all’argomento trattato un valore storico. Il provider, poi, è tenuto a deindicizzare solo i risultati ottenuti attraverso ricerche svolte sulla base del nome di una determinata persona. Non potranno quindi essere rimossi dal motore di ricerca le notizie interne agli archivi online dei giornali non consultabili attraverso i comuni motori di ricerca esterni o contenute in files non indicizzabili attraverso il nome dell’utente. La richiesta però potrebbe essere indirizzata ai diretti interessati che, a loro volta, saranno chiamati a valutare i criteri di rilievo pubblico e attuale della notizia. A favore del richiedente giocano, invece, altri fattori come il pregiudizio grave (e dimostrabile) che la notizia può arrecare se ulteriormente diffusa, la minore età dell’interessato ed eventuali problemi di sicurezza, che in genere prevalgono sul diritto di informazione. L’interpretazione dell’interesse pubblico va quindi attentamente riletta in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti e successivamente trattati, secondo quanto disposto dell’articolo 11 del Dlgs 196/2003 che prevede espressamente l’obbligo di aggiornamento dei dati. Sulla base di questa premessa sono state ritenute non più attuali notizie di trent’anni fa, in cui il soggetto interessato non rivestiva più un ruolo pubblico e, al contrario, continuava a subire danni per la diffusione di una notizia, in parte non vera. Diverso il caso delle notizie considerate diffamatorie perché ad esempio contengono notizie non verificate e lesive della reputazione altrui. In queste ipotesi, la richiesta di rimozione dovrà essere fatta direttamente al soggetto che ha diffuso la notizia, non essendo prevista - in via generale - una responsabilità concorsuale né colposa né dolosa del provider nel reato di diffamazione. Centra la questione il Tribunale di Roma, con la sentenza 15422 del 14 luglio 2015 che esclude la responsabilità dell’enciclopedia online Wikipedia per le informazioni pubblicate dagli utenti. Trattandosi di un hosting provider che si limita ad offrire ospitalità sui propri server ad informazioni fornite dal pubblico degli utenti, non può essere direttamente chiamato a rispondere del reato di diffamazione, a meno che non fosse messo a conoscenza della notizia e intenzionalmente abbia evitato di rimuoverla. Sul fronte del diritto all’oblio, poi, l’aggiornamento costante delle notizie pubblicate su Wikipedia gioca a beneficio della piattaforma. Ciò in quanto, di norma, l’interesse pubblico viene monitorato dagli stessi utenti e perciò garantito. Aggravante transnazionalità sui reati-fine commessi da esponenti di associazione criminale di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2016 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 27 novembre 2015 n. 47217. La circostanza aggravante speciale della transnazionalità prevista dall’articolo 4 della legge 16 marzo 2006 n. 146 può applicarsi anche ai reati-fine consumati, integralmente o in parte, da appartenenti a un’associazione per delinquere pur se rispetto a quest’ultima l’aggravante non sia configurabile identificandosi il gruppo criminale transnazionale con tale associazione (sezioni Unite, 31 gennaio 2013, Adami). Lo ha ribadito la Corte di cassazione con la sentenza n. 47217/2015 emessa dalla sesta sezione penale. Il precedente della Cassazione - Come è noto, le sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che la qualificazione di reato transnazionale può essere attribuita anche a un reato associativo, allorquando risulti coinvolto un gruppo criminale organizzato e ricorra taluna delle ipotesi indicate nell’ultimo periodo dell’articolo 3 della legge 16 marzo 2006 n. 146, con la necessaria precisazione che il gruppo criminale organizzato transnazionale non deve coincidere con l’associazione per delinquere (sentenza 31 gennaio 2013, Adami). Il caso specifico - La Cassazione ha qui dovuto affrontare la diversa questione se, essendo inapplicabile l’aggravante dell’articolo 4 della legge 16 marzo 2006 n. 146 all’associazione, perché questa si identifica con il gruppo criminale transnazionale, l’aggravante possa tuttavia applicarsi ai reati-fine, preparati, pianificati e commessi nel territorio di più Stati e riferibili a un gruppo criminale organizzato. La risposta è stata positiva, argomentandosi a supporto soprattutto attraverso la valorizzazione dell’autonomia dei reati-fine rispetto al reato associativo e della circostanza che l’aggravante si applica a tutti i reati che abbiano le caratteristiche indicate dalla norma, (reati alla cui commissione abbia dato il suo contributo un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato) tanto che anche il reato associativo soggiace alla regola generale, a eccezione dell’unico caso (evidenziato dalla richiamata decisione delle sezioni Unite) della sovrapposizione tra gruppo organizzato criminale transnazionale e associazione per delinquere. Altri orientamenti - Nello stesso senso sezione VI, 8 ottobre 2014, Colorisi e altri, secondo cui, quindi, il mancato riconoscimento dell’aggravante della transnazionalità di cui all’articolo 4 della legge n. 146 del 2006, a un reato di associazione per delinquere non ne esclude la possibilità di applicazione ad altri singoli delitti (nella specie in materia di illecita detenzione e porto d’armi) preparati, pianificati e commessi nel territorio di più Stati, e riferibili a un gruppo criminale organizzato. In senso contrario, consapevolmente disatteso dalla sentenza qui pubblicata, sezione VI, 2 luglio 2013, Ruberto, per la quale, invece, ai fini della configurabilità dell’aggravante della transnazionalità, occorre che la commissione del reato sia stata determinata o anche solo agevolata, in tutto o in parte, dall’apporto di un gruppo criminale organizzato, distinto da quello cui è riferibile il reato, impegnato in attività illecite in più di uno stato (in termini, anche sezione VI, n. 44435 del 2015, depositata il 3 novembre 2015). Calabria: Radicali "superato il sovraffollamento carcerario, ma rimangono forti criticità" cn24tv.it, 11 gennaio 2016 Amnistia per la Repubblica e Garante dei diritti dei detenuti per la Calabria. Così Rocco Ruffa (membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani) e Giuseppe Candido, militante del Partito Radicale e segretario dell’associazione Non Mollare a conclusione delle visite nelle carceri calabresi effettuate come delegazione del Partito Radicale durante le ultime festività natalizie. Come ogni anno a Natale e Capodanno Marco Pannella e i Radicali - che con l’associazione Nessuno Tocchi Caino si occupano di abolire la pena di morte nel mondo e la pena fino alla morte in Italia - hanno visitato i penitenziari della Penisola. Grazie alle autorizzazioni del DAP avute per l’interessamento di Rita Bernardini, nell’ambito dell’iniziativa Spes contra Spem, si è deciso di visitare tutte, una per una, anche le dodici carceri calabresi con un tour iniziato la vigilia di Natale con la visita alla circondariale di Castrovillari (CS) e terminato il 5 gennaio alla casa di reclusione Luigi Daga di Laureana di Borrello. Il 26 dicembre mattina la delegazione è stata invece a Palmi e, nel pomeriggio, a Vibo Valentia; il giorno dopo alle case circondariali di Reggio Calabria, Panzera ed Arghillà. Il 29 dicembre il ritorno, dopo averci trascorso il capodanno 2015, nella circondariale Ugo Caridi di Catanzaro e il 30 in quella di Crotone. Il Capodanno, mentre Marco Pannella visitava Rebibbia, spiegano Rocco Ruffa, "noi lo abbiamo passato con i detenuti del carcere di Rossano Calabro, il 2 gennaio con i ristretti nel carcere di Locri e il 3 a Paola la mattina e a Cosenza il pomeriggio. Abbiamo infine concluso il giro delle carceri calabresi con la visita il 5 gennaio ai detenuti della casa di reclusione di Laureana di Borrello (RC)". Durante i sopralluoghi, anticipazione di un rapporto delle visite effettuate che sarà pubblicato a breve, si sono raccolti dei dati con un questionario carceri elaborato da Rita Bernardini, riguardante agenti e detenuti presenti distinti per grado di giudizio. Ciò ha reso possibile calcolare, per ogni istituto, percentuale di sovraffollamento, di reclusi in attesa di giudizio, di quelli che hanno la possibilità di lavorare ed evidenziare le principali carenze. 12 carceri: solo in 10 un direttore, oltre 130 gli agenti in meno. Un dedalo di labirinti di dodici carceri sparse tra le Calabrie - spiegano Ruffa e Candido - di cui solo dieci hanno direttori effettivi perché due delle carceri visitate non hanno un direttore e sono affidatiti a ‘reggentì che devono perciò dirigere più di un istituto; un dedalo di labirinti in cui lavorano - ristretti pure loro, spesso ignorati dalla famosa quanto assente società civile - 1342 tra agenti e graduati della polizia penitenziaria, oltre educatori, personale medico sanitario, direttori; tutti senza un provveditore regionale la cui reggenza, anche questa a scavalco, è affidata al provveditore regionale della Basilicata, Salvatore Acerra (dopo il suicidio del dottor Quattrone). Dovrebbero esserci 1473 agenti di polizia penitenziaria ma in realtà assegnati sono 1342 di cui 198 impegnati nel nucleo traduzioni". Superato il sovraffollamento, sottoutilizzati Crotone e Laureana. Sono 2.385 persone detenute presenti al momento delle visite (di cui 60 donne) ed una capienza regolamentare di 2.692 posti (2.519 quelli effettivamente disponibili; alcune celle sono inagibili e il carcere di Arghillà ha due intere sezioni chiuse per carenza di personale) nel carcere "Calabria" il problema del sovraffollamento sembra superato (il valore medio si attesta al 95% rispetto alla capienza regolamentare). Ci sono però istituti sottoutilizzati come quelli di Crotone e Laureana ed altri, invece, che hanno superato la capienza regolamentare: Palmi (169 detenuti su 135 posti realmente disponibili - sovraff. 124%), Locri (92 detenuti su 89 posti), il Panzera (249 detenuti in 186 posti - sovraff. 