Quali miglioramenti sulle misure cautelari di Barbara Alessandrini L’Opinione, 10 gennaio 2016 Non ci si stancherà mai di ripeterlo, in questa fase di sbornia forcaiola anche l’ultimo barlume di buon senso viene sacrificato all’emergenzialità di inutili inasprimenti delle pene e alla moltiplicazione delle tipologie dei reati e alle supposte esigenze securitarie mentre a tutti sembra sfuggire che la prevenzione e una drastica riduzione dei tempi e modalità operative certe e controllabili della macchina pubblica giudiziaria rappresenterebbe una risposta molto più efficace per garantire il buon funzionamento della giustizia. Il che significa anche garantire i diritti di indagati e imputati che, con eccessiva disinvoltura finiscono in custodia cautelare in carcere, piallati spessissimo dalla "necessità" di difendere le tesi dell’accusa e triturati dalla strumentalizzazione di un malinteso concetto di legalità e di sicurezza mentre le loro garanzie ad un equo processo vengono totalmente amputate. Le cifre degli gli ultimi dati ufficiali sulla custodia cautelare carceraria forniti dallo stesso ministero di Giustizia, nonostante facciano registrare un lieve miglioramento, sembra proprio che nulla abbiano a che vedere con la "riforma" dello scorso aprile (Legge, 16/04/2015 n. 47). Ecco i dati del 31 dicembre 2010, quando i detenuti presenti erano 67.961, quelli in attesa di giudizio 28.692 ossia il 42,21% di cui in attesa di primo grado 14.112 ossia il 20,76 per cento. Di seguito i rispettivi dati negli anni successivi. 31-dic-11: 66.897 27.251 40,73% 13.625 20,36%. 31-dic-12: 65.501 25.296 39,11% 12.484 19,00&. 31-dic-13: 62.536 22.831 36,50% 11.108 17,76%. 31-dic-14: 53.623 18.475 34,45% 9.549 17,80%. 31-dic-15: 52.164 17.785 34,09% 8.523 16,33%. Significa che della natura di extrema ratio di questa misura confermata dalla recente sentenza a riguardo della Corte costituzionale (n. 231 del 2001), la giustizia non tiene minimamente conto. Lo spiega Rita Bernardini dei Radicali Italiani: "L’apposita legge varata nell’aprile scorso non sembra aver influito più di tanto sul decremento delle percentuali riguardanti la custodia cautelare. Tra il 31/12/2014 e il 31/12/2015 si registrava la più bassa diminuzione degli ultimi 5 anni, -0,36 per cento. Negli anni precedenti avevamo infatti avuto scostamenti molto più significativi: -2,05% tra il 31/12/2013 e il 31/12/2014; -2,69% tra il 31/12/2012 e il 31/12/2013; -1,62% tra il 31/12/2011 e il 31/12/2012; -1,48 tra il 31/12/2010 e il 31/12/2011". La conclusione della Bernardini è che "più che la riforma" dello scorso anno, sembrano aver influito altre modifiche normative intervenute, a cominciare dalla sentenza di incostituzionalità della Fini-Giovanardi sulla droga o dal provvedimento sulle cosiddette "porte girevoli" che faceva entrare per pochi giorni in carcere migliaia di detenuti o, ancora, dalle nuove norme riguardanti il "piccolo spaccio" e dalla legge n. 117/2014 la quale prevede che se il giudice ritiene che la pena detentiva irrogata sarà contenuta in un massimo di tre anni, non si possa disporre la carcerazione o gli arresti domiciliari". Dovrebbero essere concetti di comune dominio eppure così non è. E il numero di chi è finito agli arresti cautelari ingiustamente ed in assenza delle condizioni per cui il codice di procedura penale li consente e prevede (pericolo di fuga, reiterazione del reato e inquinamento delle prove) è sempre più tristemente nutrito, andando a rinfoltire i casi per cui l’Italia subisce e seguiterà ad incassare condanne da parte della giurisdizione europea ed internazionale. Anche perché gli arresti cautelari, cui si accompagna sempre più regolarmente la documentazione mediatica della cattura, tanto più se si intravedono i requisiti per giudicare un procedimento "particolarmente delicato" rappresentano un intervento giudiziario saldato all’ingordigia punitiva diffusa su cui pressione mediatica prospera e che essa stessa si occupa di assecondare e soddisfare. Tanto più se si tratta di arresti eccellenti. La priorità è quella di tranquillizzare l’opinione pubblica di fronte allo spettro della pericolosità sociale di chi spessissimo è incensurato, la sostanza è che l’esecuzione delle misure cautelari non viene mai applicata con il necessario garantismo. Perché, come già abbondantemente spiegato dall’ex magistrato Piero Toni nel suo libro "Io no posso tacere", le persone vengono messe in carcere preventivamente per verificare l’ipotesi accusatoria. E il grave allarme sociale insito nei reati che effettivamente esigono gli arresti cautelari in carcere diventa arbitrariamente pretesto per calpestare con disinvoltura la dignità delle persone. Come spiega sempre Toni, mentre l’articolo 272 del codice di procedura penale prevede per l’applicazione delle misure cautelari "gravi indizi" concretamente "si può disgregare la vita di un imputato adulto e incensurato con semplici indizi attenuati. Basta un giudizio di qualificata probabilità in ordine alla responsabilità". E la popolarità del Pm e del sistema giudiziario agli occhi dei cittadini è salva. Le garanzie di libertà e dignità molto meno. "Reato di clandestinità inutile e dannoso": così i pm hanno superato lo stallo della politica di Francesco Grignetti La Stampa, 10 gennaio 2016 Da anni quando il migrante è salvato in mare, il processo non scatta. Ecco come i magistrati hanno evitato l’intasamento dei tribunali. I magistrati insistono: il reato di immigrazione clandestina, così com’è, è "dannoso e inutile". "Guai - dice il presidente dell’associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli - a far prevalere la demagogia. Non soltanto l’immigrazione illegale non si combatte con la minaccia ridicola di un’ammenda, ma il reato ingolfa i tribunali e ostacola le indagini". È quanto denunciato nei giorni scorsi dal superprocuratore antimafia Franco Roberti: un reato che impone l’apertura di decine di migliaia di fascicoli - uno per ogni immigrato clandestino che sbarca sulle nostre coste - destinati a sfociare in multe inesigibili ha l’unico effetto di ingolfare i tribunali e non risolve i problemi. Ripete perciò Sabelli: "Capisco che la politica si faccia carico dei timori della gente, ma quando le paure sono populiste e infondate, vanno combattute spiegando come stanno realmente le cose". Per fortuna, nel vuoto della politica, da un paio di anni la magistratura ha già adottato alcune contromisure. Grazie ad alcune "interpretazioni giurisprudenziali", infatti, non capita più che si apra automaticamente il fascicolo: quando il migrante arriva sulle nostre coste attraverso una nave militare o un’imbarcazione delle forze di polizia, cioè quando il naufrago è stato salvato in alto mare, allora il processo in genere non scatta. Diversa la situazione quando il migrante tocca terra autonomamente perché la sua imbarcazione è entrata clandestinamente nelle acque territoriali italiane. In questo caso, la "interpretazione giurisprudenziale" ritiene che si sia di fronte a un tipico reato di immigrazione clandestina, con tutto il grottesco balletto di cui sopra: fascicolo penale, nomina di un avvocato d’ufficio (pagato a spese dello Stato), interrogatorio con presenza dell’avvocato, scontato silenzio dell’indagato (come è suo diritto), traduzione degli atti nella lingua d’origine del migrante (con altri immensi problemi e costi conseguenti), notifiche complicatissime. Bisogna però ringraziarli, i magistrati, per avere trovato l’escamotage della "interpretazione giurisprudenziale". Se fossero andati avanti a testa bassa, i fascicoli penali per immigrazione clandestina - che erano stati 200mila fino al 2013 - sarebbero aumentati a dismisura. Negli ultimi 24 mesi, come si ricorderà, ci sono stati ben 800mila nuovi arrivi dal mare. Il ministro Alfano: la clandestinità? una norma sbagliata, ma ora deve restare di Francesco Bei La Repubblica, 10 gennaio 2016 Il ministro dell’Interno riconosce che la legge anti-irregolari del 2009 fu un errore. "Renzi e io non ideologici, usiamo buon senso". Potrebbe alzare le braccia al cielo dopo un goal: aver costretto il governo a una marcia indietro sul reato di immigrazione clandestina. Al contrario, Angelino Alfano riconosce tutti i limiti di alcune scelte del passato. Come quando, nel 2009, sedeva in quel Consiglio dei ministri che approvò la norma che ora l’Anm e i magistrati più impegnati contro gli scafisti chiedono di abrogare. "Fu un tentativo di dissuasione, ma - ammette il ministro dell’Interno - non funzionò". E tuttavia, benché condivida le "ragionevoli obiezioni" tecniche di Franco Roberti, il procuratore nazionale antimafia, e quelle "altrettanto ragionevoli" del ministro Orlando, Alfano tiene il punto: "Non è questo il momento opportuno per andare a modificare quel reato. La gente non capirebbe". Raccontano di uno scontro tra lei e il ministro della Giustizia nell’ultima riunione di governo, con Renzi che alla fine si schiera dalla sua parte e decide di non abrogare il reato di clandestinità. È andata così? "Non c’è stato nessuno scontro. Anzi, non c’è nessuna delle cose che ha detto Orlando che non abbia il pregio della ragionevolezza. Così come, sul piano tecnico, quanto affermato dal dottor Roberti a Repubblica, è corretto". E allora perché mantenere il reato scusi? La norma di fatto non viene applicata... "Il tema è un altro. Nel campo della sicurezza stiamo giocando due partite intrecciate ma diverse: una sulla realtà e l’altra sulla percezione della realtà. La realtà è che calano i reati, che abbiamo raggiunto nel 2015 il numero più basso di omicidi della storia d’Italia, che i reati predatori come le rapine sono in calo, che la criminalità organizzata non è mai stata così in affanno, che abbiamo saputo gestire 10 mila manifestazioni di ordine pubblico e che, soprattutto, abbiamo svolto finora un ottimo lavoro di prevenzione sul terrorismo internazionale". Ma la percezione dei cittadini italiani è un’altra... "Purtroppo è così e non ce la possiamo prendere con la gente. Dobbiamo lavorare perché una percezione sbagliata non modifichi i comportamenti, perché alla fine la paura incide anche sul senso di libertà. Il mio no alla cancellazione del reato di clandestinità riguarda esattamente questo: il momento è molto particolare e non dobbiamo dare agli italiani l’idea di un allentamento della tensione sulla sicurezza proprio mentre chiediamo di accogliere i profughi". Lo ammetta, fu un errore andare dietro alla Lega e