Stati generali del carcere, on line i rapporti dei 18 tavoli di lavoro di Teresa Valiani Redattore Sociale, 6 febbraio 2016 Il lavoro dei 200 esperti è stato raccolto in diciotto rapporti di fine termine che raccontano, uno per ogni tavolo, analisi, bisogni, proposte e prospettive. Ora disponibili sul sito del ministero per una pubblica consultazione. Sono finalmente on line sul sito del Ministero della giustizia i rapporti conclusivi dei diciotto Tavoli degli Stati generali dell’esecuzione penale, la rivoluzione culturale fortemente voluta dal ministro della Giustizia Andrea Orlando e avviata nel maggio scorso per definire un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto. Il primo, complesso step è stato superato. Ma il successivo non è meno significativo: inizia ora infatti una fase molto importante "in cui le riflessioni e le proposte riguardanti le diciotto tematiche fondamentali dell’esecuzione penale elaborate da gruppi di lavoro - si legge sul sito del Ministero - saranno sottoposte a una pubblica consultazione. In particolare, sarà sollecitata una proficua interlocuzione con Istituzioni e associazioni per acquisire il loro qualificato parere. Sulla base dei Rapporti dei Tavoli, il Comitato scientifico degli Stati generali sta elaborando un documento di sintesi che verrà presentato alle autorità istituzionali e politiche e sulla base del quale saranno organizzate giornate di incontro e di confronto". Riunioni plenarie, visite di studio in Spagna che hanno toccato anche gli istituti penitenziari di Lledoners e Brians II, e il Centro penitenciario Madrid VII di Estremera. Convegni sul territorio nazionale tra Urbino, Milano, Roma e Napoli e decine di presenze negli incontri più importanti in tema di detenzione nel frattempo hanno portato in questi mesi in giro per il Paese l’aria nuova prodotta dal lavoro degli esperti. Diciotto i tavoli, ognuno organizzato per sviluppare un tema specifico: Spazio della pena, architettura e carcere. Vita detentiva: responsabilizzazione del detenuto, circuiti e sicurezza. Donne e carcere. Minorità sociale, vulnerabilità, dipendenze. Minorenni autori di reato. Mondo degli affetti e territorializzazione della pena. Stranieri ed esecuzione penale. Lavoro e formazione. Istruzione, sport, cultura. Salute e disagio psichico. Misure di sicurezza. Misure e sanzioni di comunità. Giustizia riparativa, mediazione e tutela delle vittime del reato. Esecuzione penale: esperienze comparative e regole internazionali. Operatori penitenziari e formazione. Trattamento: ostacoli normativi all’individualizzazione del trattamento rieducativo. Processo di reinserimento e presa in carico territoriale. Organizzazione e amministrazione dell’esecuzione penale. I risultati di tutto il lavoro da oggi sono pubblici, disponibili sul sito del ministero della Giustizia per quanti vorranno intervenire con proposte e idee per migliorare ulteriormente i progetti e le indicazioni. Il lavoro dei 200 esperti è stato raccolto in diciotto rapporti di fine termine che raccontano, uno per ogni tavolo, analisi, bisogni, proposte e prospettive indicando, argomento dopo argomento, il nuovo solco da percorrere per restituire dignità alle carceri italiane. I detenuti presenti negli istituti di pena italiani al 31 gennaio 2016, sono 52.475 a fronte di una capienza di 49.480 posti. "I parametri della Cedu nel rapporto capienza-presenza sono rispettati in tutti gli istituti di pena, - ha detto il ministro Andrea Orlando presentando il rapporto sulla giustizia 2015 - nessun detenuto è sistemato in uno spazio inferiore ai tre metri quadri previsto dalle raccomandazioni europee. Mentre sono cresciuti a 39.274 le persone in esecuzione penale esterna. Ma è vero che l’Italia rimane uno dei paesi a più alto tasso di recidività in Europa: significa che non è perseguita in troppi casi la finalità rieducativa della pena. Il disegno di legge delega approvato dalla Camera il 23 settembre scorso mira appunto a riconsiderare il sistema trattamentale, per restituire alla pena il senso e il valore che la Costituzione le assegna. Per una nuova concezione dell’esecuzione della pena orientata al rispetto della dignità umana, informata ai valori costituzionali e in linea con le risoluzioni internazionali ho avviato il percorso degli Stati generali dell’esecuzione penale. Il lavoro sottoposto via via a forme diverse di consultazione pubblica ed accessibile sul sito del ministero fornirà indicazioni preziose per l’attuazione della delega in materia penitenziaria. Il fine ultimo è superare un sistema ancora carcero centrico che identifica troppo sbrigativamente la sanzione penale con la reclusione in carcere. Sul carcere continuano a scaricarsi problemi che la società non riesce a risolvere e che d’altra parte nel carcere non possono essere risolti. A pagarne le conseguenze sono i detenuti, ma lo sono anche gli uomini e le donne del corpo della polizia penitenziaria a cui voglio perciò rivolgere una parola sincera di ringraziamento per il lavoro difficile che sono chiamati a svolgere. Un lavoro che sta evolvendo e non può non accompagnare l’inversione di tendenza del comune sentire in materia di esecuzione penale". Stati generali del carcere. Giostra: "formare buoni cittadini, non buoni detenuti" di Teresa Valiani Redattore Sociale, 6 febbraio 2016 Pubblicati i risultati del lavoro di 200 esperti, guidati dal coordinatore del comitato scientifico, Glauco Giostra. Lavoro e formazione, dipendenze, donne, minori, salute, tecnologia, stranieri, giustizia riparativa: 10 mesi di lavoro per tracciare una rotta che garantisca diritti e sicurezza. "Ecco la strada maestra". "Il carcere non è l’unica soluzione alle paure del nostro tempo e deve lavorare per formarebuoni cittadini invece che forgiare buoni detenuti. Il problema non è solo normativo: abbiamo cercato di intervenire a più livelli perché i luoghi, l’organizzazione e le mentalità incidono almeno quanto le norme". È sintetizzato nell’intervento del coordinatore del comitato scientifico degli Stati generali, Glauco Giostra, all’inaugurazione del Master di secondo livello in Diritto Penitenziario e Costituzione del dipartimento di Giurisprudenza dell’università Roma Tre, il senso del lavoro dei 200 esperti che da oltre 10 mesi studiano un nuovo modello di detenzione. Dopo la pubblicazione dei report di medio termine, sono ora a disposizione sul sito del ministero della Giustizia i rapporti finali che tirano le somme di un lavoro destinato a proseguire, nonostante l’opera degli Stati generali volga al termine. "Più di 200 persone che non avevano mai lavorato insieme - ha spiegato Giostra, hanno messo a disposizione le proprie competenze con tale entusiasmo che continuano a incontrarsi e ad approfondire le conoscenze sul carcere anche se l’incarico affidato loro nell’ambito degli Stati generali può considerarsi concluso". Segno di un primo, importante risultato: "Al di là del valore delle proposte che arrivano dal nostro lavoro - ha proseguito il coordinatore - il tema carcere è finalmente percepito non più come la soluzione per i problemi e per le paure sociali ma come problema sociale in sé, che richiede interventi strutturali importanti e immediati". Un futuro la cui strada maestra emerge con energia proprio dal lavoro degli Stati generali. Gli esperti riuniti intorno ai 18 tavoli, organizzati per aree tematiche, hanno passato ai raggi X il nostro sistema detentivo mettendo in risalto carenze ma anche buone prassi da cui ripartire per costruire il nuovo modello carcere, sulle macerie di un sistema fiaccato da decenni di interventi emergenziali. Glauco Giostra spiega come. Quarant’anni di ordinamento penitenziario, ma nel frattempo la popolazione carceraria ha cambiato radicalmente il proprio volto, così come la realtà esterna. "Stiamo intervenendo su norme nate per una popolazione penitenziaria molto più omogenea da un punto di vista linguistico, culturale e religioso, a fronte di un’utenza che per un buon 30 per cento oggi è composta da stranieri. Mentre fuori, nel frattempo, la tecnologia ha fatto passi da gigante: un progresso che "dentro" offrirà un notevole aiuto per i contatti affettivi, di assistenza sanitaria, di acculturamento e di aggiornamento, di lavoro intramurario e per i colloqui con il difensore. Oggi disponiamo di mezzi in grado di collegare visivamente le persone da una parte all’altra del pianeta, facilitando i contatti dei detenuti che vivono lontani dalle famiglie e dalla possibilità di svolgere colloqui. Gli stranieri, appunto". Ogni tavolo propone una rivoluzione che parte dalle fondamenta… "Sì, dal principio secondo cui la rieducazione può riguardare solo un uomo considerato come fine e mai come mezzo di una strategia politica, sia essa di sicurezza