134%) e Arghillà (178 detenuti in 176 posti) a Reggio Calabria. Quest’ultimo, in particolare, avrebbe una capienza regolamentare di 306 posti ma due intere sezioni sono chiuse (in realtà non sono mai state aperte) per mancanza di personale e i posti realmente disponibili sono 176. Il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio. "La cosa che fa specie - sottolineano i Radicali - è che di 2.386 detenuti presenti solo 1.414 (il 59,3%) hanno una sentenza definitiva di condanna. Gli altri, il 40,7% circa della popolazione detenuta nelle calabre galere sta lì in attesa di giudizio. Ma questo è il dato "regionale" medio e la media, se riguarda le persone, non sempre è adatta a fotografare una realtà: nel carcere di Palmi, ad esempio, le persone detenute in attesa di giudizio sono il 75% della popolazione carceraria, il 68% ad Arghillà. Persino in una casa di reclusione come Rossano, dove in teoria dovrebbero starci solo detenuti con condanne definitive, più del 10% dei ristretti è in attesa di giudizio". "In molti casi appare urgente" ha scritto Papa Francesco nel messaggio inviato in occasione della giornata mondiale della pace "adottare misure concrete per migliorare le loro condizioni di vita nelle carceri, accordando un’attenzione speciale a coloro che sono privati della libertà in attesa di giudizio avendo a mente la finalità rieducativa della sanzione penale e valutando la possibilità di inserire nelle legislazioni nazionali pene alternative alla detenzione carceraria". "Noi - ribadiscono Ruffa e Candido - diciamo che l’irragionevole durata dei processi per la quale l’Italia è condannata da trent’anni dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per violazione dell’articolo 6 della Convenzione EDU, per i detenuti in attesa di giudizio si traduce spesso in irragionevole durata di una ingiusta detenzione considerato che, come nota l’avvocato Deborah Cianfanelli nel dossier giustizia del Partito Radicale inviato al Presidente della Repubblica, i processi per ingiusta detenzione o errore giudiziario sono oltre 2000 all’anno e, nel 2011, lo Stato ha pagato risarcimenti per 46 milioni di euro". Mediatori culturali assenti in 9 strutture. Altra problematica delle carceri calabresi è quella dei mediatori culturali: assenti in ben nove dei dodici istituti visitati. Hanno un mediatore solo il carcere di Arghillà (dove però c’è è un volontario) di Reggio Calabria, il Caridi di Catanzaro dove ci sono 136 detenuti stranieri e un solo mediatore e quello di Paola in provincia di Cosenza. Ma il mediatore non c’è - ad esempio - a Rossano dove i detenuti stranieri sono 44 e c’è un’intera sezione di imputati per terrorismo internazionale, unica nel suo genere in tutta Italia. Assistenza sanitaria altro punto critico del sistema. Anche dal punto di vista sanitario le cose, secondo o Radicali, non andrebbero bene: "da quando la sanità in carcere è passata dalle dipendenze del Dap alle Regioni e, di conseguenza, da queste alle Aziende Sanitarie Provinciali", affermano. In molte carceri visitate non vi sarebbe un servizio medico H24; c’è a Rossano ma in alcuni istituti, come Laureana di Borrello, il medico è presente solo tre ore al giorno. Nonostante nelle carceri calabresi ci siano 108 tossicodipendenti per lo più da cocaina solo diciotto sono in terapia con metadone, 138 sono affette da epatite C, 11 sono disabili motori e 513 i casi psichiatrici, trattati per lo più con ansiolitici. "Il diritto alla salute - in Calabria già poco tutelato fuori dal carcere - per le persone private della libertà diventa un miraggio" denunciano ancora i Radicali spiegando ancora che "a Laureana di Borrello per un banale mal di denti si passa la nottata: detenuti e agenti; bisogna chiamare il 118; l’ambulatorio odontoiatrico e gli altri ambulatori della struttura sono lasciati senza materiale di consumo. E per una visita odontoiatrica esterna può capitare che il detenuto debba aspettare oltre sette mesi per avere l’autorizzazione del magistrato di sorveglianza. Perché - perseguono i due rappresentanti - il magistrato di sorveglianza è stracarico di lavoro e spesso non gira tra le celle come dovrebbe". Emblematico il caso di Biagio, detenuto a Palmi, che essendo stato operato al colon-retto vive con un pannolone e soffre per non potersi lavare adeguatamente in cella dove non c’è bidè né doccia, soprattutto i giorni del processo quando deve essere portato fuori dal carcere prima dell’ora delle docce comuni. Sempre a Palmi - solo per citare un altro esempio - non vi sarebbe poi uno specialista cardiologo e non vi sarebbe nemmeno la possibilità del tele consulto. Un qualunque sintomo deve perciò essere preso come caso grave e tradotto in ospedale. Strutture e ambienti mediocri, acqua calda anche mezz’ora al giorno. "In alcuni istituti, come in particolare quelli di Palmi e Castrovillari, - aggiungono poi i Radicali - le condizioni strutturali degli ambienti detentivi sono mediocri, con umidità sia nelle celle sia nei corridoi; le docce, in violazione del Regolamento penitenziario del 2000, sono docce comuni alla sezione ed esterne alle celle con tre posti e il soffitto e le pareti verdi dalla muffa. Si riesce a garantire una doccia giornaliera ma l’acqua calda, in molti istituti non viene erogata tutto il giorno. Come a Palmi e Castrovillari pure a Vibo Valentia, dove le celle hanno il bagno con doccia, l’acqua calda arriva mezz’ora al giorno". A questo quadro generale vanno aggiunti 161 atti di autolesionismo in due anni: 99 nel 2014, 62 nel 2015, nove agenti vittime di aggressioni, due detenuti e un agente suicidi nel 2014 e nel 2015. Dovrebbero esserci 56 educatori in pianta organica ma assegnati effettivamente in servizio nel "carcere Calabria" sono solo in 42. Pure per ciò che attiene la finalità rieducativa e di reinserimento sociale dei detenuti nelle carceri calabresi si è lontani dal dettato costituzionale: come il diritto alla salute anche il lavoro in carcere resta un miraggio. Di 2.385 persone detenute solo 587 (il 24,6%) lavoravano alle dipendenze del DAP facendo, tra l’altro, mestieri come scopino e porta vitto. Altri dieci soltanto lavorano in carcere per imprese o cooperative esterne e solo sedici lavorano all’esterno in condizioni di semi libertà: quattro per conto proprio e dodici dipendenti da datori di lavoro esterni. Solo 75 detenuti hanno permessi premio e ben 661 di loro non effettuano regolari colloqui: oltre gli stranieri ci sono persone totalmente abbandonante anche dalle loro famiglie. Numeri che tradotti in percentuale stanno allo zero virgola e "che palesano il fallimento della funzione rieducativa e di reinserimento sociale della pena detentiva". "Carceri luoghi dove si consolida la tradizione criminale". Un ultimo aspetto riguardante i diritti dei detenuti: "in molti istituti - sostengono Ruffa e Candido - manca il regolamento (spesso è in fase di approvazione da parte del DAP, dicono) ma in tutti c’è una carta dei diritti e dei doveri disponibile anche nelle lingue di appartenenza quando ci sono detenuti stranieri. "La sensazione che rimane al termine di queste visite - spiegano ancora i due radicali - è che, sebbene vi sia un miglioramento nelle condizioni di sovraffollamento (che comunque permane in alcune carceri) ed alla buona volontà di direttori, comandanti ed educatori, molto resti ancora da fare per porre termine alle violazioni del diritto e dei diritti umani. In particolare, oltre ai problemi infrastrutturali di molti istituti, restano insufficienti - marginali - le misure volte alla formazione e al reinserimento dei detenuti rendendo così le carceri luoghi dove spesso si impara o si consolida la tradizione criminale". Il carcere è un luogo dove ci si può perdere per sempre o dove, invece, ci si può ritrovare per sempre. Dovrebbe almeno in teoria essere un luogo dove rieducarsi e reinserirsi a pieno titolo nella società. Per i Radicali è dunque necessario ripensare il carcere, rendendo effettive ed incentivando misure alternative alla detenzione. Il Partito Radicale, anche dalla Calabria, ribadisce però che "una riforma strutturale della giustizia in Italia deve necessariamente partire da un provvedimento di amnistia ed indulto come aveva suggerito Napolitano nel messaggio inviato alle Camere nell’ottobre 2013 rimasto inascoltato; amnistia e indulto che sarebbero in grado - da soli - di creare le condizioni affinché, grazie all’alleggerimento dei carichi giudiziari ed alla deflazione penitenziaria, che consentano di ripensare la funzione stessa del carcere come istituzione formativa piuttosto che solo punitiva o afflittiva, un carcere dove la detenzione in cella sia prevista quando vi è reale necessità di non nuocere ad altri e per il minor tempo possibile; carceri in cui la maggior parte del tempo è impiegato per migliorare sé stessi e non perduto nell’ozio forzato della cella. Quello che invece la politica regionale subito potrebbe e dovrebbe fare è evidente: istituire anche in Calabria la figura del garante dei diritti delle persone private della libertà personale". In alcune delle visite effettuate dai Radicali erano presenti anche militanti e simpatizzanti del Partito. a Castrovillari: Claudio Scaldaferri, Emilio Quintieri, Gaetano Massenzo ed Ernesto Biondi; a Palmi: Gianpaolo Catanzariti; a Reggio C.: Gianpaolo Catanzariti, Giuseppe Mazza, Santo Cambareri e Gernando Marasco; a Catanzaro: Antonio Giglio ed Emilio Quintieri; a Crotone si è aggiunto - con funzione ispettiva - il Senatore Francesco Molinari di Alternativa Libera ed Emilio Quintieri quale suo accompagnatore; a Rossano C. Emilio Quintieri; a Paola Sabrina Mannarino, Carmine Curatolo, Emilio Quintieri, Claudio Scaldaferri ed Ernesto Biondi; a Cosenza Gaetano Massenzo, Emilio Quintieri, Claudio Scaldaferri, Ernesto Biondi e Valentina Moretti; a Laureana di Borrello Luca La Gamba e Gernando Marasco. Sardegna: "Asinara supercarcere per jihadisti", polemiche su proposta che piace alla Lega La Repubblica, 11 gennaio 2016 Lanciata dal segretario di un sindacato di agenti penitenziari, l’idea è stata rilanciata da Maroni e caldeggiata da un entusiasta Calderoli: "Rinchiudiamoci terroristi e predicatori di odio". Reazioni unanimi dai parlamentari sardi di fronti diversi: "È diventato un parco naturale dopo decenni di lotte, indietro non si torna" L’idea "brillante" l’ha avuta Donato Capece, segretario del Sappe, un sindacato di polizia penitenziaria: ritrasformare l’isola dell’Asinara, in Sardegna, in un supercarcere in cui rinchiudere stavolta, non i brigatisti o i super boss di mafia e camorra, ma i sospetti jihadisti e i condannati per reati legati al terrorismo islamico. L’Asinara, diventata dal 2001 un parco naturale e marino unico nel Mediterraneo per le sue specie endemiche, potrebbe dunque ridiventare una Cayenna blindata o meglio una sorta di Guantanámo, nuovamente sottratta ai sardi ed ai turisti. In tempi di populismo, il presidente della Regione Lombardia, il leghista Roberto Maroni, si è sentito in