approvare quella norma? "Fu un tentativo di dissuasione. Ci sono norme che riescono bene e altre che non funzionano. Devo dire che non fu l’unica non riuscita di quel periodo: non mi sembra che le ronde abbiano risolto il problema della sicurezza o i respingimenti abbiano avuto successo. Hanno solo portato l’Italia a una condanna internazionale senza incidere minimamente sulle migrazioni". Salvini era pronto al referendum contro l’eliminazione del reato di clandestinità. Temevate di essere travolti? "Guardi che la mia richiesta di non inserire quella norma nel decreto legislativo risale al 13 novembre, ben prima dell’annuncio leghista sul referendum. Salvini pensava di avere in mano il biglietto vincente della lotteria e di andare all’incasso alle amministrative. Invece dovrà tornare a occuparsi della Corea del Nord, che mi pare essere la sua passione in politica estera". Ha vinto Alfano contro Renzi? "Renzi era d’accordo con me il 13 novembre. Anche lui condivide un approccio non ideologico ma pragmatico alla politica e alla realtà. La bussola di noi moderati al governo è proprio questa, il buon senso, la ricerca di una soluzione equilibrata a problemi complicati. Ed è stato il buon senso a suggerirci che non fosse opportuno modificare quella norma". Quindi in futuro potrebbe essere cancellato quel reato, magari utilizzando un disegno di legge a parte? L’Associazione nazionale magistrati, con Rocco Sabelli, la considera una norma "inutile e dannosa". Come risponde? "La sfera di cristallo non ce l’ho, vedremo. Quanto all’Anm, fa la sua parte e in questa non c’è il compito di scrivere le leggi". Che fine ha fatto il piano europeo per il quale vi eravate battuti? Dei 40 mila ricollocamenti di profughi ne sono stati fatti appena 200. Si può dire che è fallito? "Le cifre parlano da sole, siamo a numeri da condominio. Questa è la vera questione e, se non si risolve, l’Europa rischia di andarsi a schiantare contro un iceberg. Con l’aggravante di averlo visto in tempo". Oltre alla clandestinità avete ingaggiato il Pd anche sulle unioni civili. Sono in corso dei tentativi di mediazione: fin dove potete arrivare? "Ci sono ancora dei giorni per produrre una mediazione. Ma sinceramente ancora non mi spiego perché una legge nata con il giusto obiettivo di riconoscere più diritti ai conviventi di una coppia, anche omosessuale, abbia trasformato il tutto in una fotocopia del matrimonio, preludio anche alle adozioni. Le questioni per noi sono sempre tre: diritti, equivalenza con il matrimonio e possibilità di adottare da parte delle coppie gay. Sul primo punto diciamo sì, sugli altri due diciamo no. Semplice, di buon senso". Il ministro Boschi: "Non ci saranno scambi sul Senato. Per ora reato di clandestinità resti" di Maria Teresa Meli Corriere della Sera, 10 gennaio 2016 Ministro Boschi, dopo il caso di Banca Etruria si è eclissata. "In realtà sono quasi sempre stata qui a lavorare. In Parlamento e in consiglio dei ministri. E domani sarò di nuovo alla Camera perché abbiamo il voto finale sulla riforma costituzionale. Banalmente, ho fatto qualche giorno di vacanza in famiglia e qualche giorno fuori con gli amici, come tanti. Sinceramente non so dove sia il problema. Hanno detto, come se fosse una notizia, che in questo periodo non sono stata in televisione, ma nelle festività natalizie non ci sono trasmissioni politiche. Capisco che Grillo, per il mestiere che fa, stia in tv, ma io non lavoro in televisione, lavoro al ministero". Grillo ha rilanciato accuse sessiste nei suoi confronti. "Il suo mi è sembrato un diversivo. Attaccano me perché sono in imbarazzo per i fatti di Quarto, che sono fatti seri. Dopodiché, Grillo sottovaluta sia l’intelligenza degli italiani che la rabbia dei sui militanti ed elettori. Io non credo che riuscirà a sviare l’attenzione da Quarto prendendosela con me". È ottimista sull’esito della riforma? "Io sono sempre prudente perché non bisogna mai dare niente per scontato però sinceramente sono ottimista perché, se guardo i numeri dell’ultimo passaggio al Senato, mi sembra che i nodi che c’erano si siano sciolti. Credo che abbiamo fatto un lavoro straordinario, dal punto di vista delle riforme in generale, non solo per quelle costituzionali. Penso alla scuola, all’amministrazione pubblica, alla giustizia civile, alla riduzione tasse e agli investimenti nella cultura. C’è stato uno sforzo straordinario. Veniamo da 20 anni di rallentatore, sul fronte della modernizzazione del Paese, e i nostri sono stati ritmi impressionanti. Ma è ovvio che tutto questo deve essere sottoposto al vaglio dei cittadini perché nel momento in cui fai una riforma che tocca quasi 40 articoli della Costituzione non puoi non chiedere agli italiani se sono d’accordo. Per noi il referendum è un appuntamento voluto fin dall’inizio proprio perché crediamo che un processo di riforma così importante non si possa fare a prescindere dalla volontà dei cittadini. Quella è la vera sfida". È un plebiscito sul governo? "Più che un plebiscito è un atto di serietà. Credo che il presidente Renzi abbia dimostrato ancora una volta che da parte nostra non c’è un attaccamento alle poltrone. Il "potere", tra virgolette, che abbiamo in questo momento per il ruolo che svolgiamo, per noi non è un fine: deve essere il mezzo per cambiare le cose. Quindi non è che dobbiamo restare per forza attaccati ai nostri posti. Ci stiamo se serviamo a cambiare le cose, se invece il percorso di riforma si dovesse arrestare, andare avanti non avrebbe senso Darete a Ncd il rimpasto in cambio del voto sulla riforma? "Sinceramente no. Ncd ha partecipato con noi fino dall’inizio a questo percorso di riforme in modo molto attivo e convinto. Non c’è nessuna contropartita. Dopodiché è ovvio che abbiamo l’ esigenza di sostituire alcuni membri governo che hanno cambiato la loro attività. Ci sono da ricoprire i ruoli di vice ministro degli Esteri e dello Sviluppo economico e quello di ministro degli Affari regionali. Non è un rimpasto: sono integrazioni che servono per far funzionare meglio il governo. E c’è nel frattempo un appuntamento già calendarizzato che è quello del rinnovo delle commissioni del Senato, che avverrà il 20 di gennaio. Quindi è ovvio che le cose andranno più o meno insieme. Ma è una casualità dovuta al calendario. Non c’è nessuno scambio" L’indagine su Banca Etruria continua: ribadisce la fiducia in suo padre e le dimissioni se le accuse contro di lei fossero vere? "Assolutamente sì. Come governo abbiamo fatto quello che era giusto e doveroso fare, rispettando regole che l’Europa ci impone. Siamo intervenuti per salvare un milione di correntisti di quattro banche, perché non c’è solo Banca Etruria. Mi fa un po’ specie che ci siano degli ex ministri che ora ci spiegano autorevolmente che cosa dovremmo fare, ma che quando erano ai loro posti. Magari se fossero intervenuti tempestivamente quando c’era la necessità di farlo, oggi non ci troveremmo a dover gestire un’emergenza. Ciò premesso, io ho detto in Parlamento quello di cui sono convinta e lo ribadirei anche oggi. L’ipotesi di un mio conflitto di interessi è a dir poco fantasiosa. Ed è un po’ surreale che rispetto a questa vicenda molto complessa e articolata che riguarda la fase che sta vivendo il sistema bancario italiano, si parli solo ed esclusivamente di Banca Etruria, che, anche per le sue dimensioni, ha un ruolo molto circoscritto. Se la cosa non fosse così seria, mi farebbe anche sorridere il fatto che alcuni autorevoli esponenti oggi prendano determinate posizioni, pur sapendo che sono le stesse persone che un anno fa suggerivano a Banca Etruria un’operazione di aggregazione con la Banca Popolare di Vicenza. Se fosse stata fatta quell’operazione credo che oggi avrebbero avuto un danno enorme i correntisti veneti e quelli toscani. Ma sono consapevole di come vanno le cose, so che per mesi si continuerà a parlare di Banca Etruria. Non è una cosa che finisce qui, però so anche che il tempo e la verità stanno dalla nostra parte, perciò non ho paura". Il governo si è defilato sulle unioni civili. "Il governo sin dall’inizio ha detto che era una proposta di iniziativa parlamentare e che quindi avrebbe rispettato le scelte dei gruppi, anche perché credo che su temi come questo vada tutelata e rispettata la coscienza individuale. È anche vero che noi come Pd siamo stati molto netti nelle nostre posizioni. Di sicuro noi siamo in un ritardo non accettabile rispetto agli altri paesi quindi una legge sulle unioni va fatta e va fatta presto. Perciò mi auguro che ci sia un po’ di buona volontà da parte di tutti: usiamo toni più bassi, dialoghiamo e cerchiamo di trovare punti di convergenza. Se non pensiamo a mettere le nostre bandierine ma lavoriamo in concreto una soluzione si trova". Resta favorevole alla "stepchild adoption"? "Personalmente sono convinta che sia giusta nell’interesse dei bambini. Però su questo punto, come già detto, il Pd lascerà libertà di coscienza". Si farà la depenalizzazione dell’immigrazione clandestina? "Nel merito, la richiesta viene dagli addetti ai lavori, dai magistrati, però penso che in questa specifica fase storica e politica per poter depenalizzare i reati di immigrazione clandestina, occorre preparare prima l’opinione pubblica, non perché abbiamo paura in termini di consensi, ma perché c’è un problema di percezione della sicurezza. Mi spiego: se eliminando questo reato la percezione dei cittadini è quella di una minore sicurezza questo è un problema. In realtà, i crimini sono diminuiti e nel 2015, rispetto al 2014, è calato di ventimila unità circa il numero degli immigrati nel nostro Paese. Se però guardiamo ai mezzi di comunicazione, il fenomeno sembra triplicato (e non è una critica a giornali e tv, ma un dato di fatto) e questo aumenta la percezione del problema da parte dell’opinione pubblica. Forse si può arrivare a eliminare quel reato se si prepara bene il terreno, oggi non credo che sia giusto farlo". Associazione Antigone: immigrazione irregolare, il governo deve depenalizzare il reato Ristretti Orizzonti, 10 gennaio 2016 Immigrazione irregolare, il governo deve depenalizzare il reato per non commettere un’omissione legislativa. In questi giorni il Governo è impegnato ad esercitare la delega sulla depenalizzazione del reato di immigrazione irregolare per il quale, a torto, si usa la parola "clandestina". Proprio attorno a questo tema si è aperto un dibattito in questi giorni. Un dibattito incolto, insipiente, pieno di