sociale, di governo dell’immigrazione o di contrasto al terrorismo. Il tempo della pena non può restare vuoto ma deve essere occasione per recuperare la propria persona". Come cambia, secondo gli Stati generali, la vita nel carcere? "Il detenuto deve essere messo nella condizione di fare scelte consapevoli e responsabili. La pena tende davvero alla risocializzazione quando non calpesta la sua autodeterminazione: la persona che finisce in carcere non deve congelare i propri giorni ma, al contrario, consapevole dei propri diritti e doveri, deve riuscire ad autogestirsi. Per questo la vita detentiva deve ricalcare il più possibile quella esterna, anche per rendere meno traumatico il rientro nella società, al termine della pena". Altro punto importante evidenziato dai Tavoli, in particolare da quello che si è occupato di "circuiti e sicurezza": il condannato è titolare di un diritto alla rieducazione. "Ogni percorso rieducativo che cambia a seconda delle categorie di soggetti o dei reati è da considerarsi in contraddizione. Nessuna situazione soggettiva, come quella di tossicodipendente, immigrato o di persona senza fissa dimora può essere considerata un ostacolo per accedere alle opportunità di recupero sociale. Così come non dovrebbero esistere automatismi al contrario. Si possono prevedere anche criteri più severi per l’erogazione delle misure alternative in relazione alla natura del reato o alla gravità della pena, ma non si dovrebbe negare una misura solo in base al titolo di reato. Lo Stato deve rimuovere gli ostacoli che sono indipendenti dalla condotta e dai meriti del detenuto: il percorso risocializzativo deve essere modulato sulla persona e non sul fatto commesso. Il diritto alla speranza non può essere negato neppure in presenza di un ergastolo. Non sarà facile tradurre il nostro sforzo in concrete scelte legislative. Ma è importante aver costruito la strada che indica il modo per arrivare a un carcere migliore". Carcere: "gli istituti di pena hanno direttori dimezzati" Redattore Sociale, 6 febbraio 2016 La polemica sollevata dalla direttrice dell’Opg di Montelupo e da Ristretti Orizzonti: "Le carceri rischiano di essere gestite nel peggiore dei modi, con direttori che hanno più sedi e nessun riconoscimento". "I suoi diritti sono i miei diritti e chi non li rispetta è responsabile della sua e della mia amputazione". Lo ha scritto la direttrice dell’Opg di Montelupo Antonella Tuoni in merito al paziente che si è carbonizzato le dita dei piedi all’interno della struttura in provincia di Firenze. Un drammatico episodio, che ha aperto la riflessione su un’altra questione sollevata dalla stessa direttrice, che si riferisce, oltre che ai diritti negati degli internati, anche a quelli di chi lavora presso il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Scrive nello specifico la direttrice: "Viene stabilizzata la figura del direttore di istituto penitenziario "viaggiatore", responsabile di due, tre istituti, a volte anche molto distanti tra loro. I dirigenti penitenziari sono consapevoli della delicatezza del loro ruolo istituzionale di servitori dello Stato, ma sono stanchi di dovere esercitare tale ruolo senza un contratto, che aspettano inutilmente da dieci anni; come possono loro serenamente assicurare il rispetto dei diritti nelle strutture di cui sono responsabili se sono loro stessi privati di tali diritti?" Un tema ripreso anche da Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza nazionale volontariato di giustizia. "Cosa sta succedendo allora in questi mesi nelle carceri? Succede che le carceri rischiano di essere gestite nel peggiore dei modi, cioè con direttori che, avendo più sedi e nessun riconoscimento, non appaiono in grado di seguire situazioni delicate e complesse, come sono di fatto gli istituti di pena, né di garantire il rispetto della dignità delle persone che ci vivono o ci lavorano dentro. E tutto questo avviene senza che nessuno, o quasi, ne parli seriamente, ponga il problema, metta in guardia da una situazione pesantemente a rischio. Minori che delinquono, ecco cosa fare secondo gli esperti della giustizia di Teresa Valiani Redattore Sociale, 6 febbraio 2016 È di queste ore la proposta del ministro Alfano di abbassare l’età punibile a 16 anni. Gli Stati generali dell’esecuzione penale danno 3 indicazioni: sradicare il minore dal proprio ambiente, puntare sulle sue notevoli capacità intellettive per costruire nuovi percorsi e garantire la presenza costante di uno psicologo. "L’ho detto ieri da Napoli e lo ribadisco con convinzione. Bisogna, a mio avviso, ridurre l’età punibile a 16 anni". Il Ministro dell’Interno, Angelino Alfano, rilancia con forza, intervenendo questa mattina ad Agorà su Rai3, la proposta che in meno di 24 ore ha già scatenato reazioni a catena. E mentre i sostenitori e gli oppositori affilano motivazioni e si sfidano mettendo in campo dati e statistiche, anche dagli Stati generali sull’esecuzione penale arriva un’analisi lucida e asciutta sul delicatissimo tema, con tre indicazioni finali: sradicare il minore dal proprio ambiente, puntare sulle sue notevoli capacità intellettive per costruire nuovi percorsi in grado di consentire il suo pieno recupero e garantire la presenza costante di uno psicologo all’interno dell’equipe. Non per niente, gli esperti riuniti intorno al Tavolo 5 (che sì è occupato di "Minori autori di reato") hanno dedicato ai contesti di criminalità organizzata un paragrafo a parte, che hanno titolato proprio "Trattamento dei minorenni inseriti in contesti di criminalità organizzata". "Nelle aree del nostro Paese caratterizzate dalla presenza della criminalità organizzata - hanno scritto gli esperti coordinati dal prof. Franco Della Casa - il possibile rapporto tra quest’ultima e la criminalità minorile deve essere sempre tenuto presente, anche quando non è certificato a livello processuale. Può accadere infatti che, in presenza di una criminalità forte com’è per definizione quella organizzata, le varie forme di delinquenza comune conducano la loro esistenza con la tolleranza e il consenso di quella organizzata. Ma c’è un aspetto più specifico da sottolineare. Nelle zone con forte presenza della criminalità organizzata, molto spesso la delinquenza minorile è riconducibile all’impossibilità, per il minore, di acquisire modelli di confronto diversi da quelli che sono propri del contesto socio-familiare di appartenenza. Il che "spiazza" il nostro sistema di giustizia minorile, che si basa invece sul presupposto di un ruolo positivo della famiglia, ritenuta in grado di fornire la necessaria assistenza psicologica ed affettiva al suo giovane componente che si trova coinvolto in una vicenda giudiziaria o penitenziaria. In questi casi, la commissione del reato e la stessa condanna diventano allora, paradossalmente, l’occasione per una presa in carico del minore da parte del sistema che deve tentare di sottrarlo a questi contesti familiari ad alto rischio". Parola d’ordine: allontanare il minore dal proprio contesto. Alla luce delle considerazioni sulle cattive influenze del nucleo familiare, gli esperti del Tavolo ritengono che in questo caso specifico si debba disattendere il principio di territorialità dell’esecuzione della pena, "ferma restando la necessaria autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria". Tre proposte. Infine le proposte. La prima è quella di fornire a questo tipo di detenuti un adeguato sostegno psicologico, dal momento che li si orienta verso modelli di vita contrari a quelli trasmessi dalla loro famiglia. Poi garantire una presenza non occasionale dello psicologo all’interno dell’équipe. Infine, fare leva sulle notevoli risorse intellettive proprie di questo genere di minori "per costruire percorsi tanto più interessanti e coinvolgenti quanto più inesplorati da parte del giovane condannato". Questa terza indicazione "ha come suo immediato retroterra le informazioni ricevute da magistrati minorili che hanno avuto l’opportunità di confrontarsi con i minori ai quali sono dedicate queste riflessioni: è un dato empirico ricorrente la constatazione che nella maggior parte dei casi questi giovani sono dotati di notevoli risorse intellettive, che se non adeguatamente instradate possono essere utilizzate per assumere una leadership all’interno della struttura detentiva". Giustizia minorile. Pesarin (ex Dgm): no alla riduzione età punibile, va semmai innalzata Redattore Sociale, 6 febbraio 2016 Innalzare a 21 anni l’età in cui i giovani che commettono reati penali sono puniti dal tribunale minorile. La sperimentazione è già in atto in alcuni Paesi europei, come la Germania. E questa è la strada "perché l’età in cui si commettono i primi reati è in aumento". Innalzare a 21 anni l’età in cui i giovani che