obbligo di twittare la proposta ai suoi follower con un invito a esprimersi in merito. E dalla Lega è giunta poco dopo l’adesione entusiastica di Roberto Calderoli: "Condivido pienamente la proposta di Donato Capece - scrive sulla pagina Facebook il senatore leghista, di utilizzare il vecchio carcere di massima sicurezza dell’Asinara per rinchiudervi i terroristi islamici e, aggiungo io, anche i tanti predicatori di odio presenti sul nostro territorio, quelli che istigano alla jihad sul web o nei loro sermoni del venerdì. Portiamo i terroristi all’Asinara, facciamolo per la nostra sicurezza nazionale, ma anche come deterrente per i potenziali jihadisti, in modo che sappiano cosa li aspetta in caso di cattura, ovvero un carcere duro e l’isolamento totale dal mondo esterno". Le reazioni non si sono fatte attendere, a cominciare da quelle dei sardi che hanno risposto direttamente a Maroni. "L’Asinara non si tocca, è un parco naturale non una discarica di terroristi - ha detto il deputato sardo Mauro Pili, già presidente della Regione Sardegna. Calderoli lancia, per dirla con il suo gergo, una proposta ‘porcatà che in realtà nasconde uno scivolone senza precedenti. Calderoli vorrebbe mandare i terroristi in un paradiso terrestre quando invece meriterebbero carceri vere e non in un parco. La solita battuta da osteria senza alcun tipo di supporto né tecnico né politico - aggiunge Pili -. Spiace sapere che anche Calderoli alla pari di Renzi ed altri considerino la Sardegna una discarica di mafiosi e terroristi. La Sardegna non sarà la discarica di Renzi e tantomeno quella di Calderoli". "Irricevibili" definisce la proposta e le argomentazioni di Calderoli anche il senatore Silvio Lai, del Pd: "L’Asinara - ricorda Lai - è da venti anni un Parco nazionale e dunque non potrà più essere utilizzato per fini o funzioni non legate alla sua valorizzazione e tutela. La Sardegna per tanti, troppi, anni ha dovuto fare a meno di una risorsa come l’isola dell’Asinara. Pensare di utilizzare quello che oggi è un Parco Nazionale come luogo di detenzione significa cercare di rimandare indietro le lancette del tempo. È inaccettabile soprattutto per i cittadini di quel territorio che hanno lottato per decenni per chiudere quell’infausto luogo di detenzione". "Basta. Si rassegnino una volta per tutte - si accoda un altro ex presidente della Regione Sardegna, il coordinatore regionale di Forza Italia, Ugo Cappellacci: l’Asinara non sarà mai più un carcere. Quella dell’Asinara come sito per detenuti è una storia chiusa e la Sardegna ha già avviato un percorso orientato al turismo sostenibile". Persino i leghisti sardi si smarcano: "Siamo certamente per il carcere duro per i terroristi - dice il coordinatore regionale di "Noi con Salvini", Daniele Caruso - non crediamo, pertanto, che sia utile mandarli in un carcere-paradiso come sarebbe quello dell’Asinara, ormai parco nazionale. Inoltre, l’insularità della Sardegna, che rende difficili le condizioni di vita degli abitanti, specialmente in tempi di crisi, non può essere un argomento per considerare la spedizione in Sardegna di rifiuti tossici o di delinquenti, un modo per tenere pulito il resto dell’Italia". Il carcere di massima sicurezza dell’Asinara fu istituito negli anni Sessanta e negli anni seguenti ospitò capi brigatisti e boss camorristi e mafiosi del calibro di Raffaele Cutolo e Salvatore Riina. Nell’agosto del 1985 i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si rinchiusero nelle pertinenze del carcere per scrivere in totale isolamento e in tutta sicurezza le conclusioni dell’istruttoria per il maxi processo alla mafia che si aprì l’anno seguente. Nella storia-leggenda dell’isola-penitenziario (vi furono tra l’altro deportati prigionieri dell’esercito austro-ungarico della Prima guerra mondiale, migliaia dei quali vi morirono per epidemie di tifo e colera), solo due detenuti sardi - Salvatore Duras e Matteo Boe - sono riusciti ad evadere, gettandosi in mare per essere poi raccolti dalla compagna di uno dei sopraggiunta dalla terraferma con un gommone preso a noleggio. Accadde il 10 settembre del 1986. Finita l’epoca del supercarcere, dopo decenni di battaglie popolari, l’Asinara è diventata Parco nazionale il 19 dicembre 2001. Il decreto del ministero dell’Ambiente fu firmato quando ache Calderoli faceva parte del governo. In tempi più recenti, l’isola è tornata in prima pagina per l’occupazione del vecchio carcere di Cala d’Oliva da parte di un gruppo di lavoratori della Vinyl, azienda petrolchimica di Porto Torres travolta dalla crisi economica. La vicenda è narrata in libri e nel docu-film "L’isola dei cassintegrati". Sardegna: violenze nelle carceri, progetti corsi di difesa per la Polizia penitenziaria di Alice Deidda castedduonline.it, 11 gennaio 2016 Allarme per le violenze all’interno delle carceri sarde. Il sindacato della polizia penitenziaria della Sardegna chiede interventi urgenti. Per arginare il problema, sono stati proposti alcuni progetti come il corso per il personale di Polizia penitenziaria e per i comandanti sulla preparazione fisica per contenere i tentativi di aggressione da parte dei detenuti. Inoltre, verrà avviato a breve un corso per il corretto utilizzo degli strumenti per la difesa e per l’incolumità del personale. Verranno illustrate le nozioni teoriche sugli atti amministrativi e giuridici sull’argomento. "Abbiamo esternato forti preoccupazioni sui recenti episodi di violenza a danno della polizia penitenziaria, a tal proposito il Provveditore ha riferito che sta valutando l’ipotesi di inviare i detenuti autori di azioni di violenza nei confronti del personale o che impediscono il normale svolgimento delle attività alla rimanente popolazione detenuta, in un Istituto da individuare, dove verrebbero previste sezioni più stringenti", afferma il sindacato. Inoltre, è stata lamentata la carenza di figure professionali nel distretto penitenziario dell’Isola. Catanzaro: ispezione del Senatore Molinari e dei Radicali a cittadella giudiziaria minorile emilioquintieri.wordpress.com , 11 gennaio 2016 Nei giorni scorsi, l’Avvocato Francesco Molinari, Senatore della Repubblica, accompagnato dagli esponenti radicali calabresi Emilio Quintieri e Valentina Moretti e da Shyama Bokkory, Presidente dell’Associazione Alone Cosenza Onlus e Mediatrice Culturale Volontaria presso la Casa Circondariale di Paola, ha svolto una visita ispettiva presso la cittadella giudiziaria minorile di Catanzaro. La delegazione visitante, in particolare, si è recata presso l’Istituto Penale per i Minorenni di Catanzaro (Ipm), ove è stata accolta dal Direttore Francesco Pellegrino e dal Vice Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria Ispettore Italo De Luca. L’Istituto, dedicato a "Silvio Paternostro", un Capitano degli Alpini fucilato dagli Ufficiali Etiopi durante la Prima Guerra Mondiale, risale agli anni 30 e di recente è stato completamente ristrutturato dopo innumerevoli migliorie apportate negli anni passati per renderlo conforme alle prescrizioni dell’Ordinamento Penitenziario. Sono stati visitati oltre alla palazzina che ospita gli Uffici Amministrativi, la Cappella, il Teatro, il campo da calcio, la Palestra, i cortili esterni, la Caserma della Polizia Penitenziaria e tutta la struttura detentiva che, allo stato, si compone di due Reparti (piano terra e primo piano) nonché i locali che, prossimamente, saranno sede del Centro di Prima Accoglienza (Cpa) che ospiterà i minorenni dai 14 ai 18 anni in stato di fermo, di arresto o accompagnamento fino all’udienza di convalida che deve aver luogo davanti all’Autorità Giudiziaria Minorile entro il termine massimo di 96 ore. Attualmente il Cpa si trova presso l’adiacente Tribunale dei Minori ed al momento della visita era vuoto. L’Ipm, invece, è un vero e proprio "Carcere" poiché vi sono ospitati minori o ultra-diciottenni (fino a 25 anni, qualora il reato sia stato compiuto durante la minore età) sia in custodia cautelare che in espiazione di pena. All’atto dell’ispezione parlamentare nell’Istituto, che ha una capienza regolamentare di 31 posti, vi erano ristretti 18 detenuti (10 italiani e 8 stranieri) 3 dei quali minori degli anni 18, con le seguenti posizioni giuridiche : 11 condannati e 7 giudicabili. La quasi totalità dei detenuti italiani presenti sono calabresi (9 su 10) poiché è l’unica struttura penitenziaria minorile esistente in tutta Calabria. A 6 ragazzi detenuti con posizione giuridica definitiva, il Magistrato di Sorveglianza presso il Tribunale dei Minori di Catanzaro Emanuela Folino, concede periodicamente dei permessi premio da trascorrere fuori dall’Istituto in riconoscimento del corretto comportamento personale e dell’adesione alle attività lavorative o culturali organizzate. All’interno del "Paternostro" operano 39 Agenti di Polizia Penitenziaria, molti dei quali specializzati nel trattamento dei minori e che non indossano la divisa, 8 Educatori, 1 Dirigente Sanitario e 3 Infermieri dipendenti dell’Asp di Catanzaro. Altri specialisti (Psicologo, Cardiologo, Odontoiatra, Neuropsichiatra infantile, Dermatologo, Infettivologo, Ortopedico, Oculista e Psichiatra) si recano in Istituto per un determinato "monte orario" (dalle 2 alle 20 ore a settimana). Buone sono apparse le condizioni generali di vivibilità, sia in termini di igiene, che di illuminazione e aereazione, tanto per le camere detentive, quanto per i vani con i servizi igienici, compresi di doccia e forniti di acqua corrente, calda e fredda. Ciascuna camera è dotata di riscaldamento, di televisione ed oltre ai letti anche di scrivania, tavolo, sgabelli e armadietti per sistemare gli effetti personali. I ragazzi lavoranti all’interno dell’Istituto sono 8 (4 impiegati all’esterno degli spazi detentivi ed altri 4 all’interno degli stessi). Numerosi sono i Volontari presenti nell’Istituto, anche in forma singola ed individuale. Successivamente, il Senatore Molinari ed i suoi accompagnatori, si sono recati a far visita alla limitrofa Comunità Ministeriale per Minori (CoMin) gestita dall’Istituto Don Calabria di Verona, una Congregazione Religiosa, che accoglie i minorenni dai 14 ai 18 anni in attesa di giudizio e/o i giovani adulti dai 18 ai 25 anni per reati commessi prima dei 18 anni, in esecuzione dei provvedimenti della competente Autorità Giudiziaria ed al Centro Diurno Polifunzionale (CdP), una struttura presente all’interno della Comunità che offre attività dirette ai minori e giovani adulti del circuito