Formazione dei magistrati e giustizia riparativa questionegiustizia.it, 7 febbraio 2016 La lettera pubblica di Manlio Milani, Agnese Moro e Sabina Rossa. Desideriamo esprimere la nostra amarezza per la decisione della Scuola Superiore della Magistratura di annullare l’invito, da tempo rivoltoci, a presentare il nostro percorso di giustizia riparativa (reso pubblico con il Libro dell’incontro, il Saggiatore 2015) e di impedirci, così, di dialogare con i magistrati all’interno di un corso di formazione su "Giustizia riparativa e alternative al processo e alla pena", organizzato dalla Scuola stessa. Della decisione dispiacciono particolarmente alcune cose. 1. Non aver potuto rispondere alle attese dei partecipanti, probabilmente interessati a conoscere un’esperienza di giustizia riparativa durata molti anni e che ha coinvolto tante persone così diverse per storie, temperamento, culture. 2. Non aver potuto ricevere dai partecipanti, così qualificati, suggerimenti, osservazioni, consigli che sarebbero stati preziosi per il futuro del nostro cammino. 3. Vedere trattati i partecipanti stessi come se fossero persone incapaci di discernere situazioni e affermazioni. Come non si stesse parlando di chi, per il suo lavoro, deve farlo continuamente a fronte di situazioni ben più complesse e difficili rispetto a una esperienza di incontro tra vittime e autori di reato. 4. Vedere una certa sacralizzazione della Scuola come se essa fosse custode esclusiva della memoria dei caduti e potesse essere contaminata, proprio lì dove si scambino idee ed esperienze, dalla presenza anche di persone che hanno compiuto azioni gravissime, seguite da lunghi e sofferti cammini significativi. 5. Dispiace poi, e molto, che si sia giustificato l’annullamento dell’invito con l’idea che il fatto che persone che hanno commesso reati, sono state giudicate e hanno scontato la loro pena, parlando a magistrati nella sede della Scuola, avrebbero offeso la nostra Costituzione. Non possiamo accettarlo. Sappiamo benissimo che la pena, nel nostro ordinamento costituzionale, serve alla rieducazione del condannato al quale non può essere chiesto, né ordinato, di perdere il diritto a esprimere le proprie idee e le proprie esperienze, e con esse la propria personalità. 6. Dispiace molto, infine, che nel comunicato stampa del Direttivo della Scuola, con cui si annuncia l’annullamento dell’incontro con i testimoni, non siano stati menzionati i nomi di tutti gli invitati, ma soltanto quelli degli autori di reato, disconoscendone così pregiudizialmente il percorso riparativo che essi hanno fatto insieme a noi, vittime. Questo incontro è il cuore di un percorso di giustizia riparativa. Ci sembra che con questo "invito al silenzio" si sia evidenziata l’incapacità di comprendere ciò che noi viviamo come un punto fermo: che la memoria "pubblica" richiede il racconto e l’ascolto delle memorie "diverse" e particolari. Ciò non implica, ovviamente, di essere d’accordo, ma di aprire spazi di confronto dai quali possa emergere una più piena consapevolezza delle vie della violenza, per riconoscerle e prevenirne le tragiche conseguenze. Agnese Moro - Figlia di Aldo Moro Manlio Milani - Familiare di vittima della strage di Piazza Loggia Sabina Rossa - figlia di Guido Rossa Brescia 04.02.16 Gli ex brigatisti, il pm e i parenti delle vittime "qui tutti insieme per diradare le nuvole" di Piero Colaprico La Repubblica, 7 febbraio 2016 Agnese Moro, figlia del presidente Dc rapito e ucciso negli anni di piombo, è seduta sull’ultima sedia sotto un grande schermo, e accanto a lei c’è un signore dall’aria stanca, Valerio Morucci, ex terrorista rosso: "Guardo loro - dice Agnese - e non vedo i mostri che per tanti anni hanno popolato la mia vita". La figlia dello statista assassinato: "La giustizia riparativa rimette le cose in moto, è positiva". Bonisoli: "Ho sempre desiderato il dialogo con i parenti, fondamentale per ritrovare la pace". Oggi, in un Paese smemorizzato, bisogna dire che quasi nessuno sa chi era Morucci. Era il telefonista delle Brigate Rosse, quello che con Franco Bonisoli, anche lui ieri sera presente a questo affollato dibattito pubblico aperto a Castenedolo, vicino a Brescia, dall’Associazione Aldo Moro, faceva parte del gruppo di fuoco: il 16 marzo 1978, dopo aver ammazzato a colpi di mitra i cinque componenti della sua scorta, sequestrarono l’onorevole Moro, il papà di Agnese, che allora era una ragazza di 25 anni, e che seppe da una telefonata di Morucci che suo padre era stato ucciso. Accanto a loro, Manlio Milani, altra vittima: era a Brescia, in piazza della Loggia, quando una bomba messa dai fascisti protetti dai servizi segreti (28 maggio 1974) uccise otto persone, tra cui sua moglie, e ne ferì oltre cento. Vicino ai tre, spesso a capo chino, Guido Bertagna, un gesuita. Per otto anni, con i sociologi Adolfo Ceretti e Claudia Mazzuccato, ha coordinato incontri segretissimi tra vittime e autori di reati. Hanno discusso del dolore e dei ricordi, del sangue versato e di come ritrovarsi: "Chiamano giustizia riparativa quello che è ascolto - dice Bertagna - e poi si esprimono i desideri comuni, e uno è che il dolore attraversato non resti congelato, ma torni ad essere vita". A metterci la faccia, c’è anche un ex magistrato, Gherardo Colombo. Ha indagato sulla Loggia P2, ha fatto parte del pool Mani Pulite, di questi incontri sotterranei è stato un garante: "Anche le vittime - ricorda - avevano bisogno di essere rassicurate su efficienza e sicurezza del percorso, per questo hanno chiamato me ed altri come garanti del percorso. Dopo aver creduto che la giustizia riparativa fosse una sciocchezza, adesso so che esiste una prospettiva in cui il male si può fermare, rompere. Dopo il male, ad Agnese Moro, è accaduto qualcosa di buono". Lo schema di questa serata voluta dal sindaco Gianbattista Groli, molto vicino all’amico di Moro Mino Martinazzoli, è identico all’incontro che la scuola superiore della magistratura, tre giorni fa a Firenze, ha alla fine dovuto far saltare, tra polemiche durissime da parte di alcuni magistrati e parenti di vittime. E se altri magistrati si sono espressi contro "la censura a monte", ieri per entrare nella sala civica dei Disciplini si faticava. "Il male - è così che Agnese Moro ha aperto la serata, a tratti commovente - è come una cisti. Un corpo estraneo, ma non è inerte, lavora, ti blocca. Una parte di me rimane ferma, bloccata, congelata. Qualunque cosa io faccia è come se fossi legata con un elastico. Il male lavora sulle persone che stanno vicino, che nemmeno erano nate, perciò penso che la giustizia riparativa possa essere una cosa buona, perché ha un pregio, rimette in moto le cose, le scongela, dirada il nuvolone. Attraverso cose piccole, come il volto dell’altro. Io so che la vicenda di mio padre è legata alla nostra vita democratica, un ruolo l’hanno avuto le Br, ma anche chi non l’ha aiutato. Perché mio padre è stato lasciato solo in quei 55 giorni? Poi, la nostra democrazia ha preso un’altra strada". Il volto di Morucci è livido, scuro. Per la prima volta parla in pubblico. Prova a raccontare la lotta armata come "estremamente lineare nella sua drammaticità", per lui "le masse rappresentavano il bene", mentre Moro era il nemico disumanizzato. Eppure, una volta che "emerge l’uomo", grazie alle sue lettere, o alle lettere dei familiari, "cominci a capire", dice, che gli esseri umani non sono simboli, e si arriva alla "rottura", al cambiamento. Per Bonisoli il primo ricordo da citare è quello di un cappellano che, in carcere, li chiamò "pubblicamente fratelli, in un periodo in cui non era facile. Per me fu un gesto di grande rottura. Negli anni Ottanta misi per iscritto che non volevo cercare benefici penitenziari attraverso il rapporto con i parenti, ma il dialogo lo volevo, incontrare Agnese Moro è stato fondamentale per il mio percorso. Ci sono persone che non trovano pace, anche ex compagni che mantengono qualche schermo, vorrei che potessero liberarsi completamente". Sono molti anni che ex della lotta armata e vittime si parlano, hanno incontrato anche il cardinal Carlo Maria Martini: "Che cosa posso fare per voi?", aveva detto. Le loro discussioni, le loro lacrime, i loro ricordi hanno dato vita a un libro molto tecnico, cauto, ricco, Il libro dell’incontro (Il Saggiatore). Eppure, come ricorda Manlio Milani, ognuno porta la sua storia, o la sua croce: "È facile dire "io sto con la vittima", noi abbiamo bisogno di tradire questa nostra condizione, per chiudere, per ridiventare cittadini. La vittima è certamente tale, ma non deve perdere la sua dimensione di cittadino, di chi si mette in discussione". Perché, come aggiunge Agnese Moro, "le cose possono cambiare": e qui, a Castenedolo, dicono che è davvero possibile. Detenuti, Mauro Palma è il nuovo Garante nazionale per i loro diritti di Marta Rizzo La Repubblica, 7 febbraio 2016 È il primo a ricoprire questa carica a livello nazionale. La legge che legittima la sua identità è entrata in vigore nel 2014, ma da allora il posto è rimasto vacante. Una pluriennale esperienza nel campo dei diritti umani e del sistema carcerario. Il Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, aveva fortemente sostenuto l’istituzione di un Garante dei diritti dei detenuti, ma ci sono voluti 2 anni perché, oltre alle positive esperienze di alcune regioni, venisse eletta la figura livello nazionale. Mauro Palma, accolto con soddisfazione da più parti, spiega l’ importanza della tutela di chi in carcere non deve perdere i propri diritti. Un ruolo indispensabile. Il professor Mauro Palma è il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Arriva così a compimento l’istituzione di una funzione di garanzia e osservazione della complessa faccenda sulla privazione della libertà personale, prevista dalla Legge n. 10 del 2014. "La nomina del Garante nazionale è un’importantissima tappa nella generale fase di riflessione sull’esecuzione penale - dice il Ministro della Giustizia - Il Garante si occuperà di tutte le forme di privazione della libertà, dalla custodia nei luoghi di polizia alla permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione, ai trattamenti sanitari obbligatori, in particolare nelle residenze di esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche (Rems)". Sul piano nazionale, Palma coordinerà il lavoro dei Garanti regionali, mentre sul piano internazionale sarà organismo di monitoraggio indipendente richiesto agli stati aderenti al Protocollo opzionale per la prevenzione della tortura (Opcat). È stato il fondatore di Antigone. "Salutiamo con immenso piacere la nomina di Mauro Palma a Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale - dichiara Patrizio Gonnella, presidente dell’ Associazione Antigone - Palma è stato fondatore e primo presidente della nostra organizzazione, oltre che a lungo componente prima e presidente dopo del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene, o trattamenti inumani, o degradanti. Siamo certi che il suo lavoro potrà far elevare gli standard di tutela dei diritti nei luoghi di privazione della libertà, troppe volte limitati e negati (carceri, caserme, commissariati, Cie, ex Opg). Si tratta di una nomina che Antigone attendeva da quasi 20 anni: era il 1997 quando, per la prima volta, proponemmo l’istituzione di un Difensore civico per i luoghi di detenzione. Finalmente ci siamo". L’osservazione discreta e accorta di luoghi a rischio. "Il monitoraggio esterno delle situazioni di privazione della libertà è importante - spiega Mauro Palma - non perché si presupponga per principio che in tali luoghi avvengano con per forza violazioni dei diritti e sopraffazioni, quanto perché sono in effetti luoghi a rischio, dove spesso la tensione è alta, dove lo sguardo esterno aiuta, previene e fornisce elementi per risolvere le criticità. Ecco perché il sistema di prevenzione della "tortura e dei trattamenti inumani e degradanti" (per usare la terminologia propria delle Convenzioni internazionali di prevenzione dell’offesa della dignità delle persone ristrette) si basa proprio sul sistema di visite, cioè sull’accesso ai luoghi, alla documentazione, al dialogo con le persone". I livelli d’azione del Garante. "Le visite non programmate e non annunciate - continua Palma - hanno carattere di precauzione e la loro finalità è avviare un dialogo, capire le criticità e, quindi, fare segnalazioni per risolverle. Si agisce a livello politico-legislativo, su aspetti che richiedono modifica di norme; a livello amministrativo, verso chi ha la responsabilità di un preciso settore di privazione della libertà; a livello di formazione del personale, o di sostegno a migliori condizioni lavorative; a livello di richiesta di indagine su elementi di criticità che possono investire anche la responsabilità penale. I luoghi da monitorare sono molti, perché molte sono le forme di privazione della libertà: dal carcere, alle celle di polizia (dove comunque occorrerà notificare la visita per non interferire con indagini in corso), ai centri per immigrati con anche il compito di vigilare sui rimpatri non volontari, alle nuove residenze per misura di sicurezza psichiatrica che stanno finalmente sostituendo gli Opg, fino agli stessi trattamenti sanitari obbligatori". Un lavoro comune e capillare sulle diverse criticità. "Come per la legge - dice ancora Palma - la rete del Garante è costituita da tre persone: un presidente, ruolo che sono chiamato a ricoprire, e due membri: uno di essi, l’avvocata Emilia Rossi, già nominato e l’altro in corso di nomina secondo, la procedura che presume l’opinione di entrambe le Camere. Questi passaggi spiegano, in parte, il tempo trascorso tra previsione normativa e nomina stessa. Opereremo a Roma, ma cercando di viaggiare il più possibile per avere un quadro delle diverse realtà regionali, con l’aiuto di persone da noi scelte; ci avvarremo dei Garanti che molte regioni hanno già. Un lavoro coordinato, dunque, che stabilisca una effettiva possibilità di osservazione e che sia in grado di distinguere tra criticità episodica e criticità strutturale. Su queste ultime, punteremo l’attenzione nella relazione annuale che siamo tenuti a inviare al Parlamento". Garanti regionali, dignità delle persone e Stati generali. "Nell’iniziare, la priorità va data alle regioni in