stereotipi. Il reato di immigrazione irregolare viene introdotto nella legislazione italiana nel 2009. Il ministro degli Interni era Roberto Maroni. Quello della Giustizia Angelino Alfano. La proposta governativa era molto più dura rispetto agli esiti parlamentari finali, infatti prevedeva una pena di tipo detentivo. Nella sua configurazione finale invece si ridimensionò a reato contravvenzionale sanzionato con un’ammenda. Poco contestato dai giudici in sede cognitiva ha comunque prodotto risultati perversi. Infatti nel tempo le persone condannate a pagare un’ammenda sono state pochissime grazie al buon senso della magistratura che si è resa sostanzialmente conto della follia punitiva, simbolica e non efficientista del legislatore. Quel reato però ha costretto le forze dell’ordine a dirottare verso tale obiettivo sanzionatorio il proprio lavoro così non occupandosi di altri crimini, ben più pericolosi per l’ordine sociale e pubblico. La Corte Costituzionale era già intervenuta sul tema sostenendo che la "irregolarità" non poteva essere ritenuta circostanza aggravante per altro reato commesso. Ovvero se due persone commettono in concorso lo stesso reato è illegittimo punirne uno maggiormente perché immigrato in modo irregolare. Una norma iniqua votata sempre durante gli anni in cui Maroni e Alfano erano ai vertici della sicurezza e della giustizia prima che il governo Berlusconi cadesse sotto la scure della crisi. Poco dopo, ovvero nel 2011, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea aveva imposto la disapplicazione di un altro reato, ben più gravoso, ovvero l’inottemperanza all’obbligo di espulsione del Questore presente nella legge Bossi-Fini del 2002. A seguire il legislatore ha dovuto adeguarsi e abrogare quella norma che produceva invece ben 15 mila ingressi carcerari annui. Siamo nel 2014 e il Parlamento deve votare provvedimenti per decongestionare le carceri dopo la condanna della Corte europea dei diritti umani nel 2013 per le condizioni inumane prodotte dal sovraffollamento. Vi è una proposta di legge sulla depenalizzazione di reati minori. Il deputato di Sel Daniele Farina propone di depenalizzare anche il reato di immigrazione irregolare. Il Pd e i 5 Stelle, questi ultimi dopo referendum in rete, votano a favore. "Dunque - dichiara il Presidente di Antigone Patrizio Gonnella - la legge sulla depenalizzazione prevede che il governo deve depenalizzare il reato introdotto nel 2009 da Maroni e Alfano. Lo "deve" fare. Non vi è discrezionalità sul "se" depenalizzare ma sul "come" farlo". "Il Governo - conclude Gonnella - commetterebbe un’omissione legislativa di rilevanza incostituzionale qualora non proceda in tal senso". Torture a Bolzaneto, 45mila euro di vergogna di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 10 gennaio 2016 Genova G8. Il risarcimento proposto dallo stato alle vittime delle torture nella caserma di Bolzaneto per una "conciliazione amichevole". Gli avvocati e gli attivisti no global: "Temono una condanna della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo". "Una proposta indecente, l’Italia istituisca il reato di tortura". Quarantacinque mila euro per una "conciliazione amichevole". Il denaro è stato offerto come risarcimento delle torture nella caserma di Bolzaneto al G8 di Genova dal ministero degli Esteri. La proposta è contenuta in una lettera inviata ieri alla Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo. Il governo richiama l’articolo 39 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo e intende chiudere il primo dei due ricorsi presentati a nome di 31 persone contro la mancata punizione dei responsabili delle violenze. E questo nonostante la sentenza di condanna, a 14 anni dai fatti, emessa dalla stessa Corte nell’aprile 2015 a favore di Armando Cestaro in cui si chiede l’istituzione del reato di tortura in Italia. A Cestaro la Corte di Strasburgo ha inoltre assegnato un risarcimento di 45 mila euro, la stessa cifra proposta dal ministero degli Esteri. Gli stati possono ricorrere alla conciliazione e, se le parti offese sono soddisfatte e la Corte accetta la misura, il caso viene chiuso. Ad esempio, una misura simile è stata adottata nel caso di due detenuti che hanno subìto violenze nel carcere di Asti. Il giudice lo aveva valutato come un caso di tortura, ma non si è mai arrivati a una sentenza perché questo reato non esiste nel nostro ordinamento. Di "tortura" alla scuola Diaz e a Bolzaneto hanno parlato gli stessi tribunali italiani che non hanno potuto condannare penalmente i responsabili accertati a causa della prescrizione. Sono circa un centinaio i manifestanti che hanno subìto violenze da parte della polizia a Genova nel 2001 e hanno presentato ricorso a Strasburgo per la violazione dell’articolo tre della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, quella che proibisce la tortura e impone una sanzione effettiva per i responsabili. A questo proposito la sentenza Cestaro è esemplare. Oltre al risarcimento, ha chiesto allo Stato di fare vera giustizia sui fatti di Genova. La legislazione penale italiana è stata definita inadeguata e sprovvista di effetti dissuasivi per prevenire efficacemente la reiterazione di possibili violenze poliziesche. La Corte si è inoltre rammaricata del rifiuto opposto dalla polizia italiana di cooperare con la magistratura per identificare gli agenti protagonisti delle violenze. I giudici europei hanno ribadito la necessità di istituire il reato di tortura in Italia nel rispetto dell’articolo 3 della Convenzione europea. Precisi rilievi che rendono evidente il livello della civiltà giuridica nel nostro paese. Oggi ogni cittadino che intende liberamente esprimere il proprio dissenso può incorrere nelle torture di Genova e sa che i responsabili possono uscirne indenni, mentre si infliggono anni di carcere per reati minori, non certo paragonabili alla tortura. "La richiesta del governo è dovuta al fatto che è molto alta la probabilità che si arrivi a una sentenza di condanna dello Stato italiano" spiega l’avvocato Emanuele Tambuscio che rappresenta alcuni dei ricorrenti. "La nostra risposta è un deciso no - aggiunge l’avvocato Riccardo Passeggi che difende due vittime tedesche - Non abbiamo bisogno delle elemosine del governo italiano. Nessuno ha mai chiesto scusa per i fatti di Bolzaneto. Lo Stato italiano deve istituire il reato di tortura". "Si sta giocando una partita truffaldina. È una strategia per limitare i danni di future sentenze come quella Cestaro - sostiene il giornalista Lorenzo Guadagnucci, vittima delle violenze alla Diaz e già componente del comitato Verità e Giustizia per Genova - Anche a me è stato proposto di chiudere la causa in sede civile con una cifra di 40 mila euro in cambio del ritiro del ricorso. Ho rifiutato e lo rifarei. Per risanare il torto fatto a Genova. Bisogna fare una legge contro la tortura che non è quella discussa in Parlamento, prendere provvedimenti rispetto ai condannati che sono in servizio, nessuno dei quali è sottoposto a procedimenti disciplinari o è stato licenziato. Non credo che questo sia il modo in cui un governo serio può uscire da questa vicenda. Dimostra solo l’imbarazzo di una democrazia rispetto a una polizia che non rispetta i suoi principi. In Italia esiste un’idea assurda: che le forze dell’ordine siano speciali e possano derogare ai principi della convivenza che una corte europea giudica necessari". L’ex Sottosegretario Cosentino in cella: "contro di me una giustizia di tipo medioevale" di Dario Del Porto La Repubblica, 10 gennaio 2016 "Quando si parla di me, si descrive un personaggio a me estraneo". L’incontro nel carcere di Terni con il senatore di Gal Luigi Compagna "L’ho trovato in ottima forma, nonostante le dosi da cavallo di custodia cautelare". Sul tavolino, atti processuali e un libro di Karl Popper. All’interno, un detenuto si prepara al colloquio con i figli. Indossa un golf blu e un paio di pantaloni grigi. È Nicola Cosentino, l’ex potente leader del Pdl, già sottosegretario all’Economia, da venti mesi in custodia cautelare perché imputato in quattro diversi processi, tre dei quali per presunte collusioni con il clan dei Casalesi. I blindati del padiglione sono tutti aperti, come consentito dal regime penitenziario. Nel carcere di Terni, è in corso la visita ispettiva del senatore del gruppo Gal Luigi Compagna e del presidente dell’associazione radicale "Per la grande Napoli" Luigi Mazzotta. Appena Cosentino li nota, si fa loro incontro e li saluta con affetto. Compagna ha militato a lungo nello stesso partito, prima che le strade si dividessero. "Ora di quale gruppo fai parte?", chiede l’ex coordinatore regionale del Pdl. Compagna lo aggiorna, quindi gli domanda, ma evitando accuratamente di entrare nel merito, dell’andamento dei processi. Cosentino risponde allargando le braccia: "Bene, forse è per questo mi viene riservato questo trattamento medioevale ". Poi, come se stesse ragionando ad alta voce, commenta: "Ogni volta che sento parlare di me con riferimento alle inchieste, vedo descritto un personaggio a me estraneo, nel quale non mi riconosco, come se fosse il simbolo di una storia e di una geografia che non mi appartiene". Il dialogo devia su altri argomenti. La famiglia, innanzitutto, con Cosentino, rientrato nel carcere di Terni nella tarda serata di giovedì, dopo aver preso parte a un’udienza del dibattimento in corso davanti al tribunale di Santa Maria Capua Vetere dove deve rispondere dell’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, "di ottimo umore perché in procinto di incontrare i due figli", sottolinea Compagna. "L’ho trovato psicologicamente in ottima forma, nonostante tutto quello che sta passando ", racconta il senatore riferendosi non solo alla lunga carcerazione preventiva dell’ex coordinatore regionale del Pdl, ma anche al diniego opposto dal giudice di Napoli Nord alla richiesta della moglie di Cosentino di allontanarsi da Caserta, dove è sottoposta all’obbligo di dimora perché imputata di corruzione nel processo sui presunti favori ottenuti dal marito nel carcere di Secondigliano, per poter incontrare il coniuge il 23 dicembre, a distanza di sette mesi dall’ultima volta. "Non so se si sia imposto una maschera - dice Compagna - ma non mi è parso abbattuto o frustrato dalla decisione che gli ha impedito il colloquio con la moglie. Naturalmente, restano l’amarezza e l’indignazione per le dosi da cavallo di custodia cautelare che gli stanno somministrando". Anni