penale, con possibilità di accoglienza di minori in situazione di devianza, disagio sociale e a rischio, non sottoposti a procedimenti penali. La delegazione è stata accolta presso la Comunità Ministeriale da Francesca Cappuccio, Responsabile del Servizio Tecnico del Centro per la Giustizia Minorile della Calabria e Basilicata (Cgm), Sostituto del Direttore, da Rosangela Catizzone, Responsabile del Servizio Educativo, di Assistenza e Vigilanza dell’Istituto Don Calabria e da Massimo Martelli, Funzionario per gli Affari Generali del Centro per la Giustizia Minorile della Calabria e Basilicata e Giudice Onorario del Tribunale per i Minorenni di Catanzaro. Nella Comunità, al momento dell’ispezione, vi erano ospitati 8 ragazzi, età media 17 anni, tutti uomini, la maggior parte dei quali (7 su 8) sottoposti alla sospensione del processo penale con messa alla prova. La collocazione in Comunità dei ragazzi da parte della Magistratura Minorile avviene, più che altro, quando non ci sono le condizioni sociali, ambientali e familiari nel luogo di residenza o dimora abituale. La Comunità di Catanzaro, ben gestita, ha una capienza regolamentare di 10 posti con altri 2 posti "tollerabili" in caso di emergenze. Vi operano 13 Educatori, 1 Psicologo dipendente dell’Asp di Catanzaro per 2 volte a settimana ed ogni ragazzo ospitato ha una propria Assistente Sociale che lo segue. Gli Assistenti Sociali (10 unità) dipendono dall’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni (Ussm) di Catanzaro e forniscono assistenza ai minorenni e/o giovani adulti autori di reato in ogni stato e grado del procedimento penale. Questo Ufficio raccoglie e fornisce elementi conoscitivi relativi ai minori e/o giovani adulti soggetti a procedimento penale elaborando anche concrete ipotesi progettuali concorrendo alle decisioni dell’Autorità Giudiziaria Minorile; svolge, infine, attività di sostegno e controllo nella fase di attuazione del provvedimento dell’Autorità Giudiziaria a favore dei minori sottoposti a misure cautelari non detentive in accordo con gli altri Servizi Minorili della Giustizia e degli Enti Locali, questi ultimi particolarmente carenti in tutto il territorio regionale. Al termine dell’ispezione parlamentare alle strutture giudiziarie minorili, la delegazione composta dal Sen. Molinari e dai collaboratori Quintieri, Moretti e Bokkory, è stata accompagnata presso il Tribunale dei Minorenni di Catanzaro ove è stata ricevuta dal Presidente Luciano Trovato, in quel momento esercitante anche la funzione di Magistrato di Sorveglianza, e dal Giudice Onorario Maria Rizzo con i quali ci si è intrattenuti a discutere delle problematiche inerenti la Giustizia Minorile del Distretto di Catanzaro. Roma: l’Università Roma Tre accanto ai detenuti di Mariaelena Finessi romasette.it, 11 gennaio 2016 Attivata una disciplina sull’esperienza di uno sportello legale istituito a Regina Coeli. Anche un master con nomi importanti e una polisportiva. "Offrire una lettura del diritto penitenziario alla luce della Costituzione, con un approccio teorico-pratico attento alla prassi e alla giurisprudenza, non solo nazionale". È l’obiettivo proposto dal singolare insegnamento denominato "Diritti dei detenuti e Costituzione - Sportello legale nelle carceri", attivo da quest’anno al dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Roma Tre grazie a una convenzione stipulata con il Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria del Lazio e con il Garante regionale dei diritti dei detenuti. La materia è la sintesi di due esperienze precedenti: l’insegnamento "Diritti dei detenuti e Costituzione", nato nel 2012, e lo sportello legale. Istituito, quest’ultimo, nel carcere di Regina Coeli grazie all’associazione Antigone, il servizio si ispira alla metodologia delle "legal clinic" anglosassoni, metodo di apprendimento che coinvolge lo studente nella gestione di pratiche legali reali. A raccontare il meccanismo dello sportello, attivo dal febbraio 2015, è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone: "Come primo passo, si raccolgono le richieste dei detenuti. Dopodiché - spiega - all’università opera una sorta di "back office" e il caso viene discusso da esperti insieme agli studenti per cercare una possibile soluzione". In un anno di vita, sono state già vagliate 350 richieste. Le tematiche più discusse riguardano la salute e, per i migranti, i problemi tipici dello status di stranieri. "Un caso emblematico è quello di un detenuto italiano, accusato di traffico di auto in Albania. Un reato per il quale la pena prevista in quel Paese è di 4 anni di carcere. Catturato in Italia, si è posta la questione dell’estradizione. L’uomo presenta severe condizioni di salute, legate soprattutto all’obesità. Senza contare che non abbiamo assicurazione che l’Albania garantirebbe all’uomo il trattamento sanitario più idoneo". Ad oggi il provvedimento non è stato eseguito "anche per via - riconosce Gonnella - dei riflettori accesi sul caso". Quella della "legal clinic" - servizio offerto in modo gratuito - è però solo una delle iniziative del "Progetto diritti in carcere" promosso da Marco Ruotolo. Docente all’ateneo di Roma Tre e membro del Comitato di esperti degli "Stati generali sull’esecuzione penale", Ruotolo racconta infatti anche del coinvolgimento dei senior, studenti del quarto e quinto anno di Giurisprudenza, che fanno da tutor ad altri studenti detenuti a Rebibbia Nuovo Complesso. Altro punto del progetto è il master in "Diritto penitenziario" che, tra i docenti, vanta nomi importanti, come Gustavo Zagrebelsky e Giovanni Maria Flick, solo per citarne alcuni. "Un successo in termini di iscrizioni, 150 in 2 anni, e soprattutto un elevato interesse, in termini percentuali, della polizia penitenziaria: segnale di un rinnovamento del sistema nella sua complessità". Ultima iniziativa è la polisportiva Atletico Diritti, con una squadra di calcio composta da studenti universitari, immigrati e detenuti. "L’arricchimento è reciproco - conclude Ruotolo -: si riceve qualcosa che resta". Gorizia: nel carcere di via Barzellini lavori in stand-by e organici ridotti all’osso di Francesco Fain Il Piccolo, 11 gennaio 2016 La senatrice Laura Fasiolo visita la struttura di via Barzellini: "Impianto di video-sorveglianza obsoleto, spazi angusti, servizi carenti. Segnalati i problemi al ministro Orlando". "La riqualificazione della casa circondariale di Gorizia, che ho visitato in questi giorni, è attualmente in stand-by. L’ho fatto presente allo staff del ministro Orlando e al sottosegretario Cosimo Ferri che ha immediatamente attivato i suoi collaboratori". La senatrice Laura Fasiolo non nasconde la sua preoccupazione per un cantiere che si è... fermato. "Se la ristrutturazione degli spazi che ospiteranno gli uffici amministrativi è stata completata con i lavori del primo lotto, manca il cablaggio, senza il quale gli uffici stessi non possono essere trasferiti. Di conseguenza, le condizioni lavorative del personale continuano ad essere disagevoli e precarie. Anche il "parco macchine" necessario alla videosorveglianza è altamente obsoleto e, in parte, non funzionante. Oggi il personale di sorveglianza, di grande umanità e disponibilità, è sotto organico, si muove in spazi angusti e con servizi carenti". Oggi, il carcere ospita meno di 40 detenuti: il numero è nettamente inferiore alla capienza, causa i lavori di ristrutturazione. "Essendo ferma l’ultimazione dell’edificio n attesa della gara che il Ministero dovrà espletare per il secondo lotto, solo alcuni dei detenuti hanno avuto il "privilegio" di essere trasferiti nella parte già ristrutturata. Le stanze della nuova ala dell’edificio offrono una quotidianità spartana ma dignitosa, rispetto a quella vissuta nelle celle fatiscenti della sezione ristrutturanda del vecchio carcere, dove staziona la gran maggioranza dei detenuti". Nel corso della sua visita Fasiolo ha osservato, ha ascoltato molte richieste. "Sono irrinunciabili il cablaggio e il trasferimento degli uffici; l’incremento dell’organico (tenuto anche conto che la custodia carceraria implica 24 ore su 24, parecchi turni, una sorveglianza su ciascun piano, nelle aule e nei laboratori e che un certo numero di addetti è in malattia: gli attuali 39 addetti insufficienti); il bando di gara per il secondo lotto, per far fronte all’urgenza di trasferimento dei carcerati dalle strutture ottocentesche, che si fondano su un concetto di carcere/espiazione, a quelle ristrutturate, che rispondono ad una detenzione dignitosa finalizzata al reinserimento sociale e lavorativo; attività di formazione lavoro: se il carcere deve essere rieducativo e risocializzante, occorre potenziare le aree educative del carcere; se nelle aule ristrutturate destinate alla didattica l’insegnamento funziona con aule laboratorio, vanno potenziati i progetti formazione/lavoro". Altre priorità? La valorizzazione dei talenti (emergono alcuni talenti, spezzati da esperienze di vita sbagliate, che andrebbero valorizzati); la messa a norma della palestra, oggi inutilizzata: una priorità che i detenuti reclamano a gran voce per la necessità di movimento, ma anche questa è una condizione legata all’avvio dei lavori del secondo lotto; una sala d’attesa per le famiglie: manca un luogo in cui le famiglie dei detenuti, spesso con figli piccoli, possano sostare e rifocillarsi in attesa del colloquio con il proprio caro. "Una sede a ciò destinata - rimarca la senatrice Fasiolo - sarebbe un segno di civiltà: in questo senso, ricordo che dirimpetto al carcere è allocato uno stabile comunale inutilizzato, già sede di un Consiglio circoscrizionale... Aggiungo le problematiche dei detenuti in stato di semilibertà: seri i problemi legati al rientro in una cella stretta dopo il lavoro. Il momento peggiore per questa tipologia di detenuto è il fine settimana, quando per due giorni di seguito non ha contatti, essendo la cella a sezione separata. Peraltro, il servizio igienico è... ottocentesco, che non garantisce privacy in caso di due presenze. E poi, andrebbero assicurate attività ricreative e sociali il fine settimana". Fasiolo segnala, infine, "che vi è un unico calcetto; nessun tavolo per giocare a ping pong viene autorizzato; i giornali sono vietati dal regolamento, come pure l’uso di Internet. La grande disponibilità del personale aiuta queste persone a evitare il crollo nella depressione. E andrebbe premiata", conclude la senatrice. Rovigo: Fp-Cgil Polizia penitenziaria "troppo