commettono reati penali sono puniti dal tribunale minorile. La sperimentazione è già in atto in alcuni Paesi europei, come la Germania. E questa è la strada da seguire anche in Italia per Serenella Pesarin, già Direttore Generale del Dipartimento per la Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia, "perché - dice - l’età in cui si commettono i primi reati è in aumento". Pesarin lo ha dichiarato in un’intervista all’Agenzia Dire, commentando le recenti dichiarazioni del ministro Alfano che ha proposto pene più dure per i ragazzi dai 16 ai 18 anni. Perché, "al di sotto dei 16 anni c’è grande immaturità da parte dei giovani di oggi". Anche perché la vita media si è allungata e con essa l’affinamento della personalità. "I luoghi chiusi non favoriscono i progetti educativi" aggiunge Pesarin, e sottolinea: "a noi importa che la pena sia ri-educativa, come dice anche la nostra Costituzione, con processi educativi che abbiano senso, senza interrompete i processi evolutivi in atto". Pesarin puntualizza che la sua proposta non riguarda i reati penali più gravi e cita alcune ricerche sulla recidiva compiute dal ministero della Giustizia, sottolineando che "i percorsi esterni inibiscono la recidiva, all’interno di percorsi repressivi, invece, la recidiva aumenta". Giustizia minorile. Il prete anti-camorra: no all’inasprimento delle pene Redattore Sociale, 6 febbraio 2016 La dichiarazione del ministro dell’interno Angelino Alfano, che ha parlato di inasprire le pene per i 16enni, è una proposta "di pancia, di reazione". Lo ha dichiarato il prete anti-camorra don Aniello Manganiello, già parroco di Scampia e ancora attivo nel quartiere attraverso l’associazione sportiva "ASD Don Guanella". Intervistato dall’Agenzia Dire Manganiello ha spiegato: "raccolgo queste dichiarazioni anche tra la gente di Napoli, di Scampia, a fronte di un moltiplicarsi di reati commessi da adolescenti, da minori. Il problema delle baby gang c’è, quando ero parroco a Scampia incontravo spesso ragazzotti del rione Don Guanella che andavano a fare le rapine con ‘il cavallo di ritornò, cioè rubavano automobili per poi rivenderle ai proprietari". Sulle pene, però, il religioso si dice "contrario al carcere minorile" e spiega che, per lui, bisogna reagire "scommettendo e investendo di più sull’accompagnamento educativo, valorizzando le scuole e le associazioni che si impegnano con adolescenti e preadolescenti. Questo si fa già, in parte, ma non è sufficiente". "L’istituto familiare - dichiara ancora Manganiello - è il più maltrattato e angariato da parte delle istituzioni. E quando le famiglie si trovano veramente sole, i ragazzi possono fare scelte sbagliate. Non si risolvono i problemi con la repressione. Lo dico ad Alfano, al sindaco di Napoli, al Presidente del Consiglio: investire di più su educazione e creare opportunità lavorative. Oggi il carcere non serve a niente, peggiora le persone, le inasprisce, le rende più cattive, va rivisto. Molte volte i giudici scelgono la via del carcere per i ragazzi che sono alla loro prima esperienza negativa, ma non mi sembra la scelta giusta. Affidiamoli, invece, ad associazioni, a case famiglie serie, anche per 24 ore al giorno. Qui imparerebbero a rispettare regole, compiere mansioni, assumersi impegni. I ragazzi devono scontare la pena, sì, ma si tratta di capire come. Io sono per la messa alla prova, anche di 24h al giorno, per continuare a vivere relazioni serene e ridare indietro il maltolto alla società". Giustizia minorile, Antigone: "Sull’età punibile per i minorenni Alfano sbaglia" Redattore Sociale, 6 febbraio 2016 L’associazione replica alle dichiarazioni del ministro dell’Interno e sottolinea i successi del modello di giustizia minorile italiano: dal 1988 al 2014 ingressi in calo del 47%, poco più di 400 le presenze di ragazzi nelle carceri minorili Gonnella: "Serve un ordinamento specifico per i minori". "Non si tocchi la giustizia minorile, non si abbassi l’età imputabile dei minori. I ragazzi vanno aiutati, non messi in galera". A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, in risposta alle parole pronunciate dal ministro degli Interni Alfano secondo cui "oggi a 16 anni si conosce esattamente la gravità di un crimine che si compie. C’è una parola di cui non aver paura, repressione. E un’altra parola, deterrenza: ciascun cittadino, di qualunque età, deve aver paura della reazione dello Stato". Per l’associazione, però, il ministro "sbaglia clamorosamente sull’età punibile per i minorenni". Per Gonnella, infatti, la giustizia minorile "deve avere come obiettivo l’interesse del bambino e del ragazzo. Lo dicono il diritto internazionale, quello interno, la convenienza sociale, la pedagogia, ma anche il senso morale di noi adulti, consapevoli del grande valore di una vita umana in evoluzione, recuperabile alla società, educabile ai valori fondamentali della convivenza e della vita". Un sistema, quello della giustizia minorile italiana, che secondo Antigone "molti ci invidiano", grazie al suo approccio "essenzialmente educativo", continua l’associazione, che "ha permesso di portare a poco più di 400 le presenze di ragazzi nelle carceri minorili, a fronte di 20.000 di loro nel circuito penale (nelle carceri erano 8.521 nel 1940, 7.100 nel 1950, 2.638 nel 1960, 1.401 nel 1970 e 858 nel 1975)". Un modello che non ha portato ad un aumento della criminalità minorile anzi, è vero il contrario. Gli ingressi totali in un anno negli istituti di pena minorile sono passati da 1.888 del 1988 ai 992 del 2014, con un calo del 47,4 per cento nell’intervallo considerato. "Segno di un sistema di giustizia che ha funzionato", chiosa l’associazione. "L’emergenza non è quella penale, ma quella sociale - dichiara Gonnella -. Per questo le scelte in quest’ultimo ambito devono essere frutto di scelte razionali e non emotive. Per questo la via della repressione, ancor più verso minori, non può essere la strada da seguire, sbandierando presunte emergenze sicurezza. Affrontare le difficoltà sociali ed economiche, volano per i reati commessi in particolare dai minori, con politiche penali e criminali è sempre una sconfitta". Quel che serve, per Gonnella, è invece "un ordinamento penitenziario specifico per i minori al quale, ad oggi, applichiamo ancora le regole penitenziarie previste per gli adulti - conclude il presidente di Antigone -. Va inoltre respinta la proposta votata alcuni giorni fa dalla Commissione Giustizia della Camera di riforma del Tribunale di famiglia che, tra le altre cose, delegherebbe il governo a sopprimere i Tribunali per i Minorenni e l’ufficio delle Procure Minorili". Mauro Palma garante dei detenuti. Orlando: importante tappa per nuova esecuzione penale Il Velino, 6 febbraio 2016 Mauro Palma è il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. La sua nomina, insieme a quella dell’avvocato Emilia Rossi come Membro, è stata formalizzata in un decreto del Presidente della Repubblica. Arriva così a compimento l’istituzione di una funzione di garanzia e monitoraggio della complessa area della privazione della libertà personale, prevista dalla legge n. 10 del 2014 e fortemente voluta sia dal Ministro della Giustizia, sia dal mondo del volontariato e degli operatori che agiscono in tale settore. La candidatura per il secondo Membro, previsto dalla legge, è nella fase conclusiva del percorso parlamentare. "L’istituzione sul piano operativo del Garante nazionale è una nuova importantissima tappa nella complessiva nuova fase di riflessione sull’esecuzione penale e sulla fisionomia della detenzione". Il Guardasigilli Andrea Orlando, che sin dall’inizio del suo mandato ha fortemente sostenuto il percorso per la nomina di persone che garantissero indipendenza, autorevolezza ed effettività del nuovo organismo, saluta così le nomine. "Il Garante si occuperà di tutte le diverse forme di privazione della libertà, dalla custodia nei luoghi di polizia, alla permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione, ai trattamenti sanitari obbligatori, in particolare nelle residenze di esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche (REMS), così coinvolgendo anche altre amministrazioni con le quali si è già avviata la collaborazione". Sul piano nazionale, il Garante coordinerà il lavoro dei Garanti regionali, positivamente operativi già in molte regioni e auspicabilmente presto nominati nelle altre, mentre sul piano internazionale costituirà quell’organismo di monitoraggio nazionale indipendente richiesto agli Stati aderenti al Protocollo opzionale per la prevenzione della tortura (OPCAT), ratificato dall’Italia nel 2012. Il Garante nazionale potrà inoltre visitare, senza preventiva autorizzazione, i diversi luoghi di detenzione, avere accesso alle informazioni e alle