Gli Stati Generali dell’esecuzione penale riguardano tutta la società Il Mattino di Padova, 9 febbraio 2016 Da qualche giorno sul sito del Ministero della Giustizia sono a disposizione di tutti i rapporti conclusivi dei 18 Tavoli tematici degli Stati Generali sull’esecuzione penale. Duecento esperti di pene, carceri, misure alternative si sono confrontati e hanno lavorato per mesi a una autentica rivoluzione dell’esecuzione delle pene, su mandato del Ministro della Giustizia Andrea Orlando. Ora dovrebbe iniziare un dibattito che coinvolga davvero la società, perché le pene e il carcere non sono realtà che riguardano solo pochi predestinati. Un Paese che sappia punire in modo umano e sensato è senz’altro un Paese più civile e sicuro. Ma naturalmente più di tutti sono le persone detenute che hanno delle grandi aspettative rispetto agli Stati Generali, e però anche la paura che tutto resti sulla carta, e nelle nostre galere non entri affatto quella voglia di cambiamento, di umanizzazione di cui c’è più che mai bisogno. La speranza di un carcere più a misura d’uomo Gli Stati Generali hanno parlato di diritti fondamentali dell’uomo detenuto e soprattutto di dignità. Pensando a questo, mi viene in mente che la prima cosa che una persona è costretta a subire nel momento del primo arresto è la perdita di se stesso. La sua dignità viene inscatolata con tutti quegli effetti che ti tolgono di dosso e che potrai recuperare solo al momento dell’uscita. È per questo che non solo ti spogliano per perquisirti, ma ti fanno provare un senso d’umiliazione facendoti piegare con le gambe tutto nudo più volte. Ecco da quel momento capisci che sei nelle loro mani. Ma non si dovrebbe privare un essere umano della propria dignità, a prescindere dal fatto che sia colpevole o non colpevole. Nel mondo carcere poi si vive per aspettare. Un detenuto aspetta sempre, non esiste nulla che ti venga concesso subito, anche voler leggere un libro comporta un’attesa. Credo che chi non è detenuto non possa comprendere appieno la frustrazione che causa un’attesa. Io per andare a respirare un po’ d’aria fresca al passeggio devo passare 5 cancelli e ad ogni cancello passerò una media di 5 minuti perché devo attendere che un agente venga ad aprirmi. Il paradosso è che quando dovrò rientrare dall’aria per tornare nella mia cella non aspetterò neanche un minuto, in un attimo mi ritroverò in sezione, perché quando è ora di chiuderci gli agenti hanno spesso una gran fretta. Se parliamo di diritti, un diritto fondamentale che ogni essere umano ha è quello di parola e di pensiero, nel carcere raramente viene rispettato. Sarebbe importante dare l’opportunità al detenuto di esprimere le proprie opinioni senza subire una ritorsione fatta di rapporti disciplinari, nel migliore dei casi e, nel peggiore, di un trasferimento lontano dalla propria famiglia. Se realmente si vuole capire una persona va ascoltata, ma, ovviamente, per ascoltarla prima di tutto va lasciata parlare, esprimersi, fargli dire la sua idea, giusta o sbagliata che sia. In tutti i miei anni di detenzione ho preso molti rapporti e quindi ho fatto molti consigli disciplinari. Ogni volta che entravo nell’ufficio della direzione provavo la stessa sensazione che provavo nei processi, sapevo che era una pura e semplice formalità, non avevo diritto di replica. Di fronte a me mi ritrovavo il direttore dell’istituto, il comandante, l’educatrice, il dirigente sanitario e a volte anche il cappellano. Ovviamente tutti loro rappresentano le istituzioni, quindi quello che io mi chiedo è: a me chi mi rappresenta? Perché non possiamo pensare a una figura, non dico amica, ma quanto meno che non ricopra un ruolo istituzionale e che possa essere neutrale? Ad esempio un mediatore. Forse così un detenuto proverà a farsi capire e imparerà anche ad ascoltare chi ha difronte. Essere detenuto non deve togliere la libertà di espressione. E invece spesso te la toglie, e sempre per "Motivi di sicurezza". Questa è la formula che mette a tacere qualsiasi detenuto. Un detenuto non può replicare di fronte a questa spiegazione. Esempio: in molte carceri tagliano il cappuccio dagli indumenti, anche dall’accappatoio, il motivo? Di sicurezza. In molte altre carceri non fanno entrare un tipo di cibo al colloquio con i familiari, il motivo? Di sicurezza. In alcune carceri al colloquio con i familiari non ti fanno portare neanche un pacco di patatine, motivo? Di sicurezza. Allora mi chiedo: come posso essere responsabilizzato da un’istituzione in cui molte volte è l’istituzione stessa che non sa darmi una spiegazione logica di che cosa c’è dietro a una privazione? Pensando a quello che mi è sempre mancato durante tutti i miei anni di vita detentiva, mi viene in mente la parola percorso, e la parola responsabilità. Da quasi tre anni faccio parte della redazione di Ristretti Orizzonti e in questi tre anni riconosco di avere avuto un cambiamento radicale, sia comportamentale che mentale, ma mi chiedo: se un’opportunità come questa mi fosse stata data negli anni passati, avrei avuto lo stesso risultato di oggi? Non posso avere una risposta certa, ma sono fermamente convinto che quest’opportunità rientri nei diritti di tutti i detenuti, il diritto di provare a dare una svolta alla propria vita, di capire le cause che hanno portato una persona a infrangere le regole per una giusta convivenza sociale commettendo un reato, e l’attore principale di questo percorso è la società. È la società che può far comprendere a un detenuto quella lacerazione che ha causato un reato, e questa comprensione può avvenire solo confrontandosi con essa. Lorenzo Sciacca Alta Sicurezza: dove un inutile scorrere del tempo riempie le giornate I detenuti di lunga carcerazione si ritagliano un angolo di vita che possa avere un margine di "normalità", si dedicano ad attività che servono soltanto ad annullare il tempo e non certo ad utilizzarlo, dal momento che della loro rieducazione non importa a nessuno. La frustrazione è assoluta, è un annientamento della personalità: vedersi lentamente invecchiare giorno dopo giorno, anno dopo anno in un turbine di sentimenti contrapposti che ti tengono in sospeso tra la vita e la morte, è semplicemente abominevole. Menti continuamente a te stesso per poter sopravvivere, menti alla tua famiglia per non farla soffrire in una certezza di una pena che alla fine ti ucciderà, ma quello che è più crudele è quando sono gli altri a mentirti, quando ti senti ripetere che "nessuno sconta l’ergastolo fino alla fine" e che ti basta "resistere e crederci e comportarti bene". Crederci! È quello che ti dicono gli operatori, mentono sapendo di mentire, o lo fanno in buona fede perché anche loro pensano e magari sono convinti che in un Paese civile come il nostro non esiste e mai potrà esistere una pena così lunga fino ad ucciderti? Diciotto tavoli di discussione si sono riuniti per discutere di carcere, di esecuzione della pena. "Stati Generali". Discutono delle nostre vite. Cosa ne verrà fuori? Temo nulla per noi dell’Alta Sicurezza, saremo fortunati se non peggioreranno le leggi ed i trattamenti nei nostri confronti, siamo, e non ci stancheremo di ripeterlo, quella fascia sacrificabile non per un bene comune, perché se davvero si indagasse si scoprirebbe che la maggior parte di queste persone che vengono sacrificate senza un pizzico di vergogna, oggi sono persone del tutto diverse e hanno smesso di meritarsi questo trattamento. Potrebbero perfino essere utili alla società più di quanto potreste pensare. Purtroppo si preferisce abbandonarli al destino che è stato riservato loro. Le ore, i giorni, i mesi, gli anni, decenni dopo decenni, scorrono in una totale inutilità, si arriva a rassegnarsi e in quella rassegnazione subentrano due aspetti comportamentali: la decisione di porre fine alla propria vita e il totale alienarsi. La prima, forse, in tutta la sua crudeltà, è di sicuro la più coerente, la seconda, invece, ti porta ad una spersonalizzazione più o meno totale, ti porta alla convinzione che tutto il male che ti viene fatto è qualcosa che ti meriti (non si riferisce solo alla carcerazione in sé) e ti abbandoni nella totale apatia. Non reagisci, non cerchi nessun modo per svincolarti da questa morsa, lasci che le tue giornate diventino una ripetizione, una identica all’altra, persino nelle più insignificanti azioni. Ma cosa pensi quando la sera nella tua cella rimani solo con te stesso? Nulla! Il vuoto totale. Se pensi a qualcosa, pensi al giorno dopo e a tutte le cose che dovrai fare, cioè, quello che hai già fatto tutti i giorni delle tua vita trascorsa in carcere. Un inutile scorrere del tempo riempie le tue giornate, attendi ciò che in realtà non si potrà mai realizzare, questa attesa non è speranza, è soltanto illusione creata dal tuo cervello, dalla tua mente, per poter sopravvivere per non lasciarti cadere in quella realtà che potrebbe ucciderti in qualsiasi momento; ma per quanto tempo potrai ingannare la realtà? Una inutile illusione invade le nostre vite e, illusione dopo illusione, lentamente le strangola. Se cadi da un palazzo di cento piani ne hai novantanove per dire "fin qui tutto bene, fin qui tutto bene", ma se cadi in un pozzo senza fine puoi ripeterlo all’infinito quel "fin qui tutto bene", per noi non ci sarà mai quell’ultimo piano che porrà fine alle nostre false speranze. Un cadere senza fine ti uccide già nel momento in cui cadi, solo che non lo sai ancora. Alfredo Sole Sul reato di tortura Italia peggio dell’Egitto, così l’Europa ci punirà di Carmine Gazzanni lanotiziagiornale.it, 9 febbraio 2016 A nulla è servita la sentenza Diaz. Da 5 mesi il testo è fermo al Senato. Obiettivo: non approvare il testo sul reato di tortura. Checché ne dicano i nostri politici, non c’è alcuna intenzione di colmare il pesante vuoto normativo del nostro codice penale. Nonostante i continui moniti di Bruxelles e nonostante la Corte europea dei diritti dell’uomo già ci abbia condannato, dopo gli scandalosi fatti del G8 di Genova. Ma come? - potrebbe dire qualcuno - e tutti quegli annunci fatti dai nostri onorevoli proprio all’indomani della sentenza Diaz? D’altronde proprio il nostro Matteo Renzi aveva commentato quella condanna, sottolineando che "se vogliamo affrontare quella pagina nera, la prima cosa da fare è introdurre subito il reato di tortura". Detto fatto: due giorni dopo, la Camera licenzia il testo che arriva dritto dritto in Senato. Dove, però, si schianta e muore. Mentre, infatti, in Aula si discute (finalmente) di unioni civili, da aprile poco (o nulla) è stato fatto per quanto riguarda l’introduzione del reato di tortura. È lo stesso Patrizio Gonnella dell’associazione Antigone a sottolineare che l’obiettivo, malcelato, è quello di "spedire il testo in soffitta di modo che non se ne parli più". Sono le tempistiche a dirlo chiaramente: da aprile, solo a settembre il testo è approdato dalla Commissione Giustizia in Aula. E da allora? Tutto tace. Dopo essere stato annunciato il 9 settembre, infatti, è calato il silenzio. Non si è mossa una foglia, per oltre 5 mesi. Insomma, quello che pare è proprio che, spenti i riflettori della sentenza europea, qualcuno abbia voluto far calare il sipario sul reato di tortura. Tutto questo nonostante l’Italia sia in ritardo non di mesi, ma di anni. E, nel concreto, di ben 30 anni: era il 1984 quando infatti veniva approvata la Convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura, appunto, sottoscritta dal nostro Paese quattro anni dopo. Ma non è tutto. Perché per non correre alcun rischio, nelle poche sedute in cui i senatori si sono visti, si è pensato bene anche di stravolgere il senso del ddl. Con la conseguenza che, se oggi il testo diventasse legge, punire un agente per tortura sarebbe praticamente impossibile. Tutto "grazie" a piccole insospettabili modifiche, come l’inserimento del plurale al posto del singolare alla parola "violenza", cosa che comporta, dunque, che per essere accertata la tortura, deve essere compiuta più volte, reiterata. Altamente improbabile, ovviamente. Intanto, però, da Strasburgo potrebbero arrivare presto nuove condanne per violazione dei diritti umani e maltrattamento dei detenuti. Davanti alla Corte dei diritti dell’uomo, infatti, come si legge nell’ultima relazione del dipartimento per le Politiche Europee, risultano depositati "ulteriori affari" che "aggravano il quadro delle possibili, future condanne a carico dell’Italia". Parliamo di casi in cui è emerso un "uso sproporzionato della forza da parte delle forze dell’ordine nei confronti di persone sottoposte a restrizione e mancanza di indagine effettiva". Tra i vari procedimenti, ad esempio, c’è il "caso Saba". Siamo nel 2000, nel carcere di Sassari. In occasione di un’operazione di perquisizione generale, si registrarono episodi di violenza fisica e morale nei confronti dei detenuti. Le indagini che seguirono portarono alla richiesta di rinvio a giudizio per ben 90 agenti della polizia penitenziaria. Ma, ovviamente, nessuno ha mai pagato per tortura. E, nella maggior parte dei casi, è addirittura scattata la prescrizione. Amen. Severino, una legge assurdamente manettara di Marco Bertoncini Italia Oggi, 9 febbraio 2016 Fra l’altro essa non vale per parlamentari nazionali. La reazione contraria al permanere della legge Severino si è limitata a qualche commento su giornali di centro-destra. Per il resto, ha dominato il consueto giustizialismo. Così, l’assoluzione di Vincenzo De Luca con formula piena è passata facendo convergere l’attenzione quasi esclusivamente sul fatto in sé, che sottrae il destino del battagliero presidente della Campania all’eventuale incostituzionalità, sulla quale si pronuncerà palazzo della Consulta. È difficile, del resto, pensare che possa emergere un po’ di ragionevolezza, di garantismo, di rispetto per i diritti, in un’Italia in cui fra i politici più popolari figura il grillino Luigi Di Maio, dichiarato assertore di sbrigative decadenze da cariche pubbliche anche per semplici indagati, mentre un editoriale del Fatto Quotidiano si distingue per l’eloquente titolo: "Elogio delle manette". Le norme che vanno sotto il nome dell’allora ministra della Giustizia (governo Monti) Paola Severino furono approvate in un momento di pesante riprovazione della pubblica opinione verso i partiti, le malversazioni, lo sfruttamento di fondi pubblici. Il Pdl, per esempio, era azzoppato, per non dire travolto, dal caso del consigliere Franco Fiorito con le sue spese facili nella regione Lazio. Non solo non fu imposto un fermo in sede politica (il governo tecnico si reggeva con i voti determinanti del centro-destra), ma i parlamentari berlusconiani espressero parere favorevole allo schema di decreto legislativo. Il caso De Luca ha rivelato pesanti inadeguatezze e limiti delle norme della Severino. Condannato in primo grado, il presidente campano avrebbe dovuto lasciare temporaneamente l’incarico, se la sospensione non fosse stata bloccata in attesa della pronuncia della Corte costituzionale. L’odierna assoluzione conferma come non sia fondato privare un eletto della carica (sia pure a tempo), quando manchi una sentenza definitiva. Fra l’altro, la disposizione non vale per i parlamentari nazionali: infatti Silvio Berlusconi, finora unico decaduto fra Montecitorio e palazzo Madama, pativa una condanna passata in giudicato. La presunzione d’innocenza non viene applicata, così da sospendere amministratori regionali e locali e da conferire effetti esecutivi a sentenze non definitive. Beninteso, la disposizione risponde a un clima antipolitico