cui la figura del Garante non è stata istituita, o è vacante - conclude Palma - Riguardo i contenuto, ci concentreremo sulla dignità di sistemazione delle persone che, presenti in modo irregolare o illegale nel paese, sono private della libertà in virtù del loro status. Sul piano delle relazioni istituzionali, lavoreremo alla costruzione del rapporto con le varie Amministrazioni interessate (giustizia, interni, sanità, difesa). Va poi tenuto presente che è stata avviata, da parte del Ministro della giustizia, una vasta consultazione di giuristi, operatori, volontari, detenuti, per cambiare fisionomia al nostro sistema di esecuzione penale. Questa consultazione, chiamata Stati generali dell’esecuzione penale, sta giungendo al termine e a breve verrà presentato un documento di sintesi. Il nostro compito è operare perché una nuova fisionomia dell’esecuzione penale si realizzi effettivamente, per il benessere di chi è ristretto e di chi opera in tale difficile settore". Peciola (Sel): bene Palma, getterà luce su luoghi dimenticati "Congratulazioni a Mauro Palma per la nomina a garante nazionale dei diritti delle persone detenute. Un militante dei diritti civili, una persona da sempre impegnata sul fronte del contrasto a tutte le ingiustizie che avvengono nei luoghi detentivi. Una militanza fatta con equilibrio e determinazione". Lo dichiara Gianluca Peciola, esponente di Sel. "Sarebbe importante- aggiunge Peciola- che tra i primi atti del nuovo garante ci sia la visita nei luoghi in cui da troppo tempo sono segnalate violenze nei confronti dei detenuti o in quelle carceri in cui è più alto è il numero dei decessi e dei suicidi o presunti tali. Tra le condizioni di detenzione emblematiche di un sistema di illegalità troppo presente nelle carceri, forse bisogna segnalare quello di Rashid Assarag. Il detenuto, difeso dall’avvocato Fabio Anselmo, che registrò su un nastro gli agenti che ammettevano l’uso della violenza nel carcere di Parma. Questo caso dimostra, se ce ne fosse ulteriormente bisogno, che dietro alle violenze nei confronti dei detenuti non ci siano soltanto responsabilità individuali, ma si nasconda spesso un sistema che copre gli abusi. La situazione nel nostro sistema detentivo è drammatica, e quindi auguriamo un buon lavoro a Mauro Palma, convinti che il suo incarico sia utile a gettare un cono di luce sulle troppe situazioni di illegalità presenti nelle carceri". L’ex ergastolano "abolire l’ergastolo come ha fatto il Vaticano, è come pena di morte" Ansa, 7 febbraio 2016 "L’ergastolo è una pena di schiavitù. La parola ergastolo rimanda infatti alle prigioni "ergastula", che venivano usate nell’antica Roma per gli schiavi ribelli. Ma soprattutto l’ergastolo è simile alla pena di morte. Se con la pena di morte uno Stato ti toglie la vita, con l’ergastolo si prende la tua vita. Una persona condannata anche a 30 anni comunque ha un fine pena, un orizzonte, una data, e sa che la libertà gli tornerà come diritto. Chi è all’ergastolo è condannato a vita e la fine pena, così come viene scritto nei registri, è il 7 dicembre 9999". Lo ha detto l’ex ergastolano e autore di libri sul carcere, Nicola Valentino, che ha trascorso 28 anni di reclusione, intervenendo oggi a Firenze a un incontro della Chiesa Valdese contro l’ergastolo. Condannando all’ergastolo, ha aggiunto, "non c’è un orizzonte temporale e non c’è data in cui tu puoi riconquistare la libertà come diritto che ti spetta. La libertà se mai c’è, è per concessione come nel mio caso fortunato" ma "alla maggioranza non viene concessa". Valentino ha spiegato di essere tornato in libertà "per una botta di fortuna perché c’è la possibilità di uscire dalla pena dell’ergastolo solo se un magistrato di sorveglianza e l’equipe del carcere valutano che la persona può frequentare la semilibertà o avere i permessi per uscire dal carcere. Dopo 20 anni di pena un tribunale può concedere anche la liberazione condizionale" e "se tutto fila liscia la pena si esaurisce". Ma, ha aggiunto, "questa possibilità è data a pochissime persone ed è discrezionale. A parità di reati e di storia reclusiva, altre persone non hanno avuto la possibilità di accedere a questo iter. Io sono stato fortunato a trovarmi a Roma dove il tribunale di sorveglianza era orientato a concederne alcune". Secondo Valentino, "questo sistema si è ulteriormente irrigidito e modificato. Su 1.600 ergastolani, per 500 questo gioco della fortuna ha funzionato, per 1.000 è stata introdotta l’ostatività per alcuni tipi di reati e non c’è possibilità di aver benefici se non si collabora con gli inquirenti. Ma questo significa - ha sottolineato - mettere qualcun altro al tuo posto. Un po’ come succedeva nei campi di concentramento". Per Valentino, "è importantissimo che Papa Francesco abbia preso una posizione in merito e abbia abolito l’ergastolo dentro lo Stato Vaticano". Terroristi in cattedra, errore e non recupero di Michele Marchesiello (magistrato) Il Secolo XIX, 7 febbraio 2016 La notizia dell’annullamento della partecipazione degli ex brigatisti Faranda e Bonisoli al corso "Giustizia riparativa e altre alternative", presso la Scuola della Magistratura di Scandicci, è di quelle che lasciano l’amaro in bocca. Causa di questa amarezza è, per l’ennesima volta, il modo improvvisato e imparaticcio con cui, anche ai massimi livelli istituzionali, si cerca di introdurre in Italia esperienze maturate all’estero. Come per la "class action", la mediazione e - risalendo negli anni - il famoso processo accusatorio "all’americana", si procede infatti a importazioni di strumenti di cui non è stata approfondita la conoscenza, sulla base di impressioni superficiali e attraverso maldestre imitazioni, seguendo una moda culturale "annusata" nell’aria, piuttosto che il faticoso emergere di nuove prospettive. Il tema della giustizia riparativa, o "restorative justice" segna, in questo senso, un momento epocale nella trasformazione del modo di considerare il rapporto che si istituisce tra l’autore di un crimine, la vittima e la società. La giustizia riparativa supera il sillogismo classico: la legge descrive un dato comportamento, prevedendone la punizione attraverso una specifica sanzione; X realizza quel comportamento; a X dev’essere pertanto inflitta la sanzione prevista. Sottraendosi almeno in parte a questo esasperato sillogismo, la giustizia riparativa mette in crisi pregiudizi, schemi culturali, addirittura istinti primordiali di vendetta, che da millenni condizionano la giustizia penale. Nata da prassi e modelli prevalentemente nord-americani, la restorative Justice ha trovato applicazione anche in contesti diversi, come nel Sud Africa dell’arcivescovo Desmond Tutu. In quel tormentato paese sono state infatti introdotte con successo le procedure "truth and reconciliation", basate sul pieno e completo riconoscimento della propria responsabilità da parte dei colpevoli di crimini efferati commessi sotto il regime dell’apartheid, sull’adozione di misure compensative alle vittime e su una riconciliazione di queste ultime, non solo con l’autore del crimine ma con lo stesso fatto che le ha così duramente colpite. Ma non a caso l’esperienza sud-africana prende il nome di "truth and reconciliation", con riferimento al fatto che non vi è vera riconciliazione, né riparazione possibile, senza che venga stabilita o ristabilita contemporaneamente la verità di quanto accaduto, in tutti i suoi risvolti. Un conto è il percorso privato che i protagonisti di tragiche vicende criminali hanno intrapreso; un conto è l’opportunità di offrire occasioni di incontro tra vittime e carnefici; un conto è il diritto di chi ha pagato per i crimini commessi a rientrare a pieno titolo nella vita civile. Esistono però limiti e condizioni a che questo avvenga, non solo in omaggio alla sensibilità delle vittime, ma anche e soprattutto in omaggio al principio per cui non può esservi vera riconciliazione senza il pieno ristabilimento della verità, che della giustizia è il corollario indispensabile. Ed è proprio il mancato rispetto del principio di verità, ci pare, che non doveva consentire la disinvolta trasformazione dei due ex brigatisti in maestri dei giovani magistrati. Non è stata fatta piena luce sulle stragi e sul periodo del terrorismo, dal punto di vista giudiziario come da quello politico. I silenzi, le omissioni, le ambiguità fanno ancora parte del loro percorso. Come semplici "dissociati" (in quanto tali esonerati dal rivelare per intero i fatti a loro conoscenza), Faranda e Bonisoli si sono sottratti non solo al pentimento, ma anche all’obbligo ineludibile della verità: il solo in grado di aprire loro la porta della riconciliazione e della giustizia riparativa. Lettera a Travaglio di Luigi Iorio (Avvocato e responsabile nazionale diritti umani Psi) L’Opinione, 7 febbraio 2016 Noi garantisti, pensavamo che la stagione delle manette e del giustizialismo tout court fosse terminata con "Mani Pulite". Evidentemente quelle pagine di storia non sono bastate a Marco Travaglio. Fabrizio Rondolino dalle pagine de "L’Unità" ha correttamente sostenuto che la galera non soltanto è inopportuna, ma anche in alcuni casi, inutile. Ha il sapore della vendetta, e lì per lì invocarla può rasserenare o consolare, ma non è la chiave per la risolvere il problema della criminalità. Andrebbe colta, senza banalità, anche la provocazione del senatore Luigi Manconi che nel suo ultimo libro "Abolire il carcere" propone la chiusura delle strutture penitenziarie perché non più adeguate alla loro funzione ovvero alla riabilitazione del detenuto soprattutto in assenza di piani strategici specifici di reinserimento nel mondo del sociale e del lavoro. Non a caso l’Italia, è il Paese con il più alto tasso di recidività d’Europa. Eppure Travaglio preferisce buttarla come sempre in caciara. Il direttore de "Il Fatto quotidiano", al grido "tutti in carcere subito", afferma, testualmente, che la carcerazione preventiva è "utilissima per evitare che il sospettato se la svigni, o inquini le prove o intimidisca i testimoni o continui a delinquere in attesa della sentenza definitiva". Principio giusto se comparato a reati come terrorismo, mafia o associazione a delinquere ma il direttore dovrebbe sapere che la carcerazione preventiva non è prevista nemmeno dalla nostra Costituzione, che reputa tutti innocenti fino al terzo grado di giudizio. Cosa fare allora? La strada tracciata dal ministro della Giustizia Andrea Orlando è, a mio avviso, l’unica percorribile. La messa alla prova, il braccialetto elettronico, la riduzione delle misure coercitive e il rafforzamento di misure alternative al carcere hanno ripristinato nel nostro ordinamento quel senso di civiltà mancante e affievolito l’emergenza carceraria, evitando dopo la sentenza pilota "Torreggiani" migliaia di ricorsi alla Cedu che avrebbero messo in difficoltà serie le casse di Stato. Negli ultimi cinquant’anni quattro milioni di cittadini sono stati arrestati, incarcerati e poi rilasciati perché innocenti. Questa è la vera ingiustizia. Ingiuste detenzioni (pagate con i soldi dei contribuenti), lesioni della dignità umana, vite segnate per sempre dall’onta del giustizialismo. Ai tanti detenuti poi assolti e alle loro famiglie cosa raccontiamo? Che la sete di vendetta e la voglia di manette è più forte del senso del garantismo? A Travaglio suggerirei, a tempo perso, di leggere Voltaire. "È meglio correre il rischio di salvare un colpevole piuttosto che condannare un innocente". Toscana: Sel; caso Montelupo palese violazione di legge, chiederemo commissariamento Ansa, 7 febbraio 2016 Sull’Opg di Montelupo "è in atto una palese violazione della legge nel silenzio delle istituzioni. Chiederemo in Parlamento, al ministro della Giustizia, il commissariamento della Regione Toscana, così da poter accelerare il più possibile i tempi e aiutare gli internati a ritrovare una loro dignità e una loro vita all’esterno". Lo affermano le parlamentari di Sel-Sinistra italiana Marisa Nicchi e Alessia Petraglia e i consiglieri regionali di Sì Toscana a sinistra Paolo Sarti e Tommaso Fattori che oggi hanno effettuato un sopralluogo nell’Opg di Montelupo, accompagnati dai consiglieri comunali della sinistra dell’Empolese Valdelsa. "Da prima della classe, la Toscana si è ridotta a essere l’ultima in fatto di Opg - sottolineano in una nota - e lo ha fatto sulla base di una precisa scelta politica da parte della Regione Toscana. Dalla visita di oggi abbiamo potuto ricavare l’indicazione chiara di un ritardo gravissimo e inaccettabile, dal momento che la Toscana è ancora lontanissima dal chiudere, come richiesto dalla legge, il capitolo Opg". Secondo gli esponenti della sinistra, "il governo, proprio in questi giorni si è detto intenzionato a commissariare le regioni inadempienti: lo invitiamo a far seguire alle parole i fatti, poiché è impensabile che Montelupo sia ancora la struttura con più internati d’Italia". Allo stesso tempo, concludono, "è necessario lavorare per il futuro della struttura di Montelupo, un futuro che deve essere deciso anche dai cittadini e che deve farne una realtà dedicata ai reclusi più vicini al reinserimento, ponendo fine alla ghettizzazione e alla pena che non solo non rieduca, ma nemmeno cura il detenuto con problemi psichiatrici". Campania: Radicali e Giovani Giuristi Vesuviani in visita ispettiva alle Carceri ed Opg Ristretti Orizzonti, 7 febbraio 2016 La delegazione è stata autorizzata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Nei prossimi giorni una delegazione dei Radicali Italiani e dei Giovani Giuristi Vesuviani si recherà in visita ispettiva in diverse Carceri ed Opg della Regione Campania al fin di rendersi conto delle condizioni di vita dei detenuti e degli internati, sulla conformità del trattamento ad umanità e sul rispetto della dignità della persona da parte dell’Amministrazione Penitenziaria. Le visite - organizzate da Emilio Enzo Quintieri, esponente radicale calabrese, già membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani unitamente a Salvatore Del Giudice, Avvocato e Presidente dell’Associazione Giovani Giuristi Vesuviani - su richiesta dell’Onorevole Rita Bernardini, già Deputato ed ex Segretario Nazionale dei Radicali, sono state autorizzate dal Dirigente Generale Massimo De Pascalis, Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. Sette