fa, quando era all’apice del potere, Compagna aveva consigliato a Cosentino di lasciar perdere l’obiettivo di diventare presidente della Regione Campania: "Sei sottosegretario, il ministro Tremonti ti stima. Resta a Roma, chi te lo fa fare", ricorda di avergli detto. Cosentino invece ha fatto scelte diverse. Adesso, assicura Compagna, "è tranquillo e determinato a resistere". L’incontro dura una manciata di minuti. C’è anche il tempo per qualche battuta sul cinema e su un attore che a Cosentino piace tantissimo: Checco Zalone. Naturalmente non ha potuto vedere l’ultimo film però, dice Compagna, "mi ha detto di essere convinto che questo sia il migliore di tutti". Abruzzo: Rita Bernardini Garante dei detenuti. Ma c’è il veto M5S "è condannata" di Pietro De Leo Il Tempo, 10 gennaio 2016 L’ortodossia è una bussola che difficilmente fallisce, ma spesso fa perdere delle occasioni. Ciò ben si addice a una vicenda che riguarda il MoVimento 5 Stelle in Abruzzo e vede come controparte i Radicali, in particolare Rita Bernardini. Già segretaria del partito, fedelissima di Marco Pannella, è in attesa da oltre tre mesi di essere eletta Garante dei detenuti nella Regione. Del suo impegno costante a favore delle condizioni di vita nelle carceri v’è ampia letteratura e la sua candidatura al ruolo di garanzia ha ricevuto molteplici appelli favorevoli, dal ministro Andrea Orlando ("ottima candidatura"), al vicepresidente del Csm Giovanni Legnini ("sarebbe un bel segnale"). Financo a un redivivo Fausto Bertinotti: "Dove si può trovare - ha detto l’ex leader di Rifondazione - rispetto alle carceri, un merito e un’esperienza superiori a quelli di Rita Bernardini?". Eppure, per il MoVimento 5 Stelle regionale questo bagaglio politico e sociale non è sufficiente. Perché le condanne che Rita Bernardini ha riportato, a seguito delle ben note azioni di disobbedienza civile, sono un ostacolo etico insormontabile a dire sì alla sua elezione. Nel sito del M5S abruzzese è possibile leggere una nota in viene spiegato il "nodo". I pentastellati definiscono "condivisibili" le battaglie portate avanti dall’ex numero uno di via di Torre Argentina, ma tuttavia "le condanne riportate dalla Bernardini la rendono ineleggibile in un’ottica di legalità a cui questo Paese dovrebbe costantemente ambire". E ancora, spiegano che il ruolo in questione "è anche finalizzato e ispirato alla rieducazione dei detenuti e ciò ci sembra inconciliabile con il presupposto di aver ignorato una legge vigente". Inflessibili, dunque. L’Agenzia radicale, però, mette in relazione tutto questo alla vicenda, di cui i media abruzzesi hanno dato conto negli scorsi giorni, del consigliere abruzzese pentastellato Riccardo Mercante, condannato in sede civile in primo grado per una causa inerente il proprio lavoro. In poche parole, da promotore finanziario, venne portato in Tribunale da un suo cliente che si ritenne danneggiato da alcune operazioni, le quali avrebbero causato una perdita patrimoniale di 920mila euro. I fatti risalgono al periodo 2008-2009. Per ora, il consigliere è stato condannato in prima istanza alla restituzione delle commissioni in solido con l’istituto di credito ed è stata dichiarata la nullità delle operazioni. "Sono assolutamente sereno - ha scritto Mercante sulla sua pagina Facebook commentando la notizia - avendo sempre svolto il mio lavoro con la massima diligenza e con quella onestà che mi ha sempre caratterizzato nella professione, nella attività politica e nella vita familiare, così come sono assolutamente certo che in secondo grado si riuscirà a chiarire definitivamente l’intera vicenda". Dalla stampa locale, risulta come tutti i suoi colleghi abbiano fatto quadrato attorno a Mercante, così come su facebook anche i militanti gli esprimano solidarietà. La vicenda, poi, è tutta da dimostrare. "Peraltro - sottolinea sempre Agenzia Radicale - è giusto sottolineare come simili vicende non chiamino necessariamente in causa la disonestà, anzi: quand’anche il dolo fosse accertato, ciò non significherebbe che il consigliere fosse in mala fede, perché potrebbe semplicemente aver compiuto degli errori". Tuttavia, continua l’agenzia, "una condanna è una condanna! La disobbedienza civile della Bernardini no, e le operazioni finanziarie nulle del grillino vanno bene?". Domanda che Giriamo ad Andrea Colletti, deputato abruzzese, componente della Commissione Giustizia. "Occorre tenere ben distinti i due piani, civile e penale", spiega a Il Tempo. "Sono le nostre regole - prosegue nei ruoli di responsabilità niente persone con condanne penali passate in giudicato. Oltretutto, non mi pare neanche la Bernardini sia abruzzese, quindi...". Insomma, nessuna indulgenza di fronte al fatto che le condanne riportate da Rita Bernardini riguardano la specificità della militanza radicale, che molte questioni ha posto, condivisibili o meno, nella storia repubblicana del nostro Paese. Comunque, che il MoVimento 5 Stelle sperimenti il garantismo è buona cosa. Magari, piano piano, lo concepirà come valore universale. Parma: l’avvocato di Rashid Assarag: "mi appello al Consiglio d’Europa" di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 gennaio 2016 Intervista. Parla Fabio Anselmo, difensore del detenuto che registrò su un nastro gli agenti che ammettevano l’uso della violenza nel penitenziario di Parma. Ma per il pm, che chiede l’archiviazione del caso, sono solo "lezioni di vita carceraria". La prima denuncia per le violenze subite nel carcere di Parma Rashid Assarag l’ha presentata il 7 gennaio 2011. Cinque anni dopo, la procura parmense non ha ancora trovato certezze e nel dubbio il pm Emanuela Podda chiede al gip l’archiviazione del procedimento contro dieci agenti penitenziari aperto quando, nel settembre 2014, L’Espresso pubblica le registrazioni-choc, effettuate dallo stesso detenuto, delle voci di alcuni agenti che ammettono l’uso di violenze nel carcere. Nulla di strano: la giustizia nel nostro Paese è lenta, si sa, ce lo dice anche la Corte di Strasburgo. E invece no: "Il 13 novembre 2015 Rashid Assarag è stato a sua volta denunciato per resistenza a pubblico ufficiale perché avrebbe frenato con le mani la sedia a rotelle sulla quale è ormai costretto. E solo venti giorni dopo ha ricevuto dalla procura di Biella la comunicazione di fine indagini. Succede sempre così, con le tante querele ricevute dagli agenti, al contrario di quanto avviene quando Rashid denuncia gli abusi". Ne ha tante da raccontare, l’avvocato Fabio Anselmo, difensore dell’uomo, attualmente detenuto nel carcere di Torino, che dopo aver perso 18 chili è di nuovo in sciopero della fame di fronte alla richiesta del sostituto procuratore di Parma. Il pm non contesta le registrazioni degli agenti che ammettono l’uso della violenza nel carcere di Parma e dicono che "se la Costituzione fosse applicata alla lettera", esso "sarebbe chiuso da vent’anni". Allora, quali sono le motivazioni? Sinceramente non le ho capite. Da un lato si chiede ad Assarag di circostanziare i fatti con nomi e cognomi, pur sapendo che sono passati anni e gli agenti sono privi di identificativi, per poi concludere che i fatti sono dubbi perché non ci sono testimoni a provare le accuse e non si è potuto accertare come Assarag abbia potuto disporre di un registratore (ma nessuno glielo ha mai chiesto). Dall’altro, il pm scrive che quelle frasi registrate "seppur inquietanti, paiono "lezioni di vita carceraria", più che minacce e affermazioni di supremazia assoluta o negazione dei diritti". Certo, non vi aspettavate questo… Ci ha lasciati di sasso. Le indagini almeno andavano fatte. È come con il caso Cucchi: sei anni a litigare sul niente e poi quando sono arrivati Pignatone e Mussarò le indagini sono state fatte davvero e la verità è venuta fuori. Ma Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, riferisce che già nel 2009 segnalò il caso al sostituto procuratore di Parma "che si attivò". Non so che tipo di attivazione ci sia stata, so solo che Rashid porta i segni sul suo esile corpo dei pestaggi subiti. Di fatto vive da sei anni in carcere, cambiandone undici, e riporta lesioni invalidanti alle gambe, ai piedi e ad un occhio. Quello che dice è vero perché non viene mai smentito nelle registrazioni. Se poi si sostiene che si tratta di accuse generiche, allora mi rifaccio alla sentenza Torreggiani con la quale Strasburgo ha condannato l’Italia affermando che è impossibile per un detenuto provare i maltrattamenti. Certamente Rashid i maltrattamenti li ha subiti, e anche pesanti e ripetuti. La situazione è gravissima, se tutto ciò che emerge da quelle registrazioni viene qualificato come "lezioni di vita carceraria". In ogni caso è un’ammissione di come funzionano le cose in un carcere. A rigore di codice penale, sarebbero già minacce. La sua prossima mossa? Faremo ricorso alla Corte europea dei diritti umani, ma nel frattempo speriamo che il Consiglio d’Europa avvii un’ispezione seria, perché Rashid è prova vivente degli abusi subiti, e lo Stato si sta dimostrando totalmente inerte. Un mese fa il Guardasigilli Orlando ha chiesto al Dap di collaborare per accertare la verità. Secondo lei l’amministrazione penitenziaria si è attivata? No comment. Comprensibile. Lei è anche il legale della famiglia Cucchi: se fa un paragone tra i due casi? Coerentemente con quanto è accaduto a Stefano Cucchi che è stato visto da 140 pubblici ufficiali senza che nessuno si accorgesse delle sue condizioni, credo che in questo caso si vada oltre perché siamo di fronte a fatti che riguardano più carceri. Trovo che il caso di Rashid sia un atto di accusa formidabile nei confronti dell’intero sistema penitenziario italiano. E oltretutto c’è la documentazione di un’affermazione culturale e politica, da parte dei suoi interlocutori, direi inaccettabile. Se quelle cose sono "lezioni di vita carceraria" dobbiamo dedurne che hanno ragione loro. Firenze: la Camera penale "Sollicciano va monitorato, cerchiamo iniziative comuni" gonews.it, 10 gennaio 2016 Il carcere fiorentino di "Sollicciano va monitorato". Lo scrive in una nota la Camera penale di Firenze che, con il proprio Osservatorio carcere, ha incontrato il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Carmelo Cantone. Nei giorni scorsi, con una lettera le detenute di Sollicciano avevano denunciato una "situazione critica". Nell’incontro con il provveditore, "si è discusso della grave situazione del carcere di Sollicciano, anche recentemente