e manettaro. Eppure, anche da esponenti del Pd sono più volte arrivati auspici per modifiche che riportassero la legge al rispetto di princìpi che dovrebbero trovare sempre accoglimento, come appunto la presunzione d’innocenza. Politici demonizzati, ma erano innocenti di Carlo Valentini Italia Oggi, 9 febbraio 2016 Candidarlo o no? Alla fine Vincenzo De Luca è riuscito a diventare governatore della Campania. Ma è stato più volte sul punto di essere sopraffatto dagli eventi giudiziari poiché la procura lo accusava di abuso di ufficio per la nomina di un project manager nella vicenda della costruzione del termovalorizzatore di Salerno. In primo grado era stato condannato a un anno (con la spada di Damocle della legge Severino), al processo d’appello, nei giorni scorsi, è stato assolto "perché il fatto non sussiste". Quindi: innocente. Ma è stato a un passo dal rimetterci la carriera politica. Non si tratta di essere innocentisti o colpevolisti a priori, sport per altro assai diffuso. Ma semplicemente registriamo la volatilità di una giustizia che passa senza colpo ferire da una condanna che può cambiare la vita di un uomo a un’assoluzione con formula piena. Chi s’è dimesso in seguito ai guai giudiziari è il presidente della Regione Emilia Romagna, Vasco Errani. L’accusa: avere fornito informazioni fuorvianti a un magistrato che indagava sul finanziamento elargito a una coop agricola gestita dal fratello. In primo grado è assolto perché il fatto non sussiste, in appello tutto si ribalta e viene condannato a un anno di reclusione (e si dimette), poi è il turno della Cassazione, che decide che "non c’è alcuna prova che ci fu dolo" e annulla la condanna. Una schizofrenia giudiziaria colpevole di un terremoto politico, con le elezioni anticipate e l’ex presidente sotto le macerie fumanti. Possibile che la giustizia sia talmente discrezionale da decidere all’opposto? Un altro esempio? Quattro politici calabresi (Nicola Adamo, Franco Morelli, Dionisio Gallo, Ennio Morrone) hanno avuto la carriera politica offuscata, imputati nell’ambito di un processo su presunti illeciti nella gestione di fondi pubblici. Sono rimasti alcuni anni sulla graticola, in questi giorni è arrivata la sentenza di primo grado: assolti per non aver commesso il fatto. È vero che la classe politica ha fatto e sta facendo di tutto per essere additata alla pubblica riprovazione e quindi spezzare una lancia a favore può essere impopolare. Ma se da un lato la magistratura, quando occorre, dev’essere inflessibile, dall’altro lato eviti coup de théâtre che possono annientare un politico e poi finiscono nel nulla. Depenalizzazioni: guida senza patente con rischio impunità per chi è recidivo di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2016 Le depenalizzazioni non portano bene al Codice della strada: troppe incongruenze e problemi applicativi, tanto che il legislatore si è rimangiato praticamente tutte quelle dell’ultimo quindicennio. Non si può prevedere che ne sarà della depenalizzazione di oggi, che riguarda la guida senza patente. Ma di sicuro le incongruenze non mancano nemmeno qui. Con due conseguenze: calo di deterrenza rispetto al regime precedente e rischio di lasciare sostanzialmente impuniti i casi più gravi, cioè quelli che riguardano i recidivi. Il calo di deterrenza viene dal fatto che, per scelta o per disattenzione, il legislatore ha lasciato ai trasgressori la possibilità di pagare solo il minimo della sanzione amministrativa e addirittura, salvo un caso particolare, anche con lo sconto del 30% normalmente previsto per chi effettua il versamento entro cinque giorni. Sono possibilità che contraddicono un principio fondamentale delle depenalizzazioni: inasprire le sanzioni pecuniarie per non perdere deterrenza. Basta confrontare il regime vecchio col nuovo. Nel primo, c’era un’ammenda da 2.257 a 9.032 euro e l’importo era fissato dal giudice secondo il caso singolo. Nel secondo c’è una sanzione amministrativa da 5mila a 30mila euro. A prima vista, un notevole rincaro. Ma si applicano le regole generali sulle sanzioni amministrative sancite dal Codice della strada: per l’articolo 202, chi paga entro 60 giorni ha diritto a farlo "in misura ridotta", cioè a cavarsela col minimo, e, se lo fa entro cinque giorni per un’infrazione che non comporta confisca del veicolo o sospensione della patente, il minimo si riduce del 30 per cento. Questi benefici non spettano solo per un limitato numero di infrazioni, elencate dai commi 3 e 3-bis dello stesso articolo. Tra esse la guida senza patente non c’era, né è stata aggiunta ora a seguito della depenalizzazione. Così la maggior parte dei trasgressori potrà cavarsela pagando "solo" il minimo scontato, cioè 3.500 euro. Una cifra non distante dai 2.257 euro minimi previsti dal vecchio regime penale, cui peraltro vanno aggiunte le spese relative al processo che si subiva. Quanto al rischio di impunità per i casi più gravi, tutto nasce dal fatto che la depenalizzazione non riguarda i recidivi, cioè chi viene colto a guidare senza patente per due volte in un biennio (e solo per le infrazioni commesse da oggi, ha chiarito il ministero dell’Interno con la circolare 300/A/852/16/109/33/1 di ieri l’altro). Ciò comporta due problemi, evidenziati dalla relazione III/01//2016, resa il 2 febbraio dall’Ufficio del massimario della Cassazione. Il primo è che il biennio, in materia penale, si conta non dalla data in cui il reato è stato commesso la prima volta, ma da quello in cui la relativa condanna passa in giudicato. Ma, ora che la prima infrazione è depenalizzata, la condanna non c’è. Quindi, a meno di modifiche normative o interpretazioni ministeriali, la recidiva è di fatto inapplicabile. Il secondo rischio è legato al fatto che in campo penale ora c’è il principio della non punibilità per tenuità del fatto. La guida senza patente è sempre stata ritenuta dai giudici un reato lieve, quindi è prevedibile che la tenuità sia riconosciuta molto spesso. Col risultato di non punire i recidivi, mentre chi viene colto senza patente solo per una volta deve pagare migliaia di euro in sanzioni amministrative. Quella pattuglia di pm senza capo che indaga su mafia e antimafia di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 9 febbraio 2016 Dalle stragi del 1992 all’inchiesta sul presidente di Confindustria Montante: la Procura di Caltanissetta tra emergenze e rischio chiusura. "L’ordinaria amministrazione" su "stidda" e boss. Con l’indagine sull’imprenditore Antonello Montante, il presidente di Confindustria Sicilia accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, gli inquirenti sono entrati nel cuore dell’antimafia: accertamenti complessi su uno dei simboli della battaglia contro alla "dittatura del racket"; sospettato di fare il doppiogioco. Poi c’è l’inchiesta, ugualmente clamorosa, su un altro capitolo del contrasto giudiziario alle cosche: l’ipotesi di corruzione per i giudici di Palermo che confiscavano i beni sequestrati ai boss, la ex presidente Silvana Saguto e qualche suo collega. E ancora: circa 400 fascicoli che riguardano (come indagati o parti offese) magistrati del distretto palermitano, che richiedono attenzione e scrupolo nelle decisioni. "L’ordinaria amministrazione" sui reati comuni - Da ultimo, ma non certo per l’importanza, c’è "l’ordinaria amministrazione" sui reati comuni, la criminalità a Gela e la mafia: le tradizionali famiglie di Cosa nostra che governano il territorio suddiviso in quattro "mandamenti", alle quali si aggiungono gli "stiddari" che rispondono a regole proprie. Ma soprattutto, fra le inchieste di mafia, c’è il lavoro continuo sulle stragi del 1992 in cui morirono Giovanni Falcone e sua moglie (recentissimo l’ordine di arresto per il superlatitante Matteo Messina Denaro), Paolo Borsellino e gli agenti delle scorte. Indagini ancora aperte e dibattimenti da sostenere in aula. A parte gli imputati rinviati a giudizio, restano da svelare i misteri legati agli eventuali mandanti o concorrenti "esterni" (di recente rilanciati dal presidente del Senato Piero Grasso), che si sommano ai depistaggi che fecero condannare (per la strage di via D’Amelio) un certo numero di mafiosi innocenti; l’attentato fallito dell’Addaura contro Falcone nel 1989, con eventuali complicità nelle istituzioni, tanto da tirare in ballo il cosiddetto "mostro" legato ai servizi segreti che i magistrati palermitani stanno inseguendo per l’omicidio dell’agente di polizia Nino Agostino; un delitto che qualcuno ritiene collegato all’Addaura, e in tal caso sarebbe una nuova indagine da fare qui. Lari alla Procura generale - Tutta questa mole di lavoro - molto pesante per qualità, oltre che per quantità - grava su un piccolo ufficio giudiziario, la Procura di Caltanissetta, da sette mesi senza capo (il procuratore Sergio Lari è passato alla Procura generale, scoperta da un anno), due procuratori aggiunti (Lia Sava, attuale "reggente", e Gabriele Paci) e dieci sostituti (ma una è incinta, se n’è andata a ottobre e non si sa quando tornerà). Dunque in servizio c’è una pattuglia di 9 pubblici ministeri, su un organico di 16: poco più della metà. Di cui uno, la titolare dell’inchiesta sulla corruzione dei giudici, dall’estate scorsa lavora a tempo pieno su quel fascicolo (ha dovuto ascoltare oltre 100 testimoni), aveva chiesto e ottenuto il trasferimento a Palermo ma "per spirito di servizio" ha revocato la domanda. Di fronte a una simile emergenza, il pg Lari ha chiesto al Csm di procedere a due applicazioni extra-distrettuali, pm che dovrebbero arrivare da altre sedi per dare una mano ai colleghi. Ma soldi per gli incentivi non ce ne sono, dunque chi verrà dovrà decurtare dallo stipendio le spese per trasferte e la vita fuori sede. Il rischio di chiusura - Nel frattempo, a Roma è stato varato un piano per sopprimere il distretto di corte d’appello a Caltanissetta, da accorpare a Palermo, facendo così scomparire la Procura antimafia. In un territorio dove - ha ricordato Lari all’inaugurazione dell’anno giudiziario, di fronte al vice-presidente del Csm Legnini e al capo di gabinetto del ministero della Giustizia, Melillo - negli ultimi dieci anni sono state inquisite per mafia 9.320 persone, si gestiscono 130 pentiti e 50 detenuti sottoposti al carcere duro. Insieme alla Procura distrettuale chiuderebbero i battenti, denuncia Lari, importanti "presidi di legalità" come gli uffici della Dia, lo Sco della polizia e i Ros dei carabinieri. "Verrebbe meno - aggiunge il componente del Csm Piergiorgio Morosini - la giustizia di prossimità, importante pure per l’antimafia, con inquirenti presenti e attivi sul territorio". Che ora vanno avanti. Con molta fatica, ma vanno avanti. Giudici e divise contro il malaffare di Lionello Mancini Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2016 In questo primo scorcio di 2016, la casuale contemporaneità di alcuni fatti di cronaca con le cerimonie di apertura dell’Anno giudiziario e le relazioni diffuse da Direzione investigativa antimafia e Guardia di finanza offre lo spunto per misurare lo stato di salute del fronte che contrasta mafia e malaffare. Tra gli altri, un dato emerge con forza: dopo gli anni delle speranze, delle prese di posizioni pubbliche, del fiorire di aggregazioni civiche, l’iniziativa è sostanzialmente tornata nelle mani di toghe e divise. E per fortuna, perché nonostante alcune testimonianze di pur autorevole ottimismo ("L’antimafia scoppia di salute", ha scritto di recente il professor Nando dalla Chiesa) e qualche importante new entry come l’Anac (Autorità nazionale anticorruzione), un evidente stato di smarrimento prevale dopo la sequela di politici sospettati di voto di scambio, professionisti collusi, gli imprenditori-simbolo raggiunti da avvisi di garanzia, i casi di compromissione di amministratori pubblici, Cinquestelle compresi, fino alle diverse associazioni, Libera in testa, chiamate a rivedere il loro ruolo e il loro peso. Con la conseguenza che il racket minaccia e incendia come a Palermo e a Locri, senza che si inneschino risposte adeguate, perché lo smarrimento inceppa l’iniziativa e induce una silenziosa cautela. In questo scenario, provocano qualche brivido lungo la schiena gli attacchi sferrati da professionisti di grido (e di grida) a magistrati e giornalisti perché in combutta - in quanto corregionali - e animatori del circo mediatico-giudiziario che "trasforma dei modesti rubagalline in capibastone". Fa venire i brividi perché proprio a Roma, nelle stesse ore, il commissario prefettizio fa il suo dovere di sostituto sindaco, affrontando lo scandalo di centinaia di case del Comune affittate quasi gratis nel centro storico. Il nesso tra le invettive d’aula e lo scandalo delle case è profondo: una simile gestione della cosa pubblica crea cittadini acquattati nell’ombra per non perdere il privilegio creato da incuria e clientelismo alimentati da amministratori che anziché risolvere il problema lo manovrano e in questo pantano hanno buon gioco i Carminati e i Buzzi nel comprare o minacciare alla bisogna. Altro che circo mediatico-giudiziario... Sia benvenuta, perciò, la continuità dell’azione repressiva illustrata nei discorsi inaugurali dell’Anno giudiziario che, da Torino a Palermo, hanno fornito un quadro d’insieme dei processi avviati o conclusi sulla mafia, colpita nelle sue regioni di radicamento storico, ma anche disvelata dietro le maschere che indossa per allargarsi a Regioni e ambiti che si credevano immuni. Anche il reato di corruzione (per il quale "non esistono vittime ma solo complici", come è stato efficacemente sintetizzato da Cantone), quest’anno ha occupato un posto centrale negli allarmi dei Procuratori generali: nessuna latitudine del Paese è stata risparmiata dalla denuncia per la diffusione di questo delitto, così nocivo per l’Italia anche se, come è ovvio, alla crescita del dato statistico corrisponde non solo un indubbio aumento del fenomeno, ma anche a l’accresciuta attenzione giudiziaria per segnali non sempre colti in passato. La stessa percezione di proficua attività si coglie nelle relazioni della Dia e delle Fiamme Gialle, relativamente all’analisi e agli interventi operati su evasione fiscale, infiltrazione della pubblica amministrazione, riciclaggio, usura, controlli nei cantieri. Quanto alla capacità di autocorreggersi, sempre sottovalutata nel percorso verso una maggior credibilità ed efficacia, fanno ben sperare i segnali di un più deciso ricorso all’intervento disciplinare e di Procure meno esitanti a inquisire anche i colleghi dei distretti su cui hanno competenza. Dagli ermellini, infatti, si sono (finalmente) ascoltate parole esplicite di condanna e rammarico per le carenze deontologiche ascrivibili a singoli colleghi e a interi uffici. L’iscrizione illecita nel registro degli indagati di un pubblico ufficiale è in sé causa di danno di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2016 Corte di Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 8 febbraio 2016 n. 4973. L’iscrizione nel registro notizie di reato è di per sé un danno in particolare se la persona segnalata al pubblico ministero è un pubblico ufficiale. A maggior ragione se la segnalazione deriva da un atto illecito di altro pubblico ufficiale che ha commesso il reato di abuso d’ufficio per non essersi astenuto in presenza di un interesse proprio. Così la Corte di cassazione, con la sentenza n. 4973/16 depositata ieri, ha respinto come inammissibile il ricorso di un ufficiale di polizia giudiziaria che nel suo ruolo di tecnico dell’unità della sicurezza lavoro