persone, in uno spirito di collaborazione volto a prevenire situazioni di rischio e a promuovere una sempre maggiore cultura del rispetto di chi è privato della libertà e di chi in tali difficili contesti opera. Il Garante riferirà annualmente al Parlamento sulla propria attività. Mauro Palma nuovo Garante nazionale per i detenuti di Patrizio Gonnella (presidente di Antigone) Il Manifesto, 6 febbraio 2016 Mauro Palma è stato nominato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, su proposta del governo e in particolare del ministro della Giustizia Andrea Orlando, Garante dei diritti delle persone detenute o comunque private della libertà personale. Questa è finalmente una buona notizia. Mauro Palma, noto a questo giornale per essere da decenni una delle sue firme, è stato nel 1991 fondatore di Antigone e a partire dalla fine degli anni novanta è stato prima componente e poi presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Dunque di galere ne ha viste. L’Italia ha finalmente ben adempiuto a un obbligo imposto dalle Nazioni unite. Il Garante (nel linguaggio Onu chiamato Meccanismo nazionale di prevenzione) avrà compiti di monitoraggio di tutti i luoghi di prevenzione nonché poteri formali (primo fra tutti quello di visita e accesso senza restrizioni nei luoghi di custodia) e informali diretti a proteggere i diritti delle persone a qualunque titolo limitate o private della loro libertà. L’organismo di monitoraggio sarà composto anche dall’avvocatessa Emilia Rossi e da Daniela De Robert, giornalista Rai da sempre attivamente impegnata nel mondo del volontariato penitenziario. Coordinerà l’attività dei garanti territoriali e regionali già nominati negli ultimi anni. Non facile sarà il loro compito in quanto si tratterà di dover mettere sotto i riflettori non solo le quasi duecento carceri italiane, ma anche le centinaia di caserme dei carabinieri e della guardia di finanza, i tantissimi commissariati di polizia, i centri di identificazione ed espulsione per immigrati, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Il loro non dovrà essere un monitoraggio neutro ma finalizzato ad assicurare il rispetto dei diritti fondamentali e dunque della dignità umana delle persone detenute, attraverso azioni e pressioni principalmente di natura preventiva piuttosto che di natura tipicamente sanzionatoria. Bella sfida per un paese come il nostro che non ha mai fino in fondo creduto alla difesa civica, alla mediazione sociale, alla risoluzione alternativa delle controversie. Era il 1997 quando Antigone propose in un convegno all’Università di Padova l’istituzione dell’Ombudsman per tutti i luoghi di detenzione. Ci prendevano per matti e visionari. L’origine della parola, così come dell’organismo, è scandinava. Il 10 dicembre del 1998, su nostra elaborazione e proposta, fu depositato il primo disegno di legge. Da allora sono trascorsi diciotto anni. La legge istitutiva del Garante nazionale fu voluta un paio di anni fa dal ministro della Giustizia del governo Letta Annamaria Cancellieri. I diritti a rischio sono tanti, dalla vita all’integrità psico-fisica, dalla salute alla difesa. C’è poi un meta diritto, ovvero il diritto a poter esigere i propri diritti, spesso mortificato dall’arbitrio dei custodi. Faticoso sarà altresì il lavoro politico e culturale per un’idea di pena che non sia pura afflizione. Ieri il ministro degli Interni Alfano ha proposto di abbassare l’età imputabile per i minori in modo da poterli finalmente punire efficacemente. In una società aperta la giustizia non deve essere strumento nelle mani della mutevolezza d’animo del politico di turno. La ragionevolezza e la razionalità hanno con Mauro Palma fortunatamente un alleato in più. Alla fine Mattarella firmò. Mauro Palma è il Garante nazionale dei diritti dei detenuti di Franco Corleone L’Espresso, 6 febbraio 2016 Finalmente il decreto di nomina del garante dei detenuti è stato firmato dal Quirinale. La soddisfazione è così grande che viene messo in secondo piano il grave ritardo per un adempimento legato a obblighi internazionali, di rispetto delle convenzioni dell’Onu contro la tortura. La nomina di Mauro Palma è una garanzia per il rispetto dei principi costituzionali e della Convenzione europea dei diritti umani nelle carceri italiane. La coincidenza con la conclusione degli Stati Generali sulla pena è significativa. Dopo il superamento della condizione vergognosa determinata dal sovraffollamento, che ha determinato la condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani per trattamenti crudeli e degradanti, si deve aprire la fase della riforma. Senso di umanità e affermazione della dignità devono costituire la bussola per il cambiamento. Il diritto e lo stato diritto sono il fondamento della democrazia e la condizione di vita nel carcere rappresenta la cartina di tornasole. È una sfida esaltante ed è l’ultima occasione. Opg: a quasi un anno dalla "chiusura", ci vivono ancora 164 persone di Gabriella Meroni Vita, 6 febbraio 2016 Sono quattro le strutture che restano aperte nonostante una legge ne abbia sancito l’abolizione il 31 marzo 2015. Altri 455 ex internati oggi sono ospitati nelle Residenze alternative, che però secondo le associazioni andrebbero comunque superate. Un appello per chiedere la nomina di un Commissario che applichi la legge. Dovevano chiudere quasi un anno fa, ma "ospitano" ancora 164 persone. Sono gli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari, che avrebbero dovuto chiudere definitivamente lo scorso 31 marzo; 4 strutture invece "resistono", come ha certificato la IV Relazione del Governo sul superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari Opg, presentata al Parlamento. Una situazione che spinge le associazioni che compongono il coordinamento "Stop Opg" a chiedere con urgenza la nomina di un Commissario che intervenga nelle Regioni inadempienti, che cioè non hanno accolto i loro pazienti in altre strutture, e curi l’applicazione della legge 81/2014, che indirizza gli interventi verso progetti di cura e riabilitazione individuale da svolgersi preferibilmente senza misura di sicurezza detentiva. I quattro Opg aperti sono quelli di Reggio Emilia (19 persone all’interno), Montelupo Fiorentino (48 persone), Aversa (41) e Barcellona Pozzo di Gotto (40), mentre quello di Castiglione delle Stiviere ha solo cambiato targa "trasformandosi" da Opg in Rems-Residenza per l’esecuzione di misure di sicurezza, con oltre 200 internati (mentre la legge ne prevede al massimo 20 per residenza). Napoli Secondigliano è stato chiuso. Secondo il documento (sempre alla data del 15 dicembre) sono invece 455 (di cui 65 donne) le persone trasferite nelle Rems attivate dalle Regioni. "Anche il ruolo delle Rems, e quindi della misura di sicurezza detentiva", sottolinea però Stop Opg, "può e deve diventare residuale rispetto all’assistenza che deve svolgersi nel circuito del servizi di salute mentale territoriali, ai quali vanno subito assegnate le risorse, seguendo finalmente le indicazioni della legge 180 che ha sancito la chiusura dei manicomi". Chiusura Opg. L’allarme degli infermieri: noi, allo sbaraglio nelle Rems Redattore Sociale, 6 febbraio 2016 Allarme sicurezza nelle Rems (residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria) dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Come è successo ad esempio con l’Opg di Reggio Emilia. Ipsavi: personale non formato e contratto non prevede tutele. È allarme sicurezza nelle Rems (residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria) dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Come è successo ad esempio con l’Opg di Reggio Emilia, i cui ospiti sono stati ad esempio spostati alla Rems di Bologna. A lanciarlo è la federazione dei Collegi degli infermieri (Ipsavi), la cui presidente Barbara Mangiacavalli sostiene: "I nostri professionisti sono di fatto mandati allo sbaraglio, senza formazione specifica nè’ tutele contrattuali o di legge che prevedano misure preventive e cautelative del danno". Eppure "su di loro, come sui medici al lavoro nelle Rems, ricade la massima parte del lavoro di assistenza". Le Aziende sanitarie, prosegue l’Ipsavi, "hanno reclutato nuovo personale, non tutte però hanno provveduto a formarlo. Si tratta soprattutto di infermieri e altri operatori alla prima esperienza lavorativa o privi di esperienza in ambito psichiatrico e penitenziario. Infatti molte Regioni e aziende pur di rispettare la tempistica dettata dalle norme hanno disatteso quanto indicato dal decreto, che già prevedeva l’obbligo formativo da parte delle Asl con il supporto del ministero della Giustizia, per il personale dedicato per le Rems". Le tutele quindi mancano perché manca una formazione adeguata ma anche "un contratto che le