denunciata dalle detenute della Sezione femminile - spiega la Camera penale in una nota. Il provveditore ha preso atto delle iniziative della Camera Penale (che ha segnalato non solo gli episodi ultimi, ma le carenze strutturali e le necessità di interventi organici della Casa Circondariale) ed ha assicurato immediati interventi, alcuni già in atto, per coprire l’emergenza, e l’interlocuzione anche con i competenti ministeri per gli interventi strutturali". "Nel corso della riunione - conclude la nota - si è ipotizzata la costituzione di un coordinamento, anche informale, che coinvolga istituzioni preposte e associazioni che si occupano del carcere. Nei prossimi giorni la Camera penale di Firenze proporrà agli uffici del Garante dei diritti dei detenuti, regionale e comunale, e alle associazioni impegnate sui problemi del carcere, iniziative comuni e la verifica degli interventi in corso". Firenze: i Radicali "realizzare l’Icam, Istituto di custodia attenuata per madri detenute" La Nazione, 10 gennaio 2016 Manifestazione davanti alla presidenza della Regione Toscana: "È una delle tante promesse non mantenute dalla burocrazia regionale". La manifestazione dei radicali per chiedere la realizzazione dell’Icam La manifestazione dei radicali per chiedere la realizzazione dell’Icam. Manifestazione dei radicali fiorentini di fronte alla presidenza della Regione Toscana per "chiedere la conclusione dell’annosa vicenda dell’Icam (Istituto di custodia attenuata per madri detenute). "Questa - dicono i rappresentanti dell’associazione radicale Andrea Tamburi - è una delle tante promesse non mantenute dalla burocrazia regionale con la corresponsabilità di altri enti. Una storia che prese il via sei anni fa: troppi per tollerare ancora che i bambini siano costretti a passare parte delle loro vita in carcere". I militanti radicali hanno sostato davanti alla sede della presidenza della Regione Toscana con cartelli nei quali si ricordavano anche le condizioni del carcere di Sollicciano, del quale i radicali, nei giorni scorsi, hanno chiesto la chiusura. "Ricordiamo - continuano i radicali fiorentini - che durante l’ultima visita effettuata dalla delegazione radicale nel carcere di Sollicciano lo scorso Natale, nel nido interno del carcere è stata trovata una bimba di pochi mesi insieme alla madre in esecuzione di pena interna. Un Paese di civiltà giuridica questo non dovrebbe permetterlo. Chiediamo quindi una rapida conclusione della vicenda burocratica che ostacola ancora l’avvio dei lavori per la realizzazione dell’Icam a Firenze". Cuneo: casi di legionella, il sindaco vieta di usare l’acqua nel carcere di Alba di Cristina Borgogno La Stampa, 10 gennaio 2016 Il sindaco di Alba Maurizio Marello ha emesso ieri (sabato 9 gennaio) un’ordinanza per "la sospensione immediata dell’erogazione di acqua calda sanitaria e la bonifica dell’impianto idrico con prodotti disinfettanti o trattamento termico in attesa della modifica radicale". A quattro giorni dall’inizio delle operazioni di sgombero della Casa di reclusione albese "Giuseppe Montalto" - chiuso temporaneamente per legionella, sono terminati ieri, nel tardo pomeriggio, i trasferimenti dei 100 detenuti comuni in cinque diverse strutture del Piemonte (Fossano, Saluzzo, Alessandria San Michele, Vercelli e Cuneo). Si decidono in queste ore le misure per spostare i 22 collaboratori di giustizia. Secondo i sopralluoghi e i rilievi fatti dai tecnici si andrebbe verso una ristrutturazione importante dell’impianto idrico, piuttosto obsoleto, per risolvere una volta per tutte una situazione che si trascina da anni, con casi di legionellosi già verificatisi in passato. Un intervento che potrebbe aver bisogno di alcuni mesi, tempo in cui devono essere collocati anche i 112 agenti in servizio al "Montalto". Cagliari: allarme della Cisl-Fsn, pochi agenti nell’Istituto per minori di Quartucciu Ansa, 10 gennaio 2016 La Cisl Fns lancia l’allarme sulla difficile situazione degli agenti di Polizia penitenziaria in servizio nell’istituto per minori di Quartucciu. Reduci da una visita alla struttura, i sindacalisti hanno potuto toccare con mano i problemi, su tutti la mancanza di personale che rende quasi impossibile usufruire di riposi e congedi. "Gli agenti vengono spesso richiamati in servizio. Alcuni - denuncia il segretario di categoria Nino Manca - devono usufruire di circa trenta giorni di riposi settimanali arretrati. Il monte del congedo ordinario tocca i 1.900 giorni: francamente non capiamo come il personale potrà usufruirne se già non si garantiscono i soli riposi settimanali. Ci amareggia ancor di più - sottolinea l’esponente della Cisl - sapere che il personale in servizio subisce anche aggressioni da parte dei detenuti". Il sindacato ha inviato una lettera alla dirigente dei centri di giustizia minorile della Sardegna, Isabella Mastropasqua, in cui vengono sollecitati una serie di interventi: dall’invio di un comandante effettivo all’incremento di almeno altri cinque agenti, dal ripristino della videosorveglianza interna ed esterna a quella per l’automazione dei cancelli. Lecce: l’ergastolano in fuga si nascondeva nel suo paese, aiutato da insospettabili di Angela Balenzano Corriere della Sera, 10 gennaio 2016 Perrone preso 63 giorni dopo essere scappato dall’ospedale di Lecce: era armato e con il colpo in canna. Si nascondeva nel suo paese. Gli inquirenti: "Era diventato un idolo, su Facebook facevano il tifo per lui". La sua era stata un’evasione da film. Nell’ospedale di Lecce dove era stato accompagnato per un esame endoscopico aveva disarmato un agente della polizia penitenziaria, ferito tre persone ed era riuscito a dileguarsi in pochi minuti. La sua cattura è stata invece il frutto di un lungo lavoro di intelligence ma lui, Fabio Perrone, ergastolano di 42 anni, legato alla Sacra Corona Unita e conosciuto come "Triglietta", era pronto a fuggire ancora. Perché all’alba di ieri quando è stato arrestato aveva una pistola con il colpo in canna, munizioni e cinquemila euro in contanti. Ai poliziotti della squadra mobile di Lecce e agli agenti della penitenziaria che l’hanno sorpreso in un’abitazione a Trepuzzi (suo paese di origine nel Salento) sarcasticamente ha detto: "Volendo potevo scappare pure adesso". Ora è rinchiuso nel carcere di Lecce in una cella di isolamento. Con l’accusa di favoreggiamento è stato arrestato anche Stefano Renna, 32 anni, titolare di un bar, che gli avrebbe offerto protezione. Dal giorno dell’evasione, il 6 novembre scorso, Perrone avrebbe contato sull’aiuto "non solo di pregiudicati ma anche di insospettabili" dicono gli investigatori. L’ergastolano era in fuga da 63 giorni e a Trepuzzi, il suo paese, "era diventato un idolo con apprezzamenti anche su Facebook" ha spiegato Sabrina Manzone, dirigente della squadra mobile di Lecce che ha guidato le indagini. Sin dai giorni successivi all’evasione, Perrone era rimasto nascosto in zona ma alle 5.45 di ieri in una palazzina a due piani a Trepuzzi è scattato il blitz. Quando la polizia ha fatto irruzione nell’appartamento dove si nascondeva lui ha tentato la fuga: aveva una pistola e un kalashnikov in spalla quando è stato bloccato sul terrazzo dell’abitazione. "Triglietta sei fritto" ha detto il comandante della polizia penitenziaria del carcere di Lecce, Riccardo Secci, per sciogliere la tensione accumulata in queste settimane di lavoro. Poi più tardi gli investigatori hanno festeggiato la cattura con un lungo applauso mentre l’arrestato andava via dagli uffici della Questura di Lecce per essere trasferito in carcere. Fabio Perrone è considerato un soggetto molto pericoloso: aveva già scontato una pena a 18 anni di reclusione per attività mafiose legate alla Scu e un’altra condanna all’ergastolo (sette anni dopo) per aver ucciso in un bar un 45enne rom e aver ferito gravemente il figlio di quest’ultimo. Poi lo scorso 6 novembre l’evasione dall’ospedale Vito Fazzi di Lecce: una fuga non pianificata, secondo gli inquirenti. In quell’occasione Perrone sarebbe rimasto ferito da uno dei colpi sparati dai poliziotti: lo si è scoperto soltanto ieri dopo la cattura. Dopo l’evasione era stata messa in atto una caccia all’uomo che ha visto i poliziotti impegnati giorno e notte. Gli inquirenti sin dall’inizio hanno sempre sospettato che l’uomo non si fosse mai allontanato da Trepuzzi dove era certo di essere aiutato. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando e il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo hanno espresso "apprezzamento per il determinante apporto della polizia penitenziaria". Palermo: l’archeologia va in carcere di Dario Scarpati archeostorie.it, 10 gennaio 2016 È stato solo un esperimento ma dovrebbe diventare prassi consolidata: portare oggetti "da museo" tra i ragazzi di un carcere minorile. Archeostorie ha chiesto a due protagonisti di raccontare questa bella avventura. "Ciao Dario, qui al Servizio musei (dell’Assessorato ai beni culturali e all’identità siciliana, ndr) stiamo ragionando su come far conoscere le nostre bellezze a chi non può visitarle: gente che sta in ospedali, centri di riabilitazione, carceri. Ci aiuti?". Come si può rifiutare un invito simile? ? Il mio compito è stato raccontare cos’è l’archeologia ai ragazzi ospiti del Carcere minorile "Malaspina" di Palermo. Per fortuna non ero solo: la direzione del "Malaspina" e il Museo archeologico "Salinas" mi hanno dato una bella mano (e anche i pezzi con cui lavorare). Poche riunioni operative sono state sufficienti per calibrare bene l’iniziativa: abbiamo scelto di mostrare alcune anfore e vasi punici, sapendo di trovarci di fronte anche ragazzi nord-africani; abbiamo studiato insieme una strategia di comunicazione che ci permettesse di "arrivare" senza troppe difficoltà ai ragazzi: gli oggetti saranno manipolati, osservati, odorati e descritti insieme, provando a costruirne la storia, la funzione, il viaggio. O meglio, le storie! I ragazzi avevano preparato una loro ricerca su questa "mitica figura" a metà tra l’esploratore con cappello e frusta e un topo da biblioteca, l’archeologo insomma, e da lì abbiamo cominciato la nostra chiacchierata. Ho usato le poche parole arabe che conosco per coinvolgere i ragazzi d’oltremare, ma la cosa più divertente è avvenuta con i siciliani: io, da poco trasferito e davvero non "padrone" della lingua, ho usato il mio dialetto romano, e loro mi rispondevano in siciliano. I nord-africani, in arabo. Sembrerebbe una babele incomprensibile