di una Asl aveva inviato prescrizioni e segnalazione alla procura per rilievi contro il direttore dell’Azienda sanitaria e altri due responsabili. Abuso d’ufficio - I rilievi contenuti nelle prescrizioni mettevano in luce inadempimenti dei responsabili del servizio sicurezza, ma soprattutto la violazione del supposto obbligo di affidare al "denunciante" mansioni compatibili con le sue capacità e competenze tecnico-professionali. Da qui è scatta l’imputazione per abuso d’ufficio confermata in entrambi i gradi di giudizio e la condanna al risarcimento dei danni tre dipendenti pubblici. Infatti, in base all’articolo 323 del Codice penale si commette reato di abuso d’ufficio ogni qualvolta si adottano atti o condotte omissive da parte del pubblico ufficiale che si trovi in situazione di conflitto d’interessi con il proprio operato. Secondo la Cassazione in questa fattispecie si può parlare più che altro di un’inosservanza del dovere di astenersi come indirettamente prescritto dalla norma penale. Obbligo di risarcimento - Sulla contestazione di essere stato causa del danno causato alle parti civili il ricorrente ha affermato la propria estraneità rinvenendo solo il proprio adempimento al dovere di segnalazione per la mancata adozione di tutte le necessarie misure di sicurezza sul luogo di lavoro. Ma soprattutto nel ricorso si legge che l’azione penale è una "scelta" del pubblico ministero e non un’automatica conseguenza della notitia criminis inviata alla procura. Mentre in base all’articolo 335 del Codice di procedura penale l’iscrizione sul registro di notizie di reato è atto dovuto da parte del pubblico ministero che riceve la notizia. Niente porto d’armi per chi frequenta pregiudicati di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2016 Tar Campania - Napoli - Sezione V - Sentenza 27 novembre 2015 n. 5517. L’assidua e non occasionale frequentazione di soggetti pregiudicati o con precedenti di polizia rappresenta una circostanza che vale di per sé ad escludere la piena affidabilità del soggetto che chiede di essere autorizzato al porto delle armi e a giustificare il diniego di rilascio dello stesso. Lo ha affermato il Tar di Napoli nella sentenza 5517/2015. Il caso - All’origine della vicenda vi è la richiesta di rinnovo della licenza di porto di fucile a uso caccia presentata da un uomo alla Questura di Caserta. Nel contesto della relativa istruttoria amministrativa, a seguito di accertamenti effettuati sulla persona del richiedente, era emerso che costui, residente in Toscana, nell’arco di ben quattro anni era stato diverse volte controllato dalle Forze dell’ordine mentre era in compagnia di altri cinque persone gravate da numerosi precedenti penali, tra cui alcuni specifici reati in materia di armi e altri reati di particolare allarme sociale, come minaccia, furto, danneggiamento e ad anche abuso dei mezzi di correzione e maltrattamenti in famiglia. Di conseguenza, il richiedente veniva considerato soggetto poco affidabile e perciò la richiesta di rinnovo veniva rigettata e veniva altresì revocata la diversa licenza di porto di fucile a uso sport precedentemente rilasciata. L’uomo impugnava il provvedimento della Questura dinanzi al Tar lamentando in sostanza un difetto di istruttoria e motivazione, in quanto la decisione era stata presa sulla base di una presunta frequentazione con persone pregiudicate, "in assenza di specifica indicazione dei nominativi dei soggetti nonché della occasionalità o meno degli incontri". Le motivazioni - Il Tar non accoglie il ricorso e ritiene pienamente legittimo il provvedimento della Questura. Ebbene, per i giudici, il numero delle persone frequentate e la gravità e varietà dei reati a queste contestati, fa apparire "secondo un giudizio di alta probabilità prognostica, il cd. id quod plerumque accidit, altamente improbabile che il ricorrente non fosse a conoscenza dei trascorsi delle persone con cui condivideva il proprio tempo libero, con ciò accettandone anche il modus vivendi palesemente contrario alle regole di civile convivenza". Ciò posto, il Collegio ricorda che la disciplina delle autorizzazioni al porto di armi è volta a prevenire i sinistri che possano verificarsi per effetto di un uso improprio delle stesse e non a sanzionare gli eventuali illeciti commessi. Inoltre, i provvedimenti della Questura in merito sono caratterizzati da tratti significativi di discrezionalità e fondati su un "giudizio prognostico di non abuso delle armi da parte del titolare, che può essere basato su elementi anche soltanto di carattere indiziario", il cui vaglio giurisdizionale è poi limitato ad una valutazione sulla irrazionalità o arbitrarietà della decisione. Pertanto, la frequentazione di persone pregiudicate ben può essere valutata come circostanza che porta ad escludere l’affidabilità del soggetto sul corretto utilizzo delle armi, potendo in astratto costituire un pericolo per l’incolumità e per l’ordine pubblico. E tale inaffidabilità giustifica il mancato rilascio del porto d’armi o il diniego del suo rinnovo. Data di deposito? Vale solo il telematico di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sentenza 5043/2016. Esclusa la remissione nei termini per impugnare la sentenza, se la parte è venuta a conoscenza in ritardo del verdetto perché ha guardato solo il registro cartaceo e non quello telematico. La Corte di cassazione, con la sentenza 5043, segna in rosso l’errore del ricorrente che si era accorto con due anni di ritardo dell’esisto sfavorevole del giudizio pur avendo "diligentemente" consultato tutti i mesi il registro cartaceo modello 30, mentre il deposito era avvenuto a sua insaputa per via telematica. La Suprema corte ricorda che il Decreto ministeriale del 27 aprile 2009 ha fissato (in sostituzione del Dm 24 maggio 2001) le nuove regole procedurali per i registri informatizzati tenuti dalle cancellerie o dalle segreterie presso gli uffici giudiziari, previsti dall’articolo 1 del decreto ministeriale 264/2000. Con l’emanazione del decreto si è dato il via al Sistema informativo della cognizione penale (Sicp) e da allora non è più consentita la tenuta dei registri in forma cartacea ormai integralmente gestiti in via informatica dal sistema. Nel caso esaminato la cancelleria aveva reso noto, con dei cartelli, che la vecchia carta, pur non essendo stata formalmente abolita restava solo ad uso interno, mentre il deposito delle sentenze veniva annotato solo sul nuovo registro generale modello 16 informatizzato. Per questo, secondo i giudici, doveva essere attribuita solo alla parte la responsabilità di aver "perso" il deposito. Il diretto interessato non aveva tenuto conto né delle innovazioni né degli avvisi e neppure risultava che avesse chiesto informazioni orali alla cancellaria ottenendo una risposta sbagliata. Perché se così fosse stato avrebbe avuto la possibilità di avere un nuovo termine per impugnare "grazie" all’errata informazione che, comunque, andava rigorosamente provata. In un caso analogo però la Cassazione (sentenza 37850 del 2014), aveva affermato il diritto ad essere rimesso nei termini per un difensore tratto in inganno dal registro cartaceo. I giudici allora colsero una contraddizione tra l’affermazione che i registri erano notoriamente tenuti in vita solo ad uso interno e la possibilità concessa alle parti di consultarli. Il non aver impedito la visione al difensore era stato quindi equiparato ad un’errata informazione ricevuta dalla cancelleria: era così scattata la causa di forma maggiore che rimetteva in gioco il difensore per il ricorso. Ecco perché non mi piacciono le "storie maledette" di Franca Leosini di Francesco Lo Piccolo (Direttore di "Voci di dentro") huffingtonpost.it, 9 febbraio 2016 Non mi piacciono le "storie maledette" raccontate da Franca Leosini. Anzi, mi correggo: non mi piacciono le storie maledette raccontate da chicchessia. E non mi piace come la Tv, ma anche i giornali, lo stesso cinema e la stessa fotografia, mettono in mostra il cliché dei detenuti, del carcere, del cattivo di turno... Pentito-non pentito... Redento-dannato a vita. Sia che si racconti il carnefice e sia che si racconti la vittima penso che tutto questo venga inevitabilmente fatto per l’audience, per coltivare la pancia, per suscitare l’emotività del pubblico: pubblico da ammaestrare. Coscienti o non coscienti questo fanno oggi coloro che lavorano nel mondo dell’infotainment. Col risultato che alla fine della lezioncina vista in tv o letta sui quotidiani schiere di migliaia di nuovi giudici senza giudizio pur non sapendo nulla, hanno la presunzione di sapere, rafforzano pregiudizi di più antica data, scelgono "da che parte stare", assolvono o condannano. Ignorando una realtà che è ben più complessa di quanto si creda. Per questo ormai da anni vivo bene senza tv, talk show, telegiornali, scelgo con cura i quotidiani e i settimanali. E dico questo all’indomani delle polemiche suscitate dall’intervista a Luca Varani rinchiuso in carcere per aver fatto gettare dell’acido e sfigurare la sua ex fidanzata Lucia Annibali. Intervista che naturalmente non ho visto e non mi interessa in alcun modo vedere nemmeno in seguito. E lo dico anche grazie a un mio privilegio, quello di poter toccare con mano un pezzo di realtà, e cioè di poter entrare in carcere come volontario, e poter così incontrare i detenuti, conoscerli e tentare di costruire alternative e chance a partire dal nostro giornale ad esempio: strade diverse all’interno del carcere per un suo cambiamento, superamento, anche abolizione. Strade difficili, disseminate da errori, aggiustamenti, senza la presunzione di avere la soluzione a portata di mano. Un privilegio che in questi anni mi ha fatto vedere (e questa è l’unica certezza) che l’istituzione non funziona, cosa ormai assodata anche alla luce di un semplice fatto: sette detenuti su dieci una volta liberi tornano in carcere, in un carcere che non assolve in alcun modo alla sua funzione o al suo fine ultimo che secondo la Costituzione non è la punizione (in nessun modo, è bene ripeterlo, nonostante la cultura cancerogena che avanza e la voglia di rivalsa contro chi compie atti di violenza, contro chi uccide, truffa, ruba il prossimo) ma la rieducazione. Un privilegio che mi permette di conoscere ogni giorno qualcosa in più (e non è mai abbastanza) di questa istituzione totale e di come "lavora" o, meglio dire, di come modella i suoi abitanti. E così oggi mi sembra di poter dire che il detenuto, la persona detenuta perché condannata per un reato (quella che noi conosciamo appunto dai media, dai racconti, dalle immagini rigorosamente in bianco e nero, rigorosamente tra muri scrostati, sbarre, chiavi, letti a castello, degrado e tatuaggi) non è quella che è, ma è quella che è diventata, quella che si è formata e plasmata come detenuto proprio all’interno del carcere per poter resistere, per sopportare la pena, adattandosi al luogo, per necessità, per pura e semplice regola di sopravvivenza. Ed ecco allora le tendine alle finestre per coprire le sbarre, ecco la pena che viene accettata e vissuta anche in tutta la sua durezza (salvo le proteste per la dignità violata). Io parlo con le persone detenute e spesso mi scontro... Parlo di diritti (sono uno dei candidati al bando della Regione Abruzzo per la nomina del garante dei diritti regionale), diritti dei detenuti ma anche degli altri che sono stati da loro offesi... E parlando con i detenuti spesso emerge tra loro l’idea che il carcere, la pena che patiscono dentro le celle, lontano dai loro affetti è di per se stessa compensativa del male compiuto. Al punto che il male diventa solo reato per il quale si paga il debito con la giustizia... Ecco la galera... Bella invenzione davvero! "Me la faccio la galera... Il conto è saldato... Il debito... La colpa non c’è più". Non tutti certo ragionano così... Ma ragionare così è più facile... Altro che carcere come rieducazione. Al contrario, direi che il carcere oggi non permette affatto la rieducazione. E quel bisogno di riscatto dalla colpa del quale hanno scritto tra gli altri Hegel, Ralph Waldo Emerson, Dostoevskij, quel correre verso il riconoscimento-purificazione-responsabilità in realtà oggi è quasi negato. Negato dal carcere in primis oltre che dai suoi abitanti. Negato dalla società alla quale basta la punizione... Fine a se stessa. Negato dai semplicismi, dalle facili ricette del consumismo mediatico. Insomma è più comodo. Ecco perché non mi piacciono le storie maledette. Perché nascondono invece che rivelare. Al pari di quelle foto in bianco e nero, dei detenuti con i tatuaggi... Cose non persone. Cose come forse siamo diventati o stiamo diventando un po’ tutti. Persone in pasto all’infotainment. Magistratura, è l’ora delle donne di Andrea Orlando La Stampa, 9 febbraio 2016 Caro Direttore, ci sono giorni in cui un anniversario torna a caricarsi di un significato speciale: oggi è forse uno di questi. Il 9 febbraio 1963 il Parlamento, sotto la spinta della Corte costituzionale, approvava la legge sulla la parità fra i sessi negli uffici pubblici e nelle libere professioni. Era una legge che in poche e semplici parole affermava un principio fondamentale: "La donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera". Eppure, si dovettero aspettare 15 anni dall’entrata in vigore della Costituzione e 18 dall’introduzione del suffragio universale. A distanza di 53 anni, qualche giorno fa la relazione del Procuratore Generale della Cassazione ci informava che il rapporto uomo/donna tra i magistrati in servizio, pur nella sostanziale parità, si è ribaltato a favore delle donne. La notizia, di grandissima rilevanza, non è sfuggita al vostro giornale - e di questo la ringrazio - e alla stampa internazionale, che grazie al "Guardian" se ne è occupata. L’articolo di Grignetti, fra l’altro, richiamava anche, a paradossale conferma del peso delle donne in magistratura, un caso negativo che coinvolge una giudice indagata per abusi nella gestione dei beni confiscati alla mafia: mi piace ricordare che nella difficile indagine condotta a Caltanissetta è impegnata tutta l’intelligenza di una giovane donna pubblico ministero. Non è ancora tempo di celebrazioni. Se ci sono voluti oltre cinquant’anni da quando otto donne vinsero il primo concorso in magistratura, ancora ce ne vuole per dare piena attuazione al principio affermato allora. Di quelle 8 donne, solo una è ancora in servizio e solo una ha avuto accesso alle più alte funzioni direttive: Maria Gabriella Luccioli, attualmente Presidente della prima sezione civile della Corte di Cassazione. Non devono però sfuggire gli sforzi degli ultimi tempi: su 252 incarichi direttivi e semi-direttivi, negli ultimi 15 mesi 68 sono stati assegnati a donne e proprio nei giorni scorsi quattro sono state chiamate alla guida di importanti uffici giudiziari. È il segno evidente che si sta rompendo il tetto di cristallo che per molto tempo ha impedito l’accesso delle donne ai vertici della magistratura. Ed è anche il frutto del lavoro, dello stimolo e dell’incitamento espresso dalle componenti femminili del Csm. Il mio augurio e il mio impegno è che in futuro sempre più donne possano condurre la battaglia nel Csm per colmare i divari ancora esistenti. Per questo la Commissione ministeriale che sta lavorando alla riforma della legge elettorale del Consiglio dovrà prevedere strumenti che favoriscano la parità di genere. Che non riguarda solo gli incarichi di vertice, ma anche una organizzazione del lavoro compatibile con tempi di vita e genitorialità diversi tra uomini e