preveda", spiegano gli infermieri. "Con il passaggio dall’amministrazione penitenziaria al servizio sanitario nazionale dell’assistenza agli ex internati, è stato messo tutto nelle mani del personale del servizio sanitario che nel suo contratto collettivo non ha alcuna previsione per questo tipo di casistica". Dunque "subito il nuovo contratto", sollecita Mangiacavalli facendo il punto di tutte le norme che dal 2009 (scadenza dell’ultimo accordo) a oggi, sono intervenute cambiando il panorama dell’assistenza e del lavoro dei professionisti. "E va cambiata anche la formazione, oggi ancora legata a vecchi schemi che non permettono di attuare quel nuovo modello di organizzazione manageriale e clinica proprio di situazioni patologiche gravi emergenti e di cronicità", conclude la presidente. Rems: infermieri in prima linea per la salute dei detenuti nurse24.it, 6 febbraio 2016 Ma mancano formazione specifica e tutele contrattuali o di legge che prevedano misure preventive e cautelative del danno. Le Residenze per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza Sanitaria (Rems) ad un passo dal traguardo, anche se in alcune Regioni servirà un commissario perché diventino una realtà. Ma se con le Rems spariscono gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg), si aprono anche nuovi problemi per chi al loro interno dovrà lavorare. Gli infermieri e tutto il personale del Ssn impegnato nelle strutture sono in prima linea, infatti, sul fronte della sicurezza degli operatori e, di conseguenza, dei pazienti che assistono. Già in passato Nurse24.it si era occupato delle Rems con il servizio del nostro inviato Carlo Leardi. Oggi a parlarne è Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione Nazionale dei Collegi Ipasvi. "I nostri professionisti - commenta Mangiacavalli - sono di fatto mandati allo sbaraglio, senza formazione specifica né tutele contrattuali o di legge che prevedano misure preventive e cautelative del danno. Eppure su di loro, come sui medici al lavoro nelle Rems, ricade la massima parte del lavoro di assistenza. Ma ad esempio, in caso di pericolosità del paziente agitato in queste strutture che spesso ospitano criminali psichiatrici, i professionisti che ci lavorano non possono fare altro che chiamare la pubblica sicurezza che, al contrario delle guardie carcerarie, arriva armata, generando così un ulteriore elemento di rischio". "In questo nuovo scenario, con il superamento degli Opg e l’attivazione delle Rems - spiega Gennaro Marino, infermiere che dal 1997 è in servizio presso l’Opg di Aversa ed è membro del gruppo di lavoro costituito dalla Federazione Ipasvi a ottobre 2015 per monitorare la governance clinica organizzativa di questi nuovi scenari per la professione Infermieristica - si riscontra una disomogeneità nella programmazione e organizzazione delle strutture, che a mio modo di vedere non è altro che il riflesso delle diverse organizzazioni sanitarie regionali presenti sul territorio nazionale". Con la chiusura degli Opg, spiega Marino, il magistrato di sorveglianza deve disporre, ogni qualvolta che se ne verifichi la necessità e anche in via provvisoria, l’esecuzione della misura di sicurezza in una struttura diversa dagli ospedali psichiatrici giudiziari. "Tuttavia - aggiunge - c’è da registrare che in alcuni casi il magistrato dispone ancora ricoveri in Opg (che per Legge dovrebbero già essere chiusi) vuoi perché le Rems non hanno posti liberi, vuoi perché nelle stesse Rems il paziente non è gestibile". Per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro nelle Rems, il decreto del 2012 che le ha previste prevede che per una struttura con 20 posti la dotazione di personale deve prevedere: 12 infermieri, 6 Oss, 2 medici psichiatri a tempo pieno con reperibilità notturna e festiva, 1 educatore o tecnico della riabilitazione psichiatrica a tempo pieno, 1 psicologo a tempo pieno, 1 assistente sociale per fasce orarie programmate, 1 amministrativo per fasce orario programmate. Nel turno notturno deve essere garantita la presenza di almeno un infermiere e un Oss e i servizi di sicurezza e vigilanza perimetrale sono attivati sulla base di accordi con le Prefetture di riferimento. "Le aziende sanitarie - aggiunge Marino - hanno reclutato nuovo personale (utilizzando diversi strumenti contrattuali), non tutte però hanno provveduto a formarlo (ma anche quello già in organico). Si tratta soprattutto di infermieri e altri operatori alla prima esperienza lavorativa e/o privi di esperienza in ambito psichiatrico e penitenziario. Infatti molte Regioni e aziende pur di rispettare la tempistica dettata dalle norme hanno disatteso quanto indicato dal decreto, che già prevedeva l’obbligo formativo da parte delle Asl con il supporto del ministero della Giustizia, per il personale dedicato per le Rems. Su questo aspetto, c’è da segnalare una carenza in genere - prosegue - in quanto la formazione di base per gli Infermieri non prevede moduli formativi per il nursing penitenziario e psichiatrico". "Si tenga presente - chiarisce Marino - che a differenza di altri servizi psichiatrici tipo gli Spdc (Servizi psichiatrici di diagnosi e cura), la presenza h24 del medico psichiatra non è prevista e in caso di emergenza l’Infermiere dovrà attivare una procedura, come da regolamento interno della Rems, compresa quella di chiamare le forze dell’ordine competenti individuate dalla Prefettura, operazioni che allungano i tempi di intervento. Negli ex Opg c’era tutta l’area penitenziaria che si occupava della gestione giudiziaria e amministrativa del paziente/internato, oltre all’espletamento delle competenze della sfera custodiale e della sicurezza, che rappresentava una tutela per il personale sanitario". Per quanto riguarda il lavoro richiesto agli infermieri, "attualmente - spiega ancora Marino - quelli che operano nelle Rems, oltre alle competenze del proprio ruolo professionale, si trovano gioco forza a dover svolgere anche competenze non loro, che precedentemente negli Opg venivano assolte dalla polizia penitenziaria. Basta pensare all’aspetto della sicurezza interna alle Rems, nelle quali l’infermiere risulta essere l’unico professionista garante della continuità assistenziale: deve salvaguardare la sicurezza dei singoli pazienti, la sua personale, ma anche degli altri operatori; deve provvedere alla presa in consegna degli effetti personali dei pazienti; supervisionare le visite ai pazienti da parte dei familiari perché che non si introducano sostanze proibite o oggetti che possono arrecare danno ad altri; controllare la corrispondenza epistolare e non, che ricevono gli utenti. Inoltre - aggiunge Marino - non tutte queste strutture hanno in organico personale amministrativo, e quindi anche queste competenze di tipo amministrativo-giuridico-sanitario ricadono sull’infermiere. Dal momento dell’apertura delle Rems - conclude - si sono verificate numerose evasioni e molte aggressioni a carico di altri pazienti o del personale stesso. In questi ultimi casi gli autori sono stati denunciati per lesioni e nei casi più gravi di tentato omicidio e il magistrato di sorveglianza ha disposto per loro la detenzione nei reparti psichiatrici in carcere". Le tutele mancano, quindi, anche perché manca un contratto che le preveda e con il passaggio dall’amministrazione penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale dell’assistenza agli ex internati, è stato messo tutto nelle mani del personale Ssn che nel suo contratto collettivo non ha alcuna previsione per questo tipo di casistica. La tutela del rischio - alto, vista la tipologia di pazienti - è rimasta a totale discrezione delle Regioni , che l’hanno risolta spesso assegnando ad esempio in alcuni casi agli infermieri destinati ai pazienti psichiatrici le stesse indennità - bassissime: 4 euro l’ora e 15 nei festivi - previste per il personale di servizio nei reparti ad alto rischio: rianimazione, malattie infettive, sala operatoria, dialisi. Secondo Mangiacavalli "anche questa è una delle ragioni che rendono non solo doverosa, ma indispensabile l’apertura delle trattative per il nuovo contratto, facendo il punto a priori di tutte le norme che dal 2009 (data di scadenza dell’ultimo accordo valido) a oggi, sono intervenute cambiando il panorama dell’assistenza e del lavoro dei professionisti a cui essa è affidata. Inoltre - prosegue - va cambiata anche la formazione, oggi ancora legata a vecchi schemi che non permettono di attuare quel nuovo modello di organizzazione manageriale e clinica proprio di situazioni patologiche gravi emergenti e di cronicità. Non per niente stiamo insistendo per dare il via ai percorsi formativi specialistici per gli infermieri e non per niente stiamo spiegando quotidianamente che la gestione di strutture