saranno le strutture detentive che verranno ispezionate dalla delegazione visitante : la Casa Circondariale di Napoli Poggioreale "Giuseppe Salvia" e la Casa Circondariale di Napoli Secondigliano (lunedì 8), l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario "Filippo Saporito" di Aversa e la Casa Circondariale "Francesco Uccella" di Santa Maria Capua Vetere (martedì 9), la Casa Circondariale di Avellino "Bellizzi Irpino" e la Casa Circondariale di Benevento "Capodimonte" (mercoledì 10) nonché la Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli (giovedì 11). A Poggioreale, al momento, a fronte di una capienza regolamentare di 1.640 posti, sono ristretti 1.928 persone, 289 delle quali straniere (288 in esubero); a Secondigliano, invece, a fronte di una capienza di 897 posti, sono detenuti 1.303 persone, 49 delle quali straniere (406 in esubero). Nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (Opg) di Aversa, il più antico manicomio criminale d’Italia (1876), che avrebbe dovuto essere chiuso da tempo nel rispetto della Legge n. 81/2014 e sostituito da Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems), sono ospitati ancora 44 internati, 5 dei quali stranieri, per una capienza regolamentare di 206 posti letto. Prossimamente dovrebbe essere riconvertito in un Istituto Penitenziario a custodia attenuata per accogliere 200 detenuti a basso indice di pericolosità. Nel Carcere di Santa Maria Capua Vetere, invece, a fronte di una capienza di 833 posti, ci sono 926 detenuti, 179 dei quali stranieri e 66 donne (93 in esubero). L’Istituto Penitenziario di Avellino Bellizzi Irpino, avente una capienza di 500 posti, ospita 507 detenuti, 57 dei quali sono stranieri e 27 donne (7 in esubero). In questo stabilimento penitenziario, tra l’altro, ci sono 3 detenute madri con figli al seguito (1 italiana e 2 straniere). Nella Casa Circondariale di Benevento Capodimonte, sono ristrette 386 persone, 40 straniere, 22 delle quali donne, per una capienza di 254 posti detentivi (132 in esubero). Infine, nel Carcere Femminile di Pozzuoli, a fronte di una capienza di 105 posti, sono ristrette 159 detenute, 47 delle quali di nazionalità straniera (54 in esubero). La delegazione che visiterà le predette strutture penitenziarie oltre a Quintieri e Del Giudice, sarà composta dagli Avvocati Alessandro Maresca, Michele Coppola, Domenico La Gatta, Arcangelo Giacinto, Gaetano Salvadore, Luigi Silvestro, Nicole Scognamiglio, Rosanna Russo e Claudia Romano. Perugia: 400 detenuti in meno in tre anni, carcere di Capanne da pollaio a istituto modello di Ivano Porfiri umbria24.it, 7 febbraio 2016 Visita alla casa circondariale di Perugia di Verini e Bocci: "Migliorare le condizioni di vita e far lavorare i carcerati è investire in sicurezza". Da pollaio a carcere modello. È la trasformazione che ha riguardato il carcere perugino di Capanne dal 2012 a oggi. Un cambiamento profondo permesso soprattutto dalle leggi che hanno depenalizzato molti reati, facendo abbassare la popolazione da 640 (con 150 materassi a terra) ai 292 di oggi. Considerando tutte le carceri umbre si è scesi da 1.680 a 1.224. "Abbiamo trovato una situazione nettamente migliore e un istituto che può essere esempio a livello nazionale", hanno sottolineato il sottosegretario agli Interni, Gianpiero Bocci, e il deputato Pd, Walter Verini, al termine della visita, accompagnati dall’assessore regionale Luca Barberini, dalla direttrice dell’istituto Bernardina Di Mario e dal capo della penitenziaria Fulvio Brillo. La visita è stata occasione per la consegna di materiali sportivi da parte del Coni e delle federazioni di ciclismo, pallavolo e calcio. Verini: "Battaglia vinta" "Il sovraffollamento era una pratica disumana - ha esordito Verini - i detenuti venivano trattati come bestie, come polli. Le leggi attuate, anche per via della spinta europea, sono state una battaglia vinta sul piano nazionale e sul piano regionale. C’è ancora qualche problema a Terni e a Spoleto ma la strada è quella giusta. Tuttavia, siamo solo all’inizio: ora è doveroso investire in umanità. Chi va in carcere deve essere rieducato e reinserito. Per questo lavoro, sport, educazione vanno implementate perché investire in queste cose è investire in sicurezza. Chi impara a lavorare non torna a delinquere". Bocci: "Modello da esportare" Secondo Bocci, Capanne è "una casa penale che oggi rappresenta un modello per il sistema carcerario italiano. Gli stessi ergastolani con cui ho parlato hanno ammesso che da quando sono stati trasferiti qui la loro vita detentiva è cambiata in meglio. Il personale opera con grande competenza, professionalità e umanità, il che per noi è un fattore di civiltà, democrazia e orgoglio". Brillo ha ringraziato per gli elogi: "Noi coniughiamo fermezza e cortesia - ha affermato. Sono molto orgoglioso del personale. Un ergastolano ieri mi ha detto: qui il personale non istiga, ascolta. È motivo di serenità, di tranquillità". Il sottosegretario Bocci ha ringraziato anche "il direttore, perché si è instaurato un rapporto straordinario con le forze dell’ordine che operano fuori, con segnalazioni dei detenuti che stanno per uscire: può essere un’esperienza anche da esportare in altre realtà perché questo modello è stato decisivo per riportare la sicurezza a Perugia e in Umbria". Barberini: "Via progetto agroalimentare" L’assessore Barberini ha sottolineato l’impegno "anche con realtà sociali e sportive per venire incontro a situazioni di bisogno. Qui c’è un’assistenza sanitaria di buon livello dentro il carcere, ma va migliorato l’accesso alle strutture esterne quando c’è necessità. Per l’aspetto sociale va data speranza di un reinserimento. Tra poco partirà un nuovo progetto sull’agroalimentare con l’avvio di una produzione e un’attività formativa per il quale abbiamo già il placet del ministero della Giustizia". Di Mario: "Così è cambiato il carcere" La direttrice Di Mario ha rimarcato come "se risultati si sono raggiunti è stato grazie a provvedimenti di legge che erano necessari. La sentenza Torreggiani ci ha messo con le spalle al muro perché il carcere era diventata la soluzione per tutti i mali, mentre dovrebbe essere l’extrema ratio". Oggi, col calo dei numeri "il carcere ha ritrovato la sua dimensione. Abbiamo rimesso così il detenuto al centro, sono aumentati gli spazi, la cella è tornata a essere luogo di pernottamento, non dove stare chiusi 24 ore. Ora stiamo cercando di riempire il tempo con l’aiuto dei soggetti esterni". I numeri di chi lavora Di Mario ha ricordato come "l’anno scorso si sono svolti 5 corsi di formazione con oltre 70 detenuti. Per tre di questi (cucina, culture arboree, design femminile) 5 detenuti di ogni corso sono stati avviati in borsa lavoro in imprese umbre. Alla fine delle borse lavoro tutti sono stati assunti a tempo indeterminato. Oggi 20 detenuti sono in regime di semilibertà, alcuni impiegati al Comune. Chi lavora - ha concluso - è difficile che rientri in carcere". Trento: il carcere tra sovraffollamento e disagi, la nuova struttura di Spini è già in crisi Il Trentino, 7 febbraio 2016 La visita di Civico che annuncia anche l’arrivo di 30 siriani. Giornata impegnativa quella di ieri per il Consigliere provinciale Mattia Civico, presidente della I Commissione che, accompagnato da Franco Corleone, Garante dei detenuti della Toscana e coordinatore nazionale, ha effettuato una visita di oltre tre ore alla casa circondariale di Trento. Rilevando le inadeguatezze di un carcere che, ultimo nato in Italia, dovrebbe essere un modello di reinserimento ma che purtroppo, al di là dei marmi che ne decorano l’ingresso, non offre garanzie; anzi, causa sovraffollamento, è negato qualunque tipo di socializzazione con carenze di livello sanitario ed istruzione. A questo proposito, è stato illustrato il Disegno di legge presentato tre giorni fa in I Commissione provinciale, sulla "Istituzione della figura del garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale". Per quanto riguarda il carcere di Trento, a fronte dei 240 detenuti previsti, ne sono presenti 353, di cui 341 uomini e 12 donne. I definitivi sono 263, quelli che hanno effettuato ricorso 18, gli appellanti 40, in attesa di giudizio 32. I detenuti stranieri ed extracomunitari uomini sono 239 cui si aggiungono 4 donne. Gli italiani sono 110, 61 i tunisini, 42 i rumeni, 39 i cittadini del Marocco, 16 gli albanesi, poi gli altri Stati, che in totale assommano a 49. I tossicodipendenti sono 44, in aumento rispetto al 2012, quando erano 35; se i 44 si aggiungono ai 110 detenuti per reati di mero, si arriva al 45% del totale. Per quanto concerne la semilibertà, a Trento nessuno ne beneficia mentre i detenuti articolo 21 per i lavori utili, sono solo 3. Le donne sono 12, costrette in tre per cella a fronte delle 2 previste e non usufruiscono di spazi comuni. La visita è servita a sottoporre all’amministrazione la richiesta di utilizzare la biblioteca come mensa in cui le detenute possano sostare tutte assieme. Con Civico erano presenti anche due studenti del da Vinci, Marialaura Cao ed Enrico Chiogna che hanno annunciato l’assemblea che si svolgerà oggi e che avrà per tema i "Tabù". Il consigliere ha parlato poi dei canali internazionali con un corridoio umanitario dal Libano che, tra fine mese ed i primi giorni di marzo, consentirà per la prima volta in Italia grazie alla disponibilità di Curia e Provincia, di far arrivare in Trentino, a Villa San Nicolò, 30 profughi siriani, divisi in sette nuclei familiari. Lodi: niente ritorno né risarcimento per l’ex direttrice del carcere di Valentina Bertuccio D’Angelo Il Giorno, 7 febbraio 2016 Niente mobbing, niente risarcimento, nessun ritorno a Lodi. L’ex direttrice del carcere di via Cagnola, Stefania Mussio, incassa dal Tar della Lombardia una sentenza sfavorevole. E resta direttore provvisorio a Sondrio. La sentenza ha messo un punto a un’intricata vicenda iniziata a gennaio 2014, quando gli agenti della polizia penitenziaria di Lodi avevano puntato il dito contro la gestione della struttura, elencando le mancanze (sicurezza, igiene, turni massacranti, organizzazione) e chiedendone la rimozione. Erano seguiti mesi caldi di picchetti, interrogazioni parlamentari, ispezioni. Nel mezzo, anche tre scarcerazioni "sbagliate". Fino alla rimozione, il 27 giugno, con distacco al carcere di Opera. Mussio, 52 anni, a Lodi dal 2007, aveva però fatto ricorso, ottenendo inizialmente la sospensione del provvedimento di revoca e, il 19 gennaio 2015, un’ordinanza che obbligava il Ministero a consentirle di riprendere servizio. In autotutela, il 20 gennaio il Ministero aveva annullato il provvedimento di revoca dell’incarico, il giorno dopo ne aveva emesso uno nuovo con cui mandava la direttrice a Sondrio. Contro questa decisione, era arrivato un nuovo ricorso con cui la dirigente chiedeva l’annullamento del trasferimento e un risarcimento per mobbing di 250mila euro. Nulla da fare. Il Tar ha dichiarato la "cessata materia del contendere" per il provvedimento del 2014, e ha rigettato il secondo ricorso. "Non può essere annullato il provvedimento fondato su una pluralità di ragioni autonome, alcune delle quali idonee di per sé a sostenerne la legittimità". Il giudice riconosce che il Ministero ha agito non solo per un "mancato raggiungimento degli obiettivi", ma anche perché dalle ispezioni erano emerse "palesi criticità e difficoltà relazionali, (...), un ambiente logoro e da rigenerare". E d’altra parte "il direttore non aveva emesso i provvedimenti necessari per la corretta gestione del nuovo sistema di conduzione dei reparti detentivi". Senza dimenticare che "gli incarichi possono essere revocati quando per qualsiasi causa, anche senza colpa, i funzionari non possano svolgere efficacemente il loro incarico nella sede che occupano". "Ringrazio l’amministrazione penitenziaria regionale e centrale - dice Dario Lemmo, segretario provinciale Sappe - per aver tutelato fino all’ultimo gli agenti di Lodi. La sentenza conferma la giusta causa delle nostre proteste". Milano: 198 giorni a San Vittore in meno di 3 metri, risarcito per "trattamento inumano" La Repubblica, 7 febbraio 2016 Giudice risarcisce ex detenuto. Riceverà 1.568 euro più l’indennizzo per le spese legali. Si era appellato all’articolo 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dell’uomo. È di 7,91 euro il risarcimento che il ministero della Giustizia dovrà pagare a un ex detenuto per droga per ogni giorno trascorso nel carcere di San Vittore a Milano. La motivazione? Dietro le sbarre ha subito "un trattamento inumano e degradante". Lo ha stabilito il tribunale (decima sezione civile) accogliendo, in parte, il ricorso presentato dall’uomo che si è visto riconoscere un risarcimento pari a 1.568 euro per i 198 giorni passati in una cella sovraffollata della struttura di via degli Olivetani. Nella cella in cui è stato rinchiuso, "lo spazio pro capite" è risultato "inferiore al limite minimo di 3 metri quadrati". L’ex detenuto, nel suo ricorso, si è appellato all’articolo 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dell’uomo e delle libertà fondamentali e ha sostenuto di essere stato dal 29 gennaio 2009 al 14 marzo 2010 prima a San Vittore, poi a Opera e di Bollate, in condizioni di detenzione "degradanti". Condizioni riscontrate però solo a San Vittore. Nel ricorso, che ha dato il via a una causa contro il ministero della Giustizia, l’ex carcerato si è lamentato di essere stato "ristretto in celle di dimensioni ridottissime, sempre in regime di condivisione con altri soggetti, il cui spazio disponibile era limitato ulteriormente dalla presenza di mobili ed arredi, oltre che scarsamente illuminate e riscaldate". In più, si legge sempre del provvedimento del giudice civile, tali "celle erano dotate di un piccolo bagno, privo di acqua calda e assolutamente non igienico". Circostanze queste, ha sottolineato il magistrato, smentite dalle relazioni redatte da Opera e da Bollate: nel primo caso era stato collocato in celle di 12 metri quadrati con un’altra persona "così da aver goduto di uno spazio superiore a 3" metri quadrati e dotate di bagno con "wc, bidet e lavandino". "Del pari va escluso" che l’uomo abbia subito "alcun trattamento disumano" nel periodo di reclusione a Bollate, dove "è sempre