donne. E sono state spesso le donne, nel corso di questo mezzo secolo, ad affrontare e farsi carico di delicatissime questioni su diritto di famiglia, minori, tutela di "nuovi" diritti, con grande equilibrio tra rigore e comprensione del "caso concreto". una giustizia che guarda in faccia l’evoluzione della società, regolando con il diritto i suoi mutamenti D’altronde da sempre la giustizia è donna. Che sempre più spesso ha bisogno di abbassare la spada, perché i nodi in cui i generale e l’astratto si intrecciano con la vita delle persone noi richiedono tagli netti, ma l’intelligenza di mani pazienti in grade di sciogliere i grovigli. Garante dei detenuti. Mordeglia (Assistenti sociali): auguri a Palma, gli siamo accanto Agenparl, 9 febbraio 2016 "Salutiamo con grande favore la nomina del professor Mauro Palma a Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. La sua storia personale e il suo percorso professionale sono, a loro volta, la miglior garanzia perché, anche grazie all’attività che saprà svolgere, nel nostro Paese proceda con speditezza quel lungo e non facile cammino volto ad elevare, da un lato, l’attenzione di tutti sul tema delle carceri e, dall’altro, di accendere un faro e rimuovere quelle situazioni in cui la dignità delle persone oggetto di carcerazione o di privazione della libertà - in qualunque luogo ciò avvenga - non sia all’altezza del grado di civiltà che deve essere proprio di un grande Paese come il nostro. Così Silvana Mordeglia, presidente del Consiglio Nazionale degli Assistenti sociali. "Il tema dell’esecuzione penale è di estrema attualità - dice ancora - e di ciò la comunità professionale degli assistenti sociali - che fa della tutela dei diritti delle persone uno dei pilastri della propria attività - ne dà testimonianza quotidiana proprio con le azioni volte ad accelerare quel percorso riabilitativo ed educativo che la Carta indica essere il fine ultimo della pena". "Auguri e buon lavoro, allora, professor Palma. Sappia che gli assistenti sociali italiani sono al suo fianco per sostenerla in tutte quelle battaglie di civiltà attraverso le quali si garantisca la dignità di ciascuno non dimenticando mai che chi è soggetto ai provvedimenti penali è, prima di tutto, una persona", conclude Mordeglia. Toscana: l’Assessore Saccardi "basta con critiche infondate sull’Opg di Montelupo" Adnkronos, 9 febbraio 2016 "La Regione Toscana non è affatto inadempiente riguardo al superamento dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo, e le critiche che le vengono mosse sono infondate. Al contrario, la Regione sta facendo tutto quanto di sua competenza per favorire il superamento dell’Opg e la collocazione dei pazienti che ancora vi sono rimasti". L’assessore al diritto alla salute della Regione Toscana, Stefania Saccardi, risponde a quanti - per esempio Psichiatria Democratica e StopOpg - chiedono a gran voce il commissariamento della Regione per grave inadempienza a proposito della chiusura dell’Opg. "La Toscana - dice Stefania Saccardi - ha favorito con evidenza incontrovertibile tutti gli interventi possibili, diretti a sostenere le misure alternative alla detenzione, orientando prioritariamente le proprie scelte verso la de-istituzionalizzazione dei pazienti psichiatrici autori di reato e la prevenzione delle assegnazioni di misure detentive. Tutto questo non può essere definito inadempienza, né inerzia, né limitazione alle scelte di passaggio dall’Opg alla Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive, ndr)". "La Regione Toscana, considerata tra le Regioni inadempienti in quanto non ha provveduto alla immediata realizzazione della Rems, e non ha neppure fatto la scelta di trasformare in Residenza sanitaria l’Opg di Montelupo Fiorentino - chiarisce ancora l’assessore Saccardi -, ha scelto in primo luogo di favorire i percorsi territoriali terapeutico riabilitativi, e solo successivamente ha attivato la Rems a Volterra, con l’apertura di un primo reparto per 10 persone nel mese di dicembre 2015, al quale si andrà ad unire a breve un secondo reparto, consentendo la disponibilità complessiva di 28 posti entro la fine di febbraio 2016". La Rems, secondo il decreto legge 52/2014 convertito con modificazioni dalla legge 81/2014, costituisce una soluzione residuale, perché le nuove disposizioni privilegiano le misure alternative all’internamento e quelle relative alla pericolosità sociale. È importante sottolineare, ricorda la Regione, che la pericolosità sociale non può essere dichiarata, o confermata, solo perché la persona è emarginata, priva di sostegni economici o per la mancanza di condizioni esterne di tutela; in sostanza un paziente emarginato, abbandonato e senza casa, non può essere considerato, per questa ragione, socialmente pericoloso ed essere internato in Opg. Prendere in carico i pazienti non consiste nella mera collocazione di questi pazienti in una struttura sanitaria appositamente dedicata, ma presuppone una serie di interventi integrati di tipo sanitario e sociale, finalizzati alla cura e alla riabilitazione della persona stessa. Per questo motivo l’attenzione è stata fortemente concentrata sui percorsi di cura e riabilitazione individuali, per evitare l’internamento o comunque per limitarne la durata, orientando l’impegno sulla corretta presa in carico delle persone. I competenti servizi delle Aziende Usl hanno elaborato specifici programmi terapeutico riabilitativi individuali, finalizzati ad accompagnare le persone internate verso situazioni alternative, con tempistiche diverse in relazione ai bisogni individuali di cura e riabilitazione. Grazie anche a specifici finanziamenti sostenuti con risorse regionali e approvati con atti della Giunta regionale, tra il 2011 e il 2015 sono stati attivati 71 percorsi terapeutico-riabilitativi di dimissione per pazienti toscani presenti in Opg. I 71 percorsi di dimissione attivati sono stati diretti per il 73% in comunità terapeutiche psichiatriche, per il 9% in comunità terapeutiche per doppia diagnosi, il 14% in residenze sociali e il 4% al domicilio proprio o dei familiari. Per sostenere questi percorsi di dimissione, è stata assegnata alle Aziende Usl la somma di 1.801.544 euro, per l’attuazione dei percorsi individuali progettati dai Dipartimenti di salute mentale. A questi si aggiunge la somma di 1.902.280 euro, assegnata per il 2015 alle Aziende Usl 5, 7, 8 e 10 per il funzionamento delle strutture sanitarie intermedie dirette ad accogliere i pazienti psichiatrici, con misure di sicurezza alternative alla detenzione. Per sostenere l’integrazione e favorire le sinergie tra tutte le istituzioni coinvolte nel percorso di superamento dell’opg, sono stati inoltre promossi incontri istituzionali tra sistema sanitario regionale e Amministrazione penitenziaria, con la magistratura; sono stati inoltre realizzati percorsi formativi mirati e integrati diretti ai professionisti del SSR, dell’Amministrazione penitenziaria e Amministrazione giudiziaria. La Regione segnala infine, anche se la questione dovrebbe essere affrontata forse prima di ogni altra discussione, che tutte le risorse statali finalizzate e destinate alla Toscana per il superamento dell’opg (sia i fondi destinati agli investimenti, che quelli destinati alla spesa corrente) sono ad oggi ancora nelle casse statali, e quindi la Regione Toscana ha sostenuto gli interventi attivati con risorse proprie. I trasferimenti dei pazienti internati dall’Opg di Montelupo Fiorentino alla Rems di Volterra. In Toscana è stata attivata dal 1° dicembre 2015 la Rems a Volterra, con l’apertura di un primo reparto per 10 persone, al quale si sono aggiunti ulteriori 4 posti dal 1° febbraio 2016 e, a breve, si unirà un secondo reparto con altri 14 posti, consentendo la disponibilità complessiva di 28 posti entro la fine del corrente mese di febbraio 2016. Oltre all’accoglienza nella struttura, i pazienti accolti nella Rems sono seguiti attraverso appositi percorsi terapeutici socio-assistestenziali condivisi con i Servizi sanitari territorialmente competenti, coinvolgendo nel progetto complessivo anche l’Università degli studi di Pisa. Attualmente nella Rems di Volterra sono presenti 14 pazienti, 11 toscani e 3 umbri. La Regione fa presente che i trasferimenti programmati dal competente Servizio sanitario regionale sono concordati con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione penitenziaria; le assegnazioni sono effettuate dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, anche in considerazione delle misure di sicurezza emesse dai magistrati competenti. Ciò ha condizionato i trasferimenti programmati, limitando in parte l’ingresso in Rems di pazienti internati in opg individuati dal Servizio sanitario regionale e non ritenuti prioritari per il trasferimento dall’Amministrazione Penitenziaria. Presenze pazienti nell’Ospedale psichiatrico di Montelupo Fiorentino - Alla data del 5 febbraio 2016, risultano presenti in opg ancora 44 pazienti, di cui 24 toscani (21 con misure di sicurezza da Rems e 3 detenuti con misure detentive da istituto penitenziario). Toscana: Cisl analizza le difficoltà del passaggio dall’Opg alla Rems "una falsa riforma" gonews.it, 9 febbraio 2016 Tra poco più di un mese sarà scaduto da un anno (il 31 marzo 2015, già prorogato da 2 anni) il termine entro il quale gli OPG furono soppressi per legge e data dalla quale avrebbero dovuto essere trasferiti i Pazienti/Internati nella nuove Strutture: le Rems. Abbiamo spiegato e ri-spiegato quali erano le perplessità all’operazione e quali le preoccupazioni che avevamo e che oggi, alla luce di quanto accade, confermiamo ! Da allora si sono unite alle nostre segnalazioni e denunce anche Associazioni di vario tipo, ed in ultimo anche l’Ordine Professionale degli Infermieri tramite la loro Presidente. La finalità della Legge di Riforma, tanto esaltata da alcuni Politici, prevede che i Pazienti/Internati non avrebbero più dovuto restare negli OPG, ma le Rems avrebbero dovuto avere certi prioritarie garanzie di non assomigliare né ai vecchi manicomi né a strutture carcerarie. Invece la maggioranza di queste Strutture non solo non sono diverse da quanto non dovevano assomigliare (la più grande in Italia è quella di Castiglion delle Stiviere, dove il vecchio Opg è stato frazionato in 8 Rems, un po’ sull’esempio di come era il manicomio civile di San Salvi a Firenze, più padiglioni con "targhe identificative diverse tra i vari reparti") ma in taluni casi sono strutture anche più anguste. Non ci deve essere la presenza della Polizia Penitenziaria come vigilanza, ma poi serve presidiare le Strutture con Società di Vigilanza Privata (che chiaramente non ha portato risparmi) coinvolgendo le altre Forze di Polizia sui Territori - già Tutte con Organici ridotti da tempo - quando serve intervenire per fatti gravi che accadono al loro interno. E non bastasse questo, dato che la Politica ha fatto finta di avere realizzata una svolta epocale, in ogni regione il Ministero della Giustizia ha disposto tramite il Dap di creare nei carceri dei Reparti per Detenuti con problemi psichiatrici, così coloro i quali venivano mandati dalla Magistratura in Opg (magistratura che applicava ed applica il Codice Penale, che nessuno ha ancora modificato) non ci saranno più problemi nel decidere sui casi di soggetti con pericolosità sociale: li assegneranno al carcere con reparto idoneo invece che - come avveniva - all’OPG. Insomma una bella soluzione all’Italiana… fatta la legge trovato l’inganno. E così nessuno di quegli stessi Politici s’indigna più per questi Pazienti/Internati che stavano in OPG (un penitenziario con spiccate attività sanitarie) e che ora andranno invece alla REMS? No, quei casi di cui detto non andranno alle REMS, andranno in carcere. Nel frattempo a Montelupo Fiorentino, visto che siamo in Toscana e qui vari Politici, ad ogni livello, si sono dati molto da fare per chiudere l’OPG, rimangono "in carico circa 75 Pazienti/Internati, di cui circa 42 presenti nella Struttura dell’Ambrogiana ed altri 33 in Strutture esterne, ma in un "limbo" tra OPG e Rems; in poche parole alla prima "marachella non gestibile" si torna all’Ambrogiana. Un’altra dozzina di Internati sono invece stati assegnati alla REMS di Volterra che però, ad oggi. risulta già al completo dei posti. Infine esprimiamo solidarietà e vicinanza al Pres. Barbara Mangiacavalli dell’IPASVI, che ha denunciato quanti gravi episodi accadono nelle REMS, con aggressioni anche violente tra Pazienti/Internati e da parte di questi verso gli Operatori Sanitari, senza che nessuno si sia adeguatamente preoccupato della formazione necessaria al Personale per questo tipo di attività e senza riconoscere loro, neanche contrattualmente, un idoneo riconoscimento della specificità del lavoro nelle REMS. Anche noi per il Personale di Polizia Penitenziaria denunciamo la condizione in cui il Ministero ha lasciato questi Colleghi, in una indefinita attesa di quello che sarà, quando sarà, il loro futuro lavorativo dopo che l’OPG sarà davvero definitivamente senza più Internati da gestire. Ufficio stampa Cisl Toscana Il Segretario Generale Fabrizio Ciuffini Ancona: Malaigia (Regione) in visita al carcere di Barcaglione "l’organico è carente" vivereancona.it, 9 febbraio 2016 La Vicepresidente dell’Assemblea Legislativa delle Marche ha visitato questa mattina la Casa Circondariale Barcaglione accompagnata dal Garante dei detenuti e da altri esponenti istituzionali tra cui parlamentari e il presidente stesso del Consiglio Regionale. La struttura è aperta dal 2006, accoglie detenuti con posizione giuridica definitiva ed in custodia attenuata, ha una capienza di 196 detenuti ma attualmente ne sono presenti 109 e a quanto riportato dal comandante della Polizia Penitenziaria e dallo stesso Direttore, non ha mai avuto problemi di sovraffollamento, registrando in certi periodi anche una presenza di soli 30 detenuti. Il comandante della Polizia penitenziaria lamenta in ogni caso una grave carenza di organico, resa ancor più evidente in occasioni di emergenze sanitaria, in quanto se la gravità incorre dopo le 15,30 ( fascia oltre la quale non vi è più l’assistenza sanitaria interna) e richiede il trasporto in ospedale da parte del 118, gli Agenti per accompagnare il detenuto lasciano la struttura sorvegliata in alcuni casi anche solo da 3 agenti. La pianta organica prevede 20 unità di personale in più che purtroppo non vengono assegnati per mancanza di fondi, impegnando oltremodo gli Agenti in servizio a ricoprire più ruoli e in fasce orarie extra. I problemi complessivi oltre alla carenza di organico, sono l’insufficienza del numero degli educatori, e la mancanza di fondi senza i quali purtroppo non possono attivarsi validi percorsi formativi. Il problema è particolarmente grave, per ovvi motivi: i detenuti hanno pochi rapporti con il mondo esterno e la funzione degli Agenti e degli educatori è quindi particolarmente preziosa nel poter mettere in campo attività rivolte alla formazione e al reinserimento sociale e, nonostante l’apporto fondamentale di un grande e generoso lavoro dei volontari, non è possibile riuscire a rimediare alla carenza di figure istituzionali. È positiva la presenza di un progetto di "orto sociale" voluto dall’agronomo in servizio al Carcere e sostenuto con la volontà di volontari pensionati (il loro lavoro è continuo, quotidiano e sempre poco conosciuto all’esterno) che mettono a disposizione il loro tempo e la loro abilità professionale affinché il detenuto sia impegnato nelle ore diurne in un percorso