multiprofessionali, come sono anche le Rems, deve necessariamente avere una responsabilità trasversale che consenta una visione generale degli interventi, sia, lo ripeto, dal punto di vista manageriale che da quello clinico. Gli infermieri ci sono - conclude - e anche le nostre proposte per far partire questo modello, già approvate anche dalle Regioni. Bisogna fare in fretta però, perché tutto sia omogeneo a livello nazionale e per non lasciare vuoti rispetto a nuove patologie, a nuove cronicità e a nuove esigenze di pazienti che altrimenti restano ‘abbandonatì sul territorio. E anche dei professionisti che non possono avere le mani legate nella loro attività assistenziale e non debbono correre ulteriori rischi". Secondo la Relazione al Parlamento presentata lunedì scorso dai ministri di Salute e Giustizia, nonostante la legge abbia previsto la loro eliminazione entro il 31 marzo 2015 per lasciare posto alle Rems, al 15 dicembre 2015 c’erano ancora 164 persone (di cui 5 donne) negli Opg, con le presenze più rilevanti a Montelupo Fiorentino (48 internati), seguito da Aversa (41 presenze) e Barcellona Pozzo di Gotto (35 persone ancora internate). E fornisce l’analisi Regione per Regione del superamento degli Opg e dell’attivazione delle Rems. Sempre al 15 dicembre, invece, erano 455 (di cui 65 donne) le persone trasferite e residenti nelle Rems fino a quel momento attivate in diverse Regioni. per quelle che ancora non hanno provveduto, si avvicina il commissariamento, che avrebbe già dovuto essere operativo da oggi con la scelta in Consiglio dei ministri del commissario unico, ma che per ora è stato rinviato a uno dei prossimi Cdm, mentre proseguono i lavori al tavolo di monitoraggio Salute-Regioni, dove i governatori presentano le loro soluzioni alla questione. Campania: De Luca assolto, può governare senza l’incubo della legge Severino di Ottavio Lucarelli La Repubblica, 6 febbraio 2016 "Finalmente. Anni di aggressioni e calvario per nulla". Il suo urlo pochi attimi dopo la sentenza. "Finalmente. Ho sempre creduto nella giustizia". È l’urlo di Vincenzo De Luca pochi attimi dopo l’assoluzione. Ora può governare senza l’incubo della legge Severino. E stamattina riapre a Salerno anche il cantiere del Crescent, voluto da lui quando era sindaco e dissequestrato dopo due anni. Un 5 febbraio da segnare sul calendario per il governatore della Campania, assolto con formula piena dalla Corte d’Appello di Salerno nel processo relativo al progetto di un termovalorizzatore a Salerno in cui era stato condannato in primo grado per abuso di ufficio. Processo di appello iniziato l’8 gennaio davanti al Collegio giudicante presieduto da Michelangelo Russo. "Anni di pesante aggressione politica e mediatica, per nulla. Anni di un calvario che avrebbe fatto scoppiare il cuore a chiunque. Abbiamo retto per le profonde motivazioni ideali e morali, e per l’assoluta serenità di coscienza". Vincenzo De Luca, commenta a caldo la sentenza. "Esprimo - aggiunge - il mio rispetto per la magistratura, la cui autonomia è un bene per i cittadini onesti e non un privilegio di alcuni. Il controllo di legalità nei confronti di chiunque è doveroso in democrazia". "Mi auguro che si esaurisca, nel dibattito pubblico, la tendenza dilagante a calpestare con disinvoltura la dignità di persone e famiglie oltre le regole di uno Stato di diritto. Mi auguro - conclude - che si affermi l’abitudine a confrontarsi civilmente, in un clima di rispetto reciproco. L’essere uomini è più importante delle bandiere di partito". A questo punto, salvo il ricorso in Cassazione da parte della Procura generale, anche il verdetto della Corte Costituzionale sulla legge Severino non è più determinante. De Luca fu sospeso il 26 giugno 2015 dalla carica di presidente della Campania in virtù della legge Severino. Il ricorso d’urgenza presso il Tribunale di Napoli fu accolto il 2 luglio con decreto del presidente della prima sezione civile, Guglielmo Cioffi, permettendogli di nominare la giunta. Con lui sono stati assolti anche gli altri due imputati nel processo: il dirigente del settore lavori pubblici del Comune di Salerno, Domenico Barletta e il capo staff di De Luca all’epoca dei fatti, Alberto Di Lorenzo. De Luca nominò proprio Di Lorenzo project manager da affiancare al tecnico già designato, Domenico Barletta all’interno del gruppo di lavoro che doveva progettare la realizzazione dell’inceneritore. Per tutti la Corte d’appello ha stabilito anche la revoca delle pene accessorie. La sentenza è arrivata dopo due ore di Camera di consiglio. In mattinata si è svolta l’arringa dell’avvocato Andrea Castaldo: "Non c’è alcuna violazione di norme in relazione alle ordinanze contestate". L’avvocato, in particolare, ha evidenziato che la firma posta da De Luca sull’ordinanza di nomina del project manager Di Lorenzo era frettolosa: "Ha firmato perché indotto dal dirigente del progetto Domenico. Barletta". I fatti risalgono al 2008, quando De Luca era sindaco di Salerno e commissario per la realizzazione di un termovalorizzatore in località Cupa Siglia. In primo grado De Luca è stato condannato il 21 gennaio 2015 a un anno di reclusione, pena sospesa, per abuso d’ufficio. Nel processo di appello il procuratore generale, Antonella Giannelli, aveva chiesto per De Luca una pena di 11 mesi per abuso di ufficio. In mattinata nell’arringa uno dei difensori di De Luca, l’avvocato Andrea Castaldo, aveva dichiarato: "Vengono contestate violazioni di norme ma in queste norme non si parla di Project manager. Quindi non ci sono violazioni". Castaldo ha sottolineato la non completezza da parte dell’accusa e dei giudici di primo grado delle ordinanze contestate per le quali De Luca era stato condannato in primo grado. Per i fatti per i quali è imputato De Luca, il suo legale, Paolo Carbone, aveva chiesto l’assoluzione perché il fatto non sussiste Dissequestro del Crescent. Intanto proprio oggi, dopo due anni è stato dissequestrato e riprendono i lavori del Crescent, il mega complesso edilizio a forma di mezza luna progettato dall’architetto Ricardo Bofil e voluto da Vincenzo De Luca quando era sindaco. Domani mattina alle ore 9 verranno rimossi i sigilli per l’esecuzione materiale del dissequestro disposto dal tribunale di Salerno, e da subito riprenderanno i lavori, annuncia all’Agi l’avvocato Lorenzo Lentini, legale dei costruttori Rainone impegnati nella realizzazione dell’opera edilizia sul fronte del mare di Salerno. Lo scorso 13 gennaio, i giudici della seconda sezione penale salernitana avevano accolto la richiesta di dissequestro del complesso edilizio da parte della Crescent srl a condizione che venissero rispettate dai costruttori alcune prescrizioni. Tra le condizioni fissate per procedere al dissequestro, materiale spiega Lentini, c’erano i nuovi permessi a costruire da ricevere dal Comune, oltre al pagamento da parte dei costruttori della prima rata relativa agli oneri di urbanizzazione insieme alla formalizzazione della polizza fideiussoria per il pagamento di quanto dovuto al Comune di Salerno. "Tutte queste prescrizioni - aggiunge Lentini - sono state adempiute e rispettate, quindi adesso il dissequestro, precedentemente subordinato ad alcune condizioni, può ritenersi finalmente materiale ed esecutivo. Siamo molto soddisfatti". Il cantiere del Crescent sarà riaperto dopo 27 mesi dalla polizia giudiziaria domani mattina alle ore 9. Davanti ai giudici del secondo collegio della sezione penale del tribunale di Salerno (presidente Vincenzo Siani) prosegue invece il processo per le presunte irregolarità urbanistiche commesse nella realizzazione del Crescent, in cui risultano imputati il governatore della Regione Campania, Vincenzo De Luca, insieme ad altre 21 persone. Le prossime udienze del processo sono state fissate al 23 febbraio, il 4 aprile e il 18 aprile. Liguria: M5S: "da Toti solo passerelle elettorali e nessun misura concreta per le carceri" telenord.it, 6 febbraio 2016 "Ieri in Commissione II si è avuto un saggio della distanza abissale tra la narrazione della Giunta Toti e la situazione reale in cui versa la Liguria. Il tema delle condizioni delle carceri ne è solo un esempio, tra i tanti che si potrebbero raccontare". A denunciare il fatto è il Movimento 5 Stelle ligure, che prosegue: "Basta ascoltare i dati allarmanti riportati in audizione dal segretario regionale del Sappe Michele Lorenzo. Nel 2015 la Polizia Penitenziaria ligure ha gestito più di 1500 eventi critici in carcere, tra i quali 595 atti di autolesionismo, 195 manifestazioni di proteste varie, 11 incendi dolosi, 50 danneggiamenti, ma il dato più sconcertante - ha spiegato Lorenzo - sono i 2 suicidi avvenuti a Marassi e Sanremo e i 45 tentati suicidi scagionati dal poliziotto di turno. Un dato, questo, in