ma non è così: sono stati gli oggetti a fare da mediatori linguistici e culturali. Un’anfora è contemporaneamente molte cose: un oggetto diagnostico, definito da nomi e simboli; un contenitore di terracotta; un mediatore di prodotti; una "narrazione" di viaggio. Sono tutte interpretazioni vere, dipende da chi "legge" il reperto. E questa è la bellezza dell’archeologia: alla univoca (dove si riesce…) interpretazione scientifica, corrispondono le tante correlazioni individuali. E così nel corso di una sola mattina, i nostri vasi sono passati dall’essere qualcosa di indescrivibile perché lontani nel tempo, nello spazio e nell’esperienza, a essere oggetti concreti dentro cui qualcuno avrà versato acqua o vino oppure avranno trasportato fichi secchi, o la puzzolente salsa di pesce che tanto piaceva ai romani. Abbiamo iniziato a toccarli: dapprima con una sorta di timore reverenziale ma poi, pian piano, abbiamo preso confidenza, ora ancor più coscienti del loro valore! Più consapevoli perché le loro "storie" ci crescevano tra le mani, si mescolavano alle "nostre", ci facevano vedere cose che avevamo in noi ma che non riuscivamo a raccontare. Tra le tante, anche la "maieutica", l’arte di tirar fuori il proprio sentire, è una funzione dell’archeologia. Pescara: il Festival della melodia torna in carcere rete8.it, 10 gennaio 2016 La manifestazione ideata e presentata da Paolo Minnucci domani mattina alle ore 16 si terrà presso la Casa Circondariale dei zona San Donato. La ventiduesima edizione del Festival della Melodia in carcere ha il patrocinio anche del Comune e della Provincia di Pescara. La prima tappa del Festival itinerante si è svolta lo scorso marzo e quella di domani sarà la penultima, a cui seguirà la tappa di Palazzo Baldoni a Montesilvano in programma per il 17 gennaio, prima della finalissima che si svolgerà il 10 febbraio al Villaggio dei Fiori di Sanremo. In occasione della presentazione della tappa di domani l’assessore alle Politiche Sociali del Comune di Pescara Giuliano Diodati ha ricordato che Il Festival della Melodia si svolge dentro la casa circondariale dove artisti abruzzesi e non solo canteranno e saranno giudicati dai detenuti. Per l’assessore Diodati si tratta di "uno spettacolo speciale per tante ragioni. È un modo importante per dare valore alla musica e alla sua valenza sociale perché si rivolge e coinvolge persone che vivono una condizione di disagio e le fa partecipare alla vita civile della città, dando un segnale di reinserimento che dovrebbe essere la norma in tutti gli istituti penitenziali. È poi un evento che gode del patrocinio del Comune di Pescara e della Provincia proprio perché porta nel carcere qualcosa di cui chi vive e sconta la pena ha bisogno". L’organizzatore Paolo Minnucci ha detto che "si conclude con queste ultime tappe la 22esima edizione di una rassegna storica che porta con sé il primato di aver avuto come tappa una casa circondariale. Un primato di cui siamo davvero orgogliosi. Sarà una manifestazione bella per il calore che regalano i detenuti in sala e per le emozioni che i cantanti provano ad esibirsi in questo luogo. Il Festival si prepara alla finale che si terrà a Sanremo il 10 febbraio e faremo a Pescara dunque anche una sorta di prova generale di questa kermesse. Non ci saranno giudici professionisti ma persone selezionate fra i detenuti che esprimeranno giudizi e sceglieranno i cantanti della finale. In scaletta ci sono brani editi ed inediti, in sala abbiamo avuto e avremo ospiti speciali, nelle edizioni precedenti per due volte c’è stato lo storico mister biancazzurro Giovanni Galeone, poi ‘Nduccio, il tenore Piero Mazzocchetti, talento cresciuto con il Festival della Melodia. Ci accompagna anche quest’anno Faustino, il principe delle barzellette che fa centinaia di spettacoli per l’Abruzzo e per l’Italia. Chi vincerà la tappa, selezionato dalla giuria individuata fra i detenuti, parteciperà di diritto alla finale sanremese". Biella: il carcere trasformato in bisca, dieci detenuti indagati di Jacopo Ricca La Repubblica, 10 gennaio 2016 Le vincite venivano pagate in sigarette, alimentari e altri beni di consumo. E i debiti di gioco si pagavano anche dopo la scarcerazione. Le celle trasformate in una poker room. Il carcere di Biella era diventato una sorta di bisca clandestina, con tavole verde, carte e fiches. Gli agenti della polizia penitenziaria hanno indagato per gioco d’azzardo dieci detenuti che nei mesi scorsi hanno preso parte a delle partite di poker con scommesse che venivano pagate, essendo vietata la circolazione del denaro all’interno della struttura, in stecche di sigarette e altri beni. Il giro di pokeristi detenuti è stato scoperto durante il pagamento di uno dei "debiti" di gioco: un detenuto in isolamento per ragioni disciplinari aveva cercato di far avere comunque la stecca di sigarette (che valeva più di 50 euro) ai due vincitori, con l’aiuto di chi distribuiva i pasti. Il passaggio è stato bloccato dalla penitenziaria che non ha ricevuto spiegazioni su questo tentativo e ha iniziato un lavoro di monitoraggio per capirne i motivi. Così è emersa la bisca, i detenuti si dividevano in gruppi di gioco e organizzavano diversi tavoli da poker: le poste perse venivano rimborsate oltre che con le sigarette con parti del vitto, pacchi in arrivo dall’esterno, ma anche soldi. A novembre ad esempio uno dei detenuti appena uscito mandò un vaglia di pagamento a un suo ex compagno che è proprio da ricondurre a una mano di carte andata male. Integrare senza sensi di colpa di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 10 gennaio 2016 Quando da molte parti s’invoca verso gli immigrati una politica volta all’integrazione, di che cosa parliamo in realtà? Che cosa intendiamo esattamente? E per cominciare: in che cosa pensiamo che gli immigrati debbano integrarsi? Lo ha detto chiaramente l’altro ieri la cancelliera Angela Merkel: vogliamo che gli immigrati assorbano "i fondamenti culturali del nostro vivere insieme", che essi s’integrino, cioè, nel sistema di valori, di regole e di comportamenti socialmente ammessi che vigono da noi. Ma cos’altro rappresenta tutto questo, mi chiedo, se non una cultura, nel caso specifico la nostra cultura? L’integrazione, insomma, è integrazione in una cultura, l’adozione di fatto (volontaria o involontaria non importa) dei suoi tratti caratteristici di fondo, della sua visione del mondo. O è questo, o semplicemente non è. Ma se le cose stanno così bisogna allora rendersi conto delle conseguenze che ne derivano. In particolare del fatto che un tale progetto d’integrazione è radicalmente contraddittorio, per non dire incompatibile, con l’idea e la prassi del multiculturalismo. Quel multiculturalismo che invece in Occidente moltissimi ancora considerano la linea guida da seguire nel rapporto con l’immigrazione: anche perché espressione del "politicamente corretto". Questo multiculturalismo all’insegna del "politicamente corretto" è alimentato da decenni dal pregiudizio che la nostra civiltà si sarebbe macchiata di misfatti di qualità e quantità superiori a tutte le altre, e quindi si sente in dovere della più esasperata attenzione verso ogni minoranza o gruppo non occidentale, percepito per definizione come potenziale vittima di soprusi. Esso non solo può essere protagonista di episodi di ridicolaggine assoluta (ma significativa), di cui di recente hanno dato notizia i giornali, come la protesta del campus dell’Università di Yale contro l’intitolazione di un edificio al presidente americano Wilson perché a suo tempo "favorevole alla supremazia bianca", ovvero come la protesta sempre di un gruppo di studenti dell’Ohio, mobilitatisi in grande stile contro l’indebita "appropriazione culturale" di cui si sarebbe macchiata la caffetteria del loro college preparando dei piatti etnici ma scostandosi dalla loro preparazione tradizionale. Esso ha avuto sicuramente una parte non piccola anche nel comportamento timido fino all’omissione della polizia di Colonia la notte dell’ultimo dell’anno, così come dell’occultamento per giorni della notizia di quei fatti da parte dei media tedeschi, o delle infelici, ridicole, dichiarazioni del sindaco della città. Il multiculturalismo consiste nell’idea che in una società possano / debbano convivere senza problemi culture diverse. Anche molto diverse. Il guaio è che la cultura non è come un cappotto, che uno può infilarsi o sfilarsi a piacere. Quando se ne possiede una, e si ha intenzione di mantenerla, è molto difficile, pressoché impossibile, adottarne insieme un’altra. Se si crede in certi valori, è difficilissimo farne propri allo stesso tempo anche altri. Se per esempio è radicata dentro di me una certa idea dell’altro sesso e dei rapporti tra i due, una certa idea del rapporto tra la religione e lo Stato, una certa idea del mio passato storico, del suo significato e del suo rapporto con quello altrui, e se, come è ovvio, da ognuna di queste idee discendono comportamenti conseguenti, come potrò mai integrarmi davvero in un’altra cultura? Come potrò mai essere in certo senso due persone diverse contemporaneamente? Non a caso una società realmente multiculturale - che non è quella che ci fanno vedere nei film dove tutti contenti mangiamo insieme il cous cous o indossiamo una pittoresca djellaba, ma è caratterizzata da una molteplicità paritaria di culture - questa società non esiste in alcun luogo del pianeta. In ogni società vi è una cultura dominante, cioè quella che determina il quadro delle regole generali. Regole che - va sottolineato con forza - anche nel caso delle attuali società democratiche, direi anzi soprattutto in queste, non sono mai neutre, quindi condivisibili (e perciò osservabili) da tutti senza problemi. Esse, invece, rappresentano e tutelano sempre determinati modelli di vita, determinati valori, frutto di una determinata storia, specialmente religiosa. Bisogna quindi avere il coraggio di dirlo e soprattutto di farlo capire a chi viene tra noi, non nascondendo che ciò vale soprattutto per coloro che provengono dal mondo islamico. Per gli immigrati integrarsi implica necessariamente la rinuncia a una parte più o meno importante della propria cultura. Perlomeno significa accettare che l’ambito d’influenza di essa - per esempio di alcuni modi tradizionali d’intendere la propria fede religiosa - incontri dei limiti più o meno significativi. Abbiamo il dovere di offrire agli immigrati protezione e opportunità, eguaglianza e