conoscitivo e professionalizzante che potrà sfruttare una volta uscito nella ricerca di un lavoro ed evitando così anche la purtroppo alta possibilità di recidiva. Nel complesso, il Carcere di Barcaglione è senza dubbio una delle strutture carcerarie regionali più curata, con spazi comuni e celle ben organizzate; vi è in funzione una palestra, un campo da calcio e una fornita biblioteca. Spiace però verificare come anche in questa struttura "moderna" e capiente vi sia la mancanza di spazi adeguati per accogliere i minori, uno spazio che rappresenta invece un elemento essenziale anche del trattamento rieducativo. Il momento del colloquio in carcere è vissuto con sacralità: è l’evento più atteso e insostituibile, ma la visita al genitore in spazi solitamente freddi e anonimi può trasformarsi in un incubo, per i bambini, con il rischio di segnare negativamente la loro crescita. È quindi importante creare ambienti accoglienti dove i bambini possano non solo colloquiare con i genitori, ma anche ricreare in qualche modo delle situazioni di vita quotidiana disponendo sale d’attesa armoniche e attrezzate secondo i gusti dei bambini, con giochi e attrezzature a loro adeguate. È tuttavia in fase ideativa l’istituzione di uno spazio ludoteca, che sarà realizzato compatibilmente con i fondi erogati dalla Regione. Napoli: un "altro" carcere è possibile di Giancarlo M. Palombi Metropolis, 9 febbraio 2016 Il reparto "Verde" trasformato in Casa circondariale a sorveglianza dinamica. Rivoluzione a Poggioreale: celle aperte per 500 detenuti e palestre nei padiglioni. Un altro carcere è possibile. È questa la sensazione provata dalla delegazione guidata da Emilio Quintieri e composta da avvocati dell’associazione Giuristi Vesuviani che nella giornata di ieri ha compiuto un’ispezione nei penitenziari di Poggioreale e Secondigliano. L’impegno dei direttori degli istituti di pena e l’assidua vigilanza delle associazioni stanno portando a risultati importanti sul fronte del tema detentivo. "Abbiamo visitato i reparti di media e alta sorveglianza - ha spiegato Quintieri - e devo riconoscere che la situazione registrata è decisamente migliore rispetto al passato". Sono 1.928 i detenuti reclusi nella Casa circondariale di Poggioreale (a fronte dei 3.000 dell’ultimo censimento), detenuti che da fine mese potranno usufruire anche di nuove attività sportive. Si tratta di palestre in fase di allestimento previste per ogni reparto di ogni padiglione. In due casi, addirittura - i padiglioni Livorno e Firenze - le palestre sono già attive grazie a una donazione effettuata dalla Chiesa Valdese. Quanto al regime detentivo, Quintieri ha commentato con soddisfazione la presenza di 500 reclusi a cui è stata concessa la modalità di "regime aperto", ovvero celle con porte spalancate fino a sera. Novità importanti anche sul fronte Secondigliano. Qui la rivoluzione riguarda il cosiddetto "Reparto Verde". Cambia pelle l’ex ospedale psichiatrico giudiziario inglobato nella struttura di via Roma verso Scampia. Per la prima volta a Napoli nel penitenziario di Secondigliano sarà attiva una casa circondariale con sorveglianza dinamica. Più posti per i detenuti e minore impiego di personale della polizia penitenziaria. Sì, perché la struttura sarà interamente videosorvegliata con un solo agente addetto al monitoraggio delle telecamere nella cabina di regìa. Il tour ispettivo proseguirà anche nei prossimi giorni. Le visite - organizzate da Quintieri, esponente radicale calabrese, già membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani unitamente a Salvatore Del Giudice, avvocato e Presidente dell’Associazione Giovani Giuristi Vesuviani - su richiesta dell’onorevole Rita Bernardini, già Deputato ed ex Segretario Nazionale dei Radicali, sono state autorizzate dal Dirigente Generale Massimo De Pascalis, Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. A Poggioreale, al momento, a fronte di una capienza regolamentare di 1.640 posti, sono ristrette 1.928 persone, 289 delle quali straniere (288 in esubero); a Secondigliano, invece, a fronte di una capienza di 897 posti, sono detenuti 1.303 persone, 49 delle quali straniere (406 in esubero). "È importante che si parli di carcere e di riforma delle condizioni detentive. Ma è altrettanto importante che le istituzioni si interroghino sul reinserimento nella società degli ex detenuti per dare loro la possibilità di costruire un futuro lontano dal carcere" ha dichiarato Pietro Ioia, presidente del Movimento ex D.O.N. (ex detenuti organizzati napoletani). Parma: il carcere apre le porte all’Università parmadaily.it, 9 febbraio 2016 Gli Istituti penitenziari di Parma si aprono all’Università e alle scuole superiori, nell’ottica di una collaborazione virtuosa e di una piena integrazione fra realtà del territorio: lezioni universitarie e laboratori dentro il carcere, con il coinvolgimento di studenti e detenuti. È lo spirito di fondo di un progetto coordinato dalla Cooperativa sociale Sirio, da trent’anni anni impegnata nel reinserimento socio lavorativo e in attività educative - formative con e per i detenuti, in collaborazione con l’Ateneo, gli stessi Istituti penitenziari, i Licei "Albertina Sanvitale" (Liceo delle Scienze Umane) e "Paolo Toschi" (Liceo Artistico) e la redazione radiofonica "Non ci sto più dentro". L’iniziativa è stata presentata questa mattina nella Sala del Consiglio del Palazzo Centrale dell’Università di Parma. All’incontro sono intervenuti il Rettore Loris Borghi, la Presidente della Cooperativa Sociale Sirio Patrizia Bonardi, il Direttore degli Istituti Penitenziari di Parma Carlo Berdini, i docenti dell’Università di Parma Sergio Manghi e Vincenza Pellegrino, il Dirigente del Liceo delle Scienze Umane "Albertina Sanvitale" Andrea Grossi e il Dirigente del Liceo Artistico "Paolo Toschi" Roberto Pettenati. Due corsi universitari varcano le porte degli Istituti penitenziari di Parma: il corso di "Sociologia dei processi culturali e comunicativi" (Corso di laurea magistrale in Giornalismo e cultura editoriale), tenuto dal prof. Sergio Manghi, e il corso di "Politiche sociali" (Corso di laurea in Servizio sociale), tenuto dalla prof.ssa Vincenza Pellegrino. Tutor e facilitatore per la parte dei corsi nelle carceri cittadine sarà il dott. Giuseppe La Pietra, responsabile formazione della Cooperativa Sirio. Il corso di "Sociologia dei processi culturali e comunicativi" entra in carcere dal 15 febbraio al 15 marzo: per 5 settimane, una delle tre lezioni settimanali del corso (quella del lunedì) si terrà negli spazi degli Istituti penitenziari. Il tema sarà "Risentimento e riconciliazione. Dinamiche psichiche, sociali e culturali". I partecipanti saranno invitati a riflettere sulle dinamiche, micro e macrosociali insieme, che generano risentimento tra le persone nella società contemporanea: ci si confronterà sulle parole "risentimento" e "riconciliazione", a partire dalle esperienze dei partecipanti, e si lavorerà insieme a partire dal film "Lo straniero" di Luchino Visconti, tratto dall’omonimo libro di Albert Camus, che sarà proiettato in due incontri. Nell’iniziativa saranno coinvolti 18 studenti del corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e 15 detenuti (iscritti all’Università e non). Il corso di "Politiche sociali" partecipa invece al progetto "La manomissione delle parole. Laboratorio socio narrativo", che coinvolge gli studenti universitari, i detenuti e gli alunni dei Licei Sanvitale e Toschi e che è incentrato sul linguaggio: a partire dall’omonimo volume di Gianrico Carofiglio i partecipanti svolgeranno laboratori socio-narrativi sulle parole vergogna, giustizia, ribellione, bellezza, scelta. Per i ragazzi dell’Università e per quelli delle scuole ci sarà un lavoro rispettivamente in Ateneo e in classe, seguito poi da diversi incontri di confronto in carcere con i detenuti, che nel frattempo avranno sviluppato e svolto una loro attività laboratoriale. E grazie all’accordo di collaborazione didattica tra il corso di laurea in Servizio sociale e la Sirio, due studentesse parteciperanno al laboratorio interno al carcere con i detenuti, per poi realizzare la tesi di laurea sul tema. All’iniziativa parteciperanno tutti gli iscritti a Politiche sociali (80 studenti) per la parte esterna al carcere, mentre la parte di laboratorio che si svolgerà negli Istituti penitenziari coinvolgerà 15 studenti e 15 detenuti. Per gli alunni delle superiori si tratterà in primis di un percorso di conoscenza e formazione, per gli studenti di Politiche sociali di un’esperienza di stampo anche "professionalizzante": lavorare sul linguaggio è infatti molto importante per futuri operatori sociali che si troveranno davanti a mondi molto differenziati del disagio, con immaginari diversi, propri, specifici. Il progetto "La Manomissione delle parole. Laboratorio socio narrativo" e il laboratorio del corso di "Politiche sociali" saranno presentati con un incontro pubblico nell’Aula dei Filosofi dell’Università lunedì 22 febbraio alle ore 17: ospite d’eccezione sarà proprio Gianrico Carofiglio, che arriverà in Ateneo dopo avere incontrato in carcere i detenuti. Con lo scrittore interverranno il Rettore Loris Borghi, la Presidente della Cooperativa Sirio Patrizia Bonardi, il responsabile formazione della Sirio Giuseppe La Pietra e la Prof.ssa Vincenza Pellegrino. Gianrico Carofiglio converserà con il direttore di "Repubblica Parma", Antonio Mascolo, sul suo ultimo libro "Con parole precise. Breviario di scrittura civile". Un secondo appuntamento aperto al pubblico in Ateneo è previsto per l’8 marzo, sempre in Aula dei Filosofi, dalle ore 14.30 alle ore 17.30, con il seminario "La vita quotidiana dentro il carcere", cui interverranno Alvise Sbraccia, docente del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Bologna, Giuseppe La Pietra e un "esperto esperienziale" della Cooperativa Sirio. Pontedera (Pi): il Garante dei detenuti incontra gli studenti per la Festa della Toscana gonews.it, 9 febbraio 2016 Mercoledì 10 febbraio alle 9.30 presso la Sala Carpi di Via Valtriani Franco Corleone, Garante dei diritti dei detenuti della Toscana, incontrerà assieme all’Assessore all’Istruzione Liviana Canovai, gli studenti degli Istituti Superiori Liceo Scientifico XXV Aprile e Montale per discutere le condizioni di vita nelle carceri e riflettere sui concetti di pena e giustizia esaminando l’articolo 27 della Costituzione Italiana. L’incontro è una iniziativa che rientra nella attività promosse da questa Amministrazione legate alla Festa della Toscana 2015 che hanno preso avvio con la mostra Enti locali e loro identità. Palazzo Pretorio da carcere a luogo di cultura presso le carceri di Palazzo Pretorio e realizzata dagli studenti degli Istituti Superiori della città. La stagione di Pietro Leopoldo ha rappresentato un momento storico di grandi riforme, un balzo in avanti per i diritti civili, con l’abrogazione della pena di morte e della tortura, ma anche un periodo che ha lasciato il segno indelebile nell’organizzazione dei comuni contribuendo a fare crescere l’identità e l’autonomia degli enti locali, tratto distintivo della Toscana. La memoria del Granduca di Toscana deve servire a non dimenticare quale straordinaria vittoria civile sia stata l’abolizione della pena di morte, una forma di giustizia arroccata su radici barbare e medioevali la cui abolizione ha significato l’ingresso nell’era moderna. Con al mostra ed il convegno l’Amministrazione Comunale ha promosso e sostenuto un concetto etico fondamentale: Palazzo Pretorio da luogo di privazione della libertà personale a luogo della collettività. Un’importante metafora delle potenzialità delle carceri come luogo di crescita civile in un continuo lavoro di "rete" in cui si combina la necessità del quotidiano a luogo di incontro, per costruire un percorso di ricerca verso un progetto culturale di più ampio respiro e durata. Favignana (Tp): la Uil-pa contro la chiusura della base navale della Polizia penitenziaria trapaniok.it, 9 febbraio 2016 Appello ai senatori e ai deputati locali: "un presidio di legalità che deve rimanere". La Uil-pa Trapani si schiera contro la chiusura della base navale della polizia penitenziaria di Favignana, prevista in seguito alle disposizioni del ministero della Funzione Pubblica per la razionalizzazione delle forze dell’ordine. Il segretario generale della Uil-pa Trapani e coordinatore regionale Uil-pa Polizia Penitenziaria Gioacchino Veneziano a tal proposito fa appello con una nota ai senatori, ai deputati regionali del territorio e al sindaco di Favignana affinché possano interessarsi del caso. "A Favignana - afferma Veneziano - sono stati da poco spesi oltre 11 milioni di euro per la costruzione di un nuovo carcere. Il rischio di vedere cancellare una Forza dello Stato come la Base Navale della Polizia Penitenziaria, presente da oltre 31 anni, appare dunque paradossale. Significa davvero che la politica nemmeno immagina come vivono i cittadini di questa isola". Di qui la decisione del segretario Uil-pa: una presa di posizione forte contro la reale probabilità che la base navale della Polizia di Favignana con le sue due motovedette d’altura (la V.3 e la V.4),possa essere dismessa, togliendo un presidio di legalità nella maggior isola dell’arcipelago Eguseo. "La Polizia penitenziaria della navale - spiega Veneziano - ha come compito primario il pattugliamento adiacente il carcere, il trasposto rapido del personale per compiti istituzionali, il soccorso alla vita umana in mare e gli interventi sanitari di emergenza. La scelta del Ministero, dunque, andrebbe a cancellare di fatto una specialità del Corpo, determinando la scomparsa dell’Amministrazione Penitenziaria a Favignana, e soprattutto depennando la presenza dello Stato in una delle maggiori dell’arcipelago delle Egadi. Noi della Uil-pa Polizia Penitenziaria siamo convinti che la Base Navale deve rimanere in quanto presidio forte di sicurezza". Il presidio, ricorda poi il segretario Uilpa ha svolto un ruolo importante nei casi di sbarchi di immigrati nelle Egadi: "L’isola di Favignana si è rivelata molte volte punto di sbarco di migliaia di clandestini emigranti e le motovedette della Polizia Penitenziaria della Base Navale di Favignana hanno dato sempre l’apporto necessario per queste emergenze, ormai quasi quotidiane. Risultano, infine, all’attivo del personale della base navale che una centinaio di salvataggi in occasione di malori o incidenti sia in mare e terra. Chiudere la base navale di Favignana - conclude Veneziano - appare, dunque, un atto illogico e soprattutto irresponsabile. Coinvolgeremo la cittadinanza egadina nelle iniziative che metteremo in campo poiché a tutela della base stessa e dei suoi lavoratori". Lecce: Osapp "detenuto parcheggiato su una barella, agenti per ore in corridoio al Fazzi" di Ines De Marco ilpaesenuovo.it, 9 febbraio 2016 La denuncia di Osapp: "Direzione sanitaria ponga rimedio". "Detenuto visitato e parcheggiato su una barella, in balia della sorte. E personale della Penitenziaria in mezzo al corridoio a piantonare per ore". A denunciare quanto accaduto nella notte appena trascorsa nell’ospedale "Vito Fazzi" di Lecce è l’organizzazione sindacale Osapp, che chiede alle autorità competenti di porre rimedio a una situazione considerata "insicura e irrispettosa nei confronti degli agenti". L’episodio ha per protagonista un nigeriano con problemi psichici costretto a ricorrere alle cure mediche nel nosocomio leccese. All’1.30 con un’ambulanza del 118 è stato accompagnato al pronto