Depenalizzazioni, un passo ancora timido nella giusta direzione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 febbraio 2016 Se l’impatto potrà non essere determinante - ma nessuno se lo aspettava, a dire la verità - tuttavia la depenalizzazione datata 2016, da poche ore operativa, una mano all’amministrazione della giustizia la potrà senza dubbio dare. Non fosse altro perché sono decine le condotte destinate a uscire dal perimetro del penalmente rilevante e, in regime di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, un effetto sui carichi di lavoro delle procure è certo. Inoltre si può convenire con uno dei criteri ispiratori dell’intervento e cioè che non perde certo in forza deterrente la minaccia di una sanzione amministrativa certa nei tempi e negli importi a fronte di una penale che soprattutto per le fattispecie "minori" è preda dell’incognita della prescrizione. Va poi sottolineato come, se si legge la depenalizzazione in abbinamento con un’altra norma chiave da pochi mesi in vigore, la causa di non punibilità per tenuità del fatto allora emerge una medesima linea guida: l’esclusione dal penale di condotte ormai di nessun allarme sociale. Semmai invece la manovra è stata troppo timida. Si poteva, finalmente, cogliere l’occasione per cancellare alcuni reati che non hanno ragione di esistere, se non su un piano ideologico, e che affliggono il lavoro di forze dell’ordine e magistratura. E il riferimento principe è al reato di clandestinità, di dubbia cittadinanza in Europa, di nessuna forza deterrente (questo sì) e di accertata inutilità pratica (si è mai visto un migrante pagare una sanzione pecuniaria?). Su questo aspetto un governo che ha spesso e giustamente censurato il populismo penale, è stato forse fin troppo arrendevole a calcoli elettorali e a esigenze di coalizione. Ma ci sarà tempo per rimediare. Depenalizzazione dei reati al test dell’arretrato di Antonello Cherchi e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 8 febbraio 2016 Una goccia nel mare degli oltre tre milioni di cause penali pendenti e delle altrettante che ogni anno arrivano in tribunale. L’effetto delle nuove misure di depenalizzazione - previste dai decreti legislativi 7 e 8 di quest’anno - entrate in vigore sabato, ma di fatto oggi al debutto, saranno contenuti. L’impatto sulle procure si farà sentire soprattutto per i procedimenti di omesso versamento dei contributi all’Inps, stimabili in diverse migliaia. Dati esatti non ce ne sono, ma i procuratori guardano soprattutto a quelle cause per sperare in un parziale effetto deflattivo. "L’alleggerimento più rilevante arriverà dagli omessi versamenti - conferma Francesco Cozzi, procuratore facente funzioni a Genova. Al momento abbiamo 116 procedimenti pendenti, ma perché di recente è stato fatto un forte lavoro di smaltimento. Di solito, in un anno erano diverse centinaia". Di quei fascicoli ce ne sono alcune migliaia anche presso la procura di Roma, come attesta il procuratore Giuseppe Pignatone. Il giudizio sugli effetti della depenalizzazione degli altri reati è invece molto più cauto. "Sull’omesso versamento abbiamo più di 3mila fascicoli", dice il procuratore di Latina, Andrea De Gasperis, "ma per il resto non mi aspetto grandi effetti deflattivi: alcuni fra i reati depenalizzati sono praticamente inesistenti, mentre per altri, più frequenti, come l’ingiuria ci sono altre difficoltà". Ingiuria e guida senza patente sono infatti i due reati più diffusi fra quelli che i decreti derubricano ad illeciti civili o amministrativi. Secondo il ministero della Giustizia i casi di ingiuria davanti al Gip oscillano da 12mila a 15mila e da 10mila ai 12mila quelli in dibattimento. Ma per il giudice di pace, a cui è riservata la competenza sulla materia, si tratterà solamente di un passaggio di mano: semplicemente il fascicolo da penale diventerà civile. Questo significa che negli uffici più piccoli, dove uno stesso giudice di pace svolge sia le funzioni penali sia quelli civili, il magistrato si troverà a gestire la medesima causa ma con procedure diverse. Si tratta inoltre di una depenalizzazione a metà. Il reato di ingiuria, nella maggior parte dei casi, si accompagna a quello di minaccia, che non è stato depenalizzato. "A essere stata cancellato - commenta Gabriele Di Girolamo, presidente dell’Associazione nazionale giudici di pace - è il reato di ingiuria singola, che rappresenta il 20-25% dei procedimenti. Più numerose sono, invece, le situazioni dell’ingiuria con minaccia. Da oggi, dunque, dovremo stralciare l’ingiuria e perseguire la minaccia". Fra i reati più diffusi, ora diventati ex, c’è poi la guida senza patente. Ma anche in questo caso gli effetti deflattivi sono tutti da verificare. "A Milano ci sono circa 2mila iscrizioni l’anno", spiega Tiziana Siciliano, magistrato che coordina lo Sdas, l’Ufficio sezione definizione affari semplici della Procura che si occupa dei reati che non richiedono indagini istruttorie complesse. "La depenalizzazione non elimina però l’obbligo di iscrizione, che va fatta ugualmente per escludere la recidiva. In generale gli effetti deflattivi di questo intervento saranno estremamente modesti. La prima conseguenza, anzi, sarà un aggravio, soprattutto per le cancellerie, in quanto reindirizzare i fascicoli costituisce un grosso lavoro". Effetti limitati, dunque. E comunque non immediati. "Forse i benefici li vedremo più in là - sostiene Maria Antonietta Troncone, procuratrice di Santa Maria Capua Vetere, uno dei circondari con il maggior numero di pendenze - ma sulle notizie di reato esistenti bisogna fare un lavoro enorme che riguarda in primo luogo gli uffici, già in grossa difficoltà per mancanza di organico". Più ottimista il procuratore aggiunto di Palermo, Leo Agueci: "Si tratta di una riforma certamente positiva - commenta- ma non c’è dubbio che poteva essere molto più ampia". E qui i magistrati concordano nell’indicare la mancata depenalizzazione del reato di clandestinità come l’assente più ingiustificato dall’elenco. "Mi stupisco che non lo abbiano cancellato - dichiara Alberto Candi, attuale reggente della procura generale di Bologna -. È completamente inutile e molto dispendioso". Nei numeri che hanno accompagnato la predisposizione dei due decreti l’impatto veniva stimato nell’ordine del 2,5% sul totale dei procedimenti davanti al Gip e nel 3% sul complesso di quelli in dibattimento. Secondo il ministero, infatti, le cause coinvolte dalla depenalizzazione starebbero in un range da 24mila a 30mila se si considerano quelle davanti al giudice per le indagini preliminari, per scendere alle 15mila-18mila in dibattimento. Ma, come conferma il capo della procura di Torino, Armando Spataro, la situazione è fluida. "Nei giorni scorsi - afferma - abbiamo fatto una riunione con il gruppo degli affari semplici proprio per iniziare a cercare di capire che peso potrà avere la depenalizzazione, ma al momento non siamo in grado di stimarlo". E fluida la situazione è anche riguardo all’organizzazione delle nuove procedure, a cominciare dal fatto che manca il decreto del ministero della Giustizia con i termini e le modalità del pagamento delle sanzioni e le forme di riscossione degli importi. Decreto che dovrà essere varato entro gli inizi di agosto. Ma la reiterazione non sfugge al carcere di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 8 febbraio 2016 Quando l’illecito depenalizzato diventa reato a causa della recidiva, è sufficiente accertare la reiterazione della condotta: non è cioè necessario che la responsabilità per il fatto precedentemente commesso sia stata dichiarata con una sentenza irrevocabile. È una delle indicazioni operative fornite dall’ufficio del Massimario della Corte di cassazione con la relazione del 2 febbraio scorso. Sono due i metodi seguiti dal legislatore: la depenalizzazione "cieca" e quella "nominativa". La "cieca" comporta l’abrogazione di una serie di reati in conseguenza dell’applicazione di una clausola generale. L’articolo 1 del Dlgs 8/2016 prevede che non sono più reato e sono soggette a sanzione amministrativa tutte le violazioni punite con la sola pena della multa o dell’ammenda. Quali siano questi reati degradati ad illecito amministrativo toccherà al giudice verificarlo. L’articolo 3 dello stesso decreto esclude però che tale clausola riguardi i reati contenuti nel codice penale. Quindi bisognerà cercarli nelle leggi speciali. Il decreto ha anche proceduto ad individuare un elenco delle leggi speciali, che disciplinano le materie, in base alla legge delega escluse dagli effetti di questa clausola di depenalizzazione per l’importanza dei beni giuridici tutelati. L’elenco sembra completo; il Massimario avverte comunque che potrà sorgere qualche problema interpretativo se il giudice dovesse dinanzi a fattispecie di reato rientranti nelle materie "eccettuate" ma non ricomprese nell’elenco allegato al decreto. La depenalizzazione "nominativa" è stata invece effettuata con l’indicazione specifica di una serie di illeciti previsti come reato che si intendevano derubricare ad illeciti amministrativi. Il legislatore individua ciascuno di essi, citando le relative norme, sicché l’opera del giudice è del tutto agevole. Quando il reato è previsto con una condotta base punita con la sola pena pecuniaria e poi ad esso si aggiungono ipotesi aggravate con pena anche detentiva, il legislatore sceglie di dare comunque massima espansione alla clausola generale della depenalizzazione "cieca" e precisa che in questi casi le fattispecie aggravate devono considerarsi ipotesi autonome di illecito penale. Dal che consegue che il reato-base viene meno e ne sorge un altro, rispetto al quale quelli che erano elementi circostanziali devono considerarsi elementi costitutivi della fattispecie; devono quindi essere sorretti dal dolo del reo e non potranno andare in bilanciamento con le attenuanti. In altri casi il reato cade per via della depenalizzazione dell’illecito; tuttavia se quello stesso illecito viene reiterato, la successiva condotta è penalmente sanzionabile perché la recidiva fa scattare la pena detentiva e quindi impedisce l’operatività della clausola generale di depenalizzazione "cieca". L’articolo 5 del decreto spiega però che quando i reati trasformati in illeciti amministrativi prevedono ipotesi aggravate fondate sulla recidiva ed escluse dalla depenalizzazione, per recidiva deve intendersi la reiterazione dell’illecito depenalizzato. La precisazione è decisiva. La recidiva sussiste se vi è già una condanna per un reato. Se il fatto della stessa specie, quando viene commesso per la prima volta, non può essere punito con una condanna in sede penale, e se la condanna già irrogata può essere cancellata per la sopravvenuta depenalizzazione, allora non sussisterebbero mai le condizioni per la recidiva. Ecco quindi che il legislatore deve stabilire che il termine "recidiva" va inteso in senso atecnico, equivalente alla mera reiterazione accertata in punto di fatto. Ma anche qui il Massimario segnala che potrebbero derivare problemi applicativi dal fatto che l’articolo 8 bis della legge 689/1981 disciplinava già la reiterazione degli illeciti amministrativi e prevedeva la possibilità di ricondurli ad un unico disegno per applicare un’unica sanzione debitamente aumentata. Tuttavia se pure dinanzi alla reiterazione di illeciti che farebbero scattare l’illecito penale l’autorità amministrativa commina un’unica sanzione, ciò non può impedire un’autonomia valutazione da parte del giudice penale del secondo illecito e non può impedirgli di qualificarlo come reato. Il Ministro Alfano: "Mandare l'esercito a Napoli, dobbiamo fare stare zitte le pistole" Il Mattino, 8 febbraio 2016 "Ci vuole l'esercito" per "far star zitte le pistole" a Napoli, dove gli omicidi sono in aumento, nonostante nel 2015 il dato, nel resto d'Italia, abbia segnato il minimo storico. Lo ha detto il ministro dell'Interno Angelino Alfano intervistato da Maria Latella a Skytg24. "A Napoli abbiamo ottenuto successi straordinari nel contrasto alla camorra - ha ricordato. Ci sono intere generazioni di clan in carcere, boss al carcere duro, ma c'è un dato mi lascia assolutamente insoddisfatto: i reati sono in calo ovunque, ma a Napoli gli omicidi aumentano. Dobbiamo zittire le pistole - ha proseguito. L'ho detto anche a Renzi che adesso a Napoli ci vuole l'esercito. Abbiamo il contingente Strade sicure - ha precisato - ma occorre una norma per mandare più soldati a Napoli. Ovviamente la città non va militarizzata, ma vanno diminuiti gli omicidi, e vanno liberate forze dell' ordine da mettere in strada". "Non sono d'accordo con chi sostiene che tanto si ammazzano tra di loro - ha concluso - :noi non possiamo fregarcene e dobbiamo far star zitte le pistole". Intanto in città e in provincia ormai è emergenza camorra: tre omicidi in 26 ore. Killer diversi, stesse dinamiche criminali: giovedì notte al rione Don Guanella (omicidio di Giuseppe Calise, 24 anni) e a Bagnoli (ucciso Pasquale Zito, 21 anni); la notte tra venerdì e sabato a Marigliano, nel rione 219, praticamente una enclave di Napoli nella provincia: qui è stato massacrato Francesco Esposito, 33 anni. L'uomo stava citofonando alla moglie quando i killer lo hanno freddato. Secondo fonti della questura, dall'inizio del 2016, sono dieci gli omicidi consumati nell'area metropolitana, senza contare le decine rappresaglie armate ("stese" a colpi di pistola e kalashnikov) consumate ovunque ci sia da definire equilibri nella spartizione dei proventi di droga e racket. A Napoli e provincia ci sono 110 clan in azione, che possono contare su 5mila affiliati, (senza badare ai minori e agli under 14 non imputabili), in una guerra di posizione che si gioca per la conquista di una piccola o grande piazza di spaccio. Mitra, magnum e calibro 9: l’arsenale delle baby gang che tengono in scacco Napoli di Dario Del Porto La Repubblica, 8 febbraio 2016 Armi e munizioni arrivano dall’Est Europa o vengono rubate ai vigilantes. I criminali adolescenti le maneggiano come fossero sicari adulti. È il rumore delle armi la colonna sonora dei ragazzi perduti di Napoli. I giovani boss che hanno deciso di prendersi il cuore della città ne hanno sempre una tra le mani. Non è solo uno strumento di morte, ma uno status symbol. Lo raccontano le microspie piazzate dalla procura nella casa degli eredi della storica famiglia Giuliano, i capi della cosiddetta "paranza dei bimbi", come nel quartiere Forcella viene chiamato questo clan di giovanissimi. Le cimici captano continuamente lo stesso suono: lo "scarrellamento" di una pistola pronta all’uso: "A questo punto si sente il tipico rumore dell’abbattimento del cane di sul percussore", annotano ripetutamente gli investigatori nell’informativa trasmessa ai pm anticamorra Francesco De Falco e Henry John Woodcock. E quando non le usano, parlano delle armi come se fossero abiti firmati. "Ma pensa che è nuova, nuova e imballata", dice compiaciuto uno dei rampolli della famiglia Giuliano, Guglielmo, durante un colloquio intercettato alla fine di gennaio del 2014. Uno degli affiliati chiede se quella