stato praticato il cosiddetto regime a celle aperte, con possibilità per i ristretti di muoversi liberamente nelle ore diurne all’interno del reparto, così da rendere ininfluente l’eventuale ristrettezza della cella". Non così per il periodo dal 29 gennaio al 13 agosto di sette anni fa trascorso a San Vittore "in celle di 9 metri quadrati, ma sempre in condivisione con altri 4, 5 o 6 detenuti", salvo che per un breve "intervallo" di una settimana, "certamente - annota il giudice - non sufficiente a garantirgli un minimo di adattamento alle condizioni migliorative". In tale periodo la detenzione è stata ritenuta "degradante e disumana", anche se "deve essere tenuto in considerazione nella valutazione del carattere afflittivo della carcerazione subita" il fatto che l’uomo ha potuto usufruire di 4 ore al giorno di ‘arià, "per passeggiate o per accedere alle sale di socialità". Pertanto il ministero è stato condannato a pagare all’ex detenuto 1.568 euro, oltre agli interessi legali, nonché al versamento di 405 euro di spese processuali, oltre alle spese generali e agli oneri fiscali. Firenze: la squadra di calcio dei detenuti batte la formazione Comune-Uisp gonews.it, 7 febbraio 2016 "Sport in libertà" alla Casa circondariale di Sollicciano. Si è tenuta questa mattina una partita amichevole di calcio a 11 nel campo sportivo all’interno del carcere. La squadra dei detenuti ha sfidato e battuto per 5 a 2 una squadra composta da amministratori comunali e dirigenti Uisp. Il team di Sollicciano da un anno si ritrova tutti i sabato mattina per allenarsi e divertirsi intorno al pallone. Il match è stato l’occasione per il Comune di donare alla squadra dei detenuti la divisa. Il completo è composto da maglia viola e pantaloni bianchi. L’investitura ufficiale per la squadra, celebrata con tanto di terzo tempo di saluto, un po’ come avviene nel mondo del rugby. Soddisfatto l’assessore comunale allo sport Andrea Vannucci. "L’amministrazione crede molto in questo progetto che è una commistione bella tra sport e sicurezza sociale. Oggi è una festa, celebriamo la consegna delle maglie alla squadra di Sollicciano, in un contesto fortemente voluto dal Comune, dalla Uisp e dalla direzione penitenziaria". "Da quattro anni questo progetto "Sport in libertà", sostenuto dal Comune, porta all’interno del carcere a chi sta scontando una pena, un’attività non solo fisica e sportiva ma sociale tra le persone - spiega Mauro Dugheri, presidente Uisp Firenze. Portiamo a questi ragazzi i valori dello sport, forniamo alle persone che partecipano al progetto la possibilità di costruire un profilo sociale e personale che permette un reinserimento nella vita sociale di tutti i giorni". Il corso della Uisp a Sollicciano si tiene in accordo con la direzione educativa dell’istituto ed è propedeutico all’attività di calcio a 11. Prevede un appuntamento settimanale (il sabato mattina) tenuto da operatori Uisp esperti della disciplina allenatori Uefa B. Il corso si basa su: l’insegnamento delle basi e delle specifiche regole del tradizionale gioco del calcio a 11; l’apprendimento di schemi e tattiche di gioco, l’interazione con i compagni di squadra, il riconoscimento di ruoli e lo sviluppo del "gruppo", il miglioramento delle capacità fisiche e il rispetto dell’ avversario e delle altre culture. L’attività coinvolge 30 detenuti di varie nazionalità, 1 allenatore e 3 volontari. Non è l’unica attività sportiva condotta da Uisp all’interno della casa circondariale. Durante la settimana si praticano anche volley, basket e capoeira. Inoltre, è in ponte l’organizzazione di ancora altre iniziative come: Vivicittà: corsa campestre per donne uomini dentro le mura del carcere con operatori e istruttori della disciplina (aprile 2016); un corso arbitri di calcio tenuto dalle sezione arbitri Uisp di Firenze; attività di Thai-chi con le varie associazioni di circo affiliate Uisp. Napoli: le pistole dei ragazzi invisibili e quelle vittime senza colpa di Roberto Saviano La Repubblica, 7 febbraio 2016 Questa è Napoli. Sapevo di quest’omicidio prima che ne scrivessero i giornali, perché un amico, passando nella zona del Trianon in macchina, voleva fermarsi a prendere una bottiglia d’acqua per il figlio, ma la polizia aveva già transennato la piazza, e il bar era irraggiungibile. Mi ha scritto dicendomi che non era sorpreso, che queste cose possono capitare. Aveva visto un omicidio di camorra nel parco di fronte casa qualche anno prima, un sabato a mezzanotte. Poi la morte di un camorrista che aveva deciso di stabilirsi nel quartiere, uno di quelli che falsificavano assicurazioni, pianto come persona per bene: "Non ha mai accis’à nisciun’, era una persona per bene". A Napoli si fanno gli scongiuri, si spera sempre di non trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. Mi chiedo come faccia la città ad accettare tutto questo. Il 30 gennaio viene ucciso a Ponticelli Mario Volpicelli, l’uomo che gestiva un negozio "tutto a 50 centesimi". La sua morte è quanto di più simile possa accadere a chiunque viva in un territorio in guerra. Finiti i Sarno, a Ponticelli ci si spartisce il regno a colpi di tatuaggi che segnano l’appartenenza a due clan avversi: i D’Amico e i De Micco. Volpicelli era cognato dei Sarno e parente dei De Micco, questo è bastato per essere condannato a morte. Questo basta per essere nella lista nera della faida: ogni faida ne ha una, vi sono scritti i nomi di parenti anche lontani, l’obiettivo è sfidare l’avversario colpendo chi è indifeso; decimare il nemico partendo da chi non si sente in pericolo. Conoscete voi un vostro cugino di secondo grado? Il nipote del fidanzato del cugino di vostra moglie? In tempo di faida si è ucciso per questo. I cadaveri sono lettere che vengono spedite. L’obiettivo è terrorizzare. Tra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio, azioni dimostrative in tutta la città, dalla zona di Cavalleggeri d’Aosta a due passi dallo stadio San Paolo alla centralissima Materdei: bottiglie incendiarie e sventagliate di kalashnikov per avvertire, intimidire, annunciare rappresaglie. Il primo febbraio, una "paranza" di dieci ragazzi legati al clan D’Amico, armati fino ai denti sugli scooter, ha invaso e terrorizzato San Giovani a Teduccio: l’obiettivo era Raffaele Oliviero, vicino al clan Rinaldi- Reale. Se guardiamo le azioni di rappresaglia degli ultimi sei mesi, noteremo come la città sia coinvolta tutta, come nessuno possa dirsi al sicuro, e come arresti, processi e condanne, da soli, non abbiano alcun potere di fermare una guerra che va combattuta anche e soprattutto con altri strumenti. Non è possibile leggere questi dati e non comprendere quanto la politica, quella locale e soprattutto quella nazionale, abbia tragicamente fallito. Maggio 2015, Ponticelli: Ciro Rivieccio, 43 anni, pregiudicato, è ferito con tre colpi d’arma da fuoco. Nella stessa notte di giugno, un 23enne con precedenti penali è colpito alla coscia da un proiettile in via Pallonetto a Santa Lucia, luogo di spaccio, e un altro di 32 anni, neanche lui incensurato, è ferito alla gamba destra durante una sparatoria in via Sant’Anna di Palazzo (dove abitavo quando ancora ero a Napoli). E poi un 15enne ferito alle gambe nei Quartieri Spagnoli; era incensurato, ma era con un cugino con piccoli precedenti. E ancora, Soccavo: 46enne con precedenti penali raggiunto da proiettili mentre cammina per strada. Via Costa, quartiere San Lorenzo: feriti in una sparatoria tre minorenni a bordo di uno scooter. Il giorno dopo, e siamo a luglio, nella stessa strada colpi d’arma da fuoco contro un’abitazione al piano terra: è la risposta. A sparare, due ragazzi su un motorino. E poi le "stese" - le chiamano così - di luglio: baby camorristi che mirano a finestre e ad antenne paraboliche trasfor-mando il centro storico in un poligono a cielo aperto. A Fuorigrotta un ragazzo di 21 anni viene raggiunto da un proiettile a una spalla. Si tratta forse di un episodio connesso alla guerra tra ex affiliati ai D’Ausilio, clan di Bagnoli in auge ai tempi della Nuova Mafia Flegrea. In centro, in via Salvator Rosa, un 24enne in scooter viene affiancato da altri ragazzi, anche loro in scooter, che gli sparano. Nella stessa notte, in vico Nocelle, un 25enne viene ferito da colpi di pistola. A Ponticelli, due ragazzi di 19 e 15 anni restano feriti in una sparatoria. Ad Afragola, un uomo di 50 anni con precedenti per estorsione e ricettazione viene colpito a una coscia da un proiettile. Ad agosto muore Luigi Galletta, il meccanico vittima della faida di Forcella, un ragazzo per bene, ucciso perché non voleva truccare i motorini della "paranza". E poi Roberto Rizzo, un ragazzo con piccoli precedenti penali, ferito da colpi di arma da fuoco mentre di notte era in strada con amici. Agli inizi di settembre un uomo con precedenti per droga viene ferito alla gamba da un colpo di arma da fuoco. Ha detto nell’immediato di avere solo avvertito un bruciore, di non essersi accorto dello sparo. E poi Gennaro Cesarano, il 17enne ucciso in piazza San Vincenzo alla Sanità: i killer in sella a due moto sparano ovunque, il loro obiettivo è fare morti. Segue un raid agghiacciante al Rione Traiano: un numero imprecisato di ragazzi, armati fino ai denti, sparano ininterrottamente facendo esplodere anche una bomba carta. Sul selciato restano circa 60 bossoli di arma da fuoco tra cui quelli di un kalashnikov. E poi, di nuovo a Fuorigrotta, viene ferito Nicola Barbato, poliziotto impegnato nell’operazione antiracket. A ottobre la prima vittima eccellente è Annunziata D’Amico, detta Nunzia la Passilona, reggente dei D’Amico, condannata a morte dal clan nemico di Ponticelli. Poi Ciro Rosano, pregiudicato, ferito nel quartiere San Pietro a Patierno, mentre a Giugliano due persone in sella a una moto esplodono colpi d’arma da fuoco: nel mirino il figlio di un affiliato al clan Mallardo. A novembre a Capodimonte quattro uomini armati di pistole e a bordo di due moto seminano il terrore esplodendo colpi in aria. Un ragazzo di 22 anni viene gambizzato ad Acerra e due persone ferite a Miano. A dicembre, un uomo resta ferito in un agguato a Pianura, un altro ad Afragola. Il 25 gennaio in un agguato a Fuorigrotta viene ferito un 16enne. Poi c’è Giuseppe Calise, 24 anni, ucciso al rione don Guanella mentre il ministro Alfano era in prefettura a parlare della necessità di "far tacere le pistole". E nella notte ammazzano Pasquale Zito, 24 anni: suo zio era stato ucciso nel 2007. Dopo quest’omicidio, a Bagnoli diversi cittadini hanno dichiarato che "non usciremo di casa" rispettando una sorta di coprifuoco imposto dalla faida. Ecco: il catalogo della violenza è questo. E probabilmente è incompleto. Sulla stampa nazionale se ne parla solo quando a morire sono minorenni o incensurati. Gli altri agguati sono cancellati, derubricati a normale amministrazione. Qui la normale amministrazione è una guerra quotidiana legata alla droga e nutrita di omertà, combattuta da centauri non ancora maggiorenni. Ho parlato a lungo con il capo della squadra mobile di Napoli: Fausto Lamparelli conferma che si tratta di ragazzi "giovanissimi, disposti a tutto. Sanno di poter ottenere nel breve periodo potere e soldi pagati poi con la vita o l’ergastolo. Qui non si può procedere solo con l’attività di polizia giudiziaria, noi facciamo la nostra parte, ma la camorra va combattuta con lavoro, impegno, investimento. Cose facili a dirsi, ma difficilissime a realizzarsi". Certo, se ammettessimo che si tratta di un territorio in guerra, capiremmo come non basta affatto avere ex magistrati alla presidenza del Senato, a capo dell’Autorità anticorruzione, alla guida della città per pensare che tutto quello che si più fare lo si sta già facendo. Non basta. Dobbiamo smettere di trattare Napoli come una città normale. Non lo è: i napoletani vivono sotto i proiettili e abbassano la testa, quindi non sono paragonabili agli abitanti di nessun’altra città italiana. La politica locale sta mostrando il volto peggiore nell’imminenza del voto. E il territorio è abbandonato, nelle mani dei nuovi capi, ragazzini che contano molto più dei rappresentanti politici. Intere aree della Campania sono nelle loro mani, le abbiamo irrimediabilmente perse, e ancora la politica nazionale pretende di fare campagna elettorale fingendo di non vedere. Mi chiedo perché la città non si ribelli: non si è stancata di valere qualcosa solo sotto elezioni e meno di niente a giochi fatti? Dovremmo pretendere che la nostra città torni a noi. Smettiamo di pensare che l’unico modo che abbiamo per viverci è farlo con un ideologico amore struggente: "Napoli è meravigliosa, chi parla di faide la sta insultando. Questa è romantica omertà che ha come unica conseguenza la rassegnazione. L’Italia sta morendo, lentamente, silenziosamente, e la ripresa non potrà esserci se metà del suo territorio è completamente fuori gioco perché mancano infrastrutture, investimenti e per di più è prigioniera del potere dei clan in guerra. Pubblicavo Gomorra dieci anni fa, i magistrati che ora il governo utilizza per darsi un Dna anti-mafioso dissero che era un libro importante non solo per quello che avevo scritto, ma perché avevo ricostruito un quadro d’insieme che mancava e, soprattutto, perché finalmente aveva portato attenzione. Dopo dieci anni, di quell’attenzione non è rimasto nulla. Franco Roberti: "Napoli, così una generazione di ventenni spietati ha rimpiazzato i boss" di Dario Del Porto La Repubblica, 7 febbraio 2016 Il procuratore nazionale antimafia sull’ascesa dei giovani criminali: "Cresciuti senza scrupoli nel vuoto lasciato dai vecchi capoclan". Una "spaventosa quantità di armi in circolazione nelle strade". Nuove leve di giovanissimi criminali disposti a tutto che "sparano nel mucchio e per questo fanno più paura". È una "situazione eccezionale sul piano dell’ordine pubblico, senza eguali in Europa, peggio che nelle banlieue parigine", quella con cui deve confrontarsi oggi l’area metropolitana di Napoli nella lettura di un magistrato che conosce benissimo la realtà della città e della regione: il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Che cosa sta succedendo a Napoli, procuratore Roberti? "È una situazione apparentemente paradossale: le organizzazioni camorristiche tradizionali sono state quasi tutte colpite da