soccorso, dove è giunto in uno stato di semi coscienza. A piantonarlo quattro poliziotti. Si legge nella nota: "Il detenuto dopo essere stato visitato è stato parcheggiato presso il locale di sosta temporanea riservato alla Polizia penitenziaria, luogo in cui l’extracomunitario è rimasto per tutta la sua degenza, letteralmente allocato su di una barella. In balia della sorte. Inoltre, il personale di Polizia, è stato costretto a sostare in mezzo al corridoio dove vi era un continuo via vai di persone che venivano sottoposte a controlli medici, senza nessun confort. Il personale è stato costretto a cercare sedie per potersi adagiare nel corridoio, vista la lunga permanenza diurna e notturna". Da qui la denuncia dell’Osapp: "Molto probabilmente qualcuno sta fraintendendo il ruolo degli agenti di polizia con quelli del personale paramedico infermieristico o cosiddetto Oss. In merito a quanto segnalato, si chiede di intervenire affinché la Direzione sanitaria del locale nosocomio ponga rimedio a quanto esposto al fine di poter espletare i servizi di traduzione e piantonamento nella massima sicurezza e nel rispetto delle persone sottoposte a cure nonché, del personale impiegato". L’Aquila: sicurezza in carcere, al via i sopralluoghi della Uil-Pa rete5.tv, 9 febbraio 2016 Il proposito di fare chiarezza sugli aspetti che vanno a riguardare le condizioni igienico sanitarie presenti nei vari ambiti penitenziari è stato uno dei punti tra i più discussi nella Direzione Nazionale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria tenutosi alla fine del mese di gennaio nella sala "Bruno Buozzi" presso la sede nazionale della Uil a Roma. "La Uil-Pa Polizia Penitenziaria Provinciale aquilana, pur non avendo mai abbandonato l’attivazione delle procedure volte a dirimere le tante cose che non vanno in materia di sicurezza e salubrità, porrà l’accento sulle questioni che seppur più volte denunciate non hanno mai avuto la risposta che ci si aspettava - spiega il vice segretario regionale Mauro Nardella - Gli istituti di pena aquilani, eccettuata La Casa Circondariale di Avezzano rimessa a nuovo proprio per via di una denuncia fatta a suo tempo dallo scrivente, che ne acclarava l’invivibilità pressoché assoluta degli ambienti di lavoro e che relegava lo stesso tra i penitenziari più da terzo mondo che da 7a potenza mondiale, presentano ancora molteplici disfunzioni da questo punto di vista. Tanto per cominciare non possiamo non sottolineare il fatto che seppur scaduto da anni, il mandato dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza non è stato ancora rinnovato. Questo succede a Sulmona così come crediamo stia succedendo nei restanti comparti provinciali (a tal proposito verranno entro subito interrogate le direzioni interessate). La mancanza di un punto di riferimento per i lavoratori mette gli stessi in grossa difficoltà nel momento in cui, seppur obbligati dalla legge a denunciare personalmente le disfunzioni riscontrabili in tutti i posti di servizio, non hanno chi rappresentarli dinanzi le varie istituzioni competenti. Con il venir meno degli RLS viene meno anche la presenza di personale formato, ovvero qualificato a recepire le doglianze o comunque a rendere edotti i lavoratori stessi degli approcci fatti in sede di richiesta di soluzioni delle problematiche. Proprio la mancanza di RLS a Sulmona, ad esempio, sta rendendo difficile capire alcune questioni prime tra tutte il motivo degli screening sanitari ai quali, in questi giorni, molti poliziotti penitenziarti sono stati chiamati a dover sottostare ma che ne gli addetti al servizio di prevenzione e protezione ne le OO.SS di categoria ne sono a conoscenza. Sempre a Sulmona, alldilà di un sopralluogo fatto dal medico competente, si sta aspettando ancora una risposta definitiva alle interrogazioni fatte circa la risoluzione di problematiche legate a presunti malesseri subentranti ogni qual volta viene prestato servizio presso la sala regia. In tutti gli istituti di Pena aquilani molto ancora si deve fare per eliminare del tutto la piaga del fumo passivo. A tal proposito a nulla sono serviti gli inviti avanzati dalla Uil-Pa Polizia Penitenziaria di creare sezioni detentive per fumatori ove far montare di servizio colleghi fumatori. Di questo e di molto altro ancora la Uil-Pa Polizia Penitenziaria se ne farà carico denunciandone le eventuali inadempienze nel decorso delle visite che la segreteria Nazionale, di concerto con quella regionale e locale, presto effettuerà in tutti gli istituti penitenziari abruzzesi". Forlì: detenuto evade dal carcere, ma la fuga dura poche ore La Repubblica, 9 febbraio 2016 Prima una colluttazione con un agente, poi viene catturato in una villa a poca distanza. "Voleva vedere mia madre in fin di vita". La fuga è durata una manciata di ore, poi il ritorno in cella. Un detenuto italiano (fine pena nel 2022) è fuggito dal carcere di Forlì per mezzo della "più classica delle evasioni", denunciano i sindacati della Penitenziaria, "scavalcando il muro mentre si trovava nel locale passeggi", ma si è scontrato con un agente "addetto alla vigilanza esterna del muro di cinta, con il quale ha avuto una colluttazione". Riuscito a divincolarsi, si è buttato dal muro di cinta, "da un’altezza di sei metri circa". Dato l’allarme, la Penitenziaria lo ha inseguito e rintracciato presto "in una villa nelle vicinanze dove si era nascosto". "Il detenuto ha riportato la frattura del perone e del ginocchio ed ha dichiarato che voleva andare a trovare la madre moribonda, anche se l’ordinamento, in questi casi, prevede la possibilità di richiedere un permesso all’autorità competente", ricordano i sindacati, che lamentano "una grave carenza strutturale" nell’istituto di Forlì "carente di mezzi ma soprattutto di uomini". Imperia: oggi un convegno sul tema "Il carcere tra diritto, realtà e arte" Riviera24.It, 9 febbraio 2016 Alle ore 9.30, nel Dipartimento di Giurisprudenza, in Aula Magna, si svolgerà il Convegno dal titolo "Il carcere tra diritto, realtà e arte". Il Convegno sarà presieduto dalla Prof.ssa Gloria Viarengo dell’Università di Genova e dal Prof. Giovanni Negri dell’Università di Milano. Alla proiezione del film dei Fratelli Taviani "Cesare deve morire" (2012) seguiranno gli interventi dei Proff.ri Andrea Lovato (Università di Bari), Massimo Brutti (Università La Sapienza di Roma), Franco Della Casa (Università di Genova), Francesco Frontirré (Direttore della casa circondariale di Imperia e Sanremo), Anna Maria Giuganino (già Dirigente scolastico, volontaria presso la casa circondariale della casa circondariale di Imperia), Giancarlo Gandalini (Educatore presso la casa circondariale di Imperia). Il convegno è finalizzato ad approfondire alcuni temi eterogenei che attraversano varie epoche storiche: dalla regolamentazione delle forme di reclusione nel mondo romano alla condizione attuale dei carcerati nel sistema penitenziario italiano; dalle passioni umane, politiche e personali, uguali nel tempo e uguali per tutti, al ruolo dell’arte nella loro rappresentazione ed elaborazione. Corpi (offesi) di Alberto Leiss Il Manifesto, 9 febbraio 2016 Di Giulio Regeni abbiamo visto il volto sorridente, lo sguardo vivace, le carezze al suo gattino. Ma abbiamo subìto la descrizione delle torture che gli sono state inflitte, fino alla morte e allo strazio del suo corpo. Le fotografie del corpo di Stefano Cucchi invece ci hanno parlato in modo crudo e immediato della violenza agita contro di lui. Ancora diverso il senso e l’effetto del piccolo corpo di Aylan: intatto con scarpe e vestiti sembrava addormentato in riva al mare. Credo che queste immagini mi abbiano (ci abbiano) colpito anche perché per una serie di pensieri e sentimenti messi in moto dallo sguardo, ma suscitati anche da altre esperienze vissute, ci hanno fatto sentire questi corpi estremamente vicini. Li abbiamo avvertiti come nostri possibili figli, fratelli, nipoti, amici intimi. Riconoscendoli nella loro individualità, nei pezzi di vita reale che la loro tragedia ci ha fatto conoscere, spesso attraverso le parole di chi li ha amati, li ama, e ne coltiva la memoria. Si dice, non senza qualche verità, che la civiltà dell’immagine in tempo reale nella quale siamo immersi costituisce un mondo virtuale, nel quale tutto si riduce facilmente a effimera apparenza. Molto tempo fa mi capitò di citare contro questa interpretazione del nostro tempo mediatizzato una osservazione di Jean-Luc Nancy: "Ciò che viene non è affatto quel che sostengono i deboli discorsi sulla finzione e sullo spettacolo ( un mondo di apparenze, di simulacri, di fantasmi, privi di carne e di presenza) (…) viene ciò che ci mostrano le immagini. I nostri miliardi di immagini ci mostrano miliardi di corpi, come mai furono mostrati". Parole scritte nei primi anni 90, che oggi sembrano quasi una profezia rispetto alla realtà che stiamo vivendo: le moltitudini di uomini, donne, bambini che scappano dalla guerra e dalla violenza e cercano riparo nei nostri pacifici e ricchi paesi. Ma questo esodo collettivo è fatto di corpi che vengono percepiti da noi per lo più come masse certamente reali, ma indistinte, e più o meno minacciose. Quando la vittima di una violenza insopportabile, atrocemente ingiusta, è uno di noi", uno che potrebbe essere nostro figlio o fratello, scatta l’identificazione. Può anche accadere che si pensi con un po’ di consapevolezza maggiore al fatto che la sorte toccata a Giulio Regeni è il destino di tante altre persone come lui, in Egitto e altrove nel mondo. Così come l’arbitrio subito da Stefano Cucchi parla di soprusi che si ripetono, anche nei nostri paesi ricchi e pacifici. E la vita subito persa dal piccolo Aylan, tanto velocemente dimenticata, riemerge per suscitare giustificati complessi di colpa per tutto quello che non riusciamo o non vogliamo fare per soccorrere, prestare cura a chi fugge dalla violenza. Se esistesse una politica capace di occuparsi della vita della città, e quindi di coltivare i sentimenti necessari per migliorarla, per agire e cambiare le cose, dovrebbe forse concentrarsi su questi frammenti di emozione e di empatia che suscitano in noi le immagini dei singoli corpi offesi. Fissarle in un qualche dispositivo simbolico capace di non dissolversi nel flusso delle informazioni che ci raggiunge quotidianamente. Farne la leva per una reazione, un pensiero e un’azione efficaci. Chiedersi, per esempio, come restare vicini a quei giovani che al Cairo manifestano solidarietà per il sacrificio di Giulio. Trovare il modo, così come per un momento abbiamo sentito "nostro" il corpo di un ragazzo ucciso, di sentire nostri i corpi vivi, in pericolo, di quanti condividono la sua voglia di libertà. Mano tesa di Obama sui migranti Navi e aerei per i soccorsi in mare di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 9 febbraio 2016 L’annuncio durante l’incontro con il presidente Mattarella. "Affrontiamo il problema insieme". Arriva, inaspettata, dallo Studio ovale della Casa Bianca, quella scossa sull’immigrazione che l’Italia da lungo tempo attende da Bruxelles. Barack Obama ne parla al suo ospite, Sergio Mattarella, definendola "un’idea embrionale". Gli Stati Uniti mettono a disposizione "gli asset militari" di stanza nel Mediterraneo e nell’ambito Nato per soccorrere i migranti e contrastare il clan dei trafficanti. Sono centinaia le basi americane dislocate tra Italia, Grecia e Spagna. Non solo navi, sembra di capire, ma anche elicotteri, aerei di ricognizione. Una forza imponente finora utilizzata, e non a pieno regime, solo per attività anti-terrorismo. "L’immigrazione è un problema globale, che dobbiamo affrontare insieme", ha detto Obama nella dichiarazione finale, davanti a telecamere e giornalisti. Il presidente degli Stati Uniti, in realtà, ha già sottoposto il suo piano alla cancelliera tedesca, Angela Merkel e, nei prossimi giorni, si confronterà con il capo dello Stato francese François Holland e il premier italiano Matteo Renzi. Il leader americano punta a coinvolgere i partner dell’Alleanza Atlantica: la proposta potrebbe approdare al vertice Nato, in calendario l’8 e il 9 luglio a Varsavia. La mossa di Obama ha colto di sorpresa anche Mattarella e il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che era con lui. È una svolta. L’America offre un’alternativa per spazzare via egoismi e chiusure decennali di molti Paesi europei. La frase di Obama, "l’immigrazione è un problema globale" ha anche un chiaro significato politico. Le paure, i timori dell’opinione pubblica, ha osservato il presidente americano, stanno alimentando il populismo non solo tra i partiti europei, ma anche nella campagna elettorale statunitense. Anche per questo motivo il numero uno della Casa Bianca insiste sul verbo "stabilizzare". L’Italia può contribuire a tenere unita l’Europa e la Gran Bretagna "deve restare a bordo". Usa ed Unione Europea possono rafforzare i legami economici chiudendo "entro l’anno" il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip), uno strumento per riavvicinare le differenti velocità di crescita tra i due Continenti. Tutte queste cose le dirò quando andrò a Londra, in aprile, ha detto il leader della Casa Bianca. Mattarella ha condiviso in toto l’analisi di Obama e lo ha invitato anche in Italia: si vedrà. Il primo presidente afroamericano della storia ha notato, divertito, come Mattarella sia "il primo presidente siciliano", poi ha messo in luce "un’affinità": "Siamo tutti e due professori di diritto costituzionale", per concludere: "Lei sa che l’Italia è la mia tappa preferita in Europa". Il colloquio è durato un’ora e quaranta: mezz’ora in più del previsto. Obama era attorniato dal suo vice Joe Biden, dal segretario di Stato, John Kerry, e dal consigliere per la sicurezza nazionale, Susan Rice. Il presidente americano ha cominciato chiedendo all’Italia, come sta facendo da mesi con tutti gli alleati, "uno sforzo maggiore in Iraq e in Siria". Mattarella ha confermato gli impegni presi, senza aggiungere altro, anche perché avrebbe invaso il campo di competenza del governo. Obama ne ha preso atto, lodando poi, davanti alle telecamere, "il lavoro degli addestratori italiani in Iraq e la missione militare per proteggere la diga di Mosul". Il numero uno della Casa Bianca ha condiviso l’impostazione del Quirinale e del governo di Roma: nessun tipo di intervento se prima non si forma un esecutivo unitario a Tripoli. La missione italiana ha portato a casa anche il sostegno americano per fare luce sull’assassinio del ricercatore Giulio Regeni, al Cairo. Ieri sera ne hanno discusso Gentiloni e Kerry. La Nato al confine con la Siria per gestire i profughi di Chiara Cruciati Il Manifesto, 9 febbraio 2016 Medio Oriente. Mentre nell’Egeo perdevano la vita 33 rifugiati, dalla Turchia la Merkel proponeva di dispiegare le risorse del Patto Atlantico. Restano chiusi i confini turchi ai civili in fuga da Aleppo. Trentatré morti: è il bilancio degli ennesimi naufragi nel Mar Egeo. Ieri due barconi si sono rovesciati, uno lungo la costa della città turca di Dikili, e uno a Edremit, non lontano da Lesbo. Tra le vittime anche 11 bambini e 14 dispersi, che in queste ore la guardia costiera greca sta cercando di individuare. Sale così a 374 il numero dei rifugiati morti in mare mentre tentavano la via della salvezza in Europa nel solo 2016, poco più di un mese. Un numero esorbitante come esorbitante è quello di chi è riuscito ad arrivare in Grecia vivo: secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, dall’inizio dell’anno si è