pistola è "la special 92". E un altro giovane Giuliano, Toni, risponde da esperto del settore: "No, no, 92 F S, è la nuova. Fuori serie calibro 9 per 19. Le botte dentro vanno, la teniamo solo noi". Per un bel pezzo il gruppo discute solo di pistole. Parlano di quella "con tredici botte", scherzano sulla "357 cromata con il manico di gomma, quello là è secco e lungo... quello di Al Capone". Anche i numeri rilanciano l’allarme del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti sulla "spaventosa disponibilità di armi" delle nuove leve della camorra napoletana. Tra il primo luglio 2014 e il 30 giugno 2015, i carabinieri del comando provinciale di Napoli diretto dal generale Antonio De Vita hanno sequestrato 1265 fra armi da fuoco e armi bianche, più di 23 mila munizioni e quasi 10 mila chilogrammi di esplosivo. Un arsenale da guerra, cui vanno sommati i sequestri delle altre forze di polizia. Le armi arrivano in città seguendo percorsi diversi, talvolta (ma non sempre) sovrapponibili a quelli di altri traffici illeciti come quelli di droga. In genere, ogni gruppo criminale ha i suoi fornitori. Alla fine degli anni ‘90, pistole e mitra giungevano via mare, a bordo degli scafi che trasportavano sigarette di contrabbando. La rotta balcanica resta una di quelle privilegiate. Ma in tempi più recenti si è intensificata l’importazione di armi micidiali, compresi mitra kalashnikov e mitragliette Uzi, che viaggiano a bordo di tir o auto veloci dai paesi dell’Est europeo come la Repubblica Ceca e la Russia. Oggi il mercato illegale si alimenta anche con le pistole rapinate a dipendenti di istituti di vigilanza privata, spesso presi di mira dai banditi proprio con l’obiettivo di impossessarsi delle armi per poi rivenderle oppure utilizzarle in proprio. E quando le armi finiscono nelle mani dei boss ragazzini, può davvero accedere di tutto. Per provarle, le gang spesso sparano dai tetti. Lo ha confermato un’indagine dei carabinieri che, agli inizi dello scorso mese di luglio, scoprirono in pieno centro, nella zona del Borgo Sant’Antonio Abate, un vero e proprio poligono di tiro sul terrazzo di un edificio: sparsi sul pavimento c’erano decine di bossoli, le antenne paraboliche circostanti erano crivellate di colpi, proiettili erano conficcati nei muri. Nascosta nel cortile c’era una busta con una pistola calibro 9 e 22 cartucce per fucile. Ma può anche succedere che scendano direttamente in strada, dopo aver comprato un’arma nuova. Come la sera di Capodanno del 2013, quando due rampolli della "paranza" andarono in giro nei vicoli di Forcella per divertirsi un po’. "Mentre stavamo salendo dissi: spariamo in aria", afferma il ragazzino di neppure vent’anni in uno dei dialoghi intercettati dell’inchiesta. E aggiunge: "Tirai una botta in petto a un nero, il nero cadde a venti metri, sul Volto Santo". Le indagini della squadra mobile diretta da Fausto Lamparelli hanno verificato che, proprio quella sera, un immigrato indiano si fece medicare in ospedale dopo essere stato ferito in quella zona da un proiettile vagante. In un’altra intercettazione, alcuni indagati preparano un agguato e si consultano: "Me la puoi dare una 45?", chiede uno. Un altro replica, ironico: "Tu salti in aria con la 45". Un terzo interlocutore li rassicura: "Sparo con la Beretta, la 9 grossa... fa paura...". Si capisce dunque cosa voleva dire la testimone di giustizia Antonietta Pacifico, che fu ferita alle gambe per essersi rifiutata di aprire una piazza di spaccio, quando mise a verbale: "Il sistema di Forcella non è più quello di una volta, di quando c’era Luigino Giuliano. Questi fanno il morto per 100 euro". Ma forse si sbagliava: i ragazzi perduti di Napoli sono pronti a uccidere per nulla. Giornalisti condannati a Teramo: "colpevoli di aver svelato indagine in corso" di Matteo Marini La Repubblica, 8 febbraio 2016 La storia di Fabio Capolla e Giancarlo Falconi: hanno scritto della denuncia per molestie di una vigilessa contro il suo capo. Lo Sga: "Condannati per aver raccontato un fatto vero". Un giornalista e un blogger abruzzesi sono stati condannati a Teramo per violazione del segreto investigativo. La colpa di Fabio Capolla e Giancarlo Falconi è stata solo quella di aver pubblicato una notizia, il primo sulle colonne del Tempo e il secondo sul blog teramano I due punti. I due hanno raccontato di una denuncia per molestie sessuali in un ufficio pubblico. Al di là dei 160 euro di ammenda, pena sospesa, a destare l’incredulità non solo dei due cronisti è tutto lo svolgimento della vicenda che, entrambi, non hanno timore di definire "assurda" e addirittura "kafkiana". Sia perché si tratta di una ferita inferta da un piccolo tribunale di provincia alla libertà di informazione, che la dimensione locale non sminuisce, ma anche nel merito delle prove portate a processo. A febbraio 2013 Capolla e Falconi pubblicano la notizia di una denuncia per molestie sessuali e mobbing fatta da una vigilessa di Teramo nei confronti del comandante della Polizia municipale. I fatti sono da trattare con delicatezza, perché le accuse sono pesanti. Ma la notizia, naturalmente, è di interesse pubblico e loro quindi scrivono. Non è dello stesso avviso però il pm della Procura di Teramo, Laura Colica, che inizia sì le indagini sulle molestie, ma apre un fascicolo per violazione di segreto d’indagine. Secondo l’accusa, i due avrebbero reso pubblica la querela scritta dalla vigilessa (imputata anche lei per violazione di segreto e a processo con rito ordinario) e consegnata alla polizia giudiziaria: un documento (tra l’altro non pubblicato per intero) il cui contenuto, secondo la pm, doveva restare totalmente segreto. Questo è il primo punto controverso e contestato dai legali della difesa: "La querela scritta non può essere un documento sottoposto a segreto d’indagine - puntualizza Gianni Falconi, legale del fratello Giancarlo - perché non viene dalla Procura ma direttamente dalla parte che sporge denuncia. È una cosa diversa dalla denuncia orale. È scritto in diversi articoli del codice di procedura penale e si deduce anche da una sentenza della Cassazione del 2014". Capolla, che è assistito dall’avvocato Giandonato Morra, addirittura quel documento riferisce di non averlo nemmeno mai visto. Nei giorni successivi tutte le testate locali riprendono la notizia e pubblicano ulteriori dettagli. Ma a processo finiscono solo Falconi e Capolla che rinunciano all’oblazione (pagando avrebbero potuto estinguere il reato) e vanno a processo chiedendo il rito abbreviato. Oltre che una questione di principio, la difesa del diritto di informazione, è anche una precisa strategia processuale, spiegano i legali. Negli atti acquisiti fino a quel momento, infatti, manca proprio la stessa querela che, a rigor di logica, il giudice avrebbe dovuto confrontare con gli articoli per stabilire la colpevolezza degli imputati. Dentro il fascicolo sono presenti solo i tabulati telefonici (non le intercettazioni) che dimostrano solo che i tre imputati si erano parlati al telefono. E col rito abbreviato non sono ammesse ulteriori prove. I due giornalisti e i loro avvocati erano convinti che sarebbe finito tutto in una bolla di sapone. Dopo tre anni invece, il giudice li ha condannati. Il danno e la beffa, visto che alla lettura della sentenza non sono presenti né Falconi né Capolla e nemmeno i legali di fiducia. "L’appuntamento per la lettura della sentenza era alle 15.45 - raccontano - noi ci siamo presentati mezz’ora prima e abbiamo atteso. Non si è visto nessuno. Poi alle 16.15 la pm Stefania Mangia, che sosteneva l’accusa come sostituta della titolare dell’indagine, ci ha chiamati per annunciarci, informalmente, che la sentenza era già stata letta ed eravamo stati condannati". Una pena tutto sommato irrisoria: 160 euro di ammenda. Ma Massimo Biscardi, il giudice non togato che ha emesso la condanna, in qualche stanza nel tribunale di Teramo ha anche letto le motivazioni contestuali alla pronuncia della sentenza. Falconi e Capolla sanno di essere stati condannati, dunque, ma non sanno ancora il perché. "Abbiamo 15 giorni per presentare il ricorso in Cassazione - conclude Gianni Falconi - e dobbiamo fare in fretta perché i termini decorrono dalla lettura. Con il weekend di mezzo abbiamo già perso tre giorni". Nel frattempo, a maggio 2015, la vigilessa è stata condannata per calunnie nei confronti del comandante della Polizia municipale. Il giudice non ha creduto alla sua denuncia ma questo non ha niente a che fare con la vicenda parallela dei due giornalisti. Il Sindacato Giornalisti Abruzzesi (Sga), evidenzia in una nota in solidarietà a Falconi e Capolla come siano stati "condannati per aver raccontato un fatto vero, una vigilessa che denuncia per molestie suoi colleghi del quale il giornalista può essere venuto a conoscenza in molti modi ed è questo che rende ancor più incomprensibile la condanna ad opera del Tribunale di Teramo per violazione del segreto istruttorio". Anche quella della pena sospesa, che evita agli imputati di pagare l’ammenda, secondo Falconi, è invece un danno ulteriore: "Significa che per questa volta non dovranno sborsare una somma minima ma, di fatto, toglie loro la possibilità di usufruire in futuro della sospensione della pena. Somiglia molto a un avvertimento, come per dire: la prossima volta prima di scrivere pensateci due volte". Consegna droga ai minori: l’aggravante scatta con la semplice dazione Il Sole 24 Ore, 8 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 16 dicembre 2015 n. 49571. L’aggravante della consegna delle sostanze stupefacenti a persona di età minore, prevista dall’articolo 80, comma 1, lettera a), del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, è configurabile anche nel caso di semplice dazione al minore, indipendentemente dalla diversa destinazione che lo stupefacente possa eventualmente avere, in quanto la ragione dell’aggravante risiede nel fatto che un minore entri in possesso dello stupefacente e possa dunque assumerlo. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 49571 del 2015. Il caso - La fattispecie specifica riguarda lo stupefacente consegnato dall’imputato ai figli minori dell’assuntore che provvedevano al pagamento e al ritiro della sostanza su disposizione di quest’ultimo. L’aggravante "speciale" e le due ipotesi - La Corte fa un corretta applicazione dell’aggravante speciale della consegna di sostanza stupefacente a un minore, prevista dall’articolo 80, comma 1, lettera a), del Dpr n. 309 del 1990. In realtà, tale disposizione prevede due distinte ipotesi di aggravamento correlate al coinvolgimento di un minore: la consegna diretta della droga al minore (oggetto della pronuncia in esame) e la destinazione della droga a uso del minore. A tal proposito, si è già precisato, in giurisprudenza, che la prima, consistente nella consegna diretta della sostanza nelle mani del minorenne, introduce una condotta criminosa cosiddetta "anticipata", cioè intesa a prevenire qualsiasi pericolo di utilizzazione propria o altrui, terapeutica o meno, da parte del minore; mentre la seconda ipotesi aggrava la pena quando lo stupefacente sia comunque destinato all’uso non terapeutico del minore e tuttavia non vi sia consegna diretta nelle mani del minore (sezione VI, 8 marzo 1991, Romano). A tal ultimo riguardo, ulteriormente precisandosi che l’aggravante de qua si distingue da quella di cui all’articolo 112, numero 4, del Cp (richiamata nell’articolo 80, comma 1, lettera b), dello stesso Dpr n. 309 del 1990) per il fatto che quest’ultima richiede una specifica attività di determinazione del minore a commettere una delle condotte vietate in materia di stupefacenti (si veda, ancora, sezione VI, 8 marzo 1991, Romano). Ovviamente, per la configurabilità dell’aggravante, occorre la dimostrazione certa non solo della minore età del cessionario della droga, ma anche della consapevolezza della minore età in capo al cedente (sezione VI,15 ottobre 2002, Mazzei). Va ricordato che le sezioni Unite (sentenza 24 giugno 2010, Proc. gen. App. Campobasso in proc. Rico) hanno ritenuto l’aggravante della cessione di sostanze stupefacenti a soggetto minore di età compatibile con l’attenuante del fatto di lieve entità di cui all’articolo 73, comma 5, del Dpr n. 309 del 1990 (che, come è noto, ora, integra ipotesi autonoma di reato: il decreto legge n. 146 del 2013, convertito dalla legge n. 10 del 2014, nonché il successivo decreto legge n. 36 del 2014, convertito dalla legge n. 79 del 2014). Intercettazioni: no al sequestro probatorio per acquisire messaggi contenuti nel blackberry di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 8 febbraio 2016 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 23 dicembre 2015 n. 50452. In materia di utilizzazione di messaggistica con il sistema blackberry è corretto (e doveroso) acquisirne i contenuti mediante intercettazione ex articolo 266-bis del Cpp, atteso che le chat, anche se non contestuali, costituiscono un flusso di comunicazioni: l’intercettazione, del resto, avviene con il tradizionale sistema, ossia monitorando il codice pin del telefono (ovvero il codice Imei), che risulta associato in maniera univoca a un nickname. Lo hanno affermato i giudici dell a terza sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 50452 del 2015. Il sequestro probatorio - Pertanto, deve escludersi che, per acquisire tale messaggistica, debba procedersi mediante lo strumento del sequestro probatorio ex articolo 254-bis del Cpp, ove si consideri che il sequestro probatorio di supporti informatici o di documenti informatici, anche detenuti da fornitori di servizi telematici, esclude, di per sé, il concetto di comunicazione e va disposto solo quando è necessario acquisire al processo documenti a fini di prova, mediante accertamenti che devono essere svolti sui dati in essi contenuti. Rogatorie internazionali - La Corte nel ribadire, quindi, l’utilizzo dello strumento delle intercettazioni ha anche escluso fosse necessario il ricorso a una rogatoria internazionale in quanto, benché la società fosse canadese, le comunicazioni tramite messaggi erano avvenute in Italia, per effetto del convogliamento delle chiamate in un nodo situato in Italia, ove era stata svolta l’attività di captazione, tanto che l’intercettazione, a livello tecnico, era stata gestita dalla sede italiana della società. Duplici i profili di interesse - Il primo, riguarda la disciplina applicabile alla intercettazione dei messaggi telefonici, che la Corte ha ritenuto essere quella di cui all’articolo 266-bis del Cpp, essendosi in presenza, pur sempre, di flussi di comunicazione, pur in assenza del requisito della contestualità tra il singolo messaggio e l’acquisizione. La seconda, concerne l’affermazione del principio secondo cui il convogliamento delle comunicazioni (telefoniche o messaggistiche) in un nodo situato in Italia rende l’acquisizione pienamente legittima, senza la necessità di dover procedere mediante rogatoria internazionale. È quest’ultima affermazione consolidata, essendosi ormai da tempo sostenuto, in termini generali, che sono pienamente utilizzabili le intercettazioni, autorizzate dalla autorità giudiziaria nazionale, anche nei casi in cui le stesse abbiano avuto a oggetto conversazioni con utenti che si trovino all’estero, allorquando siano state effettuate avvalendosi della tecnica del cosiddetto "istradamento", che consente la captazione delle telefonate che transitano dalle centrali collocate nel territorio italiano, e cioè attraverso i cosiddetti "ponti telefonici". In questo caso, infatti, l’attività di intercettazione viene eseguita esclusivamente se la telefonata, pur avendo a oggetto un’utenza straniera, o essendo compiuta all’estero, si avvale di una delle centrali collocate in Italia per collegarsi con altra utenza, ovvero nel caso inverso che altra utenza si colleghi a quella estera usufruendo dei ponti telefonici siti in Italia. Da ciò deriva così che trattasi di metodica che, rispettando la sovranità di ogni singolo Stato, perché tutta l’attività di intercettazione, ricezione e registrazione delle telefonate viene compiuta sul territorio italiano, non necessita del ricorso alla procedura della rogatoria di cui all’articolo 727 del Cpp. Ricorso che sarebbe invece necessario solo in riferimento a interventi che dovessero compiersi all’estero per intercettazioni di conversazioni captate solo da un gestore straniero (sezione IV, 28 febbraio 2008, Volante; nonché, sezione IV, 6 dicembre 2011, Lazzaro e altri). La confisca per equivalente non può superare il valore del profitto. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 8 febbraio 2016 Misure di sicurezza - Patrimoniali - Confisca per equivalente - Sospensione condizionale della pena - Estensione degli effetti sospensivi alla confisca - Esclusione. La sospensione condizionale della pena non estende i propri effetti alla confisca per equivalente, non potendosi essa parificare ad una pena accessoria. • Corte cassazione, sezione II, sentenza 13 novembre 2015 n. 45324. Misure di sicurezza - Patrimoniali - Confisca per equivalente - Beni acquisiti dall’imputato post confisca - Ablazione - Ammissibilità. In tema di confisca per equivalente, poiché il giudice è tenuto a indicare solo l’importo complessivo del prezzo o del profitto del reato e non anche i beni da apprendere, l’ablazione può avere ad oggetto, fino alla concorrenza dell’importo determinato, non solo i beni già individuati nella disponibilità dell’imputato, ma anche quelli che in detta disponibilità entrano dopo il provvedimento di confisca. • Corte cassazione, sezione VI, sentenza 30 luglio 2015 n. 33765. Misure di sicurezza - Patrimoniali - Confisca per equivalente - Estinzione del reato per prescrizione - Possibilità - Esclusione. Il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, non può disporre, atteso il suo carattere afflittivo e sanzionatorio, la confisca per equivalente delle cose che ne costituiscono il prezzo o il profitto. • Corte cassazione, sezioni Unite, sentenza 21 luglio 2015 n. 31617. Misure di sicurezza - Patrimoniali - Confisca per equivalente - Pluralità di indagati per lo stesso reato - Ripartizione "pro quota" dell’importo corrispondente all’ammontare totale del prezzo o del profitto del reato - Necessità. In caso di concorso di persone nel medesimo reato, la confisca per equivalente di cui all’art. 322 ter cod. pen. non può eccedere, per ciascuno dei concorrenti, la quota di prezzo o profitto a questi attribuibile, anche quando nei confronti degli altri correi non può essere disposto alcun provvedimento ablatorio, attesa la natura sanzionatoria della misura in parola. • Corte cassazione, sezione V, sentenza 14 maggio 2015 n. 20101. Misure di sicurezza - Patrimoniali - Art. 1 comma 143 l. n. 244/2007 - Confisca per equivalente per i reati tributari - Applicabilità retroattiva - Esclusione - Ragioni. La confisca per equivalente, introdotta per i reati tributari dall’art. 1, comma 143, l. n. 244/2007 ha natura eminentemente sanzionatoria e, quindi, non essendo estensibile ad essa la regola dettata per le misure di sicurezza dall’art. 200 cod. pen., non si applica ai reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 244/2007 medesima. • Corte cassazione, sezioni Unite, sentenza 23 aprile 2013 n. 18374. Formazione dei magistrati, un ruolo maggiore al Csm di Luca Palamara (Presidente della Sesta Commissione del Csm) Corriere della Sera, 8 febbraio 2016 Il clamore suscitato dall’invito, poi revocato, dal nuovo Comitato direttivo della Scuola, agli ex brigatisti Bonisoli e Faranda al corso organizzato dalla Scuola superiore della Magistratura su "Giustizia riparati-va e alternative al processo e alla pena" offre l’occasione per svolgere alcune riflessioni sul tema della formazione dei magistrati. È bene ricordare che l’idea della formazione dei magistrati è nata grazie alla felice intuizione del Consiglio superiore della Magistratura che per circa venticinque anni ne è stato l’esclusivo protagonista. Si può anzi dire che per lungo tempo il settore della formazione giudiziaria è stato il fiore all’occhiello dell’Organo di governo autonomo della magistratura. Il decreto legislativo del 2006 che ha istituito la Scuola superiore della Magistratura ha introdotto un nuovo riparto di competenze nella materia della formazione giudiziaria, attribuendo un ruolo centrale alla Scuola nella materia della formazione e dell’aggiornamento professionale dei magistrati. Al Consiglio è rimasto il solo potere di formulare le linee guida generali sulla formazione dei magistrati. Oggi, la limitata possibilità d’intervento del Csm è oggetto di un rinnovato dibattito all’interno della magistratura e dello stesso Organo di autogoverno, in particolare nell’ambito della Sesta Commissione da me presieduta. In una recente delibera del giugno del 2015, muovendo dalla posizione di assoluta centralità conferita dalla Costituzione al Csm a tutela dell’autonomia e dell’indipendenza dei magistrati, delle quali la formazione costituisce espressione e presupposto indispensabile, è stata sottolineata la necessità che venga quanto meno assicurato un maggior raccordo tra le due Istituzioni. Nonostante il Csm abbia tentato di stimolare una maggiore collaborazione su alcuni temi di attualità incidenti anche sulla formazione - mi riferisco ai due recenti seminari voluti dal Consiglio e realizzati con la Scuola su giustizia e informazione e terrorismo di matrice jihadista - resta il fatto che i limiti evidenziati dall’attuale assetto normativo, per gli stretti margini d’intervento offerti all’Istituzione consiliare e la non completa aderenza alla posizione costituzionale dell’Organo dì governo autonomo della magistratura, sollecitano una nuova riflessione sulle prospettive della formazione dei magistrati. Nel breve termine il Csm può e deve intervenire assicurando una più efficace presenza nelle attività formative oltreché una più stretta cooperazione con la Scuola, eventualmente attraverso l’istituzione di un tavolo di consultazione permanente. Nel medio periodo, tuttavia, mi appare auspicabile un intervento normativo che ampli le competenze dell’Organo di autogoverno dei magistrati nella materia della formazione giudiziaria in modo da renderle più confacenti alle prerogative costituzionali del Csm e consentire il superamento di quelle criticità che, com’è sotto gli occhi di tutti, in questi primi anni di funzionamento della Scuola, si sono manifestate. Lombardia: solo "posti in piedi" nelle carceri, per 6.132 letti ci sono 7.826 detenuti di Mario Consani Il Giorno, 8 febbraio 2016 Sovraffollamento del 27%, circa 5 volte peggio della media nazionale. A Como va la maglia nera senza discussioni, ma è in tutta la Lombardia che la situazione non è buona. Il "Bassone" dovrebbe ospitare al massimo 221 detenuti e invece a fine dicembre ce n’erano 404, quasi l’83% in più della capienza regolamentare. Ma è la situazione complessiva delle carceri regionali della Lombardia che continua a preoccupare per il sovraffollamento. Proprio ora che un detenuto ha ottenuto un risarcimento (irrisorio) per aver dovuto scontare una pena in una cella troppo piccola: 7,9 euro al giorno, 1.600 euro per una detenzione definita inumana a san Vittore I dati del ministero della Giustizia non lasciano dubbi. Nelle 18 strutture della Regione, il tutto esaurito sarebbe a quota 6.132, invece a fine gennaio i detenuti erano ben 7.826, quasi 1.700 più del dovuto, un sovrappiù del 27%, circa 5 volte peggio della media nazionale di sovraffollamento, che in questi anni è scesa fino al tasso tollerabile del 5 per cento di fine anno. Lo ha ammesso chiaramente una settimana fa anche la presidente vicaria della Corte d’appello Marta Malacarne, nella sua relazione per l’inaugurazione del nuovo anno giudiziario: "La situazione appare ancora critica nel distretto di Milano". E i dati di riferimento che ha offerto per gli istituti sul territorio - in termini di "variazione percentuale rispetto alla capienza regolamentare - sono in effetti critici. Como a parte, si va dal + 66% di Vigevano (397 detenuti per 239 posti) al +50% di Monza (604 per 403 posti), il + 44% di Lodi e di Busto Arsizio, il + 41% di Opera e così via fino alle poche situazioni almeno sulla carta tollerabili come il clamoroso +16% di San Vittore (873 detenuti per 750 posti, di solito e storicamente molto più sovraffollato), il + 8% di Voghera, il + 4% di Pavia. Unica isola felice, come sempre, il carcere di Bollate con un - 12%, perché solo 1.096 dei 1.242 posti letto erano occupati, a fine anno. Ma la "selezione" necessaria per entrare a Bollate (in termini di storia carceraria e personale), fa sì che il "tutto esaurito" si registri molto raramente. Ma se nel distretto di Milano la situazione "è ancora critica", stando alle parole della presidente Malacarne, anche nel resto della Lombardia come si è visto non va meglio. Con 536 detenuti nei 330 posti regolamentari, Bergamo tocca un +62% di sovraffollamento (secondo posto assoluto), ma anche i due penitenziari di Brescia si attestano sul +60%, mentre Mantova va un po’ meglio con il +30% (141 ospiti, 104 posti) e a Cremona si vede uno spiraglio con un + 15% (454 presenti, 393 sulla carta). In un quadro carcerario dove le ombre sono assai più delle luci, la presidente della Corte d’appello ha sottolineato in positivo la realtà delle cosiddette "celle aperte". "Negli istituti penitenziari - ha detto Malacarne - è stato ampliato il numero di sezioni caratterizzate dal "patto trattamentale" con i soli detenuti definitivi: questi, a fronte dell’impegno a mantenere un comportamento corretto e partecipativo, sono autorizzati a permanere all’esterno della cella di appartenenza". Piacenza: il Garante "riuscirà lo Stato ad abolire il carcere… non la pena, ma questa pena?" di Renato Passerini ilpiacenza.it, 8 febbraio 2016 Il carcere a Piacenza e in Italia. Alberto Gromi (Garante dei detenuti): occorre far comprendere che dietro al reato c’è una persona che ha commesso un errore, talvolta grave, ma che non può essere privata dei suoi diritti fondamentali e della sua dignità. Visitare i carcerati. Tra le opere di misericordia questa è una delle più difficili da praticare, perché il carcere non è un ambiente accessibile a chiunque: leggi e regolamenti consentono visite esclusivamente a persone autorizzate. Un contributo alla conoscenza del grave problema etico e sociale delle condizioni di vita nelle carceri è stato fornito all’Oratorio della parrocchia Nostra Signora di Lourdes, da una conversazione svolta dal professor Alberto Gromi, garante, su nomina del Comune, dei diritti delle persone private delle libertà personali. "La situazione all’interno della Casa circondariale (Le Novate) di Piacenza - ha spiegato Gromi - presenta le inquietanti criticità delle carceri italiane: essere un luogo di espiazione senza offrire significativi percorsi di rieducazione. Il carcerato è un uomo che soffre, perché privato della libertà, perché si sente emarginato e condannato anche prima della sentenza definitiva. Nel nostro carcere ci sono circa 320 detenuti (60% stranieri); persone in attesa di prima sentenza, di appello e detenuti definitivi. Gli agenti di polizia penitenziaria sono circa duecento; solo tre sono gli educatori e tutti di formazione giuridica, un numero assolutamente insufficiente". Il detenuto, secondo uno studio statistico nazionale - prosegue il garante - ha l’opportunità di un colloquio con uno psicologo della durata media di dieci minuti ogni anno. Indicativa in proposito la testimonianza raccolta da Gromi: "Come posso aprirmi con la psicologa se so che poi il percorso che inizio non proseguirà? Quindi non parlo. "Il detenuto non collabora", si legge spesso nelle relazioni degli specialisti". Alberto GromiLe direttive sulla umanizzazione della pena - ha spiegato Gromi - hanno portato nelle carceri di media sicurezza come il nostro, l’apertura delle celle e questa è stata un’azione positiva, ma i carcerati lasciati a se stessi ora vagano per ore nei corridoi, non sanno cosa fare; gli argomenti di quotidiana conversazione sono il processo, la liberazione anticipata, l’amnistia, se ci sarà o non ci sarà. E siccome non hanno risposte dalla struttura e nemmeno dal garante o comunque non nell’immediato, prevale in loro un atteggiamento continuo di rabbia e di rivendicazione. Il sovraffollamento è stato superato, il disagio e la disperazione no. Servirebbero quindi lavoro, scuola, cultura e vari corsi. Manca, in sostanza, uno strumento che in termini penitenziari si dice "trattamentale", vale a dire tutta l’attività di rieducazione e socializzazione. In questa apatia ambientale sono pochissimi coloro che prendono consapevolezza di aver commesso un reato per il quale stanno scontando anni di galera. La maggior parte non si confronta con il reato commesso, il suo obiettivo è contare i giorni che mancano all’uscita premio o all’udienza per gli arresti domiciliari. "I tentativi di suicidio sono numerosi nonostante la Casa Circondariale di Piacenza abbia nel suo interno una struttura sanitaria di eccellenza nella quale sono convogliate persone con problemi psichiatrici. Frequente è l’autolesionismo praticato soprattutto fra detenuti di Questo dà molti problemi a chi all’improvviso si trova in contiguità con il sangue". Il volontariato - "La funzione del volontariato è importante, ma è necessario accostarsi al carcere liberi da sentimenti di curiosità o di pietismo e non limitarsi all’intrattenimento. Tutto serve, lo svago è utile, ma va accompagnato da attività di aiuto e responsabilizzazione che tolgano il detenuto dalla situazione passiva nella quale è adagiato innescando riflessione e auto consapevolezza". Gromi ha affermato più volte che il più grave dei problemi del carcere piacentino e in genere dei penitenziari italiani, è la carenza del programma di rieducazione. E ancora: "Come può attuarsi la riabilitazione se non c’è tempo e modo per riflettere sulla loro colpa, se non c’è nessuno che li aiuta? Io stesso - rivela Gromi - sono più utile ai detenuti nelle azioni che compio all’esterno della casa circondariale: analisi e colloqui con le istituzioni, esame dell’iter di alcuni casi, di