godimento dei diritti. Dobbiamo facilitarne l’ingresso nel mondo del lavoro (anche magari con percorsi di favore), soprattutto garantendoli dallo sfruttamento di padroni e imprenditori senza scrupoli (ciò che facciamo poco e male). In parecchi casi non dobbiamo esitare a concedere anche la nazionalità. Ma non dobbiamo esitare a chiedere, e se necessario a imporre - anche grazie a nuove disposizioni, a eventuali nuovi e più penetranti poteri ai servizi sociali o alle autorità di polizia locale e non - alcune regole. Che per esempio dopo un certo periodo di tempo per ottenere il permesso di soggiorno sia necessario dimostrare il possesso della lingua italiana. Che la predicazione nei luoghi di culto non debba avere carattere politico. Che all’interno dei nuclei familiari le mogli debbano avere accesso alla lingua italiana e godere piena libertà di movimento (ciò che oggi in un gran numero di casi non avviene). Che l’obbligo scolastico dei minori sia rigorosamente osservato per entrambi i sessi. Che le adolescenti non siano rispedite nei Paesi d’origine per contrarre matrimoni combinati (come invece è attualmente frequente). Sono solo pochi esempi di un genere di questioni e di problemi che le classi politiche del nostro continente devono affrontare subito con la massima decisione e lungimiranza. Se finora l’Unione Europea ha fatto poco o nulla in questo ambito, il governo italiano ci pensi da solo. Abbia immaginazione e fermezza, soprattutto non abbia paura di avere coraggio: da ogni punto di vita non ha che da guadagnarci. Inciviltà di genere di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 10 gennaio 2016 Donne vittime e profittatori maschi dello scontro di civiltà. Se fosse stato un attacco preordinato - ma non c’è nessuna prova per sostenerlo - sarebbe stato perfetto. Mentre tutta l’Europa si prepara militarmente e psicologicamente ad affrontare attentati terroristici la maggiore destabilizzazione arriva nella notte di capodanno in piazza. In diverse piazze della Germania - Colonia, Amburgo, Stoccarda - ma anche Zurigo ed Helsinki. Una massa incontrollabile di maschi - di origini arabe o musulmane, forse anche richiedenti asilo, ma ci sono anche occidentali, ubriachi, armati di bottiglie, anche qualche molotov, coltelli e forza bruta - aggrediscono le donne, tutte quelle che si trovano di fronte, sulla strada, le picchiano, feriscono, stuprano, perfino derubano, la polizia non può, non sa, non ha i mezzi per intervenire. Tanto che ad Amburgo sono i buttafuori dei locali notturni a salvare le donne aprendo le porte dei locali che proteggono. È un attacco molto diverso da quello che è avvenuto a Parigi - al quale è stato da alcuni media paragonato - non sono locali di musica, ristoranti o la sede di un giornale satirico - i simboli della laicità francese - ad essere colpiti, ma la piazza come luogo di incontro di tutti e le donne, che simbolizzano il nemico - il diavolo verrebbe da dire - per i sostenitori di una cultura misogina e patriarcale. Non solo tra i musulmani, la barbarie è ovunque. Aggredire, violentare le donne vuol dire colpire un genere nella sua più profonda identità e intimità, vuol dire usare strumenti che sono purtroppo diventati usuali nelle guerre e non solo moderne. Un attacco di questo tipo non spinge a uscire per dimostrare di essere ancora presenti - anche se c’è chi lo fa - nonostante le bombe e i kamikaze, si può rischiare una pallottola ma andare incontro a uno stupro è diverso. Eppure ieri le donne sono scese di nuovo coraggiosamente in piazza contro le violenze subite e contro la destra anti-islam e i neonazisti, pronte ad accusare "i nemici, uguali dappertutto, del sessismo e del fascismo". Nonostante la gente resti attonita e, colpita psicologicamente, cancella la partecipazione al famoso carnevale di Colonia. Se fosse stato un atto terroristico sarebbe riuscito perfettamente. Ma anche se fosse stato organizzato dalle bande naziste e xenofobe, del resto i terroristi - anche quelli dell’Isis - non hanno forse la stessa ideologia fascista? La destra tedesca vedrebbe in questi atti confermata la sua previsione: verranno i barbari e stupreranno le nostre donne. E anche se non è così, la destra più estrema ne sta già approfittando. Ma anche tutta quella che vuole il respingimento dei migranti e Angela Merkel pagherà sicuramente - in termini elettorali - la sua politica di accoglienza, anche se finora era riuscita a contenere le opposizioni. La sua reazione a questi fatti è stata infatti molto dura. Le reazioni sono state ritardate dai rapporti edulcorati della polizia che ha peccato oltre che per il mancato intervento anche per l’eccesso di politically correct: i temi della migrazione, dei profughi, dell’islam e la violenza sono tabù in Germania. È chiaro che se tra le bande che hanno attaccato le donne ci fossero stati anche profughi o richiedenti asilo saranno loro a pagare il prezzo più alto o comunque lo saranno soprattutto i prossimi profughi che cercheranno di approdare sul territorio europeo. Lo vediamo anche in Italia dove la legge per l’abolizione del reato di clandestinità - che doveva passare tra breve in parlamento - sarà con ogni probabilità rinviata, con il beneplacito di tutti, a non si sa quando. Ancora una volta possiamo dire che le donne sono state le vittime di questo criminale assalto ma saranno i maschi sostenitori dello scontro di civiltà ad approfittarne. La sinistra: "caso Colonia creato per bloccare gli stranieri" di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 10 gennaio 2016 Arja, militante del Coordinamento femminista di Colonia, porta un cartello chiaro: "Sessisti e razzisti, sono str… ovunque". "Che ipocrisia, denunciare l’aggressione delle donne proprio qui in Germania, dove le molestie sessuali non sono nemmeno un crimine, sono considerate una "bagattella"! È solo una chiara strumentalizzazione della destra per fermare l’apertura ai profughi". Arja, militante del Coordinamento femminista di Colonia, ha portato al flashmob delle donne un cartello che esprime in maniera chiara il suo pensiero: "Sessisti e razzisti, sono str… ovunque". La sinistra tedesca non ci sta, deve accorrere a sostenere la politica di sostegno ai rifugiati dell’alleata Angela Merkel, ma non rinuncia a sottolineare la sua identità. Sotto la stazione centrale di Colonia, al di là delle centinaia di poliziotti in assetto antisommossa, ci sono i dimostranti di Pegida. Da questa parte, invece, c’è la manifestazione della Germania solidale, quella che i confini li vorrebbe abbattere, non rinforzare. O così almeno la pensano i militanti della "Sinistra interventista di Brema", che hanno uno striscione scritto in tedesco e in greco. Karl-Ludwig, operaio pensionato, confessa: "Ce l’avevamo già dall’ultimo corteo, quando si parlava di Grecia". Si legge: "Niente confini, niente nazioni, solidarietà con i fuggiaschi". E accanto c’è la silhouette di un uomo con le cesoie, che taglia la corona di stelle dell’Unione europea. "Le aggressioni sono una realtà, nessuno può negarle. Ma non si possono criminalizzare tutti i nord-africani. Il sospetto è che la polizia sapesse quello che succedeva alla stazione. Che si stavano formando delle bande, che c’era pericolo. Non posso dire apertamente che la scelta di non intervenire sia stata intenzionale, ma forse l’idea di avviare un po’ di scandalo piaceva a una parte delle forze dell’ordine. Qui in Nord Reno- Westfalia l’atteggiamento di chi porta le stellette è sempre stato tollerante con l’estrema destra e repressivo con la sinistra". Le bandiere rosse sono più numerose di quelle arcobaleno: Die Linke, partito comunista Dkp, Giovani socialisti, tutti sono riuniti attorno al camion con altoparlanti, in perfetto stile anni Settanta, dove si alternano a parlare le donne delle varie organizzazioni. I turchi del giornale socialista Kaldirac ("Vuol dire rinascita", dicono) stanno accanto agli intellettuali di Attac, l’organizzazione che si batte contro i paradisi fiscali, i punk con la cresta di capelli gialla si affiancano alle studentesse come Masha, quindicenne appena arrivata da un paesino della provincia. Espone una spilla "Fck Pgda" accanti a quella con il pugno che infrange una svastica. "Pegida aizza l’odio contro le persone, usa i gesti sessisti come pretesto per alimentare un’ideologia di estrema destra". Rispetto ai cortei di qualche decina d’anni fa, qualcosa è cambiato. C’è qualche nero, tedesco di seconda generazione, però non si vedono facce di magrebini. Forse non è il momento di farsi vedere in giro, in questa atmosfera. I cartelli dicono: "Fermate la violenza sulle donne, quale che sia il colore dei colpevoli". Ma forse per rassicurare non bastano. Perché voglio togliere le pistole all’America di Barack Obama (Traduzione di Fabio Galimberti) La Repubblica, 10 gennaio 2016 "Non sosterrò candidati che appoggiano la lobby delle armi". L’epidemia di violenza con armi da fuoco nel nostro Paese rappresenta una crisi. I morti e i feriti per arma da fuoco costituiscono uno dei maggiori pericoli per la salute e la sicurezza del popolo americano. Ogni anno, oltre trentamila americani perdono la vita per colpa delle armi. Suicidi. Violenze domestiche. Sparatorie fra bande criminali. Incidenti. Centinaia di migliaia di americani hanno perso fratelli e sorelle o seppellito i loro figli. Siamo l’unica nazione avanzata sulla terra che assiste con una simile frequenza a una violenza di massa di questo genere. Una crisi nazionale come questa esige una risposta nazionale. Ridurre la violenza con armi da fuoco sarà difficile. È evidente che con questo congresso non sarà possibile giungere a nessuna riforma di buon senso che limiti la diffusione delle armi. Non sarà possibile durante il mio mandato. Tuttavia, ci sono delle misure che possiamo intraprendere da subito per salvare vite umane. E tutti noi - a ogni livello di governo, nel settore privato e in quanto cittadini - dobbiamo fare la nostra parte. Abbiamo tutti una responsabilità. Martedì ho annunciato le nuove misure che intraprenderò, nei limiti della mia autorità legale, per proteggere il popolo americano e impedire che criminali e individui pericolosi possano dotarsi di armi da fuoco. Fra queste misure figurano: fare in modo che tutti quelli che sono coinvolti nella vendita di armi da fuoco conducano verifiche sui precedenti dell’acquirente; potenziare l’accesso alle terapie contro le malattie mentali; migliorare la tecnologia per la sicurezza delle