toccata quota 69mila, di cui la metà siriani. Questo fa immaginare che l’intensificarsi della guerra in Siria non farà che spingere altri disperati fuori da un paese devastato. Basta guardare al confine turco-siriano, al valico di Bab al-Salama, che negli ultimi giorni ha visto l’arrivo di decine di migliaia di persone in fuga da Aleppo. Le porte dello Stato turco restano sbarrate. Il governo di Ankara ha ripetuto ieri quanto già detto all’Europa che chiedeva l’apertura dei confini: li aiuteremo ma non in territorio turco. L’aiuto di cui parla Ankara è la creazione di campi improvvisati al di là della frontiera: le ultime ore hanno visto aumentare le tende messe a disposizione per un numero imprecisato di profughi, oltre 45mila. Ieri l’emittente tv qatariota al Jazeera mostrava camion turchi attraversare il confine nella provincia di Kilis per portare medici e infermieri, consegnare aiuti ai siriani ammassati al valico e avviare la costruzione di tende e bagni. Al momento, però, le tende fornite dalle agenzie umanitarie non bastano: la gente fa lunghe file per riuscire ad ottenere un rifugio al freddo invernale, ma sono ancora moltissimi quelli che dormono all’addiaccio, sotto la pioggia che cade in questi giorni. Una situazione che, in qualche modo, ricorda il progetto della zona cuscinetto che il presidente turco Erdogan aveva chiesto per mesi agli alleati occidentali, una lunga striscia di terra lungo tutto il confine all’interno del territorio siriano. Con tre obiettivi: raccogliere lì i rifugiati siriani, addestrarvi le opposizioni al presidente Assad e impedire la nascita di una stabile entità kurda a nord. E mentre l’Egeo inghiottiva altre vite, la cancelliera tedesca Merkel faceva visita al premier turco Davutoglu con cui ha discusso dell’emergenza migranti. La Germania e la Turchia - ha detto la Merkel - dovranno utilizzare le risorse della Nato sia nel mar Egeo che al confine siriano per gestire le ondate di rifugiati in arrivo. Il maggiore coinvolgimento del Patto Atlantico potrebbe configurarsi già nei prossimi giorni: il 10 e l’11 febbraio è infatti previsto un meeting dei ministri degli Esteri dei paesi membri. Torna la Nato, attore di prim’ordine del conflitto siriano, seppur preferisca mantenersi dietro le quinte a giocare alla guerra fredda con la Russia. Ieri la cancelliera non ha mancato di accusare Mosca per la nuova fuga di massa da Aleppo: "Non siamo solo sotto choc, ma siamo disgustati dalla sofferenza di decine di migliaia di persone dovuta agli attacchi aerei, per lo più russi". Ha poi parlato della necessità di un’azione globale per fare pressione proprio sulla Russia perché si adegui alla risoluzione Onu dello scorso dicembre sulla protezione dei civili siriani. Ovvero, un intervento diplomatico per interrompere le operazioni in corso ad Aleppo. Difficile immaginare, però, un dietrofront del tandem Mosca-Damasco che, dopo la ripresa della cintura nord della città, prosegue nella controffensiva. L’esercito governativo è alle porte di Tal Rafaat, comunità in mano alle opposizioni, mentre continuano i bombardamenti sulle aree a nord ovest, sulle città di Anadan e Haritan. Da parte sua la Turchia, il cui potere negoziale cresce in proporzione al numero di rifugiati, ha ribadito che li farà entrare "quando sarà necessario", rimandando tutto alla prossima settimana quando - dice Davutoglu - sarà rivelato il piano governativo per gestire l’emergenza. Di certo la Turchia, che ospita già 2.5 milioni di siriani, è al limite delle proprie capacità. Consapevole che la battaglia di Aleppo moltiplicherà i profughi tenta di cautelarsi, giocando sapientemente con l’incoerenza della Ue, che da una parte chiede ad Ankara l’apertura dei confini, ma dall’altra sa che se quelle frontiere saranno aperte i rifugiati siriani tenteranno la via del mare verso l’Europa. Il massacro di Cizre - E mentre il mondo guarda al dramma dei profughi siriani, un altro dramma finisce nell’oblio: quello di Cizre, città kurda nel sud est della Turchia, sotto coprifuoco militare da metà dicembre. Ieri l’ennesima denuncia: l’esercito turco avrebbe massacrato 62 civili kurdi all’interno di un palazzo della città. Se le agenzie stampa turche identificavano le vittime come combattenti del Pkk, diversa è la versione del partito di sinistra Hdp: secondo il parlamentare Sariyildiz, tra domenica e lunedì le truppe turche hanno ucciso 62 civili che in quella casa avevano trovato riparo. Nove sono morti bruciati dai missili, un bambino è stato colpito da un cecchino, mentre 30 corpi sono stati trovati bruciati. Ma le foto pubblicate ieri sui social network fanno sorgere dei dubbi: i corpi sembrano pietrificati, facendo sospettare ad alcuni che l’esercito turco abbia fatto uso di armi chimiche. Merkel-Erdogan: il nodo è come frenare i migranti che cercano di entrare nell’area Schengen di Vittorio Da Rold Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2016 La cancelliera tedesca Angela Merkel vola questa mattina ad Ankara per un incontro decisivo con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e con il premier Ahmet Davutoglu. "Non le piace, ma ha bisogno di lui", titola il settimanale Der Spiegel - che come tutti i media tedeschi ha la notizia in testa alla homepage - sotto a una foto di un precedente incontro tra Erdogan e Merkel. L’obiettivo del viaggio è uno solo: frenare il flusso di profughi che dalla Turchia cercano di entrare nello spazio Schengen. I governi di Berlino ed Ankara si sono incontrati a ripetizione in quest’ultimo periodo, già tre volte dall’inizio dell’anno: alla Conferenza di Londra dei Paesi donatori per la Siria e pochi giorni fa a Berlino per consultazioni bilaterali tra i due Paesi; ma anche al vertice Ue-Turchia di fine novembre e al G20 ad Antalya e nel corso di una visita di Merkel ad Istanbul a metà ottobre. Il capo dell’esecutivo tedesco, che ne ha parlato anche ieri sera a cena con il presidente francese François Hollande, vuole riuscire a costringere il governo di Ankara a controllare sul serio i suoi confini per impedire la fuga via mare verso le isole greche di migliaia di profughi: solo a gennaio già in 70mila sono riusciti ad imbarcarsi dalle sponde turche, per poi raggiungere i Paesi del Nord-Europa, primo fra tutti la Germania, attraverso la Via dei Balcani. In vista del decisivo (ma sono tutti sempre decisivi alla vigilia) vertice Ue del 18-19 febbraio, Merkel ha assoluta necessità di incassare un successo per giustificare la sua politica di accoglienza, che la vede sempre più isolata in Europa, e rassicurare contemporaneamente i suoi elettori sul fatto che gli arrivi dei profughi cominceranno a diminuire. L’Ue ha già promesso alla Turchia 3 miliardi di euro per convincerla a tenere i profughi sul suo territorio. Cosa potrebbe offrire ancora Merkel per incassare un risultato? Alcune voci ipotizzano semplicemente un aumento dell’offerta, a 5 miliardi di euro; oppure qualche apertura alla richiesta della Turchia che vorrebbe libertà di ingresso per i suoi cittadini in Europa già da metà 2016. In Germania nel 2017 ci saranno le elezioni legislative ma intanto si terranno elezioni in cinque Laender su 16 complessivi (in tutto riguardano circa ventuno milioni di abitanti su 80 milioni complessivi). In Italia, per fare un paragone, abbiamo ben 20 regioni con soli 60 milioni di abitanti. A marzo si voterà in Renania Palatinato (4 milioni), poi toccherà al Baden Wurtenmberg (10 milioni) e infine alla Sassonia Anhalt (2 milioni di elettori). A settembre in Mecklemburg (1,6) e a Berlino (3 milioni). Per il Cancelliere Merkel sarà un test fondamentale in un momento molto delicato con i sondaggi che la vedono in calo proprio sul tema caldo dell’accoglienza dei migranti che ha profondamente spaccato il paese e ha dato forza al partito di destra Alleanza per la Germania. Un testa che se fallito potrebbe significare un possibile cambio la vertice della Cdu magari a favore del potente ministro delle Finanze Wolfagang Scaheuble, un "falco" sul tema dei conti pubblici e nelle politica di austerità. Le critiche dei media turchi alla Merkel - "I giornalisti sono in prigione, non lo sai?". È la scomoda domanda che il quotidiano turco di sinistra Cumhuriyet ha rivolto alla cancelliera tedesca Angela Merkel, in visita ad Ankara per discutere soprattutto di migranti. La domanda, in tedesco e turco, domina la prima pagina del quotidiano, accanto a una foto della Merkel. Nell’articolo, si accusa il capo del governo di Berlino di avere interesse solo per la questione dei migranti e si ricorda che nella capitale turca non incontrerà alcun rappresentante dell’opposizione o di organizzazioni non governative. Il quotidiano rincara poi la dose, scrivendo che la Merkel ignora deliberatamente i principi di base dell’Unione europea, come i diritti umani, la democrazia, la libertà di pensiero e quella dei media. Il direttore di Cumhuriyet, Can Dundar, e il corrispondente da Istanbul, Erdem Gul, sono agli arresti dallo scorso novembre, con l’accusa di sostegno a un gruppo terroristico armato. Le manette sono scattate dopo che il quotidiano ha pubblicato un articolo e alcune foto di un camion carico di armi che dalla Turchia partiva per la Siria. Altre decine di giornalisti turchi sono sotto processo o sono già stati condannati per articoli critici nei confronti del presidente Recep Tayyip Erdogan o del governo. Giulio Regeni e i desaparecidos in Egitto che non conosciamo di Antonella Napoli huffingtonpost.it, 9 febbraio 2016 Il caso di Giulio Regeni porta alla luce, con tutta la drammaticità della sua fine e le responsabilità politiche di un Paese con il quale l’Italia ha sempre avuto ottime relazioni diplomatiche, una realtà conosciuta ma finora lasciata, volutamente, "sotto traccia": le continue violazioni dei diritti umani in Egitto nei confronti della popolazione egiziana ma anche di stranieri "scomodi" come Giulio che non conosciamo e di cui non sapremo mai nulla. La storia di Ayman Suleiman, universitario di origini sudanesi di cui si sono perse le tracce da tre mesi, è solo una delle tante che testimoniano il modus operandi di quello che possiamo definire un "regime del terrore". Ayman aveva da poco compiuto 21 anni, era uno studente del College of Dentistry al Cairo. È scomparso dopo essere stato arrestato e portato in un centro di detenzione della polizia. Era alla guida della sua auto è stava rientrando verso casa dopo la preghiera del venerdì, il 13 novembre, quando è stato coinvolto in un incidente stradale. Aveva tamponato il veicolo che lo precedeva. Né lui né il conducente dell’altra auto avevano riportato ferite e stavano discutendo per accordarsi su quanto Ayman dovesse pagare per il danno causato. Gli agenti arrivati sul posto, dopo aver controllato la sua vettura, da cui hanno preso del materiale divulgativo sulle torture subite dai Fratelli musulmani arrestati dopo la caduta di Mohamed Morsi, lo hanno prelevato per portarlo nella stazione di al-Dugi dove aveva passato la notte. Da quel posto di polizia Ayman non è più uscito, anche se le autorità locali sostengono il contrario. Eppure la sua auto, con all’interno il suo portafoglio e il cellulare, è rimasta parcheggiata al di fuori del centro di detenzione. I suoi parenti e i suoi amici dal primo momento hanno denunciato che si trattava di una "scomparsa forzata": Ayman era un attivista per i diritti umani e nonostante fosse consapevole di quanto la sua azione di sensibilizzazione a favore del rispetto della legalità nei confronti dei detenuti in tutto l’Egitto, sottoposti a violenze estreme sia fisiche che sessuali, non si nascondeva. Anzi. Con il suo account di Twitter, poi oscurato, aveva diffuso il testo delle lettere scritte da chi era rinchiuso nelle carceri del paese e nelle stazioni di polizia fatte uscire dai familiari. La tortura, da lungo tempo praticata dalle forze di sicurezza egiziane, è lo strumento per estorcere confessioni a chi è ritenuto una spia o anche solo un oppositore. Da decenni le organizzazioni internazionali denunciano violazioni perduranti, perpetrate impunemente da agenti e funzionari dello Stato. Dall’inizio del 2014, secondo la Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà, sono state almeno 120 le morti in carcere riconducibili a maltrattamenti e violenze da parte degli agenti penitenziari. In una lettera diffusa proprio grazie ad Ayman, Hassan Ali Ahmed, 29 anni, da tre mesi nel reparto di massima sicurezza di Tora, descrive nei dettagli come è stato più volte torturato, sia in prigione che nella stazione di polizia dove era stato portato dopo il suo arresto. Ahmed scrive che lui e le altre persone all’interno del suo padiglione subiscono aggressioni sessuali, vengono spogliati, costretti in posizione prona e stuprati con tubi. "Quando non sono le guardie a torturare i prigionieri, lo fanno altri detenuti su loro ordine. Usano fili elettrici per causare scariche ad alto voltaggio ai nostri corpi già martoriati dalle botte" è il grido di dolore di Ahmed che sostiene di essere stato picchiato e violentato, trattenuto a forza fino alla rottura del braccio sinistro. Nella lettera sono descritti anche altri episodi, come quello che vede come carnefice un funzionario dei servizi segreti responsabile degli interrogatori a Tora e vittima un ragazzo, poco più che ventenne, Ahmed Ismail, costretto a bere una miscela di acqua, olio, sale, detersivo in polvere, latte e tabacco fino a quando non ha vomitato sangue. Storie terribili, che disegnano un quadro che però in molti fingono di non vedere. Nessuno chiede conto al governo egiziano di quanto avviene nelle proprie carceri, almeno fino a quando a essere soggetto a trattamenti inumani è uno straniero. In questi casi, quando non devono trapelare notizie sulle torture subite da persone di altre nazionalità arrestate in Egitto, oppure egiziani detenuti illegalmente, dopo le violenze arriva la "scomparsa forzata". In un rapporto diffuso nel luglio 2015 Human rights watch già segnalava centinaia di sparizioni, soprattutto di oppositori politici, attivisti e giornalisti scomodi per mano delle autorità egiziane che costituivano "una grave violazione del diritto internazionale". L’organizzazione americana ha documentato decine e decine di casi di persone scomparse in Egitto dopo essere state arrestate dalle forze di polizia. In più occasioni i funzionari di pubblica sicurezza hanno negato di avere trattenuto individui o si sono rifiutati di rivelare la sorte di molti di loro. Hrw ha affermato con forza che il metodo "desaparecidos" viene attuato sistematicamente e per finalità politiche, configurando in tal caso "crimini contro l’umanità". Il direttore di Human Right Watch, Joe Stork, ha sottolineato come sotto la presidenza del generale egiziano Abdul Fattah al-Sisi, che ha rovesciato l’ex presidente Mohammed Morsi nel 2013, i servizi segreti e la polizia egiziani stiano operando nell’assoluta impunità: centinaia di persone sono state uccise e 40mila sono state tratte in arresto per motivi politici. Nel 2014 un gruppo di lavoro delle Nazioni Unite, costituito per indagare sulle denunce delle organizzazioni non governative, aveva accertato numerose scomparse anomale. La relazione finale riportava 52 casi e sui quali il governo di al-Sisi si era rifiutato di fare chiarezza. I funzionari Onu, già dai primi casi valutati, avevano espresso preoccupazione per il deteriorarsi delle condizioni della sicurezza in Egitto che poteva facilitare l’insorgenza di molteplici violazioni dei diritti umani, tra cui appunto le "sparizioni