situazioni familiari e simili". Un aiuto maggiore da parte del volontariato potrebbe essere offerto al termine della pena: un aiuto fatto di vicinanza, di sostegno nel reinserimento lavorativo, nel recupero di relazioni più o meno compromesse. Proprio su questo tema il garante è attualmente impegnato e sta esplorando la possibilità di istituire anche a Piacenza una struttura che accolga i detenuti che non hanno dimora. La pietà cristiana può fare molto: educare la comunità ad evitare assurde condanne e a porsi, invece, in atteggiamento di accoglienza e di solidarietà. All’interno del carcere tutto diventa difficile perché i regolamenti e comportamenti umani a volte ostacolano la libertà di movimento, di colloquio e la volontà del fare dei volontari e dello stesso "garante" il quale è assillato da una domanda: "Riuscirà lo Stato ad abolire il carcere, non la pena, ma questa pena?". Venezia: il Comune chiude tutti gli interventi a favore dei detenuti di Santa Maria Maggiore di Giorgio Cecchetti La Nuova Venezia, 8 febbraio 2016 Il Comune chiude tutti gli interventi a favore dei detenuti di Santa Maria Maggiore mentre prosegue la collaborazione alla sezione femminile della Giudecca. "Ci sono troppi divieti e ostacoli". Si è interrotta la collaborazione più che decennale tra l’amministrazione comunale di Venezia e il carcere di Santa Maria Maggiore. A pagare saranno, purtroppo, i detenuti che non avranno più il giornalino e un’altra serie di possibilità che fornivano i laboratori messi in piedi grazie all’intervento dell’assessorato alle Politiche sociali di Cà Farsetti, che ora è retto da Simone Venturini. Ufficialmente nessuno rilascia dichiarazione, ma la causa di questa rottura sembrano essere una serie di divieti e decisioni della direttrice del carcere Immacolata Mannarella: "Da qualche tempo ci siamo trovati di fronte a veri e propri ostacoli alle nostre attività. Il primo è stato il divieto di organizzare altri incontri tra gli studenti di un istituto superiore di Venezia e alcuni detenuti" raccontano in Comune. Poi, si è interrotta la collaborazione per far uscire il giornalino, infine, un piccolo incidente idraulico ha bloccato l’utilizzo dei locali utilizzati per i laboratori e quando è stato risolto è mancata l’autorizzazione a ricominciare l’attività. A quel punto, i responsabili dell’assessorato alle Politiche sociali di Cà Farsetti che si occupano di Santa Maria Maggiore hanno preso atto che tutte le attività all’interno del carcere erano concluse, così hanno comunicato alla direttrice che la collaborazione era definitivamente conclusa. Questo accade proprio nel momento in cui dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di Roma arrivano indicazione precise a tutte le direzioni della case di reclusione e dei penitenziari, in modo da potenziare i rapporti con gli enti locali, oltre che per incentivare la presenza delle associazioni dei volontari e delle cooperative all’interno delle carceri. Tanto che nell’altro carcere veneziano, quello femminile della Giudecca diretto da Gabriella Straffi, non si contano le iniziative anche dell’amministrazione comunale lagunare a favore delle detenute. Probabilmente, con le detenute è più facile che con i detenuti, ma le esperienze di altre carceri maschili in diverse città, da Padova a Milano, da Roma a Opera, dimostrano il contrario. Grazie a più flessibilità, con una maggiore disponibilità a mettere da parte regole rigide e a collaborare con l’esterno in modo che il carcere diventi davvero anche un luogo di rieducazione e non solamente di espiazione della pena. E Venezia a dimostrato più volte di essere in grado di offrire opportunità grazie all’esistenza di una rete di volontariato attiva e ormai collaudata e alla disponibilità degli enti locali. Santa Maria Maggiore, invece, a differenza della Giudecca, rimane un corpo separato più che le carceri di altre città. E gli avvenimenti registrati all’interno non hanno certo aiutato. Innanzitutto le proteste dei detenuti durante la scorsa estate, per la maggior parte una mobilitazione del tutto pacifica. Poi le contestazioni mosse alla direzione dagli stessi agenti della polizia penitenziaria, che hanno contestato la gestione dei turni e dell’organizzazione del lavoro. Avellino: una delegazione dei Radicali Italiani in visita al carcere di Bellizzi Irpino irpinia24.it, 8 febbraio 2016 Nei prossimi giorni una delegazione dei Radicali Italiani e dei Giovani Giuristi Vesuviani si recherà in visita ispettiva in diverse Carceri ed Opg della Regione Campania al fin di rendersi conto delle condizioni di vita dei detenuti e degli internati, sulla conformità del trattamento ad umanità e sul rispetto della dignità della persona da parte dell’Amministrazione Penitenziaria. Le visite - organizzate da Emilio Enzo Quintieri, esponente radicale calabrese, già membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani unitamente a Salvatore Del Giudice, Avvocato e Presidente dell’Associazione Giovani Giuristi Vesuviani - su richiesta dell’Onorevole Rita Bernardini, già Deputato ed ex Segretario Nazionale dei Radicali, sono state autorizzate dal Dirigente Generale Massimo De Pascalis, Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. Sette saranno le strutture detentive che verranno ispezionate dalla delegazione visitante : la Casa Circondariale di Napoli Poggioreale "Giuseppe Salvia" e la Casa Circondariale di Napoli Secondigliano (lunedì 8), l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario "Filippo Saporito" di Aversa e la Casa Circondariale "Francesco Uccella" di Santa Maria Capua Vetere (martedì 9), la Casa Circondariale di Avellino "Bellizzi Irpino" e la Casa Circondariale di Benevento "Capodimonte" (mercoledì 10) nonché la Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli (giovedì 11). A Poggioreale, al momento, a fronte di una capienza regolamentare di 1.640 posti, sono ristretti 1.928 persone, 289 delle quali straniere (288 in esubero); a Secondigliano, invece, a fronte di una capienza di 897 posti, sono detenuti 1.303 persone, 49 delle quali straniere (406 in esubero). Nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (Opg) di Aversa, il più antico manicomio criminale d’Italia (1876), che avrebbe dovuto essere chiuso da tempo nel rispetto della Legge n. 81/2014 e sostituito da Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems), sono ospitati ancora 44 internati, 5 dei quali stranieri, per una capienza regolamentare di 206 posti letto. Prossimamente dovrebbe essere riconvertito in un Istituto Penitenziario a custodia attenuata per accogliere 200 detenuti a basso indice di pericolosità. Nel Carcere di Santa Maria Capua Vetere, invece, a fronte di una capienza di 833 posti, ci sono 926 detenuti, 179 dei quali stranieri e 66 donne (93 in esubero). L’Istituto Penitenziario di Avellino Bellizzi Irpino, avente una capienza di 500 posti, ospita 507 detenuti, 57 dei quali sono stranieri e 27 donne (7 in esubero). In questo stabilimento penitenziario, tra l’altro, ci sono 3 detenute madri con figli al seguito (1 italiana e 2 straniere). Nella Casa Circondariale di Benevento Capodimonte, sono ristrette 386 persone, 40 straniere, 22 delle quali donne, per una capienza di 254 posti detentivi (132 in esubero). Infine, nel Carcere Femminile di Pozzuoli, a fronte di una capienza di 105 posti, sono ristrette 159 detenute, 47 delle quali di nazionalità straniera (54 in esubero). La delegazione che visiterà le predette strutture penitenziarie oltre a Quintieri e Del Giudice, sarà composta dagli Avvocati Alessandro Maresca, Michele Coppola, Domenico La Gatta,Arcangelo Giacinto, Gaetano Salvadore, Luigi Silvestro, Nicole Scognamiglio, Rosanna Russoe Claudia Romano. Parma: scrittura creativa in carcere, i detenuti rinunciano all’ora d’aria per studiare le parole La Repubblica, 8 febbraio 2016 Il 22 febbraio lo scrittore Gianrico Carofiglio in carcere. La punta di un progetto assai ricco e variegato, unico in Italia. Il lavoro portato avanti dalla cooperativa Sirio, che festeggia i 30 anni di attività e che è stata promossa con lode dalle ispezioni e i controlli del Ministero. Sirio è una stella, tra le più luminose. A Parma "Sirio", oltre che la prima raccolta di poesie di Attilio Bertolucci, dedicata alla parola Tempo, è il nome di una cooperativa che compie 30 anni. Voluta da quel libertario difensore dei diritti che fu Mario Tommasini, "Sirio" ha portato, tra mille e mille difficoltà, coerenti raggi di luce dietro le sbarre convinto che "il carcere non sia né uno strumento di rieducazione né un’opportunità di liberazione degli individui". Una scia lunga trent’anni che oggi approda ad un progetto unico in Italia. Nel carcere di Riina, di Provenzano ed altri, alcuni detenuti della sezione di sicurezza, tra loro anche qualche ergastolano, rinunciano alle loro ore d’aria per studiare le parole. Non solo per lavorare a volte a distanza a volte vicino, sulle parole con studenti e docenti universitari. Il frangiflutto di questo progetto sarà l’incontro in carcere con lo scrittore Gianrico Carofiglio il 22 febbraio. È bene sottolineare che la coop sociale "Sirio" non ha nulla a che spartire con gli scandali di Roma capitale, anzi dopo quei fatti il Ministero dello sviluppo economico ha mandato una ispezione a Parma ha rivoltato conti, parole e azioni della cooperativa che lavora coi detenuti oltre ad aver inserito decine di svantaggiati come operatori ecologici in città. Il risultato ? Una promozione con lode per la serietà e il rigore della coop parmigiana che in 30 anni a reinserito circa 300 detenuti. Che ha organizzato con loro e per loro anche toccanti incontri con Gherardo Colombo, Agnese Moro e Franco La Torre dietro le sbarre del carcere cittadino. Sirio è una stella complessa, tante le sfaccettature della luce, tante le sfaccettature delle parole e delle azioni qui nel mondo sociale. Le tante iniziative verranno presentate lunedì 8 all’Università Gli Istituti penitenziari di Parma si aprono all’Università e alle scuole superiori, nell’ottica di una collaborazione virtuosa e di una piena integrazione fra realtà del territorio: lezioni universitarie e laboratori dentro il carcere, con il coinvolgimento di studenti e detenuti. È lo spirito di fondo di un progetto coordinato dalla Cooperativa sociale Sirio, da trent’anni anni impegnata nel reinserimento socio lavorativo e in attività educative - formative con e per i detenuti, in collaborazione con l’Ateneo, gli stessi Istituti penitenziari e i Licei "Albertina Sanvitale" (Liceo delle Scienze Umane) e "Paolo Toschi" (Liceo Artistico) e la redazione radiofonica "Non ci sto più dentro". Camus in carcere - Il tema sarà "Risentimento e riconciliazione. Dinamiche psichiche, sociali e culturali". I partecipanti saranno invitati a riflettere sulle dinamiche, micro e macro sociali insieme, che generano risentimento tra le persone nella società contemporanea: ci si confronterà sulle parole "risentimento" e "riconciliazione", a partire dalle esperienze dei partecipanti, e si lavorerà insieme a partire dal film "Lo straniero" di Luchino Visconti, tratto dall’omonimo libro di Albert Camus, che sarà proiettato in due incontri. Nell’iniziativa saranno coinvolti studenti del corso di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e anche detenuti (iscritti all’Università e non). Università dietro le sbarre - Due corsi universitari varcano le porte degli Istituti penitenziari di Parma: il corso di "Sociologia dei processi culturali e comunicativi" (Corso di laurea magistrale in Giornalismo e cultura editoriale), tenuto dal prof. Sergio Manghi, e il corso di "Politiche sociali" (Corso di laurea in Servizio sociale), tenuto dalla prof.ssa Vincenza Pellegrino. Il corso di "Sociologia dei processi culturali e comunicativi" entra in carcere dal 15 febbraio al 15 marzo: per 5 settimane, una delle tre lezioni settimanali del corso (quella del lunedì) si terrà negli spazi degli Istituti penitenziari. La manomissione delle parole - Coinvolge gli studenti universitari, i detenuti e gli alunni dei Licei Sanvitale e Toschi e che è incentrato sul linguaggio: a partire dall’omonimo volume di Gianrico Carofiglio i partecipanti svolgeranno laboratori socio-narrativi sulle parole vergogna, giustizia, ribellione, bellezza, scelta. Per i ragazzi dell’Università e per quelli delle scuole ci sarà un lavoro rispettivamente in Ateneo e in classe, seguito poi da diversi incontri di confronto in carcere con i detenuti, che nel frattempo avranno sviluppato e svolto una loro attività laboratoriale. E grazie all’accordo di collaborazione didattica tra il corso di laurea in servizio sociale e la cooperativa Sirio, due studentesse parteciperanno al laboratorio che si svolgerà con i detenuti per poi realizzare la tesi di laurea sul tema. Per gli alunni delle superiori si tratterà in primis di un percorso di sensibilizzazione, per gli studenti di Politiche sociali di un’esperienza di stampo anche "professionalizzante": lavorare sul linguaggio è infatti molto importante per futuri operatori sociali che si troveranno davanti a mondi molto differenziati del disagio, con immaginari diversi, propri, specifici. Il progetto "La Manomissione delle parole. Laboratorio socio narrativo" e l’inizio del laboratorio del corso di "Politiche sociali" saranno presentati con un incontro pubblico nell’Aula dei Filosofi dell’Università lunedì 22 febbraio alle ore 17: ospite d’eccezione sarà proprio Gianrico Carofiglio, che arriverà in Ateneo dopo avere incontrato in carcere i detenuti. Con lo scrittore interverranno il Rettore Loris Borghi, la Presidente della Cooperativa Sirio Patrizia Bonardi, il responsabile formazione della Sirio Giuseppe La Pietra e la Prof.ssa Vincenza Pellegrino. Gianrico Carofiglio converserà con il direttore di "Repubblica Parma", Antonio Mascolo, sul suo ultimo libro "Con parole precise. Breviario di scrittura civile". Volterra (Pi): Festival Scenari Pagani, premiati Armando Punzo e i detenuti attori Il Tirreno, 8 febbraio 2016 Il 2016 si apre per Carte Blanche, Armando Punzo e la Compagnia della Fortezza con un nuovo prestigioso riconoscimento: arriva dalla Campania, nell’ambito del Festival Scenari Pagani, il Premio "Scenari Pagani", assegnato al regista e alla sua compagnia, da Casa Babylon, centro permanente di sviluppo e promozione della cultura del teatro e dello spettacolo in provincia di Salerno e nella Regione Campania, che ha invitato allora l’artista, insieme ad alcuni suoi collaboratori, a sviluppare un progetto speciale site specific. Sono passati quattro anni dal giorno in cui dalla Fortezza Medicea e dalle piazze di Volterra, Pomarance e Montecatini Valdicecina è partito il viaggio di Mercuzio, il poeta sognatore, che ha attraversato tutta l’Italia coinvolgendo migliaia di persone. Un progetto partorito in occasione del Festival Volterra Teatro nel 2012 e dopo il quale si sono formati importanti gruppi di aggregazione culturale (primo tra tutti il Laboratorio Logos) che continuano a lavorare a Volterra e sul territorio, ad importanti progetti culturali. Dal 16 al 20 febbraio il progetto