interventi giudiziari molto incisivi. Sono stati sequestrati e confiscati beni di valore elevatissimo. Oggi la camorra ha il maggior numero di collaboratori di giustizia e ben 294 detenuti al carcere duro su 725. Eppure, nelle strade, le cose sono peggiorate". Perché? "La repressione ha funzionato, ma proprio per questo ha determinato vuoti di potere criminale, aprendo spazi a gruppi composti da ragazzi di nemmeno vent’anni, se non addirittura minorenni, che si scontrano per il controllo del territorio e del mercato della droga. Hanno tantissime armi disposizione e sono pronti a uccidere per nulla. Non credo che, nel panorama nazionale o europeo, esistano esempi analoghi". Che cosa rende questo territorio tanto diverso da altre aree del Paese e della stessa Campania? "È tutto il contesto a essere eccezionale. Ci sono problemi irrisolti da 200 anni, dall’evasione scolastica alla disoccupazione crescente compensata dall’economia del vicolo controllata dalla camorra, che sono alla base della penetrazione del modello camorristico nel tessuto sociale. L’area metropolitana copre il 10 per cento della regione, ma in questo 10 per cento vivono, una sull’altra, quasi quattro milioni di persone. Ci sono interi quartieri che, per la loro situazione urbanistica e in assenza di adeguate infrastrutture sociali, sono diventati di per se stessi criminogeni. Penso a Forcella, Scampia, il Parco Verde di Caivano, il Rione Salicelle ad Afragola. E potrei continuare. Altro che le banlieue di Parigi". Questo discorso però ricorda la definizione, che è costata tante critiche alla presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi, della camorra come "dato costitutivo" della società napoletana? "Ma è esattamente quel che penso anche io: se arresti, processi, condanne e sequestri non sortiscono l’effetto deterrente che hanno altrove, è proprio perché la camorra è diventata parte integrante della società napoletana e riproduce automaticamente, da secoli, il modello camorristico di controllo del territorio e della vita di intere fasce di sottoproletariato urbano". Come se ne esce? "Per risolvere i problemi sul piano sociale occorrono interventi che segnaliamo da sempre: lavoro, scuola, servizi pubblici efficienti, trasparenza della pubblica amministrazione. Tutto ciò che genera fiducia dei cittadini nei confronti dello Stato, perché solo con la fiducia dei cittadini lo Stato potrà vincere contro la criminalità organizzata". E dal punto di vista dell’ordine pubblico? "Se questa è una situazione eccezionale, e io ne sono convinto, occorrono provvedimenti eccezionali per assicurare una prevenzione efficace, visto che la repressione ha dimostrato, da sola, di non bastare". Ad esempio? "Le forze di polizia svolgono un lavoro straordinario. Ma il ministro Alfano dovrebbe chiedersi, per prima cosa, se il controllo del territorio funzioni sempre con l’assiduità, la continuità e la completezza che la situazione eccezionale richiede. Poi dovrebbe domandarsi se gli organici delle forze dell’ordine siano sufficienti. A me pare proprio di no. Suggerisco di rivedere la distribuzione degli organici sull’intero territorio nazionale, in modo da portare più risorse umane nell’area di Napoli. A sfide eccezionali si risponde con interventi eccezionali. D’altra parte, lo dicono le statistiche: vengono sequestrate armi ogni giorno, ciò nonostante il mercato non viene intaccato. Stesso discorso per la droga: gli interventi sono quotidiani, ma tonnellate di stupefacenti vengono vendute ogni giorno nelle piazze. Sulla droga poi voglio aggiungere una riflessione". Prego. "Deve cambiare il target delle indagini, allargando l’azione di contrasto alle strutture finanziarie che alimentano quel mercato. Su questo obiettivo, il mio ufficio si sta impegnando moltissimo". Lei ha discusso di questi argomenti con il ministro Alfano nel vertice di giovedì scorso a Napoli? "Il mio ufficio non è stato invitato". Contro i profughi il muro lo paga la Ue di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 7 febbraio 2016 Turchia e guerra in Siria. Alleati e complici del Sultano. Scene raccapriccianti: decine di migliaia di siriani in fuga da Aleppo dove infuria la guerra sbattono contro la frontiera turca sbarrata per decisione del governo di Ankara. E ora la Turchia vuole costruire un muro - l’ennesimo - nell’unico tratto di frontiera a nord di Aleppo non sotto il controllo dell’Isis. I 3 miliardi di euro concessi dall’Unione europea alla Turchia per bloccare i profughi non potevano trovare davvero un migliore impiego! L’unico intervento deciso dalla Unione europea per i profughi ha avuto l’esito che si poteva facilmente immaginare. Il sultano Erdogan, dopo aver foraggiato l’Isis con soldi, armi e combattenti in arrivo dal Golfo e dall’occidente e aver contrabbandato il petrolio estratto nello "stato islamico", per poi aderire alla coalizione anti-Isis ad obtorto collo - non poteva sottrarsi essendo membro della Nato - ma solo per bombardare i kurdi, ora può finire l’opera, riducendo i profughi a topi in trappola, con i soldi dell’Unione europea. Purché serva a lavarsene le mani l’ipocrisia dell’Europa non ha limiti. Chiude gli occhi di fronte ai drammi più atroci, di cui è stata artefice, per non assumersi le responsabilità. Il fallimento del tentativo di negoziato di Ginevra è anche questo. Ma questi tentativi sono falliti sul nascere perché escludono i protagonisti del teatro di guerra e persino coloro, gli unici, che hanno individuato una strada per combattere il fascismo fanatico dell’Isis, i kurdi. Si continuano a creare mostri che sfuggono di mano, l’elenco è lungo da Osama bin Laden fino ad al Baghdadi. È paradossale che l’Europa offra ora sostegno politico e finanziario ad Ankara, dopo aver continuamente rinviato l’entrata della Turchia nella Ue a causa della violazione dei diritti umani, proprio nel momento in cui il regime autoritario di Erdogan mostra il peggio di sé (è il Paese con il maggior numero di giornalisti in carcere, alcuni dei quali rischiano la pena di morte), ha ripreso il massacro dei kurdi e non solo in Turchia, ha ingaggiato un braccio di ferro con la Russia - trovando uno zelante contendente in Putin -, vuole costruire un muro in Siria con il miraggio di occupare una fascia di sicurezza oltre frontiera. Una scelta scellerata che ricadrà sulle nostre coscienze - se ce ne sono rimaste - perché non tutti i profughi potranno morire di fame e di stenti, non tutti i bambini potranno essere lasciati annegare in mare, il fascismo che serpeggia in Europa e nel Medio Oriente finirà per provocare una ribellione che travolgerà i benpensanti, gli indifferenti e i razzisti. A quel punto l’Europa, se ancora esisterà, dovrà scegliere da che parte stare, se diventare un luogo di accoglienza e di convivenza di popoli con culture diverse o arroccarsi in un fortino nel deserto (le previsioni climatiche già vanno in questo senso) in attesa dell’arrivo dei tartari. Che arriveranno dopo aver abbattuto tutti i muri. Allora forse chi sopravviverà riproverà quella sensazione vissuta nel 1989 con l’abbattimento del muro di Berlino. Un evento storico irripetibile, che però non ha lasciato traccia. Profughi, giallo sulle barriere al Brennero di Davide Pasquali Il Trentino, 7 febbraio 2016 L’allarme della Camera Commercio: "Il Tirolo vuole chiudere quattro varchi". Innsbruck smentisce ma senza convincere. Le pattuglie bi e trilaterali sui convogli ferroviari avviate da un paio d’anni sono servite a poco. Così come il rafforzamento dei controlli alla frontiera avviato a partire dal settembre scorso. E così, l’Austria sarebbe in procinto di rincarare la dose: per arginare l’ondata di profughi, entro quattro settimane la polizia nord tirolese intenderebbe posizionare delle barriere al Brennero, così come in altri quattro passi al confine fra Italia e Austria. Proprio come si è già fatto a Spielfeld, al confine Sud con la Slovenia: recinzione lunga 3,7 chilometri, alta da 2,5 a 4 metri. Con controlli serrati sulle merci e soprattutto sulle persone. A lanciare l’allarme è la camera di commercio altoatesina, preoccupata per le possibili pesanti ripercussioni sui transiti commerciali. A Roma per ora non sono giunte comunicazioni ufficiali da parte del governo austriaco, la Provincia non prende posizioni ufficiali e la direzione regionale della polizia nord-tirolese si è affrettata in parte a smentire - "non si può parlare di un vero sbarramento" - in parte a passare la palla a Vienna. E intanto, i secessionisti della Südtiroler Freiheit, affrontando a modo loro la questione dei profughi e dei pesanti riflessi su territori e popolazioni, pensano all’amata Heimat: con l’istituzione delle barriere al Brennero, così in una nota Sven Knoll della Südtiroler Freiheit, "è a rischio l’esistenza dell’Euroregione tirolese". Meglio spostare il confine del Brennero più a sud e gestire la questione in casa. Non facendo entrare profughi nell’intero Tirolo storico. Né del Nord né del Sud. La camera di commercio ieri ha diramato una nota piuttosto allarmistica: "Abbiamo appena appreso in via informale che in Tirolo la polizia sta prendendo misure per la predisposizione di una barriera al Brennero". La polizia del Tirolo spererebbe così di ridurre l’arrivo di profughi attraverso controlli e registrazioni al loro ingresso in Austria. "Per questo intende bloccare tra quattro settimane i confini verso sud, che comprendono in prima linea il Brennero, ma anche il passo Resia, Prato alla Drava e, in estate, almeno i passi Stalle e Rombo. Gli operatori economici altoatesini parlano di sicuri "pesanti aggravi per il traffico merci e gravi ripercussioni per la popolazione locale e il turismo". Si schierano contro la chiusura e chiariscono: "Tali misure destano totale incredulità tra gli operatori economici a sud del Brennero". Al Passo, al momento, non sono state intraprese azioni concrete. Ieri si transitava senza problemi, in entrambe le direzioni, su autostrada e statale. A livello politico altoatesino non sono state diramate note ufficiali, ma il governatore Arno Kompatscher ha avviato già in mattinata contatti con Oltrebrennero per chiarire la situazione. Il commissariato del governo ha preferito non intervenire, idem la questura. Dagli ambienti istituzionali è però trapelato che a livello romano non sarebbero giunte comunicazioni al riguardo. Tre settimane fa il cancelliere austriaco Werner Faymann aveva preannunciato la volontà di sospendere almeno momentaneamente la libera circolazione di merci e persone sancita dal trattato di Schengen ma, di fatto, almeno al Passo, i controlli ancora non sono stati aumentati. In caso si volesse davvero erigere delle barriere al Brennero e sugli altri passi di confine altoatesino-nordtirolesi, Vienna dovrebbe comunicarlo ufficialmente a Roma e ciò, al momento, non è accaduto. Come detto sopra, ieri sera la Landespolizeidirektion del Nord Tirolo ha chiarito che al momento non esiste alcuna disposizione in ordine all’erezione di barriere ("Sperre") al Brennero, decisione che comunque, si fa notare, non spetterebbe all’esecutivo del Land Tirolo. L’allarme lanciato dalla camera di commercio, almeno in parte, potrebbe apparire ingiustificato anche perché, come recita la medesima nota stampa della polizia nord tirolese, nelle prossime settimane ci si aspetta sì un deciso aumento della pressione dei profughi ai confini austriaci. Ma non quelli con l’Italia, o meglio con l’Alto Adige. Ora come ora il problema - e sono concordi nel notarlo tutti gli osservatori internazionali - è la rotta balcanica. Cioè i confini dell’Austria con la Slovenia e l’Ungheria. Siria: al confine con l’inferno "così siamo fuggiti" di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 7 febbraio 2016 "I bambini sono sotto choc per gli ultimi bombardamenti Piangono, non dormono, tremano". La novità più grave per le decine di migliaia di profughi in fuga dall’assedio di Aleppo è che adesso piove. Scrosci gelidi si alternano ad un’acquerugiola fastidiosa destinata a polverizzarsi in nebbie grigie e umide, foriere di ulteriori precipitazioni. Quattro giorni fa, quando i bombardamenti russi si erano intensificati aprendo la strada per le truppe di Bashar Assad assieme alle milizie sciite e i corpi scelti iraniani, un timido sole aveva illuminato l’esodo. Ma da venerdì pomeriggio il barometro è precipitato. "La conseguenza è che adesso dormiamo bagnati. Ci alziamo la mattina con gli abiti zuppi, che le temperature sotto i sei gradi durante il giorno non fanno asciugare. Tutti sono malati. I bambini tossiscono di continuo. Non troviamo più legna per i falò", dice per telefono il 27enne Yossef Najar da dietro il muro di fili spinati e campi minati che segna la frontiera. Najar è uno tra la decina di profughi che ieri siamo riusciti a contattare. È accampato con la moglie e tre figli (Imran 3 anni, Achmad 5, Uissam 6) solo a un chilometro da noi. Eppure, un universo intero ci separa. Dalla nostra parte c’è la cittadina turca di Kilis, il traffico scorre normale, le abitazioni sono illuminate, i ragazzi parlano dei compiti scolastici, sui muri i manifesti pubblicitari con gli ultimi saldi, ristoranti aperti, banche funzionanti. Di là l’inferno: fame, paura, mancanza di qualsiasi assistenza, distruzioni e morte. E in mezzo la linea della frontiera, che le autorità turche continuano a tenere serrata, sebbene promettano che aiuteranno i profughi con "cibo e ripari". Un campo di tende è in via di approntamento, ma pare che accolgano meno del 10% degli oltre 70.000 siriani che si stanno assiepando, con il rischio molto probabile che il numero sia destinato a crescere. "Siamo arrivati al confine utilizzando mezzi di fortuna: auto di conoscenti, trattori, taxi scassati e tanti chilometri semplicemente a piedi", continua Najar. Ieri ha speso l’ultima ventina di dinari che gli restava in tasca. "Ho comprato pane e olive. Una bottiglia d’acqua. Ma adesso non ho più nulla". Che farete se arrivano le milizie sciite, dove andrete? "Non so. Abbiamo paura. Verranno e vorranno vendicarsi. I bambini sono sotto choc per gli ultimi bombardamenti. Piangono, non dormono, tremano. Pensavamo di averci fatto il callo. Ma sono stati terrificanti. La casa dei nostri vicini è crollata in una nuvola di polvere. A Mara, il nostro villaggio natale, le milizie