pochi anche per protestare" Rovigo Oggi, 11 gennaio 2016 Sconfortato (e sconfortante) comunicato di Fp-Cgil per l’emergenza agenti in vista del trasferimento nel nuovo carcere: turni e straordinari tanto pesanti che solo uno dei nostri potrà partecipare alla manifestazione. Pochi, costretti agli straordinari, vista anche la vigilanza richiesta al nuovo carcere in attesa del trasferimento dei detenuti, senza riscaldamento, con la necessità di affrontare il freddo con l’ausilio di stufette elettriche. Le ragioni per protestare, insomma, la polizia penitenziaria ritiene di averle tutte, presenza di topi inclusa. Lo farà a partire da lunedì 11 gennaio (leggi articolo). Ma non tutti potranno partecipare, dal momento che la sicurezza deve comunque essere garantita "La scrivente organizzazione sindacale Fp - Cgil comunica che in prossimità della manifestazione di lunedì 11 gennaio indetta dai tutti i sindacati di categoria della polizia penitenziaria del carcere di Rovigo aderirà con un solo rappresentate poiché è in atto un piantonamento ospedaliero di un detenuto e la vigilanza alla nuova struttura carceraria di Rovigo e la prosecuzione del normale servizio interno alla vecchia struttura carceraria". Insomma: tanto pochi e tanto pesantemente utilizzati che non c’è tempo neppure per protestare, secondo la descrizione della situazione fatta dal segretario della sigla che segue i lavoratori della penitenziaria Giampietro Pegoraro, a propria volta componente della penitenziaria "La decisione - prosegue la nota - è stata presa in segno di solidarietà ai pochi colleghi in servizio, che sono chiamati a svolgere i suddetti compiti e per la scarsità del contingente di personale di polizia penitenziaria assegnato. Sono stati in questi giorni revocati alcuni riposi settimanali e il personale è stato costretto a svolgere duri turni di servizio ed in situazioni anche di precarietà. Nel nuovo carcere i turni da sei ore sono passati a otto ore in una situazione di precarietà poiché non c’è riscaldamento e il personale che vi opera si deve arrangiare con stufette elettriche che non riescono a riscaldare bene l’ambiente lavorativo". Resta poi estremamente teso, secondo questa segnalazione, il clima del confronto sindacale. "In una conferenza di servizio - spiega Pegoraro - il personale di polizia penitenziaria è stato apostrofato da coloro che l’hanno indetta come incapace di lavorare e in altri termini non molto piacevoli, nonostante abbia svolto e stia svolgendo un grande lavoro, in sofferenza e con scarsità di mezzi per garantire sia i diritti di chi è recluso che la sicurezza la salubrità sul luogo di lavoro, in particolar modo nel nuovo carcere dove sono apparsi i topi, che è ancora un cantiere aperto e dove non c’è il riscaldamento". "Come Fp-Cgil è stato chiesto e sollecitato più volte il provveditore ad un confronto per il comparto ministeri, ma ancor oggi non si ha nessuna risposta alle nostre richieste e solleciti da parte di quest’ultimo. Le suddette motivazione verranno anche riportate dalla Fp-Cgil nell’incontro sindacale con il provveditore nella giornata di martedì 12 gennaio". Oristano: concessi gli arresti domiciliari al detenuto malato di Sla La Nuova Sardegna, 11 gennaio 2016 Gigino Milia, 68 anni, finito in cella nel 2013 nell’ambito dell’inchiesta sul traffico di droga che aveva portato all’arresto anche dell’ex primula rossa del banditismo sardo Graziano Mesina, ha lasciato il carcere di Oristano-Massama dove era detenuto, per gravi motivi di salute. Lo ha reso noto Maria Grazia Caligaris, presidente di Socialismo diritti riforme. "Un ricovero nel reparto di Neurochirurgia dell’ospedale Brotzu di Cagliari, suggerito fin dall’ottobre 2014, ma effettuato dopo numerose richieste da parte dei familiari e dei legali dell’uomo solo il 9 dicembre scorso, ha determinato una diagnosi che non lascia dubbi - sostiene Caligaris - ha una tetraparesi agli arti e sono maggiormente compromessi quelli superiori. Insomma è affetto da sclerosi laterale amiotrofica". Le condizioni di salute di Milia erano peggiorate un anno fa e l’associazione aveva espresso preoccupazione. "La vicenda di Gigino Milia - sottolinea la socialista - induce a riflettere sulla salute penitenziaria e sulla possibilità da parte dei medici, in particolare nel caso specifico del responsabile dell’infermeria del carcere di Massama, di garantire ai cittadini privati della libertà interventi diagnostici circostanziati in tempi adeguati. Desta qualche perplessità che l’evidente peggioramento, con l’ipostenia, non abbia indotto il responsabile sanitario a disporre l’immediato ricovero ospedaliero". La presidente dell’associazione solleva alcuni dubbi. "Non sappiamo se un ricovero a novembre o dicembre 2014 avrebbe potuto evitare a Milia un prognosi infausta - evidenzia Caligaris - è però preoccupante che un detenuto, peraltro in attesa di giudizio, possa restare senza una diagnosi certa per 14 mesi. I magistrati hanno agito con coerenza e sensibilità disponendo immediatamente i domiciliari. Ora però la famiglia con gli avvocati Roberto Delogu e Riccardo Floris vuole sapere se la Direzione sanitaria del carcere abbia operato in scienza e coscienza". Modena: "Angeli e Demoni", in scena detenuti, studenti e attori del Teatro dei Venti ilnuovo.redaweb.it, 11 gennaio 2016 "Angeli e Demoni" è l’esito di un articolato progetto che coinvolge detenuti e internati delle carceri di Castelfranco Emilia e Modena, gli attori del Teatro dei Venti, un gruppo di studenti delle scuole superiori e giovani allievi del Teatro dei Venti, con la regia di Stefano Tè. Questo progetto di incontro tra Carcere e Città è il naturale sviluppo dei Laboratori permanenti che la compagnia Teatro dei Venti tiene nel corso dell’anno all’interno del Carcere Sant’Anna di Modena e della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia. Debutta il 23 gennaio, con replica il 24 gennaio, nella stagione del Teatro Herberia di Rubiera lo spettacolo "Angeli e Demoni", un’analisi sulla Gerusalemme Liberata che vede in scena detenuti delle carceri di Modena e Castelfranco Emilia, studenti, allievi e attori del Teatro dei Venti. Il progetto si compie con un’ultima residenza presso la Corte Ospitale di Rubiera, un ritiro teatrale, una forma di reclusione artistica che suggerisce e ribalta quella carceraria. Quarta tappa di un progetto realizzato con il sostegno Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna in collaborazione con la Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia, la Casa Circondariale di Modena, il Comune di Castelfranco Emilia, il Comune di Modena e in collaborazione con la Corte Ospitale di Rubiera. Nel corso delle diverse tappe, 15 detenuti e internati, 15 tra studenti e corsisti, 7 attori della compagnia, hanno formato una Comunità artistica provvisoria, ma fortemente coesa, un ponte tra Carcere e Città. Lo spettacolo rappresenta un ennesimo passo in avanti lungo quella strada che cerca di rendere il teatro in carcere funzionale al teatro stesso; inoltre, attraverso il percorso di prove in residenza, si è offerta ai detenuti la possibilità concreta di permanenza prolungata fuori dalle mura carcerarie per un motivo puramente artistico, un progetto che mira a concentrare energie e risorse in una creazione straordinaria. Note di Regia - L’analisi sull’opera del Tasso si è soffermata particolarmente su episodi che vedono protagonisti temi cardine del contemporaneo. Tra tutti il bene e il male. L’amore e l’odio. L’atmosfera desertica che caratterizza la messa in scena traccia un luogo che richiama le tante guerre che oggi si combattono, segnate a sangue da eterni conflitti che contrappongono i fedeli di religioni diverse. Colpiti in mezzo spesso gli innocenti. L’azione scenica si concentra sulla battaglia tra "Angeli e Demoni", tra Cristiani e Musulmani. Nell’opera del Tasso conflitti ideologici e spirituali, motivi epici e amorosi, intenzioni religiose e profane, si intrecciano in maniera convulsa, intensa. Lo spettacolo vuole mettere a fuoco suggestioni, suoni e azioni, che aprono ad un immaginario bellico che inevitabilmente riconduce a vicende che ci accadono accanto, che ci espongono al terrore, all’odio. Progetto realizzato con il sostegno del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, Comune di Modena, Comune di Castelfranco Emilia in collaborazione con la Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia, la Casa Circondariale di Modena e la Corte Ospitale di Rubiera. Biglietteria e informazioni - È possibile effettuare prenotazioni telefoniche al numero 0522 621133, tutti i giorni dal lunedì al venerdì dalle 10.30 alle 13 oppure via mail all’indirizzo di posta elettronica segreteria@corteospitale.org. La fine di Misna, l’agenzia di stampa che ha raccontato le periferie del mondo di Paolo Mastrolilli La Stampa, 11 gennaio 2016 Il racconto del fondatore Padre Giulio Albanese: L’idea mi venne durante uno stage alla Cnn. La missione è quella di Papa Francesco". "Rammarico, dolore e sofferenza". Sono le tre parole che padre Giulio Albanese usa per descrivere il suo stato d’animo, dopo la decisione di chiudere la Missionary International Service News Agency, l’agenzia di informazione che aveva fondato nel 1997. Poi aggiunge: "Questa è una scelta fuori dal tempo e dalla storia, in contraddizione con l’inizio dell’anno della misericordia. La missione che ci ha dato Papa Francesco è dare voce a chi non ha voce, raccontare le periferie del mondo. È una sfida culturale. E invece proprio ora, mentre in regioni come la Repubblica Centrafricana, la Somalia, il Congo, succedono cose terribili, la Misna viene chiusa". Cominciamo dal principio. Come le è venuta l’idea di fondare un’agenzia basata sulle informazioni raccolte tramite i missionari, nelle zone più calde del mondo? "Lavoravo ad Atlanta, per uno stage professionale alla Cnn. Restavano sempre stupiti per le notizie che riuscivo a trovare, grazie a questi contatti. Furono loro a farmi venire l’idea di fondare un’agenzia, usando la nuova tecnologia offerta da Internet. Così il 2 dicembre del 1997 pubblicammo il primo lancio". Come è riuscito a costruire la Misna? "Grazie all’aiuto degli istituti missionari, con 30 milioni di lire, un computer, un telefono dotato di due linee, e due traduttori. Stavamo in uno scantinato di San Pancrazio. Gli istituti mi avevano detto che dovevo coprire l’80% delle spese, e loro avrebbero messo il 20%. Ci sono riuscito per 7 anni. Il bilancio era