sbarca a Casa Babylon di Pagani, dove in collaborazione con partner culturali e accademici, tra cui l’Università di Salerno, saranno numerosi gli appuntamenti aperti alla città. Al centro del progetto i due appuntamenti spettacolari. Tra questi, il decimo capitolo della "Giornata della Partenza", azione teatrale collettiva in cui il pubblico sarà chiamato a interagire attivamente con Punzo, Aniello Arena e la musica dal vivo di Andrea Salvadoria un laboratorio teatrale intensivo condotto dal regista e la presentazione alla Feltrinelli di Salerno del libro di Armando Punzo, "È ai vinti che va il suo amore". Bari: laboratorio di scrittura creativa "Caffè Ristretto", al via la quarta edizione giornaledipuglia.com, 8 febbraio 2016 Prende il via oggi, lunedì 8 febbraio, "Caffè Ristretto - quarta edizione" - finanziato dall’Assessorato alle Politiche Giovanili, Educative, Università e Ricerca, Politiche attive del lavoro, Fondi europei del Comune di Bari al CPIA1 di Bari e che per il secondo anno consecutivo coinvolge anche il Carcere minorile Ipm Nicola Fornelli di Bari. Il laboratorio di scrittura creativa, ideato e curato dalla scrittrice e drammaturga barese Teresa Petruzzelli, prende il via dal carcere minorile con la visione di un film della saga di Harry Potter. La visione sarà seguita dalla professoressa Mariangela Taccogna che svilupperà con i ragazzi partecipanti un laboratorio di recensioni cinematografiche. La scelta dei temi e dei film da analizzare è finalizzata al recupero dell’infanzia negata, mentre durante il laboratorio si porterà avanti una riflessione su fatti e dinamiche a cui spesso i giovani non sono abituati. A sostenere l’iniziativa quest’anno c’è anche la libreria "La Feltrinelli" (via Melo) che donerà all’Ipm di Bari alcuni libri e dvd tematici, per avviare la creazione di una cineteca fruibile dagli ospiti dell’Istituto. La situazione relativa alle condizioni dei detenuti nella Casa Circondariale di Bari è complessa e necessita di interventi educativi strutturati, coordinati e coerenti in un percorso di riabilitazione che sia quanto più stabile possibile. Il caffè letterario nel carcere di Bari, uno dei primi a livello nazionale, è ormai arrivato alla quarta edizione. I progetti scorsi presentati dal CPIA1 di Bari, finanziati e sostenuti dall’Assessorato alle Politiche giovanili del Comune di Bari e dall’Assessorato al Diritto allo studio e alla Formazione della Regione Puglia con il patrocinio dell’ufficio Garante dei diritti dei detenuti, hanno offerto la possibilità di rendere l’intera attività un punto di riferimento culturale non solo per i detenuti e i docenti della scuola carceraria ma per tutta la cittadinanza. Ospiti e interlocutori dei laboratori di scrittura e lettura sono stati gli operatori culturali (giornalisti, critici, editori, artisti, scrittori, testate giornalistiche, studenti, politici, associazioni di volontariato e culturali) diventando parte attiva del processo relazionale e del dibattito con i detenuti della casa circondariale. Sono stati affrontati importanti temi di interesse collettivo quali: la famiglia, la solitudine, l’identità, attraverso la lettura e la recensione di testi affidata ai detenuti per poi confrontarsi con gli autori degli stessi libri. Cento intensissime ore di laboratori e cui si aggiungono numerose rappresentazioni e dibattiti con pubblico esterno, grazie anche alla collaborazione e all’impegno della Direzione e dell’Area Trattamentale e della Polizia Penitenziaria. Per questo, la quarta edizione di "Caffè ristretto" riservata ai detenuti nella casa circondariale di Bari Francesco Rucci, realizzata dal CPIA1 Bari che presiede la scuola carceraria inserita nella Casa Circondariale di Bari, partirà nel mese di marzo, con un programma ricco di attività e incontri formativi e informativi con addetti ai lavori del mondo della cultura (librai, editori, scrittori, critici, artisti etc.); workshop con giornalisti su temi concordati e una collaborazione attiva con La Gazzetta del Mezzogiorno, la testata giornalistica più letta di Puglia finalizzati alla produzione di testi e articoli per il format Newspaper game. Info: Teresa Petruzzelli: 3478147675. Brescia: il carcere di Verziano diventa il set di un film giornaledibrescia.it, 8 febbraio 2016 "Un film interamente realizzato nel carcere di Verziano, con attori professionisti impegnati a recitare accanto ai detenuti, che poi saranno coinvolti anche nelle fasi di montaggio". Il regista genovese Nicola di Francescantonio descrive così il lungometraggio "Gina", del quale è pronto a battere il primo ciak entro la fine del mese nella casa circondariale di via Flero. "Sono previste cinque settimane di lavoro sul set, dove passeranno a trovarci alcuni ospiti speciali come Pupi Avati e Vladimir Luxuria, che supporteranno il progetto con la loro presenza amichevole nel film", spiega il cineasta. Il titolo "Gina" è l’acronimo di "Gente Interrotta Nuovamente Attiva" e lo spirito dell’iniziativa è proprio la volontà di proporre un’occasione dalle forti potenzialità creative, umane e formative per i circa 40 detenuti (sia uomini sia donne) che prenderanno parte alle attività programmate a Verziano. Si delineano, peraltro, i tratti di un’esperienza sociale di grande interesse per tutti i soggetti protagonisti di questa avventura bresciana, a partire dal cast di professionisti in arrivo in città per recitare nel film: gli attori Dario D’Ambrosio (noto per il ruolo dell’ispettore Canton, al fianco commissario Scialoja nella serie tv "Romanzo Criminale"), Luca Lionello (figlio del celebre attore e doppiatore Oreste), Alessandra Celi (figlia degli attori Adolfo Celi e Veronica Lazar) e Sara Bertelà, attrice teatrale con esperienze sul piccolo schermo. Nicola di Francescantonio racconta: "La mia idea, inizialmente, era proporre un corso di cinema in carcere, ma desideravo renderlo innovativo e l’intuizione vincente è arrivata accettando la sfida di trasformare l’esperienza didattica in un vero laboratorio di produzione, che porterà i partecipanti a realizzare un film: non solo le riprese, ma anche tutte le fasi di postproduzione saranno momenti di scambio culturale per chi prenderà parte al progetto. Inoltre cinque ex carcerati genovesi hanno accettato di seguirmi a Brescia: una scelta davvero significativa, che aggiunge valore al gruppo di persone che hanno creduto nella proposta, tra le quali desidero ringraziare Francesca Paola Lucrezi, direttrice della casa di reclusione di Verziano, e l’educatrice Anna Garda, impegnata nelle attività pedagogiche interne al carcere". La trama di "Gina" è ricca di omaggi alla settima arte, come chiarisce di Francescantonio, autore anche del soggetto e della sceneggiatura: "Si tratta di una storia ambientata nel periodo natalizio, con atmosfere felliniane e "un ritmo alla Emir Kusturica". La narrazione procede su due livelli: si racconta l’avventura di un regista che si reca all’interno di un istituto di reclusione per tenere lezioni di cinema e inizialmente non viene accettato. Questa vicenda principale consente di svelare il backstage di un set cinematografico, con tutti i suoi segreti, che, a poco a poco, affascinano i corsisti". Il regista genovese, affiancato per la produzione dalla FM Communication di Fabio Montecalvo, oltre ad avere alle spalle una lunga esperienza in Rai, ha diretto numerosi spot e videoclip. Nel 2013 ha firmato il documentario "Una canzone per il Paradiso", un racconto a tratti visionario girato nel cuore di Genova, mettendosi in cammino con Gino Paoli e don Andrea Gallo sulle tracce dei cantautori Fabrizio De Andrè, Luigi Tenco, Bruno Lauzi e Umberto Bindi. Sempre pronto a far confluire nel suo cinema diverse forme artistiche, di Francescantonio nel film bresciano ospiterà anche il maestro pittore e scultore Odo Tinteri. Viterbo: successo per il concerto delle sorelle Sabatini per i detenuti di Mammagialla viterbonews24.it, 8 febbraio 2016 Grande successo a Viterbo al Teatro della Casa Circondariale "Mammagialla" per il concerto ‘Per un Tempo di Misericordià che le Missionarie della musica, le sorelle musiciste e Terziarie francescane Daniela e Raffaella Sabatini, rispettivamente pianista e violinista hanno tenuto nell’ambito del loro Festival internazionale per il Giubileo della Misericordia "Iubilaeum misericordiae in musica". Alla presenza di un pubblico, folto quanto attento ed entusiasta, le sorelle Sabatini hanno eseguito magistralmente con grande intensità e partecipazione interpretativa un interessante e variegato programma incentrato sul conforto spirituale della musica ai carcerati quale medicina dell’ anima che alternava a capolavori ispirati al tema della prigionia e della speranza, fra cui il celebre "Canto della prigione" dal Concerto n.1 di Nicolò Paganini e la "Ninna nanna" composta da Don Giuseppe Morosini nel 1944 durante la sua prigionia nel carcere di Regina Coeli, anche composizioni della stessa Daniela Sabatini In prima mondiale fra cui "La Giustizia" e le Variazioni sui temi de "Il carnevale di Venezia" di Paganini e de "La ronda notturna di Madrid" di Boccherini. Il concerto è stato inoltre integrato da interessanti spiegazioni con cui le sorelle Sabatini hanno introdotto ed illustrato il valore compositivo e spirituale di ogni brano, rispondendo anche alle pertinenti domande sulle musiche in programma rivolte loro dagli stessi detenuti i quali hanno seguito con grande interesse e partecipazione l’ intero concerto, tributando alle sorelle Sabatini un’autentica standing ovation con prolungati applausi e richieste di bis, tra cui l’Ave Maria di Gounod. Nel mondo 21 milioni di schiavi di Ilaria Sesana Avvenire, 8 febbraio 2016 Si celebra oggi la seconda Giornata internazionale di preghiera e riflessione contro la tratta di persone. Un’iniziativa fortemente voluta da papa Francesco e promossa alle Unioni dei Superiori e delle Superiore Generali che quest’anno si inserisce nell’ambito delle celebrazioni del "Giubileo della Misericordia per la liberazione degli schiavi di oggi". Un tema particolarmente caro a Francesco che, in diverse occasioni, ha denunciato il traffico di esseri umani definendolo crimine contro l’umanità: "Un’attività ignobile e una vergogna per le nostre società che si dicono civilizzate! Sfruttatori e clienti dovrebbero fare un serio esame di coscienza davanti a se stessi e davanti a Dio", aveva dichiarato nell’agosto 2013. Anche la data scelta per questa ricorrenza è stata scelta con particolare attenzione. L’8 febbraio infatti si festeggia santa Giuseppina Bakhita, schiava sudanese liberata e divenuta successivamente religiosa canossiana, canonizzata nel 2000 da Papa Giovanni Paolo II. Ragazze nigeriane, albanesi e romene costrette a vendersi. Donne asiatiche schiavizzate nelle case di ricchi libanesi. Uomini costretti ai lavori forzati nei cantieri edili dei Paesi del Golfo. Uomini e donne che spariscono nel nulla per alimentare il mercato clandestino di organi. Sono numerosi e diversi i volti della tratta di esseri umani. Così tanti che è molto difficile avere dati precisi: l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) e l’ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc) calcolano che le vittime di tratta siano circa 21 milioni di persone. Una moderna schiavitù che - sempre secondo le stime più accreditate - muove un giro d’affari pari a 32 miliardi di dollari l’anno. Le vittime sono soprattutto donne e bambini (il 70% del totale). Lo sfruttamento a fini sessuali resta la principale causa di trafficking a livello globale (coinvolge circa il 53% delle vittime) ma negli ultimi anni è cresciuta in maniera significativa la tratta ai fini di sfruttamento lavorativo (40%). Inoltre, evidenzia l’Unodc, sempre più spesso le vittime sono bambini che rappresentano circa un terzo di tutte le vittime di tratta che vengono individuate. Tra queste, due su tre sono di sesso femminile". L’Europa rappresenta una delle mete privilegiate per il traffico di esseri umani, soprattutto per quanto riguarda le giovani donne, destinate al mercato del sesso a pagamento. Di nuovo, è difficile avere dati attendibili sulle reali dimensioni del fenomeno, che resta in buona parte sommerso. Ma il più recente rapporto dell’Unione Europea parla di oltre 9.500 vittime di tratta accertate nel 2010, di cui il 15% rappresentato da minori. L’Italia, in questo fosco scenario, rappresenta uno dei principali Paesi di destinazione e di transito. Secondo le stime dell’associazione "Slaves no more", nel nostro Paese ci sarebbero tra le 50 e le 70mila donne vittime di tratta per lo sfruttamento sessuale. "Oltre la metà nigeriane e moltissime le minorenni", denuncia l’associazione. Ma lungo le strade e negli appartamenti di tante città italiane ci sono anche migliaia di giovani donne romene, albanesi, moldave e cinesi. A preoccupare gli osservatori, negli ultimi mesi, è il significativo aumento di giovani donne nigeriane. "A partire da settembre, abbiamo iniziato a notare un numero sempre crescente di nigeriane per le strade", spiega Lisa Bertini, operatrice della Cooperativa CAT di Firenze. "Dal 2010 a oggi le nigeriane a Milano sono praticamente raddoppiate. Nel 2015 è stata un’escalation. E sono sempre più giovani", aggiunge suor Claudia Biondi di Caritas Ambrosiana. Un incremento significativo che si lega a doppio filo con gli sbarchi di profughi sulle coste italiane. I trafficanti nigeriani, infatti, usano i barconi in partenza dalla Libia come "vettore" per far giungere in Italia le loro vittime. Che prima di finire in strada transitano per i centri di accoglienza dei profughi e - in molti casi - presentano anche richiesta d’asilo. Un fenomeno esploso nel 2015, come evidenzia l’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) con un dettagliato report: nel corso del 2015 sono arrivate in Italia 5.633 donne nigeriane, mentre nel 2014 erano state in tutto 1.454 e solo poco più di 400 nel 2013. Sulle loro spalle gravano debiti esorbitanti (tra i 30 e i 50mila euro) che le incatenano ragazze alle maman, le loro sfruttatrici. Ma non tutte le ragazze restano in Italia: le medie e grandi città come Roma, Bologna, Napoli, Palermo e Catania restano le mete privilegiate. "Ultimamente però alcune donne hanno dichiarato di dover raggiungere dei connazionali in Francia, Spagna, Austria e Germania. Segno che anche la tratta intra-europea è in grande crescita", denuncia l’Oim. Papa Francesco: debellare la tratta, crimine e intollerabile vergogna Il Sole 24 Ore, 8 febbraio 2016 "Aiutare i nuovi schiavi a rompere le loro catene", "debellare la tratta delle persone, che è un crimine e una intollerabile vergogna". Con un accorato e convinto appello papa Francesco dopo l’Angelus ha sostenuto l’azione della "Giornata di preghiera e riflessione contro la tratta delle persone", che celebra la sua seconda edizione domani, anniversario della nascita di Bakhita, la sudanese vissuta a cavallo tra Ottocento e Novecento, giunta schiava in Italia, diventata suora, proclamata santa nel 2000. Nell’appello di papa Bergoglio contro una delle peggiori schiavitù del XXI