sunnite cercavano di frenare gli attacchi di Isis. Siamo scappati nel villaggio di Achreitan, ma è stato anche peggio. L’aviazione russa ha colpito notte e giorno. Abbiamo dovuto scappare ancora". Ora lui dorme sotto un albero da tre giorni. I figli con la moglie sono con altre donne e bambini nei ruderi semicarbonizzati di una moschea. Stessa storia per il 43enne Ziad Ibrahim, padre di Mohammad, 3 anni, Barah 8, Achmad 11 e Khalil 12. Due giorni fa hanno deciso di abbandonare Azaz, solo 10 chilometri dal confine. "Siamo rimasti nella nostra casa tutti questi anni di stenti. Pensavamo di poter essere risparmiati. Ma i bombardamenti russi hanno cambiato radicalmente la situazione. Le bombe cadono in modo indiscriminato su qualsiasi cosa che si muove. E adesso stanno arrivando le truppe di terra. Il grave è che sono miliziani sciiti, iracheni, soldati iraniani, Hazara afghani, Hezbollah libanesi, paramilitari siriani, soldataglia pagata per uccidere i sunniti, per rubare nelle nostre case, eliminare i giovani. Sappiamo già di massacri. E il grave è che le truppe lealiste assieme alle forze russe non colpiscono Isis, anche se lo usano come pretesto delle loro operazioni. Quasi non ci sono attacchi contro i villaggi controllati da Isis", sbotta quasi piangendo. Mazer Ibrahim, dell’organizzazione umanitaria siriana Al Risala, spiega di aver raccolto centinaia di testimonianze molto simili. "Sembra quasi che Isis e Assad siano alleati", accusa. Sono racconti confusi, magari ingigantiti dalla paura e dalle sofferenze. Eppure sono importanti per la loro freschezza e per comprendere l’ampiezza del mutamento repentino degli equilibri strategici in Siria. L’evidenza è nelle parole di questi profughi: grazie al sostegno militare russo e l’intervento del fronte internazionale sciita guidato dall’Iran, il regime di Damasco sta avendo la meglio. Aleppo, la seconda città del Paese, è ormai circondata dai lealisti. Quattro anni fa, quando le rivolte contro il regime investirono anche la sua università e i quartieri del centro, furono in tanti a profetizzare che per Assad i giorni erano contati. "Dopo Aleppo arriva Damasco", cantavano nelle piazze. Oggi è vero il contrario: la sconfitta delle milizie sunnite ribelli arroccate nei quartieri del centro e orientali sarebbe una vittoria decisiva per il fronte sciita. Si spiegano così i toni intransigenti e aggressivi che arrivano dai massimi dirigenti nella capitale. "I successi riportati dalle nostre forze nelle battaglie attorno ad Aleppo ci fanno ritenere che la fine della crisi sia ormai vicina. Chiunque intenda inviare truppe sul terreno a fianco dei terroristi sappia che vedrà tornare a casa i suoi soldati in casse da morto", ha tuonato ieri mattina il ministro degli Esteri, Walid al Moualem. Un segno di forza e un monito all’Arabia Saudita, sostenitore storico del fronte sunnita, che negli ultimi giorni ha lanciato timidi segnali a Washington per cercare di coordinare un intervento sul campo capace di frenare l’offensiva sciita. L’esodo dei profughi traccia le tappe dell’avanzata lealista. Fuad Darballah, 46 anni, racconta che da tre giorni è impossibile scappare da Aleppo. Sulla mappa indica i villaggi sunniti caduti: Ratian, Haretian, Baianun, Anadan, Kafr Naia, Kafr Nase, Minnagh, Miskhan, Haian. A seguirlo salta subito all’occhio l’ampiezza dell’accerchiamento. "I profughi che raggiungono Bab el Salam arrivano ormai solo dai villaggi a nord di Aleppo. E sempre più spesso hanno dovuto percorrere decine di chilometri a piedi per le campagne. Le strade sono tutte chiuse, prese di mira dai jet russi", dice. Sono quasi le otto di sera quando lasciamo la zona semideserta del confine. La polizia turca vigila attenta. In quel momento scorgiamo tre giovani uomini che escono dalla guardiola della dogana. Sono paramedici siriani con il lasciapassare speciale in tasca. "Non potete neppure immaginare la potenza e l’intensità dei bombardamenti russi", esclama il 31enne Youssef al Alu. "Sui villaggi cadono decine di ordigni al minuto. Nessuno potrebbe resistere. Sono tre anni che lavoriamo nella regione. Ma è diventata un pianeta diverso. La Siria di una volta non esiste più". Iraq: malattia di frontiera di Chiara Cruciati Il Manifesto, 7 febbraio 2016 Centinaia di migliaia di sunniti iracheni costretti in comunità ai margini vedono aumentare i casi di depressione e ansia. A offrire sostegno è Medici senza Frontiere che sfida lo stigma della salute mentale. Lasciandoli raccontare il loro conflitto. Immaginate di veder sfumare in un giorno solo la vostra vita. Di veder scomparire in poche ore la quotidianità dei gesti, il vostro lavoro, il vostro ambiente sociale. Meno di ventiquattro ore e quelle che erano le vostre certezze non esistono più. Siete in fuga dalle bandiere nere e dalla brutalità di miliziani che dicono di professare la vostra stessa fede, ma che vi perseguiteranno e opprimeranno nascondendosi dietro un’interpretazione della religione lontanissima da quella in cui avete sempre creduto. Questo è stato ed è il destino delle comunità sunnite fuggite dalle province irachene di Anbar, Ninewe, Salah-a-din. Milioni di persone che all’arrivo dello Stato Islamico hanno cercato riparo nel Kurdistan iracheno e a est, verso Baghdad. Centinaia di migliaia di loro, però, si sono trovati la porta sbarrata. Come quelli bloccati a Kirkuk: nella provincia sarebbero almeno 400mila le persone fuggite dalle comunità sunnite a ovest. Sono guardati con sospetto dai kurdi iracheni che associano i sunniti allo Stato Islamico, ma vengono respinti anche dalle città sciite a est e a sud: Baghdad chiude l’accesso per evitare uno sbilanciamento demografico, figlio di settarismi interni e politiche divisorie. E così restano dove sono, in una zona cuscinetto isolata dalle principali città e quindi da un minimo di stabilità sociale ed economica. Evitano di muoversi in un’area militarizzata, dove gli scontri tra milizie sciite e peshmerga kurdi sono ormai all’ordine del giorno. Vivono in condizioni miserabili, senza denaro, senza un lavoro, impossibilitati a rientrare nei propri villaggi, pesantemente bombardati dalla coalizione anti-Isis. Molti di loro si sono ritrovati a vivere (o sopravvivere) in villaggi poveri, in comunità ai margini, senza la possibilità di trovare rifugio nelle zone sciite controllate dal governo di Baghdad o in quelle kurde sotto Erbil. Il villaggio di Omar ne è un esempio: comunità piccola, poverissima, che sopravvive vendendo latte e formaggio, oggi ospita centinaia di sfollati, sunniti iracheni, provenienti da villaggi vicini. Molti fanno parte della tribù Shamar, vivevano in villaggi a pochi chilometri di distanza: te li indicano, sono là dall’altra parte di quella grande strada. Oggi vivono in tende o in case di fango, con l’inverno che peggiora le già precarie condizioni di vita. Le necessità si moltiplicano: un tetto sopra la testa, cibo, coperte, vestiti, una scuola per i bambini. L’assistenza fornita a nord dall’Onu qua è assente, a causa della scarsa sicurezza e degli ostacoli posti dalle diverse autorità, strati che si sovrappongono. A tamponare l’emergenza c’è Medici Senza Frontiere. Partono il mattino preso da Kirkuk e mezz’ora dopo sono ad Omar: preparano gli ambulatori dentro una delle strutture del villaggio. Con tendaggi colorati dividono lo spazio a disposizione per garantire ai pazienti un po’ di privacy. In un angolo creano la farmacia: i medicinali vengono posti in file ordinate, pronti ad essere consegnati. Fuori inizia a formarsi una piccola folla: donne, uomini, bambini, pronti a farsi visitare. A sinistra le donne, a destra gli uomini. I bambini ne approfittano per giocare nel cortile. Alle malattie prevedibili tra sfollati con poco cibo a disposizione e il freddo invernale si aggiunge un altro problema: quello psicologico derivante dalla fuga, lo sfollamento, la perdita della propria vita quotidiana e del controllo del proprio destino, la dipendenza da aiuti esterni. Medici Senza Frontiere porta avanti il progetto di salute mentale in molte comunità nella zona di Kirkuk: offre un sostegno preliminare, una terapia di base a causa delle difficoltà a garantire il follow-up: "Operiamo attraverso l’individuazione dei cosiddetti sintomi fisici multipli inspiegabili, ovvero sintomi che non sono legati ad alcuna malattia fisica e che quindi, con molta probabilità, sono da ricollegare a problemi mentali - spiega al manifesto Susana Borges, capo progetto a Kirkuk - Una volta che i nostri medici li identificano, mandano i pazienti dai nostri assistenti sociali e dagli psicologi che iniziano a trattare il disturbo". I risultati di una tale attività potrebbero stupire un profano: i casi più comuni non sono i disturbi da stress post-traumatico, ma ansia e depressione. "Reazioni normali a situazioni anormali: queste persone stanno vivendo in condizioni di vita caratterizzate da disoccupazione, assenza di prospettive per il futuro, la perdita delle proprie certezze. La depressione e l’ansia sono reazioni del tutto normali". Normali ma per la società irachena non così facilmente affrontabili: nel paese non esistono strutture per la salute mentale, non esistono competenze né medici specializzati, non esiste un budget destinato. "Nei casi gravi ci si limita a distribuire farmaci, senza prevedere alcuna terapia. Una realtà frutto della concezione della salute mentale come stigma sociale: la associano subito alla pazzia e tendono ad isolarla e nasconderla, senza capire che si tratta di reazioni assolutamente normali in un contesto di violenza ciclica". Una violenza che in Iraq colpisce da decenni, tanto radicata da aver provocato la scomparsa di molti sintomi di disturbo psicologico: chi ha superato precedenti traumi senza alcun sostegno tende a cancellare le emozioni che questi traumi provocano, entra in una sorta di apatia. Non c’è più emozione, ma aggressività, rabbia. "Evitiamo di fare diagnosi per non spaventare i beneficiari - continua la Borges. Lavoriamo guadagnandoci la fiducia delle comunità e organizzando sessioni comuni, incontri in cui spieghiamo cos’è la salute mentale e quali sono le naturali reazioni a situazioni di tensione come quelle vissute dagli sfollati. E poi operiamo, quando possibile, con gruppi di supporto: i beneficiari si incontrano, discutono, condividono esperienze e si rendono conto di avere problemi simili. È una terapia di base ma estremamente efficace". "I pazienti vengono coinvolti nella terapia: qui più che in altri contesti è fondamentale a fornire alle comunità strumenti di resilienza: qui il conflitto è cronico, la violenza è ciclica, non ha un inizio e una fine. È necessario attivare strumenti di difesa e rafforzamento comunitario". Ci spostiamo in un’ampia tenda nel centro del villaggio di Omar. Alla spicciolata arrivano 19 donne, prenderanno parte ad un primo incontro di gruppo. La giovane assistente sociale di Medici Senza Frontiere, Shihad, poggia a terra un thermos di caffè. E inizia a parlare, a spiegare cosa significhi sentirsi oppressi, senza speranza, spaventati dal futuro. Reazioni normali. Le donne si aprono: una alla volta ripetono le stesse cose, gli stessi traumi. E le stesse sensazioni: "Non riesco a dormire - dice Ayah - Notti intere senza dormire, vedo teste mozzate. L’Isis ha ucciso mio figlio". "Sono sempre nervosa, qualsiasi cosa mi fa arrabbiare". "Di fronte a me vedo persone uccise, ammazzate dalle bombe. Vedo i loro volti". "Ho sempre paura". "Penso alla nostra vita di prima e a quella di oggi, abbiamo perso tutto". Le cose che bisogna fare per salvare l’Europa di Francesco Giavazzi Corriere della Sera, 7 febbraio 2016 È venuto il momento, a Bruxelles, come a Roma, Berlino e Madrid, di smetterla di litigare su qualche cifra decimale e prendere in mano le redini del futuro. Il Consiglio europeo del 18 febbraio potrebbe essere uno dei più importanti nella storia recente dell’Unione. Nubi scure si addensano sulle istituzioni europee: se il Consiglio si dimostrasse incapace di affrontarle - o peggio, facesse finta di nulla - fra qualche anno quelle istituzioni, dall’Unione monetaria alla stessa Unione Europea, potrebbero non esserci più. Io penso ci pentiremmo di averne passivamente accettato la dissoluzione. Soprattutto se ne pentirebbero i Paesi del Sud dell’Europa che, ritrovatisi soli, piu difficilmente riuscirebbero ad arginare la pressione demografica che su di essi si esercita dall’altra sponda del Mediterraneo. È venuto il momento, a Bruxelles, come a Roma, Berlino e Madrid, di smetterla di litigare su qualche cifra decimale e prendere in mano le redini del futuro di questo Vecchio Continente. Il momento - penso ai capi di governo che parteciperanno a quel Consiglio europeo - di essere degli statisti, non politici preoccupati solo del prossimo sondaggio. Al presidente del Consiglio italiano e alla Cancelliera tedesca avevamo chiesto, prima del loro incontro a Berlino di due settimane fa, che non ci facessero rimpiangere Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer. È stata un’occasione sprecata. Ciascuna delle nubi che si addensano sull’Europa potrebbe essere facilmente fugata: è la loro concomitanza che può distruggere le istituzioni. L’Unione minaccia di sospendere la Grecia da Schengen se non si dimostrerà capace di controllare il flusso dei rifugiati. Noi facciamo fatica a controllare un’isola, Lampedusa, che dista 300 chilometri dalla costa libica. Di isole la Grecia ne ha qualche migliaia, alcune a poche centinaia di metri dalla Turchia, il Paese da cui arrivano gli esuli siriani. Che cosa pensiamo accada se, chiudendo le sue frontiere, trasformiamo la Grecia in un grande campo profughi? Pensiamo davvero che quel Paese continuerebbe sulla strada che ha intrapreso, in ritardo ma con coraggio, per rimanere nell’euro? La partita con Londra indebolirà l’Unione qualunque sarà il risultato del referendum sulla permanenza o meno nell’Ue. Se il negoziato offrirà sufficienti concessioni per convincere i britannici a rimanere nell’Unione, il giorno dopo polacchi, danesi, svedesi, ungheresi e chissà quanti altri, chiederanno un medesimo trattamento. Se invece la Gran Bretagna uscirà si spezzerà un tabù e la domanda sarà: chi dopo Londra? La Commissione Europea ha assunto una posizione assurda nei confronti dell’Italia. Roma non