forzate". A confermarlo un dato emblematico della gravità della situazione: solo nel 2015 l’Egyptian Commission for Rights and Freedom, organizzazione indipendente egiziana ideatrice della campagna Stop Enforced Disappearance, ha censito oltre 1.700 persone scomparse, una media che supera i quattro al giorno. Egitto: caso Regeni, vietato chiedere la verità a un regime autoritario di Ugo Tramballi Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2016 Abbiamo "infastidito" il ministro degli Interni Magdi Abdel Ghaffar. Tutti: il ministro degli Esteri Gentiloni, della Difesa Pinotti, della Giustizia Orlando, i giornali, l’opinione pubblica, insomma coloro che hanno "insinuato" responsabilità del regime egiziano nella morte di Giulio Regeni. Cioè tutto il Paese. È così che fanno le dittature poliziesche: inventano la Verità e tracciano la linea oltre la quale ci sono solo i mentitori, i sobillatori, i terroristi e ora anche gli italiani. La settimana scorsa, quando il Sole 24 Ore chiedeva una modica quantità di giustizia, intendeva una soluzione pragmatica: l’arresto, almeno il licenziamento di due funzionari. Qualcun altro aveva parlato con comprensione di "servizi deviati", quando invece di deviato c’è un sistema intero. Tutti sapevamo che gli egiziani la verità non ce l’avrebbero mai raccontata. Ma almeno un po’ di finzione, le scuse per un deplorevole eccesso di zelo. Niente, nemmeno una verità accondiscendente e finta. Esiste solo la verità del regime, il moloch che non deve rendere conto a nessuno. "Non possiamo neppure accettare un’allusione, non è questa l’usanza degli apparati di sicurezza dello Stato". Un taxi che va in panne in mezzo al deserto, i passeggeri che scendono e, guarda un po’, un cadavere. La conferenza del ministro degli Interni, ieri al Cairo, non è stata surreale ma la rappresentazione cronachistica del potere oggi in Egitto, arrogante e intoccabile. Nel tentativo di avere giustizia, rispettando le difficoltà egiziane, anche Matteo Renzi aveva evitato dichiarazioni forti e con pragmatismo aveva telefonato al presidente al Sisi. Le dichiarazioni sfrontate di Abdel Ghaffar sono il risultato. E adesso? Omicidio Regeni, governo egiziano: ".ai arrestato dalla polizia" di Ugo Tramballi Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2016 "Non abbiamo trattato assolutamente l’italiano come una spia. È stato un atto criminale". Lo ha detto il ministro dell’Interno egiziano, generale Magdi Abdel Ghaffar, in una conferenza stampa tenuta al quartier generale della sicurezza nazionale egiziana al Cairo, riferendosi a Giulio Regeni, il giovane ricercatore ucciso in Egitto. E ha aggiunto: "Non bisogna anticipare" le conclusioni del rapporto di medicina legale che non è stato pubblicato. Al momento si lavora su tutte le possibilità", ha aggiunto il ministro egiziano, che ha ribadito: "Abbiamo confermato ripetutamente che il signor Regeni non è stato imprigionato da alcuna autorità egiziana". E ha assicurato che la polizia e le forze di sicurezza egiziane non sono coinvolte nella vicenda. "Il corpo è stato ritrovato sopra il cavalcavia Hazem Hassan sull’autostrada" del deserto tra Il Cairo e Alessandria "ed è stato scoperto da un autista di taxi la cui vettura era finita in panne". Il tassista "e i suoi passeggeri hanno scoperto il corpo mentre scendevano" dalla vettura "per vedere il guasto". Questa la versione del ministro dell’Interno egiziano, che non menziona i segni di tortura evidenti sul corpo martoriato del giovane friulano. Fonti investigative citate dall’Ansa riferiscono invece il fatto che entrambe le orecchie del giovane sarebbero state mozzate dai suoi assassini, nella parte alta. A Regeni, spiegano inoltre le fonti, è stata strappata un’unghia della mano e una del piede. Il corpo di Regeni sarebbe stato anche oltraggiato con decine di "piccoli tagli", anche sotto la pianta dei piedi. Tra le diverse fratture riscontrate anche quella delle scapole. Pm sente i genitori: mai dato segnali di paura. I pm della Procura di Roma, intanto, hanno ascoltato i genitori di Giulio Regeni, il giovane ricercatore ucciso in Egitto, ed anche alcuni suoi amici. Nel corso del colloquio con il pm Sergio Colaiocco, titolare del fascicolo in cui si procede per omicidio, il papà e la mamma di Giulio avrebbero riferito che il figlio non aveva mai fatto cenno a rischi imminenti per la propria incolumità, ma che era consapevole di trovarsi in una realtà difficile dal punto vista politico soprattutto nei giorni in cui cadeva l’anniversario della rivoluzione di piazza Tahir. Obiettivo degli inquirenti romani, che hanno svolto un lungo vertice in Procura, è ricostruire la rete di rapporti che Regeni aveva costruito sia in Italia che in Egitto. Grazie anche a quanto raccontato dai genitori e amici, gli inquirenti vogliono avere un quadro completo di chi erano i soggetti, sia dal punto di vista lavorativo che personale, con cui Regeni aveva intessuto rapporti nella sua permanenza al Cairo. Il giovane friulano, che, ribadiscono gli inquirenti, non era uno 007, aveva contatti con il mondo del sindacato indipendente locale. Egitto: Mohamed Soltan "conosco quelle celle, ho rivissuto il mio incubo" di Francesca Caferri La Repubblica, 9 febbraio 2016 L’ex detenuto delle carceri egiziane: "Mi odiavano ma sapevano di non potermi ammazzare. Per salvare quel ragazzo dovevate mobilitarvi". "Quando ho letto quello che era accaduto a Giulio Regeni, mi è tornato tutto in mente. Sul suo corpo c’erano gli stessi segni che erano sul mio e su quello dei miei compagni di prigionia". Mohamed Soltan, 25 anni, è un ex detenuto delle carceri egiziane. Arrestato nel 2013 con l’accusa di essere un sostenitore dei Fratelli musulmani, ha passato in sciopero della fame 16 dei 21 mesi della sua prigionia. Dalla cella è uscito in barella: vivo grazie al fatto di essere cittadino egiziano e americano. Oggi parla, ma fatica a trattenere le lacrime. Il suo account Twitter è pieno di messaggi su Giulio Regeni. Perché? "Perché io so quello che ha vissuto. Il suo dolore è stato il mio. Un dolore che non si dovrebbe neanche dover immaginare". Se la sente di raccontare? "Quando gli uomini della sicurezza interna sono arrivati a casa mia, in abiti civili, hanno picchiato me e i miei amici. Cercavano mio padre: non c’era, hanno preso noi. Senza motivo: come Giulio. Avevo un braccio rotto, picchiavano su quello. Poi ci hanno portato via, bendati, e trattenuto senza accuse. In cella eravamo costretti a stare in piedi per ore, faccia al muro: era solo l’inizio". Come è proseguita? "Ci hanno trasferiti: l’ufficiale incaricato ci ha ordinato di fare le flessioni prima di salire sul furgone: io non potevo. Mi ha puntato una pistola alla testa. Quando hanno aperto le porte, c’erano due file di poliziotti: dovevamo correre in mezzo a loro, e ci picchiavano con cinte, bastoni, stivali. Ero riuscito a tenere le medicine per il braccio, me le hanno strappate. Poi mi hanno tolto i vestiti e picchiato ancora, a turni: le viti nel mio braccio operato si sono mosse, hanno tagliato i nervi. Un dolore atroce. Poi è arrivato il peggio". Cosa c’è di peggio? "Il terrore. Gli interrogatori nel mezzo della notte, quando vengono a prenderti e non sai se tornerai. La consapevolezza che nessuno sa dove sei. Ci sono i trucchi per non farti dormire: mai. Ci sono i tuoi compagni prelevati che tornano con il corpo tagliuzzato o i segni di bruciature sul corpo: devastati. Ci sono quelli che non tornano: mai più. Ci sono le urla dalle celle accanto. C’è la gente, come mio zio, a cui hanno tagliato due dita e spento non so quanti mozziconi addosso prima di lasciarlo a morire". Lei perché si è salvato? "Sono un cittadino americano, oltre che egiziano. L’ambasciata si è mobilitata subito. Mi odiavano, ma sapevano che non potevano ammazzarmi: hanno cercato di spingermi al suicidio, lanciandomi lamette in cella, mettendomi vicino a cavi elettrici scoperti. Non ho ceduto". In base alla sua esperienza, la storia di Giulio avrebbe potuto finire in modo diverso se ci fosse stata una mobilitazione immediata? "Senza dubbio alcuno le rispondo di sì. Io non capisco chi tratta il governo egiziano come se fosse uno stato in cui esiste la legge: in quelle carceri ci sono dei selvaggi che commettono impunemente ogni tipo di violenza". "Sterminio di detenuti", l’Onu accusa la Siria di giordano stabile La Stampa, 9 febbraio 2016 Il Consiglio per i diritti umani: migliaia fatti morire, crimine contro l’umanità. Lo Stato siriano ha condotto una politica di "sterminio di Stato" contro migliaia di detenuti. L’accusa al governo di Damasco arriva dal Consiglio per i diritti umani dell’Onu. L’indagine condotta dall’Onu sostiene che sia I governativi che i ribelli hanno commesso "possibili crimini di guerra". Picchiati e lasciati morire di fame - Molti detenuti sono stati torturati, o picchiati a morte, altri sono morti per mancanza di cibo, acqua, cure mediche. L’indagine è stata condotta con centinaia di interviste a testimoni diretti. Lo studio stima in "migliaia" i detenuti uccisi, la gran parte nelle prigioni di Stato o dei servizi di sicurezza di Damasco. Molti dei detenuti erano stati arrestati per la loro opposizione al regime o la "scarsa lealtà". Massacro intenzionale - Sergio Pinheiro, che ha coordinato l’indagine, accusa il governo di aver intenzionalmente tenuto in prigionieri in condizioni tali da creare decessi di massa: "Questa azione equivale a uno stermino e a un crimine contro l’umanità". Uccisioni di routine da parte dell’Isis. Il rapporto accusa anche le forze di opposizione di aver ucciso soldati governativi catturati, In particolare, i miliziani dello Stato islamico hanno creato vasti centri detenzione dove "la tortura e l’uccisione dei prigionieri sono routine". Gran Bretagna: carceri al collasso, Cameron promette riforme Ansa, 9 febbraio 2016 Le carceri britanniche, sovraffollate e con elevati tassi di violenza e suicidi al loro interno, sono al collasso. È lo stesso premier David Cameron ad ammetterlo, parlando di uno "scandaloso fallimento" del sistema. Ma il primo ministro promette una serie di riforme per migliorare la situazione di oltre 85mila detenuti in Inghilterra e Galles, dando una maggiore autonomia ai direttori degli istituti e puntando sui programmi di istruzione di chi è dietro le sbarre per permetterne il reinserimento in società ed evitare, come accade troppo spesso, che torni a delinquere. Fra i progetti quello di creare sei prigioni, da quelle esistenti, che potranno diventare un modello per tutto il sistema con migliori condizioni di detenzione e una serie di attività per il recupero dei condannati. Non solo, Cameron ha anche annunciato anche che verranno valutate con un punteggio le 121 prigioni in Inghilterra e Galles. Fra i problemi da affrontare c’è anche quello dei molti bambini, un centinaio nell’ultimo anno, che hanno vissuto con le madri detenute dietro le sbarre. Non è chiaro se la concessione di maggiore autonomia agli istituti possa essere un passo ulteriore verso l’affidamento di alcuni servizi carcerari ai privati. Medio Oriente: 700 prigionieri nelle carceri israeliane in detenzione amministrativa di Federica Pistono infopal.it, 9 febbraio 2016 La "Commissione per gli Affari dei prigionieri e dei liberati" ha annunciato che il numero dei detenuti amministrativi nelle carceri e nei centri detentivi dell’occupazione israeliana ha superato le 700 unità. La Commissione ha precisato che l’occupazione ha intensificato il ritmo dell’emissione dei mandati di arresto amministrativo e delle proroghe degli arresti contro i palestinesi, dall’inizio dell’Intifada di Gerusalemme, iniziata nell’ottobre scorso: in questi ultimi quattro mesi si è assistito all’emissione di 450 nuovi mandati di arresto amministrativo. In un comunicato, la Commissione ha dichiarato che, tra i destinatari dei mandati di arresto amministrativo, figurano, dall’inizio dell’intifada, due donne e 9 minori. La Commissione ha affermato che "la detenzione amministrativa è diventata una politica costante israeliana e uno strumento volto a tenere in carcere il maggior numero possibile di Palestinesi, in violazione alle norme del diritto internazionale e delle Convenzioni di Ginevra che disciplinano la detenzione amministrativa come strumento straordinario di emergenza, mentre Israele l’ha trasformata in uno strumento normale". La Commissione ha quindi spiegato che l’occupazione ha prorogato il 75 per cento delle detenzioni amministrative per 6 mesi più di una volta, sulla base del cosiddetto "dossier segreto", in modo tale che il prigioniero e il suo avvocato non possano essere informati. Sulla base dei dati, la Commissione ha dichiarato che sono stati emessi, a partire dal 2000, 25mila provvedimenti di arresto amministrativo contro prigionieri palestinesi. Romania: sconti di pena per detenuti-scrittori, è boom di libri fatti dai detenuti Askanews, 9 febbraio 2016 Scritti più di 400 libri in due anni. Anche da Becali e Nastase. Molti detenuti che scontano la pena nelle carceri della Romania hanno scoperto poco dopo l’arrivo in cella la propria vena da scrittore. Complice, probabilmente, un articolo della legge penitenziaria in vigore dal 2006 e oggi messa all’indice, che consente uno sconto di pena di 30 giorni per ogni pubblicazione. L’articolo, per cui il ministro della Giustizia Raluca Pruna chiede la sospensione, è diventato un caso quando è venuto alla luce che tra il 2013 e il 2015 ben 188 detenuti hanno pubblicato 411 libri, 350 soltanto lo scorso anno. Le cifre hanno fatto gridare allo scandalo e hanno provocato le dimissioni del capo dell’amministrazione penitenziaria romena Catalin Claudiu Bejan. Il Guardasigilli ha parlato di vera e propria "emorragia" di testi scritti per ottenere sconti di pena e ha chiesto la sospensione dell’articolo ma non l’abrogazione "perché sarebbe frettoloso, non avendo al momento idea di quale possa essere il reale impatto di questa norma sui carcerati". Tra i novelli Mihai Eminescu, soprattutto personaggi di spicco, perché per ottenere la possibilità di pubblicare uno dei propri scritti è necessaria la revisione e l’approvazione di un professore universitario che appoggi e sostenga la validità scientifica del testo. Allora anche senza scomodare il più noto scrittore romeno, ecco che fioccano i nomi di chi si può permettere di pagare anche la consulenza accademica. Gigi Becali, controverso e chiacchierato imprenditore romeno, conosciuto per i suoi metodi spicci, per l’essere stato patron dello Steaua Bucarest e per aver fondato un partito con cui ha ottenuto un seggio all’Europarlamento, ha pubblicato ben cinque saggi ed ha ottenuto un sconto di pena sui tre anni di carcere che gli erano stati inflitti nel 2013 per vari reati. È uscito di prigione ad aprile del 2015. I titoli variano da "Becali e la politica" a "Steaua e Becali". Un altro caso eclatante è quello dell’ex premier Adrian Nastase, condannato a due anni nel 2012 per distrazione di fondi, 1,6 milioni di euro della sua campagna elettorale, e uscito di prigione a marzo del 2013, 30 giorni prima della fine della pena, per aver scritto "Esercizio di libertà". Uno dei più prolifici è stato, però, il milionario Dan Voiculescu, condannato nel 2014 a 10 anni di prigione per corruzione e riciclaggio. Il magnate, fondatore del Partito Conservatore, ha scritto otto libri che gli consentiranno uno sconto di pena di otto mesi. Ancora più dedito alla scrittura il milionario Dinel Staicu, condannato a 11 anni nel 2013, che ha scritto ben 10 opere scientifiche.