salito a 600.000 euro e nel 2004 avevo assunto 12 professionisti". Come ottenevate le notizie? "Attraverso la rete dei missionari. Non erano giornalisti, ma li avevamo istruiti. Io andavo ogni anno a incontrarli. Erano diventati molto bravi a rispondere alle cinque W della professione, chi, cosa, dove, quando e perché, fornendo informazioni che nessun altro aveva". Quali sono i colpi che ricorda con più soddisfazione? "La denuncia dei massacri avvenuti nel 1998 nell’ex Zaire, le guerre in Guinea Bissau, Sierra Leone, i sequestri dei missionari. In genere, come per l’ex Zaire, arrivavano subito le smentite dei governi, in quel caso quello ruandese che era responsabile. Poi però la verità veniva sempre a galla". Anche lei è stato sequestrato. "Nel 2002, in Uganda. Eravamo entrati in contatto con uno dei gruppi più pericolosi, il Lord’s Resistance Army, e i ribelli non ci avevano trattati male. Il governo però aveva cambiato idea e deciso di attaccarci. Restammo prigionieri per due giorni dentro una capanna di metallo, senza mangiare, finché non ci liberarono e si scusarono". Perché questi colpi erano così importanti? "In quelle zone l’informazione è la prima fonte di solidarietà. Abbiamo salvato la vita a tanta gente, non perché fossimo bravi, ma perché rivelare quanto avviene attira l’attenzione internazionale e protegge le vittime". Poi cosa è successo? "Una struttura come la Misna aveva bisogno di investimenti e gestione professionale, non poteva andare avanti solo con la beneficenza. Il 30 novembre del 2002 riunimmo gli stati generali, a cui parteciparono 54 congregazioni. Tutti promisero sostegno, ma alla fine restarono solo in quattro, Consolata, Comboniani, Saveriani e Pime, a sostenere i costi. Io poi mi feci da parte, pensando che potessi essere il problema, ma non è bastato". La chiusura era inevitabile? "La Misna aveva difficoltà, ma la Cei aveva fatto una proposta molto generosa: coprire il bilancio per due anni; fornire un service composto da Avvenire, TV2000, Radio in Blu e Sir; offrire una persona per gestire la raccolta dei fondi". Perché non è stata accettata? "Non lo capisco. Gli istituti hanno detto che non è un problema di soldi, ma di personale. Il personale però è laico, e con questa proposta si poteva ripartire. È mancata la visione dell’importanza strategica dell’informazione, da parte della direzione degli istituti. Il mondo missionario ha fatto e continua a fare molto bene, ma sta invecchiando. Così è stato innescato questo meccanismo di eutanasia. Io però spero ancora che in qualche modo sia possibile resuscitare la Misna". Questo è il momento per difendere lo Stato di diritto Valter Vecellio L’Unità, 11 gennaio 2016 Accade e con una certa frequenza di leggere sui giornali italiani, commenti, analisi, riflessioni di intellettuali, scrittori, economisti francesi, statunitensi, spagnoli, o di altra nazionalità. Si può anzi dire che non vi sia quotidiano d’un certo prestigio che non si fregi del "suo" scrittore, intellettuale, economista straniero, nell’idea che dia lustro, prestigio; un riflesso provinciale? Ben venga, se, dal punto di vista del lettore se ne ricava un "respirare" aria diversa da quella "domestica", e ne viene uno spaziare con più vasto spettro d’orizzonte. Meno frequente il caso che siano giornali stranieri a ospitare commentatori italiani; e sarà per una loro supponenza, una forma di sciovinismo; perché non è da credere che si sia inferiori culturalmente a francesi, tedeschi, americani; anzi... Come sia, così è. Per fare un esempio: del francese Le Monde ricordo, ma tantissimi anni fa ormai, articoli, e neppure molti, di Leonardo Sciascia; e qualche Volta Umberto Eco. Dunque, è da considerare un piccolo evento, che se ne pubblichi uno di un italiano, eccellente nel suo campo e affermato, ma anche appartato e discreto; parlo del filosofo Giorgio Agamben, la cui opera, ed è un peccato, forse è più conosciuta all’estero che in Italia, se si esce dalla ristretta cerchia degli addetti ai lavori; e comunque, talvolta se ne parla. L’altro giorno, per esempio, nella sua sezione culturale sul Manifesto, si poteva trovare traccia di quanto scrisse nel 1979 per una "voce" dell’Enciclopedia Einaudi. Che si parli "oggi" di riflessioni maturate "ieri", è cosa utilissima, opportuna; ma anche "oggi" sull’"oggi" dovrebbe essere cosa da non trascurare. Non solo perché Agamben viene ospitato su Le Monde, piccolo evento di pei: sé. Ancor più se si presta un attimo d’attenzione al titolo che il giornale, certamente dopo attenta riflessione, sceglie di dare all’articolo: "De l’Etat de droit à l’Etat de sécurité". Il "diritto", contro le tentazioni e le concessioni securitarie in chiave autoritaria cui la Francia sembra scivolare ineluttabilmente: i fini saranno ottimi, ma i mezzi che il socialista Francois Hollande persegue e predispone sono, a ben vedere nella forma dell’adozione, e nella loro sostanza, perfino più duri di quelli adottati dal repubblicano George W. Bush dopo l’11 settembre; e non è da dire che anche i fini di Bush si potessero dire meno buoni di quelli di Hollande; ovvero: se non lo sono per l’uno, non lo sono neppure per l’altro. Le Monde, è evidente, questo rischio, questa deriva la paventa, e reagisce; e di qui una serie di articoli diciamo così "ammonitori" come quello di Agamben. Le Monde parla ad Hollande, e ai francofoni, ma è evidente che il discorso non riguarda solo Parigi; per l’autorevolezza del quotidiano, per il suo essere ancora letto e compulsato in tutte le cancellerie, e in particolare nei paesi francofoni dell’Africa e in quelli, non solo in Africa, dove la Francia è massicciamente impegnata militarmente. Ad ogni modo, l’articolo di Agamben, per la sua pregnanza, potrebbe e dovrebbe essere tranquillamente pubblicato anche dal britannico The Indipendent, dall’americano New YorkTimes, dallo spagnolo El Pais; naturalmente, sarebbe augurabile anche da qualche giornale italiano; e tanto per darne un assaggio: "Gli storici sanno perfettamente che...lo Stato d’emergenza è il modo con il quale i poteri totalitari si sono insediati in Europa. Così fu nella Repubblica di Weimar, quando i socialdemocratici fecero ricorso allo Stato d’eccezione, come viene chiamato in Germania: prima del 1933 e di Hitler la Germania aveva già cessato di essere una democrazia parlamentare...". E ancora: "In queste situazioni le operazioni di polizia si sostituiscono progressivamente al potere giudiziario, la degenerazione delle istituzioni sarà rapida e irreversibile...". L’intervento è molto lungo, corposo: un piccolo saggio. Ci si può limitare a questa affermazione: "Il primo rischio che rileviamo è la deriva verso la creazione di una relazione sistemica fra il terrorismo e lo Stato di sicurezza: e se questo tipo di Stato ha bisogno della paura per legittimarsi, si adopererà per produrre il terrore, o non impedirà che si generi nella società...". Viene in mente Leonardo Sciascia, che non era profeta ma sapeva vedere con largo anticipo (o semplicemente al momento giusto, e siamo noi che vediamo in ritardo). In quel piccolo gioiello che è "Il cavaliere e la morte", e siamo nel 1988!, ad un certo punto l’investigatore, si chiede - e non per paradosso - se si possa "sospettare che esista una segreta carta costituzionale che al primo articolo reciti: la sicurezza del potere si fonda sull’insicurezza dei cittadini"; e ancora: "La legge... per quanto iniqua è pur sempre forma di ragione: per conseguirne il fine di estrema, definitiva iniquità, quegli stessi che l’hanno voluta e che l’hanno fatta, sono costretti a prevaricarla, violentarla. Il fascismo era anche questo: un sottrarsi alle stesse sue leggi. E anche il comunismo di Stalin, di più, anzi". Senza voler divagare troppo, e così troppo lontano finire, la questione che Agamben e Le Monde pongono è da una parte come conservare lo Stato di diritto nei periodi in cui le emergenze (terroristiche, mafiose, di malaffare) sembrano travolgere tutti e tutto. Ma non solo: ci dicono proprio nei periodi dell’emergenza massimamente lo Stato di diritto va conservato, difeso, garantito. Agamben esorta la Francia (e tutti noi) a non abbandonare mai lo Stato di diritto; ci dice che è l’unico antidoto contro la barbarie, sotto qualunque veste si presenti, e ovunque si manifesti, e come: in Europa, negli Stati Uniti, nei martoriati paesi dell’Africa e dell’Asia; ed è importante che sia detto nel momento in cui tanti sembrano propendere per politiche muscolari, che sappiamo essere illusorie, di cortissimo e dubbio respiro. Ecco, alla fine è quello che Marco Pannella e i tanti (più di quanti si creda, anche, forse, di quanto loro stessi credano), che come Pannella "sentono", chiedono di poter dire ed esprimere; è l’appello, formale e ufficiale, al Presidente della Repubblica e al Presidente del Consiglio, a chiunque e a ciascuno che può (e lo avverta come una sorta di dovere) perché esercitino le proprie responsabilità; e colgano la realistica, concreta possibilità di dar vita ad una campagna in sede Onu per la transizione allo Stato di Diritto codificando - per affermarlo - il diritto umano alla conoscenza. La democrazia non si esporta, ma la si può fruttuosamente diffondere, propagandare, nutrire. Nel nostro paese e ovunque: facendo l’opposto di quello che per Sciascia è l’essenza del fascismo e dello stalinismo: cioè cominciando con il rispettare la nostra stessa legge; e come ci dice Agamben nel suo articolo su Le Monde. C’è una sola ragione, un solo motivo per non provarci? Abbiamo tutto da guadagnarci e nulla da perdere; e un giorno ne potremo anche rivendicarne il merito, come per la moratoria della pena di morte, del tribunale internazionale per i crimini contro l’umanità, le mutilazioni genitali femminili; dunque...? Colonia, la fragile libertà delle donne di Dacia Maraini Corriere della Sera, 11 gennaio 2016 La questione è culturale: dobbiamo difendere con più fermezza gli ideali in cui crediamo e le nostre conquiste. "Mi hanno stracciato la camicetta, mi hanno messo le mani addosso, mi hanno rubato il telefonino, mi hanno sottratto il portafoglio, mi hanno cacciato un petardo sotto la maglia, mi hanno umiliata e offesa". Queste alcune delle testimonianze che vengono fuori sempre più numerose e precise. Ma dai gesti descritti possiamo riconoscere l’appartenenza a una fede religiosa? No, se riteniamo che le religioni siano una cosa seria, che predica il buon senso e l’armonia. Sì invece se una banda di dispotici