chiede, come potrebbe, che il costo che paghiamo per far fronte all’afflusso di rifugiati - sbarcano a Lampedusa, non a Lisbona - sia suddiviso fra tutti i Paesi dell’Unione. Chiede solo che quelle spese siano escluse dalle cifre cui si applicano le regole europee sui conti pubblici. Cioè di non dover fare una manovra aggiuntiva solo per questo motivo (è possibile che dovremo farla comunque, ma questo è un problema diverso). Il Signor Juncker non demorde e Matteo Renzi non poteva sperare in un’occasione migliore per mostrarsi inflessibile e crescere nei sondaggi. Andrà a finir male. Violeremo le regole, la Commissione chiederà che vengano applicate le sanzioni e la questione finirà alla Corte di giustizia europea. Pazienza, non fosse per il fatto che le cattive abitudini si diffondono rapidamente. Il nuovo governo socialista portoghese ha accettato solo in parte le osservazioni della Commissione sulla legge di Stabilità e qualche ministro ha proposto, se il Paese subisse delle sanzioni, di mettere il veto all’accordo con Londra. Se scivola su questi temi, il Consiglio europeo ne esce solo parlando d’altro. Ancora una volta un’occasione sprecata. Eppure non sarebbe difficile comportarsi da statisti. I rifugiati siriani pongono molti problemi, ma offrono anche una grande opportunità. Solo Angela Merkel sembra aver capito che potrebbero essere i figli dei rifugiati di oggi a pagare fra vent’anni le nostre pensioni. È così difficile spostare il problema dei rifugiati dai singoli Paesi all’Europa, affrontandolo con risorse ad hoc. Ad esempio rifinanziando adeguatamente Frontex (l’agenzia che gestisce le frontiere dell’Unione) trasformandola nell’embrione di una forza di sicurezza europea: Frontex, che dovrebbe proteggere circa 80.000 chilometri di frontiera, ha per il 2016 un bilancio di 254 milioni di euro. In confronto, il bilancio della città di Milano è di circa 5 miliardi. Si potrebbe sfruttare questa occasione per costruire un embrione di quel bilancio europeo comune senza il quale è difficile che l’Unione abbia un futuro. Negli Stati Uniti d’America fu la guerra civile combattuta fra il 1861 e il 1865 a infrangere le resistenze al federalismo fiscale. I rifugiati come occasione, non solo un problema. Le istituzioni si costruiscono con idee coraggiose, ma anche giorno per giorno. L’Unione bancaria è incompleta: non sopravviverà senza un’assicurazione comune sui depositi e un fondo europeo per gestire i fallimenti bancari. Esiste un Rapporto, scritto da cinque presidenti (Parlamento europeo, Consiglio, Commissione, Bce ed Eurogruppo), con proposte timide ma concrete. È troppo chiedere che il Consiglio del 18 febbraio ne discuta e dica che ne pensa? I nostri ragazzi nell’epoca dell’insicurezza di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 7 febbraio 2016 Giulio come i ragazzi di una nuova generazione: i Post Italians. Quelli che partono per un altro Paese, tornano e ripartono. Liquidi e veloci come i loro strumenti e i loro mestieri. Disseminati per un mondo dove alla precarietà si è aggiunta l’insicurezza. Sono più vulnerabili, ma ammirevoli. La morte di Giulio Regeni sembra destinata a segnare una generazione di italiani da esportazione. Cent’anni fa i connazionali emigravano verso le Americhe, cinquant’anni fa cercavano un lavoro in Europa, vent’anni fa esploravano il mondo degli studi, delle scienze e degli affari. Oggi i giovani italiani vanno, tornano, ripartono: liquidi e veloci come i loro strumenti e i loro mestieri. Ma le città, le persone e le situazioni in cui si muovono sono diventate imprevedibili. Spesso pericolose. "Non chiamateci generazione Bata-clan, non chiamateci Millennials. Non definiteci, per favore", ha scritto su La Stampa Beniamino Pagliaro (classe 1987, coetaneo e conterraneo di Giulio Regeni). Richiesta comprensibile, ma le definizioni costringono alla sintesi, e aiutano a capire. I nuovi italiani disseminati nel mondo - con i loro appartamenti provvisori, i loro sogni intercambiabili, le loro competenze e le loro intelligenze - sembrano i successori degli Italians che, con il Corriere, ho provato a conoscere e raccontare. Tra il 1995 e il 2010 li ho incontrati cento volte a cena in sei continenti, ho visitato i loro laboratori, ho attraversato i loro uffici, ho parlato nelle loro università, ho conosciuti i loro amori e i loro colleghi stranieri. Internet non li ha solo uniti: li ha segnati. Improvvisamente sentirsi, incontrarsi e aiutarsi diventava facile. Lavoro, studio, case, conoscenze, sentimenti: per una quindicina d’anni - interrotti dall’orrore dell’11 settembre, rattristati dagli attentati di Madrid e Londra - l’Europa e il mondo sembravano un grande buffet di occasioni e possibilità. Poi è arrivata la crisi finanziaria, che ha cambiato prospettive e retribuzioni. La cautela degli Usa di Obama. L’involuzione di Russia e Turchia. Le rivoluzioni democratiche fallite in Norda-frica. Le guerre contagiose del Medio Oriente e le epidemie in Africa. Le migrazioni di popoli attraverso il mare e i confini. La diffusione dell’estremismo islamico e la conseguente, orribile scelta posta al mondo libero: chi scegliamo, il dittatore spietato o i fanatici sanguinari? I nostri giovani navigatori, oggi, affrontano questo mare. Per attraversarlo dispongono di grande determinazione, buone conoscenze e ottimi strumenti - uno smartphone del 2016 non è neppure parente di un telefono del 1996 - ma la determinazione, le conoscenze e gli strumenti non bastano. Intorno soffia la follia. Un ricercatore come Giulio Regeni viene considerato un nemico, una ragazza come Valeria Solesin diventa un obiettivo, un cooperante come Giovanni Lo Porto rappresenta un danno collaterale, due idealiste ingenue come Greta Ramelli e Vanessa Marzullo sono merce di scambio. Libia, Siria, Iraq, Yemen: i Paesi preclusi aumentano. Egitto, Algeria, Tunisia, Turchia, Pakistan: i Paesi insicuri spaventano. Madrid, Londra, Parigi: le grandi metropoli hanno cambiato umore. Germania, Svezia, Danimarca: i Paesi dell’accoglienza devono fare i conti con i numeri, le finanze e gli elettori. Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca: le nazioni che dodici anni fa entravano festosamente nell’Unione europea si sono incupite. La Cina non è più l’incubatore del nuovo, il Brasile ha smesso di essere la fabbrica dell’ottimismo. Ma loro, i nuovi italiani, non mollano: informati e curiosi, viaggiano, fanno, disfanno e non disperano. Si rifiutano di considerare un mondo dove gli Stati sono stanze chiuse. Credo che sappiano i rischi che corrono: ma non vedono alternative. Post Italians, li chiamerò: meno prevedibili, più vulnerabili, comunque ammirevoli. Dovremmo rispettarli e proteggerli di più, quando sono vivi. Non lodarli dopo che sono morti. "Ucciso a botte, aveva il collo spezzato", la morte dopo tre giorni in mano agli aguzzini di Carlo Bonini e Giuliano Foschini La Repubblica, 7 febbraio 2016 A Roma l’autopsia su Regeni: alla testa l’ultimo colpo Fratture e tracce di sevizie su tutto il corpo. Lo hanno ucciso spezzandogli il collo. Lo hanno colpito ripetutamente, accanendosi e fratturando le ossa in tutte le zone del corpo fino a quando a cedere non è stata la vertebra cervicale. Non è chiaro se perché investita da un oggetto contundente o perché divelta con una rotazione improvvisa della testa oltre il suo punto di resistenza. Poco dopo la mezzanotte si solleva l’ultimo velo sull’orrore di cui è stato vittima Giulio Regeni. Perché solo dopo mezzanotte è cominciata, davvero, l’inchiesta sull’omicidio del giovane ricercatore italiano. Dopo oltre cinque ore l’autopsia disposta dalla procura di Roma chiarisce infatti i primi e cruciali punti di un’indagine dove di "congiunto", allo stato, sembra esserci solo l’enfasi retorica espressa nelle dichiarazioni ufficiali del regime di Al-Sisi. E del resto, che questo primo atto istruttorio sia stato affidato al professor Vittorio Fineschi, direttore del dipartimento di medicina legale de "La Sapienza" e, da dieci anni, coraggioso e ostinato perito di parte nel processo per la morte di Stefano Cucchi, dice molto dell’approccio con cui la Procura abbia deciso di affrontare la vicenda. Ricostruire con il miglior grado di approssimazione come, quando, e in che modo Giulio sia stato torturato (sul corpo ci sono segni di armi da taglio), in quale lasso di tempo possa essere collocata la sua morte ("tra i tre e i quattro giorni successivi al suo sequestro", secondo una prima stima della nostra ambasciata al Cairo dopo un esame visivo dello stato di decomposizione del corpo al momento del suo ritrovamento), se siano state o meno inferte sul cadavere lesioni "post mortem" per dissimulare il movente, diventano infatti le fondamenta di un’inchiesta che, come è apparso chiaro dal primo momento, sconta una collaborazione egiziana fatta di molte parole, evidente melina, sostanziale diffidenza. Non è un caso che, nelle ultime ventiquattro ore, le prime trascorse dal nostro team di investigatori al Cairo, la collaborazione egiziana non sia andata al di là dell’annuncio del ministro aggiunto della giustizia Shabane el Shami che "la perizia medico-legale egiziana sarà completata entro il mese di febbraio". Che i due "sospetti" fermati nella notte tra giovedì e venerdì siano stati rilasciati. E che, nel loro primo giorno di lavoro, i nostri sei investigatori di Ros (carabinieri) e Sco (polizia), accompagnati dal nostro ambasciatore Maurizio Massari, abbiano letto ancora poche carte dell’indagine egiziana. Il che spiega bene anche il senso delle parole pronunciate ieri dal nostro ministro degli Esteri. "Siamo lontani dalla verità", ha detto Paolo Gentiloni. E lo siamo, va aggiunto, proprio perché l’indagine egiziana - per quanto è stato possibile comprendere sin qui - si è mossa e continua a muoversi in una direzione diametralmente opposta a quella suggerita dalle evidenze agli occhi dei nostri investigatori. Gli egiziani intendono infatti chiudere il caso archiviandolo come vicenda di criminalità comune. E questo mentre ogni indizio in questa storia parla di un movente politico. Quali che siano i due possibili scenari in cui l’omicidio è maturato. Che Giulio sia finito casualmente nel "mazzo" di una delle tante perquisizioni in corso il 25 gennaio. O, al contrario, che chi lo ha sequestrato cercasse proprio lui perché convinto fosse il custode di importanti informazioni sulla rete di oppositori del regime. Nell’uno e nell’altro caso, è ragionevole ipotizzare, che a condannare a morte Giulio Regeni sia stata quella condizione di studente- ricercatore e insieme attivista politico e collaboratore di un giornale come "il manifesto" che, del tutto normale in Paesi democratici, equivale alla patente di "spia" in un regime come quello egiziano. Per poter accertare che cosa è accaduto "i migliori investigatori italiani" arrivati al Cairo hanno deciso di applicare il metodo e il protocollo di casa nostra. E almeno su questo sembrano aver avuto rassicurazioni di collaborazione. Si comincerà quindi con le immagini delle telecamere della metropolitana. Per poi proseguire con le tracce dei telefonini. Si cercano possibili testimoni e soprattutto alcune, tre in particolare, delle persone che Giulio frequentava al Cairo e che, secondo quanto raccolto ieri, potrebbero sapere qualcosa di importante sulla sera del 25 gennaio. Giulio potrebbe non essere andato a una festa di compleanno ma a un appuntamento con chi pensava di celebrare l’anniversario di piazza Tahir. Il ministro Gentiloni: "La verità su Giulio ancora lontana" di Daniela Preziosi Il Manifesto, 7 febbraio 2016 5 stelle: l’omicidio nasce anche dall’amicizia fra Renzi e il Pinochet d’Egitto. Destra e Lega all’attacco del governo: "Si faccia rispettare". I grillini: "Con questa politica estera italiani esposti al pericolo". "Siamo ancora lontani dalla verità". Da Amsterdam, dov’è arrivato venerdì per una serie di incontri con i colleghi europei, il ministro degli esteri italiano Paolo Gentiloni manda un messaggio al governo egiziano. A quell’ora, siamo in prima mattinata, ancora si rincorrono le notizie sui due uomini arrestati al Cairo per l’omicidio del giovane dottorando Giulio Regeni. Arresti-lampo sui quali neanche la Farnesina riesce ad avere notizie chiare. Ma questo già dice abbastanza a Gentiloni, che ai cronisti risponde: "Dalle cose che ho sentito sia dall’ambasciata sia dagli investigatori italiani che stanno cominciando a lavorare con le autorità egiziane, siamo lontani dal dire che questi arresti abbiano risolto o chiarito la vicenda". Poco dopo i media cairoti confermano indirettamente queste parole diffondendo la notizia del rilascio dei due. A quegli arresti l’Italia non ha creduto un gran ché dall’inizio. Per il ministro "bisogna assolutamente che questo lavoro possa essere fatto insieme. E il lavoro sta incominciando in questo momento". Il team dei sette inquirenti italiani (tre poliziotti dello Sco, tre carabinieri del Ros e un funzionario dell’Interpol) è arrivato al Cairo venerdì sera. Il loro lavoro, di fatto, è iniziato ieri mattina. Certo ci sono le indagini precedenti. Ma è proprio questo il punto. Il governo italiano assicura collaborazione, soprattutto la chiede. E chiede "che sia fatta piena chiarezza", ribadisce il ministro Andrea Orlando all’ora di pranzo dall’aeroporto di Ciampino, alle porte di Roma, dove va ad accogliere a nome dell’esecutivo il corpo del giovane e a abbracciare la famiglia, accompagnato dal presidente della commissione esteri del senato Pier Ferdinando Casini. Che a sua volta già aveva affidato la sua opinione al manifesto: "Non servono verità di comodo per far contenta l’opinione pubblica. Servono indagini serie". E la preoccupazione per il rischio di indagini tese a chiudere presto il caso per ripristinare l’affettuosa cordialità fra due paesi in affari, è diffusa. Pesa il forte legame fra governo italiano e il golpista Al Sisi. Pesano soprattutto i ripetuti attestati di stima di Renzi nei confronti del generale. Da sinistra Nicola Fratoianni ringrazia Gentiloni: "Parole giuste: non ci si può accontentare di alcuni "casuali" arresti per placare il bisogno di verità e giustizia". Da destra la reazione è opposta: "Le parole di Gentiloni lasciano basiti", attacca Daniela Santanché, "affermare che siamo ancora lontani dalla verità