secolo, quello che, dopo il traffico della droga e quello delle armi, è il business più redditizio della criminalità mondiale, c’è tutto il suo stile pragmatico che non solo denuncia ma chiede azioni concrete, che vede non solo le cifre di un fenomeno sociale, ma porta nel cuore i volti dei nuovi schiavi: "Penso in particolare - ha detto davanti alla piazza gremita di circa 40.000 persone, molte delle quali intenzionate ad andare in basilica per l’ostensione delle reliquie di padre Pio e padre Leopoldo - a tante donne e uomini, e a tanti bambini!". Affiancando la denuncia contro la tratta della associazione "Slaves No More" e dell’ufficio "Tratta donne e minori" dell’ Unione superiore maggiori d’Italia (Usmi), la Chiesa italiana si è riunita ieri a Roma in una veglia contro la tratta, presieduta da monsignor Guerino Di Tora, vescovo ausiliare di Roma e presidente della Commissione episcopale per le migrazioni e della fondazione Migrantes. La veglia si è conclusa con un breve pellegrinaggio verso la porta santa della Casa della carità di via Marsala, nei pressi della stazione Termini. Le religiose dell’Usmi hanno diffuso in ogni parrocchia materiale per la denuncia e la preghiera contro la tratta. Occorre, affermano, "cercare di dare risposte a questa moderna forma di tratta di esseri umani, attraverso azioni concrete e coraggiose, consapevoli che il fenomeno è sempre in costante movimento e cambiamento, con un maggior numero di vittime, sempre più giovani, inesperte, analfabete e quindi facilmente ricattabili". Bisogna accogliere, spiegano, ma è fondamentale anche "denunciare sia le organizzazioni criminali con i loro ingenti guadagni e sia coloro che usano e abusano della povertà e della vulnerabilità di queste persone per farne oggetti di piacere". Secondo un rapporto della Caritas ambrosiana, "dietro l’incremento delle donne nigeriane tra i richiedenti asilo si nasconde il racket della prostituzione" e "spesso Milano è una "tappa" transitoria di un percorso di sfruttamento prostituivo che le porta in altre città o Stati (Spagna, Inghilterra, Germania)". Mentre, "per quanto riguarda l’età (dichiarata) delle donne, il 40 per cento si colloca nella fascia dai 18 ai 23 anni". Alla denuncia della tratta il Papa ha affiancato la richiesta per l’Italia di "un rinnovato impegno in favore della vita umana dal concepimento al suo naturale tramonto. La nostra società - ha rimarcato - va aiutata a guarire da tutti gli attentati alla vita, osando un cambiamento interiore, che si manifesta anche attraverso opere di misericordia". Ampia la gamma di altri temi affrontata da papa Francesco all’Angelus, dalla Chiesa "pescatrice" di uomini che "non fa proselitismo" ma porta amore, al ricordo dei due grandi confessori Pio e Leopoldo, alla richiesta di una "soluzione politica" per la "amata Siria", all’ applauso chiesto alla piazza per i fratelli dell’Estremo oriente che domani festeggiano il capodanno lunare, fino alla richiesta di preghiere per "accompagnare - ha detto - il mio viaggio in Messico e anche l’incontro che avrò all’Avana con il mio caro fratello Kyrill". Il vicesegretario di Stato Usa "all’Europa fondi dal governo per integrare gli immigrati" di Viviana Mazza Corriere della Sera, 8 febbraio 2016 Il vicesegretario di Stato Usa Richard Stengel: "1,3 milioni del mio budget per finanziare programmi Ue. Soldi anche alle Ong italiane. Ne va del futuro d’Europa"- Richard Stengel ama ricordare quando passeggiava con Nelson Mandela sulle colline di Qunu, in Sudafrica, come ghost writer dell’autobiografia "Lungo cammino verso la libertà". "Si divertiva a presentarmi alla gente locale traducendo solo ghost, e così tutti credevano che fossi un fantasma". Ora l’ex direttore della rivista americana Time veste panni diversi, quelli di numero 2 di John Kerry, in quanto sottosegretario di Stato americano alla Diplomazia e agli Affari pubblici. Il suo ufficio si occupa in particolare di contro propaganda - o "messaggistica" anti Isis, come la definisce lui - ma Stengel si dice convinto che una buona integrazione degli immigrati sia anch’essa un’arma importante contro il radicalismo. A Roma, ha chiacchierato a lungo, presso la Comunità di Sant’Egidio, con profughi e volontari, dopo aver partecipato al vertice sulla lotta all’Isis presieduto dai ministri degli Esteri Kerry e Gentiloni. "Ho deciso di dare 1,3 milioni del mio budget per finanziare programmi europei per l’integrazione di migranti e rifugiati". I finanziamenti alle Ong italiane, che includono Prime e Shoot4Change, ammontano al 10% del totale. Come mai questo interesse per i rifugiati? "Si tratta di una questione esistenziale per l’Europa, sta cambiando la visione dell’unità europea e del futuro dell’Europa: perciò interessa all’America. In più ci sono ragioni personali che mi spingono a occuparmi di migrazioni: sono cresciuto a New York con nonni provenienti da Paesi diversi e credo che integrare gli immigrati e i rifugiati sia un obbligo morale e che rafforzi la democrazia. Gli americani sono pieni di ammirazione per quello che l’Europa sta cercando di fare e vogliamo capire come possiamo aiutare". Gli Usa stanno facendo poco: accoglieranno soltanto 10 mila profughi nel 2016. "Il fatto è che il numero di rifugiati che l’America ha accolto negli ultimi 40 anni è enorme, circa 4,5 milioni dal 1980 a oggi. Comunque il presidente vuole aumentare il numero di profughi siriani ammessi, e nel mio ufficio stiamo studiando programmi per offrire opportunità di studio ai siriani". Cosa è cambiato nelle modalità di integrazione? "Negli Stati Uniti c’era l’idea del melting pot, un modello di assimilazione che portava tutti a voler diventare americani, abbracciare i valori americani, apparire americani. Oggi, in parte grazie anche alla tecnologia, puoi tenerti la vecchia identità e abbracciarne una nuova allo stesso tempo. Come consideriamo questo aspetto? È quello che voglio imparare dall’Italia e voglio che l’Italia lo impari da noi". Un intervento militare in Libia sembra sempre più vicino. Il suo ufficio come si sta preparando? "Si è discusso molto negli ultimi mesi su quello che il governo Usa chiama la globalizzazione di Daesh-Isis, la crescita delle loro cosiddette provincie - e la Libia è una di queste. A Roma mi sono riunito con il gruppo di lavoro sulla "messaggistica" che dirigo, e che è guidato da Usa, Regno Unito ed Emirati. Con gli Emirati abbiamo creato un "hub" ad Abu Dhabi, perché il messaggio deve arrivare dall’interno, non può giungere dagli Stati Uniti: la guerra dell’informazione non è tra l’Isis e gli Usa ma contro l’Islam moderato e mainstream. A Roma abbiamo parlato molto di Libia: è l’unico altro posto dove Isis ha una solida presenza geografica al di là della Siria e dell’Iraq. C’è un problema però in Libia: è difficile inviare messaggi verso e dal Paese. Una delle cose che ho notato in questa battaglia della comunicazione è che la percezione comune è che tutto accada sui social media e su YouTube, ma in realtà in posti come la Libia si ha molto più a che fare con la tv, i volantini e il passaparola e questo rende più difficile contrastare i messaggi di Isis". L’Italia può fare di più? "Penso che tutti nel governo Usa credano che l’Italia sia stata particolarmente efficiente non solo nello spazio libico ma anche nello sforzo di stabilizzazione in Iraq e in Siria e nell’addestramento della polizia. Vorremmo che altri Paesi seguissero l’esempio dell’Italia. Non tutti possono bombardare con i caccia, ma si può contribuire alla stabilizzazione e nel campo di battaglia dell’informazione". Mattarella e l’offerta a Obama: niente raid, ma leadership in Libia di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 8 febbraio 2016 Nell’agenda anche la candidatura dell’Italia al Consiglio di sicurezza Onu. Prima la Libia, poi la candidatura dell’Italia per un seggio nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. Stamattina il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è atteso alle 11.15 (le 17.15 italiane) da Barack Obama, nello studio Ovale della Casa Bianca. Il capo dello Stato arriverà con il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. Nel corso della mattinata, altri colloqui con il segretario di Stato John Kerry e il vicepresidente Joe Biden. La visita negli Stati Uniti di Mattarella cade in una fase un po’ confusa per la politica statunitense. La campagna elettorale mette sotto pressione anche Obama, le cui scelte nel quadrante mediterraneo e mediorientale, per esempio, sono aspramente criticate dai repubblicani e osservate con qualche perplessità dagli stessi candidati democratici, Hillary Clinton e Bernie Sanders. Nell’agenda italiana la voce Libia è al primo posto. Il governo americano chiede all’Italia di "fare qualcosa in più contro l’Isis". Mattarella risponderà che anche stabilizzare la Libia è una priorità e che il nostro Paese è pronto ad assumere un ruolo guida nel quadro di una missione autorizzata dall’Onu e concordata con il governo unitario di Tripoli, se e quando entrerà davvero in funzione. L’obiettivo generale, la lotta al terrorismo di matrice islamica, è naturalmente condiviso. Bisogna, però, trovare un punto di sintesi tra prospettive diverse. Per Obama è necessaria un’azione di vasta portata, con azioni militari mirate (ma non "stivali sul terreno") contro l’obiettivo numero uno: la larga zona occupata dal Califfato, tra Siria e Iraq. Da mesi gli americani chiedono con insistenza agli alleati che ne hanno la possibilità, e l’Italia è tra questi, di partecipare ai bombardamenti su basi dell’Isis. Il governo di Roma propone, invece, una sorta di scambio a Washington: impegno invariato nella coalizione anti-terrorismo, cioè niente bombardamenti, a fronte di un maggiore protagonismo sul fronte libico. Mattarella sosterrà che si potrebbe prendere spunto dalla formula adottata nella crisi dei Balcani. Anche in Libia si potrebbe progettare un’iniziativa che tenga insieme i due tempi: la messa in sicurezza del territorio e la ricostruzione giuridica, e anche materiale, di uno Stato al collasso. L’esperienza ha dimostrato, sia in Libia che altrove, quanto sia essenziale avere le idee chiare sul senso di una missione militare. Obama e Mattarella discuteranno di immigrazione e del quadro economico complessivo. Il capo dello Stato si troverà davanti un convinto sostenitore delle politiche di crescita. In passato, e questo verrà sottolineato dal presidente italiano, Obama si è speso a favore anche dell’Italia per allentare la linea del rigore imposta dalla Germania di Angela Merkel. Infine, il passaggio alla Casa Bianca di oggi e quello al palazzo dell’Onu dopodomani a New York rappresentano una tappa importante della campagna elettorale che l’Italia sta conducendo per ottenere un seggio tra i 10 membri a rotazione nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Si voterà a fine 2016 per scegliere cinque Stati e l’Assemblea generale dovrà approvare le candidature. Mattarella ne discuterà anche con il vicepresidente Biden e poi il tema tornerà nell’incontro con il Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. Non ci sono conferme ufficiali, è bene precisarlo, ma il ministro Gentiloni potrebbe scambiare qualche valutazione con le controparti americane sull’assassinio del giovane ricercatore Giulio Regeni al Cairo. Gli Stati Uniti sono tornati a finanziare in modo massiccio l’Egitto guidato dal presidente Al Sisi: circa 1,5 miliardi di dollari all’anno. Egitto: Giulio Regeni torturato perché pensavano che fosse una spia di Carlo Bonini e Giuliano Foschini La Repubblica, 8 febbraio 2016 L’autopsia conferma la pista dell’omicidio politico. Lo scontro tra apparati della sicurezza egiziana e i tentativi di depistaggio. Se è vero che un corpo senza vita "parla" né più e né meno come un testimone, oggi si può dire che, nel suo martirio, Giulio Regeni abbia consegnato la chiave che porta ai suoi carnefici. E dunque che l’inchiesta della Procura di Roma sul suo omicidio possa partire da due solide circostanze di fatto. Perché sostenute entrambe delle prime conclusioni dell’autopsia eseguita nella notte tra sabato e domenica dal professor Vittorio Fineschi. La prima: le lesioni sul corpo di Giulio (compresa quella letale al midollo spinale con la frattura di una vertebra cervicale) provano che l’omicidio ha una mano e un movente politici. La seconda: nella loro raggelante crudeltà, le sevizie inflitte al ragazzo hanno un inequivocabile format dell’orrore. Proprio degli interrogatori che le polizie segrete riservano a coloro che vengono ritenuti "spie", come nel caso di Giulio. "Colpevole", agli occhi dello "squadrone della morte" che lo aveva sequestrato la sera del 25 gennaio, di giocare troppe parti in commedia. Ricercatore universitario, giornalista con pseudonimo per un "quotidiano comunista" ("il Manifesto"), militante politico per la causa delle opposizioni al regime. A Giulio Regeni sono state strappate le unghie delle dita e dei piedi. Sono state fratturate sistematicamente le falangi, lasciando tuttavia intatti gli arti inferiori e superiori. È stato mutilato un orecchio. Chi lo ha sistematicamente seviziato era convinto di poter ottenere informazioni che il povero Giulio non poteva consegnare semplicemente perché non le aveva. Perché non era la "spia" che i suoi aguzzini ritenevano lui fosse. I boia hanno infierito su un inerme. Lo hanno appunto lavorato alle mani, ai piedi e quindi al tronco. Colpendolo ripetutamente al torace, alle costole, alla schiena, dove l’autopsia ha refertato numerose fratture. Anche il colpo di grazia ha le stimmate degli interrogatori da "squadroni della morte". Chi era di fronte a Giulio, in quel frangente probabilmente seduto o legato su una sedia, gli ha afferrato la testa facendola ruotare repentinamente di lato oltre il punto di resistenza. Mettendo così fine a un’agonia i cui tempi, oggi, restano ancora incerti. "Il ragazzo è stato ucciso dieci ore prima di essere ritrovato" scrivono i medici legali egiziani nel referto ma per dare una risposta certa i professori italiani hanno bisogno di attendere le analisi. I primi esiti dell’autopsia si incrociano con un paio di circostanze che, allo stato, il nostro team investigativo al Cairo ha potuto accertare. La prima. Come è stato possibile ricostruire dai tabulati del suo cellulare, Giulio è stato sequestrato il 25 gennaio poco dopo essere uscito di casa: forse era diretto a una festa, forse prima ha incontrato degli attivisti politici. In ogni caso il suo cellulare, mezz’ora dopo essere uscito di casa si sarebbe spento per non riaccendersi mai più. La seconda. Nello stesso frangente di tempo e di luogo, quel 25 gennaio, è stata condotta una retata proprio nella zona nella quale Giulio doveva transitare. Il che lascerebbe pensare a una "cattura" casuale. Non mirata. C’è infine una terza circostanza, rilevante quanto le prime due. L’American University del Cairo, dove Giulio era ricercatore, è da tempo oggetto dell’attenzione del Mukhabarat, il Servizio segreto egiziano che fa campo al Ministero dell’Interno. Un apparato chiave del regime di Al Sisi. Ma