aggressori, per giustificare la propria volontà di potenza, chiama in causa un Dio collerico e intollerante che impone di uccidere chiunque non si sottoponga al suo culto, propugna la schiavitù e chiede la decapitazione dei prigionieri. I terroristi vogliono spargere paura e sgomento, vogliono dominare e distruggere. Ma siccome non possono compiere i loro crimini in nome del puro egoismo, si richiamano a precetti religiosi arcaici e storicamente morti. Come se noi prendessimo alla lettera la Bibbia, libro scritto in una epoca in cui la schiavitù era ammessa e legale, in cui la giustizia si identificava con la vendetta, in cui la pena di morte era praticata ogni giorno, in cui la tortura era considerata lecita, in cui gli adulteri e gli omosessuali venivano lapidati, in cui le donne non avevano diritti civili, in cui le classi abbienti depredavano e sfruttavano le classi povere. Da noi c’è stato Gesù Cristo che ha sconvolto e rovesciato le prescrizioni della Bibbia: le parole "amore" e "perdono" hanno sostituito il "dente per dente" e l’odio di religione. Nei Paesi musulmani un Gesù è mancato, ma è invalsa la prassi di una saggia convivenza fra popoli e culture diverse. In certi momenti di crisi però si sente la mancanza di un libro sacro che reclami l’amore per il prossimo e la misericordia, come predica il Vangelo. Dove c’è misericordia non può esserci guerra, mentre i nostri terroristi si nutrono di guerra. La loro massima aspirazione è coinvolgere il mondo intero in una guerra santa in cui scannarsi ciecamente in nome di Dio. Che c’entra tutto questo con le molestie contro le donne in una piazza tedesca in un giorno di festa? In realtà c’entra, soprattutto se si riconoscerà che i molestatori sono giovani emigrati. Ma emigrati di oggi o di ieri? È importante fare la differenza. A me sembra difficile che i migranti di oggi, che hanno rischiato la vita per mettere piede su una terra straniera tanto evocata, siano così stupidi da compromettere la loro permanenza con atti di teppismo. Credo piuttosto che siano emigrati di seconda o terza generazione (Formigli ci ha mostrato con testimonianze dal vivo, che le carte di identità da profugo si comprano al mercato nero), ragazzi che si sono sentiti discriminati e oggi sono affascinati da una violenza che li rende improvvisamente protagonisti. Fare paura, per chi si considera socialmente debole, dà una profonda soddisfazione, appaga le umiliazioni trascorse e fa sentire superiori, potenti, privilegiati da Dio. Se ci chiediamo poi perché la polizia non sia intervenuta in tempo e perché abbia sottovalutato i gesti di questi giovani maschi infoiati, potremmo rispondere che anche in certi nostri figli di una storia patriarcale, alberga l’idea che strapazzare giovani donne che osano girare libere e sole per strada, sia in fondo una "ragazzata" da comprendere e lasciare correre. Così come considerano "ragazzate" le minacce di tanti mariti e fidanzati che intimidiscono le loro mogli col coltello e la pistola. La sottovalutazione è un atteggiamento culturale, non una debolezza psicologica. Provate a denunciare una molestia sessuale. Vi troverete davanti un agente scocciato, a volte divertito, poco disposto a prendere sul serio una "sciocchezza del genere". Oppure comincerà un interrogatorio in cui si chiederà alla ragazza com’era vestita, come si è comportata, facendole capire che in qualche modo, se l’è cercata. Ancora per molti occidentali la donna è prima di tutto una proprietà e come tale va rispettata. Ma nel momento in cui sfugge al suo possessore e rivendica la sua libertà di movimento e di scelta, diventa pericolosa, una nemica da punire, e a volte perfino da sopprimere. Non si tratta, come ripeto, di una questione di genere, ma di cultura: e riguarda chi identifica la propria virilità con la proprietà dell’altro. Ma allora, cosa fare? Prima di tutto direi, disfarsi della idea facile che esistano le categorie, sessuali o religiose, ma fare uno sforzo per riconoscere i responsabili degli atti di violenza, da qualunque parte stiano, e applicare la legge che li punisce. Ma per fare questo è necessario difendere con più fermezza le nostre conquiste di parità e libertà, sancite dalla Costituzione. È necessario distinguere fra rispetto e relativismo. Il relativismo troppo spesso significa appiattirsi acriticamente sui valori altrui. Rispetto significa invece esigere dall’altro quello che si pretende per sé. Se vuoi che io rispetti la tua religione, devi rispettare la mia. Se vuoi che io rispetti la tua vita, i tuoi valori, le tue abitudini, devi rispettare il mio mondo. Il rispetto non può che essere reciproco. E va praticato come un’etica pubblica riconosciuta da tutti. Certamente le politiche di accoglienza vanno riviste. Non possiamo fare finta che il terrorismo internazionale non esista, o non sia pericoloso. Ma la risposta alla violenza non può consistere in altra violenza. Il terrorismo religioso, fatto di bombe umane e aggressioni improvvise, è un fenomeno complesso e nuovo che va affrontato con conoscenza e coraggio, unendosi per stabilire strategie comuni, sapendo che costerà soldi e sacrifici; ma se non vogliamo cascare nella loro provocazione, ovvero in una guerra mondiale che farebbe migliaia di morti, dobbiamo ragionare insieme, inventare nuove strategie, pensare in grande e a lunga scadenza, dando un esempio di maturità e di responsabilità. Colonia, quell’apertura (così brusca) dell’Islam alla modernità di Donatella Di Cesare Corriere della Sera, 11 gennaio 2016 Non si placano, in Germania, e nel mondo, le polemiche dopo la notte di violenza a Colonia. La grande piazza davanti alla maestosa cattedrale è stata il luogo in cui si è lasciato che disprezzo e brutalità investissero donne, indifese e ignare, la cui unica colpa era quella di trovarsi lì in quel momento. Molestie, palpeggiamenti, insulti, furti e, in alcuni casi, persino stupri. Dove erano le autorità? E che dire delle forze dell’ordine, rimaste pressoché inerti? Perché giornali e media tedeschi hanno minimizzato l’evento, prima che un’ondata di indignazione si sollevasse ovunque? Ormai da anni, nelle metropoli, nei grandi centri abitati, nelle cittadine universitarie, la polizia tedesca chiude un occhio durante il week-end e nei giorni festivi, lascia che la movida si appropri di vie e piazze, che giovani, e non più giovani, si godano liberamente, con l’aiuto dell’alcol, quelle ore di baldoria e divertimento. L’idea, in fondo antica, è che la festa sia una sospensione delle regole. I limiti sono rimessi al giudizio del singolo. Gli effetti sono spesso devastanti. Non si capirebbe la notte di Colonia, se non la si inquadrasse in tale contesto. Ma per i tedeschi, che festeggiano in uno spazio pubblico, il limite è, o dovrebbe essere, quello del rispetto delle donne. Non è stato invece così per quegli uomini, in gran parte provenienti da Paesi arabi, che con noncuranza hanno perpetrato i loro atti osceni, senza che nessuno li fermasse. Forse si sono dati appuntamento attraverso WhatsApp, con un sms, o semplicemente grazie a un passaparola. È difficile immaginare che si sia trattato di una azione concertata, e ancor più difficile riconoscervi i contorni di una impresa bellica. Questo non riduce, però, la gravità dell’accaduto. Piuttosto si deve credere che quegli uomini, per lo più giovani, abbiano interpretato la festa di Capodanno come l’occasione per divertirsi all’occidentale, in modo disinibito, spregiudicato, sfrontato. Come se ogni limite dovesse cadere, o fosse già caduto. Si sono dati convegno in tanti, fra la stazione e il duomo, perché uniti ci si sente più forti. Dopo essersi appropriati dello spazio, hanno provano a tastare il terreno. L’auto della polizia è rimasta ferma in un angolo. E loro hanno potuto lasciarsi andare: prima uno sguardo, poi un complimento che rasentava l’insulto, quindi sono passati alle vie di fatto. Lo scherno si è mescolato al dileggio, è diventato oltraggio. Il furto non va considerato separatamente perché fa parte invece di questa terribile irrisione, di questo disprezzo incontrollato. Un collettivo di fratelli assale la donna che osa passare per lo spazio pubblico, non velata, perturbante e provocante, eccessiva nella sua esposizione. La donna libera ed esposta: questo scandalo ontologico, questa offesa agli occhi, questo affronto osceno che turba l’equilibrio dell’universo. È la donna stessa che, con la sua intrusione visiva, solleciterebbe l’oscenità, ne sarebbe alla fin fine responsabile. Quel che è accaduto a Colonia mostra in modo drammatico i problemi che derivano dalla brusca apertura del mondo islamico alla modernizzazione occidentale. Ma indica anche che, se questo impatto non viene culturalmente mediato, saranno tutte le donne le prime vittime. Perché non si possono dimenticare quelle piazze italiane dove, fino a soli pochi decenni fa, le donne non potevano avere accesso. E perché, anche in Occidente, la donna resta, malgrado tutto, il grande Altro, troppo enigmatico, troppo esplosivo. Non si deve né minimizzare, come fa chi parla di semplice "criminalità", né semplificare tracciando il confine razzista fra gli "stranieri" e "noi". E mentre l’estrema destra xenofoba di Pegida tenta di strumentalizzare l’evento, occorre mobilitarsi per rovesciare le sorti di questa storia recente ed essere "tutte a Colonia, il 4 febbraio". Il corpo delle donne e il desiderio di libertà di quegli uomini sradicati dalla loro terra di Kamel Daoud (traduzione di Marzia Porta) La Repubblica, 11 gennaio 2016 Lo scrittore algerino Kamel Daoud sui fatti di Capodanno: "Del rifugiato vediamo lo status, non la cultura. E così l’accoglienza si limita a burocrazia e carità, senza tenere conto dei pregiudizi culturali e delle trappole religiose". "Nel mondo di Allah il sesso rappresenta la miseria più grande" Cos’è accaduto a Colonia? Leggendo i resoconti si fa fatica a comprenderlo con chiarezza. Forse però sappiamo cosa passava nella testa degli aggressori e come di sicuro la pensano gli occidentali. Il "fatto" in sé è espressione fedele dell’immagine che gli occidentali hanno dell’Altro, il rifugiato/immigrato: spiritualismo esasperato, terrore, riaffiorare della paura di antiche invasioni e base del binomio barbaro/civilizzato. Gli immigrati che accogliamo se la prendono con le "nostre" donne, aggredendole e stuprandole. Una nozione che la destra e l’estrema destra non tralasciano mai di esporre quando si pronunciano contro l’accoglienza ai rifugiati. I colpevoli