armi da fuoco. Queste misure non potranno impedire tutti gli atti violenti e non potranno salvare tutte le vite umane, ma se anche una sola vita venisse salvata grazie a esse, vorrà dire che ne valeva la pena. Continuerò a fare tutte le azioni possibili come presidente, ma oltre a questo farò tutte le azioni possibili come cittadino. Non farò campagna, non voterò e non sosterrò nessun candidato, neanche del mio partito, che non sostenga riforme di buon senso per limitare le armi. E se il 90 per cento di americani che sostengono queste riforme di buon senso faranno come me, riusciremo a eleggere i rappresentanti che ci meritiamo. Tutti noi abbiamo un ruolo da giocare, anche chi possiede un’arma da fuoco. È necessario che la stragrande maggioranza di persone responsabili che possiedono un’arma, che piangono con noi dopo ogni strage dovuta alle armi, che sostengono misure di buon senso per la sicurezza delle armi da fuoco e che ritengono che le loro posizioni non siano adeguatamente rappresentate, si schierino con noi e pretendano che i politici ascoltino la voce delle persone che dovrebbero rappresentare. Anche l’industria delle armi deve fare la sua parte. A cominciare dai produttori. In America pretendiamo che i prodotti di consumo rispettino requisiti stringenti per garantire la sicurezza delle nostre famiglie e delle nostre comunità. Le automobili devono rispettare standard di sicurezza e di emissioni rigorosi. I prodotti alimentari devono essere puliti e sicuri. Non possiamo sperare di spezzare il circolo vizioso della violenza con armi da fuoco finché non imporremo all’industria delle armi di adottare semplici misure per rendere più sicuri anche i suoi prodotti. Se un bambino non può aprire un tubetto di aspirina, dobbiamo fare in modo che non possa nemmeno premere il grilletto di una pistola. Eppure, oggi, l’industria delle armi non rende conto a nessuno. Grazie a decenni di sforzi della lobby delle armi, il Congresso ha impedito ai nostri esperti in sicurezza dei prodotti di consumo di imporre che le armi da fuoco siano dotate dei più elementari dispositivi di sicurezza. Hanno reso più complicato, per gli esperti di salute pubblica del governo, condurre ricerche sulla violenza con armi da fuoco. Hanno garantito ai produttori di armi un’immunità di fatto dalle cause legali, che consente loro di vendere prodotti letali senza affrontare quasi mai nessuna conseguenza. Se si stesse parlando di sedili difettosi delle automobili, noi, come genitori, non lo accetteremmo. Perché dovremmo tollerarlo per prodotti - le armi da fuoco - che uccidono ogni anno così tanti bambini? I produttori, che stanno vedendo crescere enormemente i loro profitti, dovrebbero investire nella ricerca per rendere le armi da fuoco più intelligenti e sicure, sviluppando per esempio sistemi di micro-punzonatura per le munizioni, che possono aiutare a ricollegare i proiettili trovati sulle scene del delitto ad armi specifiche. E come tutte le industrie, i produttori di armi hanno il dovere, nei confronti dei loro clienti, di essere cittadini migliori vendendo le armi solo a soggetti responsabili. È qualcosa che riguarda tutti noi. Non ci si chiede di dar prova dell’eroismo del quindicenne del Tennessee Zaevion Dobson, che prima di Natale è stato ucciso facendo scudo ai suoi amici. Non ci si chiede di mostrare la tolleranza dei tantissimi familiari delle vittime che si sono dedicati a mettere fine a questa violenza senza senso. Ma dobbiamo trovare il coraggio e la volontà di mobilitarci, organizzarci e fare quello che un Paese forte e sensibile fa di fronte a una crisi come questa. Dobbiamo tutti pretendere leader abbastanza coraggiosi da combattere le menzogne della lobby delle armi. Dobbiamo tutti schierarci in difesa dei nostri concittadini. Dobbiamo tutti pretendere che i governatori, i sindaci e i nostri rappresentanti al Congresso facciano la loro parte. Cambiare non sarà facile. Non succederà dall’oggi al domani. Ma anche il diritto di voto per le donne non è stato conquistato dall’oggi al domani. La liberazione degli afroamericani non è avvenuta dall’oggi al domani. La conquista dei diritti per lesbiche, omosessuali, bisessuali e transessuali in America ha richiesto decenni di sforzi. Questi momenti rappresentano la democrazia americana, e il popolo americano, nella loro veste migliore. Per fronteggiare questa crisi ci sarà bisogno della stessa incrollabile determinazione, per molti anni, a tutti i livelli. Se riusciremo ad affrontare questo momento con la stessa audacia, potremo rendere realtà il cambiamento che cerchiamo. E lasceremo ai nostri figli un Paese più forte e più sicuro. Spagna: Paesi Baschi, in 80mila in piazza per sostenere i prigionieri dell’Eta quotidiano.net, 10 gennaio 2016 I baschi chiedono ai governi francese e spagnolo di favorire il "riavvicinamento familiare" dei detenuti dell’organizzazione terroristica e di scarcerare i prigionieri malati. In 80mila per chiedere la fine della diaspora dei carcerati dell’Eta. Circa 10mila persone hanno manifestato nella località francese di Bayonne e 70mila nella città spagnola di Bilbao per mettere fine alla politica di dispersione dei detenuti baschi dell’organizzazione terroristica dell’Eta. Gli organizzatori chiedono ai governi spagnolo e francese di favorire il "riavvicinamento familiare" dei detenuti (che si trovano in carceri lontane dai Paesi Baschi) e di scarcerare i prigionieri malati; attualmente sono 423 i detenuti in 73 diverse carceri spagnole e francesi. Egitto: corruzione, confermata condanna per l’ex rais Mubarak e i due figli Aki, 10 gennaio 2016 La Corte di Cassazione del Cairo ha confermato la condanna a tre anni di carcere contro l’ex rais egiziano Hosni Mubarak e i suoi due figli, Alaa e Gamal, tutti accusati di corruzione. Lo riferisce il giornale governativo egiziano al-Ahram, dopo che è stato respinto il ricorso presentato dai Mubarak. L’ex presidente e i suoi due figli sono stati condannati per appropriazione indebita dei fonti destinati a lavori di ristrutturazione del palazzo presidenziale. I tre, che hanno già scontato la pena considerando il periodo di reclusione trascorso, sono stati anche condannati al pagamento di una multa di 125 milioni di lire egiziane, l’equivalente di circa 14,6 milioni di euro. Mubarak è detenuto in un ospedale militare, mentre i due figli sono stati scarcerati lo scorso ottobre. Per il 21 gennaio, quattro giorni prima del quinto anniversario della rivolta contro il regime di Mubarak, è atteso il verdetto della Corte di Cassazione nell’ambito del processo a carico dell’87enne ex presidente per l’uccisione di manifestanti durante le proteste contro il suo regime. Mubarak è detenuto in un ospedale militare, mentre i due figli sono stati scarcerati lo scorso ottobre. Per il 21 gennaio, quattro giorni prima del quinto anniversario della rivolta contro il regime di Mubarak, è atteso il verdetto della Corte di Cassazione nell’ambito del processo a carico dell’87enne ex presidente per l’uccisione di manifestanti durante le proteste contro il suo regime. Messico: così l’intervista a El Chapo fatta di Sean Penn ha aiutato la polizia a catturarlo di Paolo Mastrolilli La Stampa, 10 gennaio 2016 "Io fornisco più eroina, metamfetamine, cocaina e marijuana di chiunque altro nel mondo. Ho una flotta di sottomarini, aerei, camion e navi". È con orgoglio che El Chapo rivendica il suo ruolo di re mondiale del traffico di droga, nell’intervista rilasciata all’attore americano Sean Penn per la rivista "Rolling Stone", dal luogo dove si nascondeva dopo la sua rocambolesca fuga dal carcere messicano in cui era detenuto. L’intervista, pubblicata ieri sera, è l’ultimo capitolo di una storia sempre più sorprendente. El Chapo Guzman aveva ricevuto Penn nel proprio nascondiglio in ottobre, registrando anche dei video. Per la prima volta ha ammesso di essere un trafficante, spiegando che "nella regione dove sono nato e cresciuto non c’era altro modo di sopravvivere". Guzman ha aggiunto che "la droga distrugge, ma se non ci fossi io qualcun altro continuerebbe il traffico". Quindi ha spiegato che "non sono violento. Devo difendermi, ma non sono mai io che comincio i problemi". El Chapo è stato appena riarrestato, e il governo messicano sta valutando la sua estradizione negli Stati Uniti. Poco prima di essere catturato, il narcotrafficante aveva anche contattato anche esponenti di Hollywood per girare un film sulla sua vita, che ha contribuito a mettere la polizia sulle sue tracce. E sarebbe stata proprio l’intervista concessa a Sean Penn a contribuire a far luce sul covo del boss. Lo ha confermato la procura messicana. L’Fbi avrebbe infatti seguito l’attore e individuato così il nascondiglio. L’incontro si è svolto il 2 ottobre scorso in una località remota del Messico. Vi partecipò anche l’attrice messicana Kate del Castillo. Anche se le parti avevano concordato che, dopo il primo faccia a faccia nelle selve, sarebbe seguita un’intervista formale otto giorni dopo, questo secondo incontro non ci fu mai. Tuttavia El Chapo inviò a Penn una registrazione video con le risposte alle domande che l’attore gli aveva mandato. Ghana: ex-detenuto Guantánamo "era uomo di Bin Laden", proteste del governo Agi, 10 gennaio 2016 Ha suscitato polemiche ad Accra la decisione del governo di accettare nel Paese due ex-detenuti di Guantánamo, uno dei quali, il 36enne yemenita Mahmmoud Omar Mohammed Bin Atef, era - secondo un rapporto del Pentagono di fine 2007 - un collaboratore di Osama bin Laden. I due erano a Camp X-Ray da 14 anni. Il presidente americano, Barack Obama, non ha mai voluto abbandonare lo sforzi per chiudere la prigione di massima sicurezza di Guantánamo Bay e, anche di recente, ha ribadito che considera l’impegno un elemento della sua strategia di lotta all’Isis. Le trattative tra l’amministrazione americana e il governo di Accra pare siano andate avanti per un anno; e mercoledì sera, il Pentagono ha fatto sapere di essere "grato" al governo ghanese per "il gesto umanitario" e "la disponibilità a sostenere gli sforzi" degli Stati Uniti per chiudere Camp X-Ray. Il ministro degli Esteri ghanese, Hanna Tetteh, ha spiegato che i due ex-detenuti "al momento non possono rientrare in Yemen" e che il governo del Ghana ha deciso di accoglierli per un periodo di due anni, al termine dei quali potranno lasciare il Paese. Gli Usa, ha aggiunto, si incaricheranno di sostenere le spese per il mantenimento dei due uomini in Ghana.