in feroce concorrenza con i servizi segreti militari (dai cui ranghi proviene il generale e oggi presidente Al Sisi) e i Servizi di Informazione della Polizia. "L’intervento di Al Sisi ha sbloccato la macchina amministrativa" ha detto ieri l’ambasciatore Maurizio Massari. Dopo l’incontro del presidente egiziano con il ministro Guidi, Regeni è stato ritrovato in quel fosso, mezzo nudo, con i media che parlavano di un incidente stradale. Tutti pezzi farlocchi di uno stesso puzzle. Giulio, lo scienziato scambiato per una spia, potrebbe essere stato giustiziato per una guerra che non era la sua. Egitto: dietro la morte di Giulio Regeni il mistero dei venditori ambulanti di Francesco Grignetti La Stampa, 8 febbraio 2016 Il giovane era controllato dalla polizia segreta per la vicinanza ai sindacati indipendenti. Forse tradito da un informatore. Pressing delle autorità italiane per scoprire la verità. Interessandosi ai sindacati indipendenti, Giulio Regeni aveva toccato un nervo scopertissimo per il regime egiziano. Si stava dedicando al mondo dei taxisti e a quello dei venditori ambulanti. Ma se il primo ambito non ha connotazioni politiche, il secondo, per le particolari caratteristiche della società egiziana, è molto più delicato di quanto si possa pensare. Non soltanto perché gli ambulanti del Cairo sono moltissimi e arrabbiati con il governo che li ha scacciati dalla città vecchia, e quindi sono tenuti sotto controllo prima che diventino fonte di disordini, ma perché spesso il loro mestiere li trasforma in informatori della polizia. Sono gli occhi e le orecchie di un regime occhiuto. E quel giovane simpatico, che parlava qualche parola di arabo e un inglese inappuntabile al punto che non si capiva se fosse italiano o statunitense, con i suoi incontri reiterati aveva sicuramente suscitato l’interesse degli apparati del regime. La polizia segreta - È più di un sospetto. È una certezza che Regeni fosse "attenzionato" dalla polizia segreta. Ed egli stesso era consapevole di muoversi in un terreno minato, al punto da usare uno pseudonimo per i suoi articoli sul Manifesto o sul sito Nena-news. Precauzione che non è bastata. Il fatto, poi, che fosse in Egitto a cura di un’università americana, agli occhi di certa dietrologia egiziana è un’aggravante. Solo tre anni fa, per dire, l’Egitto di al-Sisi ha arrestato diciotto ricercatori americani, "colpevoli" di effettuare un monitoraggio indipendente delle elezioni presidenziali. Nella dilagante paranoia che affligge il Paese, infatti, gli stranieri che non siano semplici turisti sono considerati tutti spie o sobillatori. Le frequentazioni di Regeni, insomma, "sospette" agli occhi di chi vede complotti dappertutto, probabilmente hanno determinato il suo arresto e la morte. Ora però l’Italia, dove è in preparazione un contratto da 7 miliardi di euro per l’Eni che ha scoperto qui il più gigantesco giacimento di gas del Mediterraneo, si attende un atto di rottura e di coraggio da parte dell’Egitto. Così come è stato, in fondo, per il ritrovamento del suo corpo. Sarebbe potuto scomparire nel nulla. Se così non è stato, è merito delle pressioni italiane. Innanzitutto dell’ambasciatore Maurizio Massari, che non si è accontentato delle rassicurazioni di routine. L’ha raccontato ieri a Lucia Annunziata: "Credo che anche l’intervento del presidente Sisi sia riuscito a smuovere la macchina governativa egiziana". Il 2 febbraio, infatti, con il giovane scomparso da 9 giorni, Massari aveva incontrato il ministro dell’Interno. Inutilmente. "Il 3 febbraio ho approfittato della venuta del ministro Guidi e ho chiesto all’ufficio di presidenza egiziana che avesse un incontro preliminare con al-Sisi". Il presidente si è impegnato personalmente con la ministra per il caso Regeni. E poche ore dopo la polizia "ritrovava" casualmente il cadavere, con segni di putrefazione avanzata, in un fosso a venti chilometri dalla città. Se però le autorità egiziane avevano pensato di chiuderla lì, si sbagliavano. È stata sospesa la missione economica su cui gli egiziani contavano molto. Da Roma è giunta l’indicazione di tenere duro sulla ricerca della verità. Le reticenze - È da leggere così, allora, in controluce, la serie di "rivelazioni" che la polizia egiziana fa filtrare sui giornali di qui. Ieri insinuavano che Regeni sarebbe andato alla festa di compleanno del suo professore, sovvertendo la dinamica acclarata della scomparsa. Battono su un esame di tabulati che porterebbe a contatti nella città-satellite "del 6 ottobre", dove sono state effettuate anche perquisizioni. Tutto, pur di allontanare l’attenzione dalla zona "calda" di piazza Tahir dove il 25 gennaio - quinto anniversario della rivoluzione - ci sono state le retate dei presunti oppositori. Il nostro team investigativo, però, testardamente vuole i fatti. Dopo avere incontrato la polizia (civili), ieri hanno incontrato la sicurezza nazionale (militari). Hanno presentato una serie di richieste scritte. Chiedono di visionare i verbali di interrogatorio, i tabulati telefonici, il tragitto del cellulare, le riprese della videosorveglianza della metropolitana. Sono certi che Regeni è uscito di casa attorno alle 20, così come del fatto che il suo cellulare si è misteriosamente spento dopo mezz’ora. La famiglia del povero Giulio ha diritto di sapere chi ha portato il figlio all’inferno. Egitto: le testimonianze delle torture nelle carceri di al-Sisi, ettroshock e abusi sessuali di Laura Cappon Il Fatto Quotidiano, 8 febbraio 2016 Human Rights Watch: "Regime più repressivo della storia egiziana". Decine di casi raccolti dalle organizzazioni per i diritti umani. La moglie di un detenuto: "Tenuto fuori al freddo per ore con le mani legate dietro la schiena mentre alcuni agenti buttavano dell’acqua su di lui". Talat Shabeeb è stato arrestato a Luxor per possesso di stupefacenti lo scorso novembre. Alcuni giorni dopo è morto in cella. Le versioni ufficiali parlavano di un peggioramento improvviso delle sue condizioni di salute. Il cugino della vittima Hassan aveva però denunciato alla stampa locale di aver visto dei lividi e dei segni di tortura durante il riconoscimento del cadavere. La sua morte aveva provocato delle proteste nella cittadina egiziana, nota per le sue attrazioni turistiche. Manifestazioni che, visto lo stato di dura repressione, erano durate pochi giorni. Ma il caso della sospetta morte di Shabeeb non è isolato. Diverse organizzazioni per i diritti umani locali e internazionali hanno più volte denunciato le torture portate avanti dalle forze di sicurezza egiziane. Appelli che spesso sono rimasti inascoltati ma che ora tornano all’attenzione dell’opinione pubblica solo dopo la morte di Giulio Regeni, il dottorando italiano dell’Università di Cambridge ritrovato morto nella periferia del Cairo mercoledì scorso. Human Rights Watch ha definito l’attuale regime di al-Sisi il più "repressivo" della storia egiziana. Più violento del precedente trentennio di Mubarak nonostante già allora, nel 2011, Hrw parlasse dell’"endemicità delle torture" nelle carceri e nei commissariati egiziani dell’ex rais. Il presidente Sisi è salito al potere nel luglio del 2013 quando da ministro della Difesa depose il presidente Mohammed Morsi, il leader dei Fratelli Musulmani eletto l’anno prima nelle prime presidenziali democratiche, dopo la rivoluzione di piazza Tahrir. Nella primavera del 2014, dopo diversi arresti di massa degli oppositori e pesanti restrizioni delle libertà del personale, Sisi vinse le elezioni presidenziali con percentuali bulgare contro un solo sfidante, Hamdeen Sabbahi. Già nei mesi successivi alla deposizione di Mohammed Morsi le organizzazioni per i diritti umani iniziarono a ricevere numerose segnalazioni di torture. Tra quelle raccolte dal Nadeem Center, uno dei centri più attivi anche durante la dittatura di Mubarak, c’è quella di Amr (questo è un nome di fantasia), uno studente di 19 anni arrestato 8 mesi dopo il colpo di stato del generale Sisi. Nell’estate del 2014 la sorella di Amr ha raccontato in forma anonima a Il Fatto Quotidiano che il fratello era stato arrestato mentre era seduto con degli amici in una caffetteria nel centro del Cairo. "Per settanta giorni non abbiamo avuto sue notizie, solo dopo lunghe ricerche abbiamo scoperto che si trovava in una prigione militare dove è stato ripetutamente vittima di torture". Amr è ancora in carcere. L’accusa è di far parte di Ansar Bayt al-Maqdis, il gruppo jihadista (ora affiliato all’Isis) presente nella penisola del Sinai e responsabile di numerosi attentati e attacchi contro le forze dell’ordine. Secondo gli avvocati del centro per i diritti umani il giovane avrebbe deciso di confessare dopo alcuni giorni di tortura. "Aveva paura di morire, soffre di cuore da quando era bambino e temeva che le scariche elettriche a cui veniva sottoposto gli avrebbero provocato un collasso cardiaco", ha dichiarato a ilfattoquotidiano.it un amico di Amr. Anche Abdallah, questo è un altro nome di fantasia, ha conosciuto la tortura alcuni mesi dopo il colpo di stato del 2013. Era stato arrestato il 25 gennaio del 2014 durante la manifestazioni per il terzo anniversario della rivoluzione e poi rilasciato due mesi dopo. La moglie ha riportato a ilFatto.it i soprusi che Abdallah ha subito in cella. "Lo hanno tenuto fuori al freddo per ore con le mani legate dietro la schiena mentre alcuni agenti buttavano dell’acqua su di lui". Il ministero degli Interni è da sempre stato il nemico numero uno per i manifestanti che 5 anni fa erano scesi in piazza a chiedere la caduta del regime. Ma le promesse di riforma del Ministero - fatte durante il periodo di transizione - non si sono mai avverate e le pratiche di violenza non sono mai finite. Lo dimostra un’altra storia raccolta dagli attivisti per i diritti umani. Samir ora ha 19 anni ed è originario del Sudan. Venne arrestato nel centro del Cairo nel maggio del 2013 quando alla presidenza c’era Mohammed Morsi. La sua famiglia racconta che è stato torturato per più di 3 settimane. "Lo presero da via Mohammed Mahmoud (strada che da piazza Tahrir porta al Ministero degli Interni)", dice la mamma. "L’accusa era quella di aver dato fuoco a una macchina della polizia anche se l’attacco era avvenuto il giorno prima". Samir è stato tenuto per 10 mesi nel seminterrato di una prigione del centro del Cairo dove un gruppo di poliziotti lo picchiava ogni giorno. "Era una cella di un metro quadrato senza cibo e senza bagno". "L’elettroshock, le violenze sessuali e altre tecniche sono utilizzate al fine di ottenere confessioni e avere informazioni di possibili organizzazioni terroristiche o oppositori", scrive in un report l’Ecrf (Egyptian Commission for Rights and Freedom). "Il governo egiziano sta dando la luce verde a torture e soprusi lasciando impuniti i membri delle forze di sicurezza che commettono questi crimini". Egitto: fiori e candele, la protesta al Cairo "qui migliaia di Giulio egiziani" di Enrico Franceschini La Repubblica, 8 febbraio 2016 Piange anche il cielo in questo pomeriggio al Cairo. Piove sulle teste delle duecento persone che si sono ritrovate davanti al palazzetto del Lungo Nilo, dove si trova l’ambasciata italiana, per un ricordo, un pensiero per Giulio Regeni. L’atmosfera è cupa come le nubi nel cielo, ma è anche una sfida per tutti, perché la metà dei partecipanti è fatta di poliziotti in borghese, con un atteggiamento sospettoso come se il colpevole dell’assassinio di Giulio Regeni fosse mescolato tra il gruppo di amici, conoscenti e colleghi d’università venuti a deporre un fiore. Finti reporter scattano solo primi piani dei volti di tutti, andranno a riempire chissà quale schedario. Uno straniero già appartiene alla categoria più allarmante nell’Egitto odierno, se poi bazzica ambienti giudicati sospetti - quello sindacale dei venditori ambulanti per una ricerca - è quasi assimilabile a un nemico. Ci sono attiviste egiziane dei diritti umani senza paura e ragazzi altrettanto coraggiosi con dei cartelli in mano che dicono semplicemente "Verità per Giulio". C’è una scrittrice di grido e una docente universitaria straniera ma anche diversi semplici cittadini egiziani. "A tutti i miei amici italiani dico che questo è ciò che affrontiamo ogni giorno in Egitto, e che purtroppo abbiamo migliaia di Giulio egiziani. Per favore, insistete nella ricerca della verità e delle responsabilità dei colpevoli, per darci la speranza che un giorno, insieme, potremo restituire i loro diritti a tutti i Giulio". È quasi una sommessa preghiera quella che questo giovane avvocato, fra gli organizzatori di questo presidio, mormora. Dice il suo nome, ma chiede non essere citato per il timore delle conseguenze se finisce su un giornale straniero. Del resto, gli agenti in borghese identificheranno tutti i cittadini egiziani presenti che hanno parlato con i giornalisti stranieri. Alle foto segnaletiche, ci hanno già pensato i finti reporter. "È stato ucciso come veniamo uccisi noi, pagando il prezzo della libertà e della dignità", dice sfidando la polizia presente Sally Toma, psichiatra che lavora sulle "vittime di torture e abusi sessuali da parte dello Stato". "Sono qui per dire che Giulio è uno di noi, ci appartiene". Cappotto scuro, sguardo duro, il suo sdegno non sembra temere nessuno. Paura? "Sono tempi bui in Egitto ma non c’è spazio per la paura: la maggior parte dei nostri amici e compagni è in galera o è stata uccisa". Al suo fianco, con fiori bianchi in mano, Amy Austin Holmes, professore all’Auc, l’Università americana del Cairo dove Giulio, dottorando di Cambridge, era attivo al Cairo. Regeni si occupava "di questioni del lavoro che è ovviamente un tema molto delicato in Egitto", ricorda la sua tutor. "Questo è un messaggio per le autorità egiziane: dovete scoprire la verità", dice Jaled Dawud, esponente dell’opposizione, mostrando un cartello con la scritta in italiano: "Sono qui per Giulio e per tutti i giovani che hanno perso la vita per la dignità e la libertà". Dawud teme ripercussioni sull’immagine e l’economia dell’Egitto dopo questo "orribile crimine", sul quale però è calato il silenzio e non sembra ci siano progressi nell’indagine. "Non possiamo trarre conclusioni rapide, ma le circostanze sono molto strane. È parte di ciò di cui alcuni egiziani sono a loro volta vittime", sottolinea, facendo riferimento al fatto che Giulio potrebbe essere morto dopo torture da parte della polizia. Sul piccolo marciapiede, affollato soprattutto da divise blu, ci sono altri attivisti dell’opposizione, come Leila Sueif, la madre del blogger Alaa Abdelfatah, uno dei simboli della rivoluzione egiziana, entrato e uscito diverse volte dalle carceri di Mubarak. L’anno scorso è stato condannato a 15 anni per aver partecipato alla rivoluzione che rovesciò il raìs nel 2011. Una donna egiziana, che si è identificata solo come Israa, si avvicina al cancello dell’ambasciata, racconta di non aver conosciuto Giulio ma di essere venuta per chiedere scusa all’Italia perché l’Egitto non ha protetto un suo cittadino. "Qui nulla è sicuro", dice mentre lascia un mazzo di fiori, al suo fianco i tre