sono immigrati arrivati da tempo o rifugiati recenti? Appartengono a organizzazioni criminali o sono semplici teppisti? Per delirare con coerenza non si aspetterà che queste domande abbiano risposta. Il "fatto" ha già riaperto il dibattito sull’opportunità di rispondere alle miserie del mondo "accogliendo o asserragliandosi". Spiritualismo esasperato? Già. In Occidente l’accoglienza pecca di un eccesso di ingenuità. Del rifugiato vediamo lo stato ma non la cultura. È la vittima sulla quale gli occidentali proiettano pregiudizi, senso del dovere o di colpa. Si scorge in lui il sopravvissuto, dimenticando che è anche vittima di una trappola culturale che deforma il suo rapporto con Dio e con la donna. In Occidente il rifugiato o l’immigrato potrà salvare il suo corpo ma non patteggerà altrettanto facilmente con la propria cultura, e di ciò ce ne dimentichiamo con sdegno. La cultura è ciò che gli resta di fronte a sradicamento e traumi provocati in lui dalla nuova terra. In alcuni casi il rapporto con la donna - fondamentale per la modernità dell’Occidente - rimarrà incomprensibile a lungo, e ne negozierà i termini per paura, compromesso o desiderio di conservare la "propria cultura". Ma tutto ciò può cambiare solo molto lentamente. Le adozioni collettive peccano di ingenuità, limitandosi a risolvere i problemi burocratici e si esplicano attraverso la carità. Il rifugiato è dunque un "selvaggio"? No. È semplicemente diverso, e munirlo di pezzi di carta e offrirgli un giaciglio collettivo non può bastare a scaricarci la coscienza. Occorre dare asilo al corpo e convincere l’animo a cambiare. L’Altro proviene da quel vasto universo di dolori e atrocità che è la miseria sessuale nel mondo arabo-musulmano. Accoglierlo non basta a guarirlo. Il rapporto con la donna rappresenta il nodo gordiano nel mondo di Allah. La donna è negata, uccisa, velata, rinchiusa o posseduta. È l’incarnazione di un desiderio necessario, e per questo ritenuta colpevole di un crimine orribile: la vita. Una convinzione condivisa, che negli islamisti appare palese. Poiché la donna è donatrice di vita e la vita è una perdita di tempo, la donna è assimilabile alla perdita dell’anima. Il corpo della donna è il luogo pubblico della cultura: appartiene a tutti, ma non a lei. Qualche anno fa, a proposito dell’immagine della donna nel mondo detto arabo si scrisse: "La donna è la posta in gioco, senza volerlo. Sacralità, senza rispetto della propria persona. Onore per tutti, ad eccezione del proprio. Desiderio di tutti, senza un desiderio proprio. Il suo corpo è il luogo in cui tutti si incontrano, escludendola. Il passaggio alla vita che impedisce a lei stessa di vivere". È questa libertà che il rifugiato, l’immigrato, desidera ma non accetta. L’Occidente è visto attraverso il corpo della donna: la libertà della donna è vista attraverso la categoria religiosa di ciò che è lecito o della "virtù". Il corpo della donna non è visto come luogo stesso di libertà, in Occidente un valore fondamentale, ma di degrado. Per questo lo si vuole ridurre a qualcosa da possedere o a una nefandezza da "velare". La libertà di cui la donna gode in Occidente non è vista come il motivo della sua supremazia ma come un capriccio del suo culto della libertà. Di fronte ai fatti di Colonia l’Occidente (quello in buona fede) reagisce perché è stata toccata "l’essenza" stessa della sua modernità - laddove l’aggressore non ha visto altro che un divertimento, l’eccesso di una notte di festa e bevute. Colonia è dunque il luogo dei fantasmi. Quelli elaborati dall’estrema destra che evoca le invasioni barbariche e quelli degli aggressori, che vogliono che il corpo sia nudo perché è "pubblico" e non appartiene a nessuno. Non si è aspettato di sapere chi fossero i responsabili, perché nei giochi di immagini, riflessi e luoghi comuni, tale dato non conta poi molto. E non si vuole ancora capire che dare asilo non significa semplicemente distribuire "carte" ma richiede di accettare un contratto sociale con la modernità. Nel mondo di "Allah", il sesso rappresenta la miseria più grande. Al punto da dare vita a un porno-islamismo a cui i predicatori ricorrono per reclutare i propri "fedeli", evocando un paradiso che più che a una ricompensa per credenti somiglia a un bordello, tra vergini destinate ai kamikaze, caccia ai corpi nei luoghi pubblici, puritanesimo delle dittature, veli e burka. L’islamismo è un attentato contro il desiderio. E talvolta questo desiderio esplode in Occidente, dove la libertà appare così insolente. Perché "da noi" non esiste via d’uscita se non dopo la morte e il giudizio universale. Ritardo che fa dell’uomo uno zombie, o un kamikaze che sogna di confondere la morte con l’orgasmo, o un frustrato che spera di raggiungere l’Europa per sfuggire alla trappola sociale della propria debolezza. Ritornando alla domanda iniziale: Colonia ci insegna che dobbiamo chiudere le porte o chiudere gli occhi? Nessuna delle due opzioni: chiudere le porte ci obbligherebbe un giorno a sparare dalle finestre, un crimine contro l’umanità. Ma anche quello di chiudere gli occhi sulla lunga opera di accoglienza e di aiuto, e su ciò che questa comporta in termini di lavoro su se stessi e sugli altri, sarebbe un atteggiamento di spiritualismo esasperato, in grado di uccidere. I rifugiati e gli immigrati non possono essere ridotti a una minoranza delinquenziale. Ciò ci pone di fronte al problema dei "valori" da condividere, imporre, difendere e far capire. Ciò pone il problema del dopo-accoglienza: una responsabilità di cui dobbiamo farci carico. Siria: un ponte aereo per Madaya, la città dove si muore di fame di Davide Frattini Corriere della Sera, 11 gennaio 2016 La proposta: paracadutare gli aiuti (senza il sì del regime) nella città dove si muore di fame. Come a Sarajevo. Quando Laura Boldrini ha visitato Sarajevo sei mesi fa, ha voluto celebrare "quello che divenne il ponte aereo più lungo della Storia". La città bosniaca era sotto assedio, ci è rimasta dall’aprile 1992 al febbraio del 1996, la popolazione era alla fame, la carestia indotta dagli uomini, non dai disastri della natura: i serbi non volevano che gli aiuti raggiungessero i civili. I carichi umanitari decollavano da Falconara in Italia o da Spalato in Croazia. L’Aeronautica militare - come ricorda Roberto Faccani della Croce Rossa, che allora coordinava la distribuzione - trasportò a Sarajevo 34.600 tonnellate di cibo, medicine e beni di prima necessità. "Il 3 settembre del 1992 l’aereo Lyra 34 venne colpito da due missili terra-aria durante la fase dell’atterraggio. Era partito con 4.500 chilogrammi di coperte destinate alla povera gente. Morirono tutti gli uomini dell’equipaggio: Marco Betti, Marco Rigliaco, Giuseppe Buttaglieri e Giuliano Velardi". Davanti alla lapide deposta sul Monte Zec la presidente della Camera ha reso omaggio "agli italiani che persero la loro vita per salvarne altre". Altre città di un’altra guerra, altre vite da salvare. Le truppe del regime siriano e le milizie libanesi di Hezbollah accerchiano da mesi Madaya e Zabadani: niente può entrare o uscire, tantomeno il pane o gli esseri umani, ancora una volta la denutrizione usata come arma per soggiogare chi non si vuole arrendere. Anche i ribelli riducono all’indigenza i villaggi abitati in maggioranza da sostenitori di Bashar Assad (come Fua e Kefraya nella provincia di Idlib) e le Nazioni Unite calcolano che almeno 200 mila persone siano accerchiate dallo Stato Islamico, tante quante quelle isolate dall’esercito lealista in tutto il Paese. La reazione internazionale alle immagini e ai video pubblicati su Facebook - i corpi rinsecchiti degli anziani e dei bambini, ridotti a mangiare le foglie degli alberi - ha aiutato le Nazioni Unite a raggiungere un’intesa con il governo di Damasco. Già ieri il convoglio avrebbe dovuto consegnare l’acqua, il cibo e le medicine (la prima volta da ottobre) ai 40 mila intrappolati di Madaya, l’operazione è rinviata a oggi. Perché - come spiega Ben Parker, che è stato alla guida della squadra di soccorso dell’Onu dentro la Siria - "Nelle aree sotto il controllo governativo, cosa, dove e a chi fornire assistenza deve essere negoziato e qualche volta è semplicemente imposto dal regime". Così Paddy Ashdown, il politico e diplomatico britannico che fino al 2006 è stato Alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina, ha scritto una lettera aperta al premier David Cameron: chiede che dia l’ordine all’aviazione di paracadutare gli aiuti a Madaya e Zabadani. Senza aspettare i lunghi e intricati negoziati con Assad. Ricorda che l’anno scorso la Royal Air Force ha organizzato una missione simile per soccorrere migliaia di yazidi assediati dai fondamentalisti dello Stato Islamico. "Ci sono iniziative immediate che dobbiamo prendere. Non possiamo stare a guardare quello che sta succedendo". Il quotidiano Daily Telegraph ha rilanciato l’appello di Lord Ashdown e fa notare che dalla frontiera libanese a Madaya sono 40 secondi di volo per un C-130 da trasporto (80 andata e ritorno). Il ministero della Difesa britannico obbietta che l’operazione per gli yazidi sul monte Sinjar era stata richiesta dai curdi, mentre Assad non vuole interferenze: "Lo spazio aereo è completamente diverso, il regime si può difendere con i missili terra-aria". Lo spauracchio della contraerea siriana è stato usato anche per rintuzzare chi proponeva di creare una no-fly zone che proteggesse i civili dai bombardamenti. Gli analisti ne mettono in dubbio l’efficacia: da anni i jet israeliani colpiscono dentro il territorio di Assad - raid mai confermati dal governo di Benjamin Netanyahu - eppure dalla guerra di Yom Kippur nessun aereo è mai stato abbattuto. Era il 1973. Da oltre un anno gli americani - e a seguire le altre nazioni della coalizione, tra cui la Gran Bretagna - sorvolano il Paese per centrare le basi dello Stato Islamico senza aver chiesto il permesso e senza coordinamento con il regime. Le forze speciali si spostano sugli elicotteri - un’altra possibilità per raggiungere Madaya - durante le incursioni nel nord dell’Iraq e in Siria. Due giorni fa due Tornado tedeschi sono decollati dalla Turchia, la loro prima missione di sorveglianza. I cieli sopra la Siria sono già affollati, un ponte aereo come quello per Sarajevo sembra possibile. Conclude David Blair sul Telegraph: "Se la nostra aviazione non è in grado di penetrare pochi chilometri di spazio ostile per aiutare degli affamati, tanto vale non averne una".