la dice lunga sullo stato delle relazioni tra il governo italiano e quello egiziano". Dalla Lega ai 5 stelle è un crescendo di polemica. "Possibile che questo governo non abbia un minimo di autorevolezza?", accusa Roberto Calderoli, "possibile che non possiamo mai alzare la voce e farci sentire neppure quando ci uccidono un nostro ragazzo seviziandolo e gettandolo in un fosso?". La realpolitik italiana nei confronti del dittatore egiziano giustifica sospetti. Che per i deputati e senatori grillini delle commissioni esteri sono certezze. "Questa tragedia è il prezzo che l’Italia paga a causa dei rapporti tra Renzi e il generale Al-Sisi", scrivono in una nota. I precedenti del premier con il golpista non aiutano a fare un atto di fiducia verso Palazzo Chigi: "Nessuno dei leader europei tranne l’ex sindaco di Firenze - che è stato il primo leader occidentale a incontrare il capo di governo egiziano - si è spinto così vicino al Pinochet d’Egitto. Lo definì uno "statista", gli disse "la tua guerra è la nostra guerra", o ancora: "La ricostruzione del Mediterraneo è nelle tue mani". Ammiccamenti volti a curare in primis gli interessi enormi di Eni e la benevolenza del Cairo per qualsiasi iniziativa militare in Libia". La sentenza a 5 stelle è di colpevolezza: dietro la morte del ragazzo c’è tutta la politica estera dei governi di ieri, oggi e domani: "Specifiche responsabilità di questo omicidio risiedono anche nelle scelte di politica estera portate avanti dal governo. Dai sauditi alle bombe esportate in paesi coinvolti in conflitti, passando per l’acquisto degli F35 e il ritorno ad occupare l’Iraq, l’Italia e i suoi cittadini non sono mai stati così esposti al pericolo negli ultimi anni". Con buona pace degli esecutori materiali delle torture e dell’omicidio di Giulio, e dei loro mandanti. Amnesty: liberate i minori palestinesi in detenzione amministrativa di Michele Giorgio Il Manifesto, 7 febbraio 2016 Il centro internazionale a difesa dei diritti umani chiede il rilascio del 17enne Mohammad al Hashlamoun, in carcere senza processo per ordine del ministro della difesa Moshe Yaalon. Erano 400 a dicembre i minori palestinesi in prigione. Sotto nuvole gonfie di pioggia, con un vento gelido che tagliava la faccia, migliaia di palestinesi ieri hanno seguito il lungo corteo funebre che ha accompagnato nel suo ultimo viaggio Haitham al Baw, il 14enne ucciso venerdì dagli spari dei soldati israeliani non lontano dal suo villaggio, Halhul. Il ragazzo, dice il portavoce militare, intendeva lanciare, assieme al cugino 12enne Wajidi, una bottiglia molotov contro un autobus di coloni ebrei diretti a Hebron. Una pattuglia dell’esercito presente in zona lo ha scorto e fatto fuoco, uccidendolo. Per i palestinesi Haitham è solo l’ultimo dei tanti, troppi ragazzi, talvolta poco più che bambini, uccisi dai soldati. In molti casi durante accoltellamenti di israeliani, tentati o compiuti durante i passati quattro mesi dell’Intifada di Gerusalemme, in tanti altri no. Ha fatto clamore il caso di Ruqayya Abu Eid, la 13enne uccisa dalla guardia privata dell’insediamento israeliano di Anatot che avrebbe cercato di colpire con un coltello. Riecheggia l’accusa di "esecuzioni extragiudiziali" rivolta qualche settimana fa a Israele dalla ministra degli esteri svedese Margot Wallstrom di fronte alla quasi sistematica uccisione sul posto degli assalitori palestinesi. Accusa respinta con rabbia dal governo Netanyahu. La vicenda dei ragazzi palestinesi in questi mesi di Intifada - che dovrebbe essere chiamata l’Intifada dei giovani più che di Gerusalemme - è anche fatta di centinaia di arresti, di detenzioni per giorni, settimane se non addirittura destinate a durare anni. Le nuove leggi israeliane prevedono pene severissime anche per chi lancia pietre. E le porte del carcere per i palestinesi minorenni si aprono anche con la "detenzione amministrativa", quella senza processo, per sei mesi rinnovabili che viene sanzionata dai giudici israeliani su richiesta dei servizi di sicurezza, anche in mancanza di prove certe. Ne sa qualcosa il 17enne Mohammad al Hashlamoun, arrestato lo scorso 3 dicembre a Ras al Amoud (Gerusalemme) e di cui Amnesty International venerdì ha chiesto il rilascio. Mohammad dopo l’arresto è rimasto in cella per 18 giorni alla stazione centrale di polizia di Gerusalemme dove gli agenti dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interna, lo hanno interrogato su una sua presunta intenzione di compiere attentati. L’adolescente palestinese ha sempre negato. Era stata anche decisa la sua liberazione ma il ministro della difesa Moshe Yaalon ha firmato un ordine di detenzione amministrativa che alla sua scadenza, il 20 giugno, potrebbe essere rinnovato per altri sei mesi. Amnesty ha chiesto alle autorità israeliane di rilasciare Mohammad "a meno che non sia accusato di un reato riconosciuto e processato in conformità con gli standard internazionali". Alle fine di dicembre oltre 400 minori palestinesi si trovavano nelle carceri israeliane, inclusi sei in detenzione amministrativa (quattro dei quali sono stati rilasciati il mese scorso). Questo tipo di arresto, di fatto preventivo, è stato usato per la prima volta in quattro anni nei confronti di minori palestinesi lo scorso ottobre, per un caso di lancio di pietre. Ayed Abu Eqtaish, responsabile dell’ufficio locale di Defense for Children International, ribadisce che "La detenzione amministrativa non deve mai essere usata come un sostituto del procedimento penale quando non vi sono prove sufficienti per ottenere una condanna". Israele è stato ripetutamente criticato per l’uso che fa di questo tipo di detenzione. Non pochi prigionieri palestinesi negli ultimi anni hanno attuato lunghi scioperi della fame per protestare contro la detenzione amministrativa. L’ultimo in ordine di tempo è Mohammed al Qiq, un giornalista arrestato alla fine di novembre dall’esercito israeliano, che digiuna da oltre due mesi e chiede di essere liberato immediatamente. Le sue condizioni sono critiche. I medici che lo hanno visitato avvertono che potrebbe morire in pochi giorni. Aleppo fugge dalla guerra globale di Chiara Cruciati Il Manifesto, 7 febbraio 2016 Siria. Aumenta il numero di profughi siriani al confine turco. La Ue alza la voce: "Aprite le porte ai rifugiati". Damasco tuona contro il fronte anti-Assad: "Se entrate tornerete a casa dentro le bare". Scontro Mosca-Nato. I boati della guerra risuonano feroci sopra Aleppo: ieri gli scontri tra esercito governativo e opposizioni sono proseguiti nella zona nord della città. Se 350mila civili rimangono intrappolati tra i due fuochi, decine di migliaia tentano la fuga. Ma restano anche loro in trappola, bloccati al valico di Bab al-Salama, la Porta della Pace, nome dalla tragica ironia. Sarebbero saliti a 35mila i siriani al confine con la Turchia. Nonostante le pressioni dell’Unione Europea, Ankara non li fa entrare: "Le nostre porte non sono chiuse ma al momento non vediamo la necessità di ospitare queste persone dentro il nostro territorio", lo scarno commento del governatore turco della città di frontiera Oncupinar. Bruxelles, che invierà tre miliardi di euro al governo turco per l’accoglienza dei profughi siriani, alza la voce: il commissario Ue all’Allargamento Hans ha ricordato alla Turchia gli obblighi internazionali previsti dalla Convenzione di Ginevra, aprire le frontiere ai rifugiati di guerra. Quelli che l’Europa non vuole e che affollano i paesi mediorientali, molti al limite delle capacità di accoglienza. E a pagare le dinamiche regionali e internazionali sono i civili: i volti catturati dai fotografi alla frontiera turco-siriana raccontano disperazione, rassegnazione. Aleppo ha paura perché sa di essere la preda più succosa della guerra giocata in Siria. I due fronti, ormai lontanissimi dal tavolo del negoziato, parlano la lingua militare e si scambiano accuse che in molti temono si tradurranno in uno scontro reale. Senza dimenticare che l’Isis è alle porte, nei quartieri periferici a est, tenendo in ostaggio intere famiglie. Chi può fugge, senza portarsi dietro nulla, per il timore di essere trasformati in scudi umani. Non è un caso che Mosca abbia deciso di lanciare la controffensiva contro il più importante centro economico siriano, mentre a Ginevra le opposizioni puntavano i piedi e l’inviato Onu de Mistura tentava di uscire dall’angolo. Un negoziato nato già morto e che entrambi i fronti hanno usato per prendere tempo e posizionarsi sul campo di battaglia. Damasco e Mosca sono consapevoli del potenziale che l’eventuale ripresa di Aleppo rappresenta ai fini del dialogo: la sconfitta militare e simbolica delle opposizioni, moderate e islamiste, e l’apertura di una nuova fase, in cui resterebbe come unico (o quasi) nemico lo Stato Islamico. Una prospettiva che terrorizza i sostenitori delle opposizioni, a partire da Arabia Saudita e Turchia, che direttamente e indirettamente mettono sul tavolo la guerra: giovedì Riyadh ha offerto alla coalizione anti-Isis guidata dagli Usa le proprie truppe per un’operazione via terra che - si immagina - sarà coordinata con il membro Nato, la Turchia, con la quale i Saud hanno stretto pochi giorni fa nuove collaborazioni militari in un incontro ad Ankara. In tale contesto si inserisce la notizia, riportata dall’agenzia iraniana Fars News (che cita la Cnn) del presunto addestramento da parte di Riyadh di 150mila soldati sauditi, egiziani, giordani, bahreiniti, turchi, sudanesi, qatarioti, emiratini a partire da marzo. Truppe da inviare in Siria, è il sospetto, dopo le dichiarazioni del generale Asseri e la coalizione di paesi musulmani in chiave anti-Isis inventata dall’Arabia saudita a dicembre. Che più che contro l’Isis avrebbero un’altra funzione: frenare l’avanzata governativa, aprendo così scenari di reale conflitto regionale. La risposta del governo di Damasco è arrivata a stretto giro: "Quelli che entreranno torneranno nei loro paesi dentro una bara", ha detto il ministro degli Esteri siriano Walid al-Moallem aggiungendo che qualsiasi tipo di incursione via terra sarà intesa come un atto di guerra. Il secondo guanto di sfida lo lancia l’Iran: "Dicono che manderanno le truppe, ma non penso che oseranno", ha detto il generale Ali Jafari, capo delle Guardie Rivoluzionarie. Chiude la Russia che manda un chiaro messaggio agli avversari della Nato: non cesseremo il fuoco perché nessun altro lo cessa. "Non possiamo fermare i raid unilateralmente. Che dite dei terroristi e dei gruppi di opposizione? Anche loro si fermeranno? E la coalizione guidata dagli Stati Uniti si fermerà?", il commento dell’ambasciatore russo al Palazzo di Vetro, Churkin, in risposta alla richiesta del segretario di Stato Usa John Kerry che venerdì chiedeva l’immediata interruzione dei bombardamenti russi in Siria, accusando l’avversario di "chiacchiere fini a se stesse". È una risposta anche al Patto Atlantico che venerdì per bocca del segretario generale Stoltenberg definiva l’operazione russa "una sfida alla Nato". La Tunisia alza un muro lungo il confine con la Libia di Francesco Battistini Corriere della Sera, 7 febbraio 2016 La barriera, di sabbia e fossati scavati nel deserto, è lunga per ora 196 km. Il ministro della Difesa: "Ora possiamo combattere il terrorismo in modo più attivo ed efficace". Un altro muro. Un altro confine sigillato. Aspettando terroristi che non danno tregua. Attendendo una guerra che quasi tutti, ormai, considerano inevitabile. Il suo muro, senza troppo clamore, la Tunisia l’ha costruito in queste settimane alla frontiera con la Libia. È lungo 196 chilometri, per ora. Ed è fatto di sabbia e di fossati scavati nel deserto, per adesso. I lavori sono appena terminati ed è stato il governo tunisino a darne la notizia sabato, accompagnando i giornalisti a visitarlo: "Missione compiuta - ha dichiarato il ministro della Difesa, Farhat Horchani. Adesso siamo in grado di combattere il terrorismo in modo più attivo ed efficace. È importante dirlo perché tutti sappiano, l’opinione pubblica nazionale e internazionale". Quella nazionale: in buona parte preoccupata per quel mezzo milione d’immigrati libici che hanno invaso la Tunisia dalla caduta di Gheddafi e, soprattutto, per i tre grandi attentati del 2015. Quella internazionale: allarmata dalle infiltrazioni jihadiste che stanno facendo del Paese dei Gelsomini un pericoloso roveto di foreign fighters sempre al fronte, di guerriglieri che infestano i monti al confine algerino, d’incontrollati traffici nel Sud. Basta con l’anarchia, ha deciso il governo Essid, che non vuol sentir parlare di "muro di separazione" o di paragoni con altri celebri serpentoni di cemento, da Cipro a Israele: "È solo una misura in più di sicurezza. La sua efficacia è già stata provata, abbiamo fermato diversi veicoli di contrabbandieri d’armi". Solo l’anno scorso peraltro, dopo gli attentati al Bardo e ai turisti in spiaggia, il confine con la Libia era rimasto chiuso per diverse settimane ed era stata annunciata una barriera anti-Isis. Dopo l’estate le voci s’erano fermate, i lavori no: opera d’un consorzio d’imprese tenute al segreto militare, il muro sarà munito di videocamere di sorveglianza e di sensori, mentre consiglieri militari inviati dalla Germania e dagli Usa daranno "aiuto tecnico" ai gendarmi tunisini. La barriera servirà anche in previsione d’un sempre più probabile intervento armato occidentale in Libia: in questo senso, è la prima struttura logistica di cui si abbia notizia, dopo che nei mesi scorsi il governo tunisino aveva negato agli americani il permesso d’installare basi mobili nel deserto meridionale. Da settimane, ha rivelato il sito israeliano Debka, proprio lungo il confine libico e tunisino operano corpi speciali Usa ed europei, "anche italiani", ed è per questo che Horchani - perlustrando l’area sbarrata - ha voluto precisare come la Tunisia resti contraria a operazioni militari in Libia, ma come sia altrettanto inevitabile che l’ultima parola spetti all’Onu. Giovedì scorso, per Tunisi è passato anche il generale cirenaico Khalifa Haftar che del nuovo governo libico d’unità nazionale - votato nelle prossime ore, incaricato dall’Onu di chiedere un intervento militare internazionale - è uno dei garanti. Gli hanno chiesto se, quando e come partiranno le operazioni. Non ha risposto.