figli depongono candele bianche accese in memoria di un ragazzo italiano venuto solo per studiare. La pioggia si infittisce, il presidio si scioglie. I "Januarians", così si sono ribattezzati questi attivisti dei diritti umani, se ne vanno via a gruppetti sul marciapiedi buio e bagnato. Reduci di una battaglia che non sentono perduta. Siria: "io sulla strada della morte diretto nell’inferno di Aleppo" di Domenico Quirico La Stampa, 8 febbraio 2016 Il viaggio di Domenico Quirico da Damasco alla città assediata da Assad che si prepara alla battaglia finale. È vero dunque: da questa guerra gli uomini sono stati vinti. E questa guerra è cattiva perché ha vinto gli uomini. Me ne accorgo attraversandola da Sud a Nord, quattrocento chilometri, da Damasco ad Aleppo. Questa guerra moderna, questa guerra di coltelli e fucili. Questa guerra civile. Questa guerra mondiale. Questa guerra di rais e di emiri. Questa guerra di petrolio e di dignità, di bambini e di killer senza bandiere. Questa guerra di gas e di droni. Questa guerra di bugie e di ambigue verità. Questa guerra in cui sembra non ci sia modo di uscire. Guerra di cui i sopravvissuti fanno ormai fatica a ricordare quale fu il primo giorno e cosa facevano allora. È lei, capricciosa e vorace, che detta le regole, che si prende gioco anche di coloro che sono convinti di averle imposto il morso, di sapere quando vorranno dire basta e raggiungeranno, prima o poi, la vittoria. La vittoria. Inutile parola. Chi c’è dentro, e non finge, sente che ormai non ne uscirà più. Quando la guerra entra nelle città, le manipola come cera, ne modifica il profilo, abbassa l’arroganza dei suoi edifici più alti, la riduce a rovina di museo, cambia la vita, le abitudini, i percorsi quotidiani dei suoi sudditi, gli uomini, i cittadini un tempo liberi e orgogliosi di sé. E se gli uomini non hanno saputo vincere è perché c’è qualcosa di marcio. Ad Aleppo, l’altra, quella che è rimasta sotto il governo di Bashar al-Assad, dopo tre anni. All’improvviso, superata una svolta della strada, mi sono ritrovato. In un sol colpo quella città santificata da un martirio collettivo ha occupato di nuovo i miei pensieri: un ricordo stretto che mi vestiva. E poi subito, come tamburi rullanti una ritmica danza, il continuo rombo dell’artiglieria. Senza sosta. Io ero ancora vivo, dunque, mentre i suoi figli a migliaia sono morti, qui nelle strade o sulle vie di terra di mare che portano in Europa, fuggiaschi. Lo sapevo, lo avevo già provato: era una specie di vergogna come se i giorni di cui godevo li avessi strappati a quelli che avevo lasciato quaggiù. Il quartiere di Salaheddin, per primo, era davanti a me. Un paese morto, morto come può essere morto un uomo, inerte vuoto finito. Lo si fosse potuto guardare dal di sopra, con una sola occhiata, si sarebbero visti gli interni di tutte le abitazioni, la pianta mozza degli appartamenti, le cucine, le stanze da letto. Le scale erano tutte crollate in montagne di polvere. Era proprio morto questo quartiere, era proprio un mucchio di ossa bianche, silenzioso, trapassato. E io l’ho visto in questi cinque anni morire. Il fuoco dei cannoni sembra raddoppiare. I cieli hanno un tumulto di onde. Esplosioni lanciano illuminazioni livide, sfilate di granate a Est, esplosioni monumentali a Sud. Già: quelli che ho lasciato quaggiù. E allora ho pensato che erano ancora lì sotto quel sepolcro di cemento. Viviamo sempre di antiche superstizioni, crediamo nelle ipotesi più infantili. Che altro abbiamo d’altronde da masticare, a meno di non fermare la immaginazione? Poiché erano ancora lì c’era anche la loro anima, doveva esserci. E queste anime hanno fame freddo e soffrono come quelli che sono ancora vivi. Qualcosa di terribilmente vivo, di terribilmente presente si levava da quel campo di morte rovine. Eppure arrivo ad Aleppo mentre è iniziata una battaglia decisiva di questa guerra. E lo senti nell’attesa della gente. Me lo dice una giovane donna. Sto per lasciare Damasco e sa che vado a Nord, e il suo bel corpo carezzevole è così pieno di vita che ti pare di tenerla tra le braccia, così vicina che ne senti sulle palpebre il vestito come un velluto: "Noi siriani siamo pieni di vita, abbiano resistito. Siamo vivi. Non dovremmo esserne orgogliosi? Sentiamo che ne verremo fuori. Basta guerra, morte. Vogliamo tornare a vivere. Guardati intorno, non senti in televisione, nei caffè, quanti cantanti nuovi, canzoni gioiose, spuntano come i funghi nel bosco, abbiamo voglia di ascoltare, di essere felici. Ne abbiamo diritto!". L’esercito preceduto dal martello infuocato dell’aviazione russa ha respinto ribelli e jihadisti dalle montagne di Latakia e sta scendendo verso la capitale del Nord. La riconquista di due città sciite, Fuua e Kefraya, dopo tre anni, tre anni! di assedio gli apre la via verso Bab al-Awa, già sotto bombardamento, e la frontiera turca da cui passano tutti i rifornimenti e i traffici islamisti, mentre un’altra mano della tenaglia sale per avvolgere la città. Al centro della formidabile corona di eserciti che vengono stringendole addosso una spirale inesorabile, Aleppo dovrebbe cadere come un frutto troppo maturo, da sé, staccandosi dolcemente dall’albero della guerra. Un colonnello che ho incontrato sulla via mi ha annunciato, categorico: "Due, tre settimane e Aleppo cadrà". Sotto il cielo di un bell’azzurro marino scarrettano soffiando rabbiosamente i proiettili, striano l’aria di rapidi acuti stridori. Lontano in controluce i settori bombardati ribollono di sciarpe e di colonne di fumo azzurro scuro. Umiliare la Turchia strappando il legame territoriale con il Grande Gioco siriano e fare presto, fare presto: "Dobbiamo arrivare al 25 febbraio a Ginevra con le carte migliori, decisive per la battaglia diplomatica. E quale asso è migliore di Aleppo?", aggiunge il colonnello. Pesanti proiettili inarcano la loro traiettoria a tale altezza che il volo risuona solo come un respiro. So che da qualche parte, di là, nei quartieri ribelli, bandiere di polvere si innalzano a pioggia, si abbattono sulla terra come se crollasse una montagna. Ma questa volta non le vedo. Il ragazzo che mi porta ad Aleppo si chiama Shadi. A lui mi lega qualcosa che non possiamo dimenticare, più forte del sangue e dell’amicizia: anche lui è stato prigioniero dei jihadisti, a Homs, gli hanno strappato i denti con una tenaglia, ma è vivo, siamo vivi. In questa terra variata, ineguale, piena di capricci e di improvvisate, tutta colline, gobbe, valloncelli, dune, selle, ordinata o selvaggia, abbiamo scoperto che potevamo avere ancora mille e mille vite e che in fondo eravamo rinati, diventati immortali. Un dono che può concedere solo il dio del dolore. Con Shadi al volante dunque io andavo verso Aleppo, dopo duecento chilometri di argille e rocce in cui si sdraia pigra, maligna, la disperata solitudine di piatte praterie di gialla gramigna, pochi alberi poche case, dopo Homs, è bella campagna, comparsi il cipresso, prati di foraggio e di cavoli, e la vite che sempre è compagna dei cristiani. E l’ulivo. Eravamo felici, Shadi e io, di queste foglie benedette che ci parevano di buon augurio nel cuore della guerra. La strada scendeva dai colli molle come una sciarpa, faceva piegoni alle curve, imboccava rettilinei infiniti. A destra e a sinistra, nel vuoto, piccoli fortini di terra, dietro cui spuntava il collo di un cannone o di un carro armato. E soldati che stendevano pigri la biancheria al sole o preparavano il pasto. Sull’asfalto strisciavano come scarabei interminabilmente, colonne e colonne di autocarri scortati. I rifornimenti che tengono in vita Aleppo. Questa rotabile, chiusa all’altezza di Idlib, l’autostrada che un tempo in un amen ti portava ad Aleppo, è la Maginot di Bashar, ci si è aggrappati, come a una diga, per fermare l’avanzata dalla pianura desertica dell’Est degli uomini del califfato che cercavano di innaffiarla di esplosivo e di ferro: tenere aperta la vena che lega la capitale e Aleppo. Una guerra feroce, silenziosa, senza telecamere e medaglie che si combatte da anni, ogni notte. Bisogna correre svelti qui, Shadi, perché le pattuglie del califfo e di al-Nusra ti guardano e perfino il ronzio dell’auto basta a svegliare i fucili dei cecchini. E a sinistra, laggiù, c’è Sadura che è nella mani degli islamisti. Ci fermiamo in uno dei fortini, ad Aseria, dove in un container, c’è il comando del generale. Ha una bella stufa calda, il generale, e tacchini e galline nel cortile che beccuzzano placide in mezzo a capitelli e avanzi di colonne, meravigliosi reperti romani. Grida al telefono perché i suoi mezzi hanno problemi di benzina e devono invece correre a tappar le smagliature che gli altri cercano tenacemente di infilare nella sua lunghissima rete. "È la guerra delle colline, questa, ogni piccola altura è decisiva, chi tiene e sta in alto è padrone del territorio e della strada. Loro sono ben armati, e usano i kamikaze come artiglieria per aprirsi la via. Qualche volta ci hanno sorpreso, sono anche riusciti a interrompere per un po’ la strada, ma poi li abbiamo cacciati. E ogni notte si ricomincia.". Sul vento, da Est, ci arriva il fragore secco dei colpi, una sorta di abbaiamento rabbioso, nutrito, implacabile. Attenzione! Qui bisogna svoltare a sinistra. La strada che corre dritta porta a Raqqa, la capitale del califfato: cinquanta chilometri! Appena. Adesso i segni della guerra si fanno largo imperiosi, macchie fuligginose di incendi, pozze scavate dalle granate, relitti di ferraglie. I fili delle linee elettriche pendono a terra come rami recisi. E i villaggi, i curiosi trulli di argilla e canne, appaiono insaccati su se stessi, altri tagliati a fette, altri ancora come morsicati da una enorme bocca feroce. La campagna è gonfia di silenzio e di sole. Rari contadini nei campi, chini sulla terra con una timidezza dolente e circospetta. Qualche mandorlo è coperto di una nevicatina rada, tutti fiocchi bianchi: la prima fioritura nel cuore dell’inverno. Il grande lunghissimo lago che costeggia la strada ha ai bordi sottili bave bianche di sale. Ecco Al-Safirah: sono ad Aleppo, in cifra tonda, venti chilometri. Ora l’orizzonte appare nerastro, opaco, orizzonte da tifone, una densa acre caligine annebbia per chilometri i pianori. Brucia la centrale elettrica a gasolio che dà luce ad Aleppo e che l’esercito sta cercando di strappare dalle mani dei jihadisti. Dietro la curva il vento porta il lezzo di una immensa discarica dove decine di bambini scavano silenziosi. Calano sulla città bianca, sfiorando gli edifici, i bagliori rossi dei traccianti che si accendono e sfumano a intervalli regolari. La battaglia di Aleppo è cominciata. Stati Uniti: torture sui detenuti dell’era Bush, il Pentagono costretto a pubblicare 200 foto choc di Ida Artiaco Il Mattino, 8 febbraio 2016 Scandalo a Washington. Dopo oltre dieci anni di battaglia legale, il Pentagono è stato costretto a pubblicare le foto dei detenuti vittime di torture e abusi nelle carceri statunitensi in Iraq, Afghanistan e Guantánamo. Si tratta di duecento scatti, realizzati durante l’era Bush, cioè tra il 2004 e il 2006. Nell’ottobre del 2003 l’associazione American Civil Liberties Union aveva cominciato la sua lotta affinché tutto il mondo venisse a conoscenza delle atrocità a cui venivano costretti i prigionieri da parte delle guardie americane. Negli anni passati, gli ex segretari alla Difesa, Leon Panetta e Robert Gates, si era rifiutati di divulgare le foto. Poi ad ottobre scorso la svolta: il loro successore Ashton Carter aveva aperto la strada alla pubblicazione di 198 immagini. Ma l’associazione aveva considerato questa decisione "insufficiente ed arbitraria", attaccando pubblicamente l’amministrazione Obama. A questo punto, però, la battaglia legale è tutt’altro che conclusa. Il prossimo 19 febbraio, infatti, ci sarà la prima udienza de processo in cui potrebbero essere divulgate altre 1800 foto che il Pentagono si ostina a mantenere segrete. Tra i casi citati dall’associazione, c’è quello di Eric Garner, afroamericano morto a New York dopo che un poliziotto lo aveva preso per il collo e neutralizzato. Il video dell’aggressione, una volta pubblicato, innescò una serie di reazioni in tutti gli Stati Uniti. "Crediamo che le foto, quando vengono rese note, possano avere la capacità di fare lo stesso nei casi di abusi contro i detenuti, per questo il Pentagono si ostina a tenerle per sè", ha dichiarato al quotidiano inglese Guardian Alex Abdo, avvocato della ong. Le immagini in questione sono per la maggior parte sfocate o sgranate, ma mostrano lividi e tagli presenti sul corpo dei detenuti. Sarebbero collegate a 56 casi di presunti abusi da parte delle forze statunitensi, dei quali 14 sono già stati ritenuti validi, con 65 membri del personale di servizio ammoniti come risultato. Il Pentagono non ha però chiarito in che contesto siano state scattate le foto in questione, né come i prigionieri si siano infortunati. Secondo gli attivisti dell’American Civil Liberties Union si tratta di una serie di abusi compiuti da soldati americani ai danni di donne e uomini, spesso di religione e nazionalità diverse dalla loro. Stati Uniti: Trump "altro che water-boarding, se divento presidente si potrà fare di peggio" today.it, 8 febbraio 2016 Frasi che scatenano polemiche quelle pronunciate dal miliardario che punta alla Casa Bianca nell’ultimo dibattito prima delle primarie di martedì in New Hampshire. Altro che water-boarding: se Donald Trump diventasse presidente, gli Usa ricorrerebbero a pratiche di interrogatorio anche più violente. Lo ha promesso lo stesso miliardario che punta alla Casa Bianca, nell’ultimo dibattito repubblicano prima delle primarie di martedì 9 febbraio nel New Hampshire. "Tornerei al water-boarding e recupererei un mucchio di cose ben peggiori", ha detto Trump, mentre i rivali hanno dato risposte poco chiare sulla questione. Alle domande dei giornalisti, che chiedevano di dare esempio del "peggio" prospettato, Trump non ha tuttavia risposto, limitandosi a dire: "un giorno vedrete". Il water-boarding è una pratica di interrogatorio, anche detta tortura dell’acqua, che consiste nel mettere l’interrogato con la testa sott’acqua, per fargli credere di stare annegando. È emersa in un rapporto della commissione Intelligence del Senato statunitense come una delle tecniche usate dalla Cia per torchiare sospettati di terrorismo dopo gli attacchi alle Torri Gemelle. Soltanto ieri il Pentagono è stato costretto a pubblicare circa 200 foto di detenuti vittime di torture e abusi nelle carceri statunitensi in Iraq, Afghanistan e (forse) Guantánamo. Si tratta dell’esito di una battaglia legale che dura da più di dieci anni. È dall’ottobre del 2003 infatti che l’associazione American Civil Liberties Union lotta per la pubblicazione delle foto delle torture attuate nelle prigioni americane in Medio Oriente nel corso dell’era Bush. E per quanto si dica felice di questa vittoria, l’associazione ha comunque annunciato di voler proseguire nella sua battaglia per la divulgazione di altre 1.800 immagini, che il Pentagono si ostina a mantenere segrete.