aumento rispetto al 2014, quando i tentativi di suicidio furono 32?. "Numeri spaventosi che destano gravissima preoccupazione" spiega la portavoce M5S Alice Salvatore, che pone anche l’accento sulla drammatica situazione igienico-sanitaria negli istituti penitenziari liguri. "Abbiamo assistito in questi mesi a ripetute visite nelle carceri da parte del governatore Toti, dell’assessore Viale e di altri esponenti della Giunta, eppure non sono mai state attuate misure e proposte concrete per fronteggiare la situazione, né esiste ancora forma di prevenzione sanitaria per i poliziotti in servizio. I problemi delle carceri, così come tutte le emergenze della Liguria, non si risolvono con passerelle elettoralistiche ma con azioni e, soprattutto, atti concreti". Il Movimento 5 Stelle è solidale con il Sappe e rinnova la sua battaglia per il rispetto delle condizioni minime di dignità e salute per poliziotti e carcerati all’interno delle mura penitenziarie. Emblematico il caso di La Spezia, come racconta il consigliere regionale M5S Francesco Battistini. "In questo carcere operano 135 agenti, invece dei 179 previsti, alle dipendenze di un solo commissario, quando dovrebbero essercene 4 a pieno regime. Oltre alle normali mansioni all’interno del carcere, questi agenti si trovano a svolgere attività extra di scorta e vigilanza, come, ad esempio, il controllo sulle misure di restrizione come gli arresti domiciliari. Non solo - prosegue Battistini - Sono in netto aumento i casi di detenuti con problemi psichiatrici e mancano specialisti in grado di evitare tutti quei casi di autolesionismo e sciopero della fame che oggi non si contano, senza contare il numero di celle sfasciate per escandescenze del detenuto. Le cose non vanno meglio nel Savonese. Oggi il portavoce Andrea Melis sarà a Cairo Montenotte per visitare la scuola di formazione personale penitenziario. "Un’occasione per rendersi conto da vicino della situazione e incontrare chi tutti i giorni ha a che fare con il problema - spiega Melis - Ma, a differenza di Toti & C., la nostra visita non sarà solo passerella ma uno strumento di comprensione che poi dovrà tradursi in azioni politiche di pressione a livello istituzionale perché la Liguria, e l’Italia in generale, si allinei alle condizioni carcerarie di un Paese civile. Perché, come diceva Voltaire, la civiltà di un popolo si misura dalle sue carceri". Napoli: baby-gang, fermare l’escalation ripartendo dal lavoro di Antonio Mattone Il Mattino, 6 febbraio 2016 Una lotta che al di là delle importanti cifre sugli arresti eccellenti e sui sequestri di anni e soldi segna un dato che resta inconfutabile, quello dell’aumento dei morti ammazzati a Napoli. E poi c’è la percezione di una grande insicurezza da parte dei cittadini che vedono il territorio sotto il controllo delle organizzazioni criminali con le attività illecite svolte alla luce del sole come il racket dei parcheggiatori abusivi nel centro storico e nei pressi degli ospedali. Ma c’è il dilagare delle baby-gang che imperversano indisturbate nel cuore della città con le forze dell’ordine impotenti nell’agire. Per non parlare dei raid dimostrativi con cui viene attestato il predominio di un clan su una zona come quello che la notte di San Silvestre è costato la vita a Maikol Giuseppe Russo ucciso a Forcella a colpi di kalashnikov. Difronte a questa escalation di violenza lo stesso ministro Aliano, ma anche altri esponenti della società civile come l’ex Procuratore di Napoli Vincenzo Galgano, chiedono di abbassare l’età imputabile, perché questa misura avrebbe l’effetto di deterrenza verso quei giovani che si apprestano ad intraprendere la "carriera" criminale. È indubbio che certi crimini vanno perseguiti con grande fermezza e rigore e agli adolescenti bisogna dare la percezione della determinazione dello Stato nel combattere la criminalità. Tuttavia questo non basta. Il ricambio con cui giovani boss emergenti subentrano a quelli arrestati e la spietata concorrenza con cui si affrontano dovrebbe far riflettere. Inasprire le pene avrebbe solo l’effetto di riempire di gioventù bruciata le carceri senza intervenire sulle cause della devianza. Già oggi alcuni protagonisti delle "paranze" sono detenuti con capi di imputazione pesanti che lasciano prevedere lunghi anni di galera da scontare. E i maestri e gli operatori dei carceri minorili che li hanno conosciuti piccoli, restano sorpresi del fatto che questi giovani si siano resi responsabili di atti di violenza inaudita. Ad un fenomeno così complesso bisogna dare risposte altrettanto complesse ed articolate. Nel centro storico bisogna realizzare una riqualificazione urbana vera, restituendo ai cittadini quelle piazze occupate dai parcheggiatori e dalle attività abusive. Ancora la scuola, gli assistenti sociali con le forze dell’ordine dovrebbero mettere su una task-force che studi ed intervenga sul fenomeno delle baby-gang, cercando di individuare i giovani protagonisti delle scorribande e di proporre interventi per arginare questi atti di bullismo criminale. E poi sullo sfondo c’è la mancanza di lavoro, eterno dramma del nostro territorio. Sappiamo che la disoccupazione fornisce manovalanza marginale e continuativa alla malavita. Gli interrogativi sul fascino e l’attrazione che la malavita esercita verso ¡giovani deve spingere ad ulteriori riflessioni che non sono più rinviabili. Per evitare di ritornare a parlarne al prossimo omicidio. Firenze: a Sollicciano sit-in dei Radicali "chiudere subito il carcere peggiore d’Europa" firenzetoday.it, 6 febbraio 2016 La manifestazione questa mattina: "È una delle peggiori strutture d’Europa, in condizioni di continua emergenza. Questa mattina, sabato 6 febbraio, alle 11, i Radicali manifestano di fronte al carcere fiorentino per chiedere la chiusura di Sollicciano, "una delle strutture penitenziarie peggiori d’Europa". L’annuncio viene dato sul sito internet dell’associazione radicale fiorentina Andrea Tamburi. "Il carcere fiorentino sopravvive in una drammatica quotidianità: emergenza vitto, emergenza igienico-sanitaria, riscaldamento assente, strutture murarie fatiscenti impregnate di umidità e altre irregolarità che denunciamo da anni", spiegano dall’associazione. Critiche vengono rivolti agli ultimi tentativi fatti per alleviare i problemi della struttura. "Risolverli con provvedimenti tampone equivale a curare una cancrena con i pannicelli caldi". "Il carcere di Sollicciano va immediatamente chiuso e dismesso. I detenuti non devono essere trasferiti in altre strutture penitenziarie, aggravando così il problema strutturale del sovraffollamento. Chiediamo piuttosto che un veloce processo di decarcerizzazione, coinvolgendo la magistratura di Sorveglianza e rafforzando l’ Esecuzione Penale Esterna al carcere", si legge nella nota che annuncia l’iniziativa. In passato i Radicali hanno già manifestato diverse volte di fronte a Sollicciano. Proprio qui ha trascorso l’ultimo Natale lo storico leader del gruppo Marco Pannella. Siracusa: misure alternative al carcere, accordo tra Uepe e Csve siracusanews.it, 6 febbraio 2016 Prosegue l’impegno del Csve a sostegno del volontariato che opera nelle carceri e volto all’inserimento sociale di giovani e adulti sottoposti a provvedimenti penali. Dopo il protocollo con l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (Uepe) di Catania e la collaborazione avviata con l’Istituto Penale per Minorenni (Ipm) di Bicocca, nella sede dell’Uepe di Siracusa è stato firmato, infatti, un protocollo di intesa che intende favorire la conoscenza e l’applicazione di misure alternative alla detenzione, sensibilizzando i territori di Siracusa e Ragusa. La Convenzione, sottoscritta dal direttore dell’Uepe Rita Gentile e dal presidente del Csve Salvatore Raffa, prevede che i due enti si impegnino a collaborare nell’attività di informazione, sensibilizzazione e responsabilizzazione della collettività (associazioni di volontariato, terzo settore, istituzioni, organi forensi), attivando percorsi di inclusione sociale per detenuti in esecuzione penale esterna e organizzando specifici seminari divulgativi. In base all’accordo, inoltre, il Csve fornirà all’Uepe informazioni utili per individuare le associazioni di volontariato più vocate a svolgere questo servizio; i due enti collaboreranno anche per elaborare e aggiornare un elenco delle associazioni di volontariato disponibili ad accogliere persone in esecuzione penale. Nel corso dell’incontro, gli operatori del Csve, i funzionari dell’Uepe e i volontari si sono confrontati sulla possibilità di avviare quanto prima una rete operativa in grado di agevolare l’inserimento sociale di persone raggiunte da provvedimenti dell’autorità giudiziaria, che possono svolgere percorsi di messa alla prova" o "lavori socialmente utili". Un punto condiviso da tutti è che per raggiungere questo obiettivo, oltre a sensibilizzare il territorio, occorra puntare sulla formazione dei volontari. Siracusa: istituito il Garante comunale dei diritti dei detenuti siciliajournal.it, 6 febbraio 2016 Il consiglio comunale ha approvato ieri mattina, a maggioranza, il regolamento che istituisce il Garante dei diritti delle persone private della libertà. L’introduzione del Garante dei diritti delle persone private della libertà è stata approvata con 23 sì, 2 no e 2 astensioni. La figura nasce per tutelare i diritti fondamentali dell’individuo detenuto o limitato della libertà personale anche nel periodo di reinserimento sociale, finalità che vanno perseguite collaborando con le istituzioni penitenziarie per una reale funzione educativa della pena. Il Garante assume iniziative per l’inserimento nel mondo del lavoro dei detenuti una volta tornati in libertà; supporta i detenuti e le famiglie nell’accesso ai servizi garantiti dal Comune e nell’accesso agli atti amministrativi; si rivolge alle autorità competenti in caso di violazione dei diritti; promuove iniziative di sensibilizzazione pubblica; è a disposizione delle famiglie e di quanti si occupano della rieducazione e del reinserimento sociale dei detenuti. Il Garante è nominato dal sindaco tra quanti si candidano dopo l’emanazione di un avviso pubblico e non deve incorrere nelle situazioni di incandidabilità e ineleggibilità previste per i consiglieri comunali; decade con la scadenza del mandato del sindaco. L’incarico è incompatibile con professioni svolte nell’ambito della giustizia e della sicurezza pubblica, con la professione forense e con le cariche elettive o di amministratore in enti, aziende o società partecipate del Comune. Resta in carica in regime di prorogatio nelle more della scelta del nuovo Garante; l’incarico può essere revocato in caso di irregolarità che, però, devono essere contestate dal sindaco e rispetto alle quali i Garante può presentare delle controdeduzioni. Il Garante riferisce al sindaco, alla Giunta e al consiglio comunale. Il dibattito ha vissuto momenti di tensione quando sono stati toccati i temi del rapporto tra Garante e Consiglio e del rimborso spese. Salvatore Castagnino e Tony Bonafede hanno evidenziato le forti prerogative del sindaco rispetto al consiglio comunale, che sarebbe così privato di reali poteri di controllo e di indirizzo. Di conseguenza, i due consiglieri hanno considerato incoerente con questa impostazione la previsione di relazione annuale del Garante all’Aula. Anche secondo Gaetano Firenze, sul tema dei rapporti con il consiglio comunale la proposta è vaga, soprattutto rispetto alle iniziative concrete che il Garante deve intraprendere per lo svolgimento della sua funzione e per le quali è necessario l’intervento dell’assise. In difesa del provvedimento, invece, è intervenuta Cristina Garozzo (che ieri lo aveva illustrato) per la quale la norma è chiara e la relazione annuale del Garante serve per consentire il controllo del consiglio comunale. Per Fortunato Minimo, inoltre, lo schema adottato è corretto e rispecchia quello adottato per altre figure simili anche in campo nazionale. Sul tema dei rimborsi spese che spettano al Garante, l’opposizione ha fatto leva sul parere contrario espresso sul punto dal ragioniere generale. Per Castagnino, in assenza di uno specifico capitolo di spesa c’è il rischio che si creino dei debiti fuori bilancio, contestazione alla quale la maggioranza ha replicato con la presentazione di un emendamento che però è stato dichiarato inammissibile perché privo del parere tecnico. Infine, prima del voto finale sulla provvedimento, l’Aula ha bocciato una proposta dell’opposizione che bloccava la nomina del Garante fino a quando non fosse stato previsto lo specifico capitolo di spesa. Bari: la cella era troppo stretta, il ministero pagherà 1.800 euro all’ex detenuto La Repubblica, 6 febbraio 2016 Il tribunale civile di Lecce ha contestato la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo: al ricorrente, originario di Taranto, andranno 8 euro per ogni giorno di detenzione. Il giudice civile leccese Viviana Mele ha condannato il ministero della Giustizia a risarcire il danno (1.800 euro) a un ex detenuto, originario di Taranto, per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo. Il riferimento è alle condizioni di vita carceraria per un periodo di 225 giorni (fra il 2011 e il 2012). Il ricorrente, difeso dall’avvocato Rosario Orlando, era stato detenuto nella casa circondariale di Bari. Il tribunale precisa nella sentenza che "il cosiddetto spazio vitale a disposizione del soggetto è stato superiore ai tre metri quadrati solo per due giorni, quando nella cella vi era pure un altro detenuto, mentre lo stesso è stato inferiore ai tre metri quadrati in tutti gli altri periodi". Viene poi rimarcato che "nella casa circondariale di Bari è prevista la permanenza all’aperto per circa quattro ore (al netto di una mezz’ora circa per le operazioni di immissione nei cortili e rientro nelle sezioni)", ma questo "non appare sufficiente a ritenere sussistente, a fronte delle residue 20 ore trascorse in cella, una libertà di movimento tale da costituire una compensazione sufficiente alla scarsa assegnazione di spazio per condannato". Il ricorrente aveva chiesto un risarcimento pari a 8mila 432 euro anche per presunta violazione della Convenzione nel periodo in cui era stato detenuto nel carcere di Altamura (Bari), ma in questo caso non sono state rilevate violazioni. Il giudice ha ritenuto dunque di "adottare la somma di 8 euro" per ogni giorno di detenzione, "oltre agli interessi dalla data della domanda introduttiva" del giudizio. Le spese di lite, "attesa - spiega il giudice - la novità della questione giuridica trattata e la soccombenza reciproca (con notevole riduzione del quantum richiesto), vanno compensate fra le parti". Verona: con la Chiesa Valdese, giornata di preghiera per eliminare l’ergastolo L’Arena, 6 febbraio 2016 Una giornata di preghiera contro l’ergastolo e "quel fine pena mai" che, anche per papa Francesco, rappresenta "una pena di morte nascosta". L’iniziativa, promossa a livello nazionale dalla Chiesa valdese, a Verona troverà spazi di riflessione e dibattito nell’oratorio di San Zenetto in via Provolo, grazie a un appuntamento organizzato per sabato alle 18 dalla Fraternità. L’associazione, che è attiva sul territorio e in carcere sui temi legati alla giustizia, per garantire un reinserimento sociale adeguato a chi ha commesso reati, invita tutta la cittadinanza ad ascoltare le testimonianze di ergastolani, ex detenuti e loro familiari. Alle 19 si terrà un incontro nella chiesa di Povegliano, dove si trova al momento la cella a dimensioni reali realizzata dall’associazione per stimolare l’approfondimento sulle condizioni di vita dei reclusi. "La giornata inizierà nel carcere di Montorio, con una messa alle 16 a cui parteciperanno i detenuti condannati all’ergastolo", annuncia il fondatore della Fraternità, fra Beppe Prioli. "Ringrazio il Signore che dopo oltre 50 anni di incontri nelle chiese, nelle scuole e nei gruppi di volontariato per dire no alle condanne senza fine pena, finalmente la Chiesa, con papa Francesco, abbia preso posizione. Il male non si giustifica, ma bisogna dare speranza alle persone". E fra Beppe conclude: "In questo anno della misericordia molte parrocchie e gruppi della Chiesa veronese si stiano rivolgendo a me e alla Fraternità per ricevere testimonianze sulla tragica condizione di chi è detenuto per sempre". Televisione: l’intervista a Varani è un atto di violenza compiuto dalla Rai di Alessia Morani (Deputato Pd) L’Unità, 6 febbraio 2016 I versi della poetessa polacca Wislawa Szymborska per raccontare un amore impossibile, le allusioni a un certo divano rosso dove si consumava la relazione clandestina tra Lucia Annibali e Luca Varani. In quasi due ore di intervista all’uomo che ha sfregiato per sempre il volto della giovane avvocatessa pesarese, è andato in onda giovedì sera sulla terza rete della televisione pubblica un atto di irreparabile violenza, l’ennesimo, nei confronti di una donna che porta l’ergastolo sul suo bellissimo volto. Grazie a Dio Lucia è una ragazza formidabile e con la sua grandissima forza di volontà ha scelto di non sentire ancora una volta le parole dell’uomo che le ha cambiato i connotati e che si è messo a disposizione delle telecamere per riepilogare come in un romanzo di formazione la sua vicenda. Alla sua vittima l’uomo ha detto, via piccolo schermo, che gli dispiace, che è pentito, che forse era drogato o pazzo o immaturo, che non voleva levare la pelle dal volto ma solo danneggiare la sua auto. Questa è la verità ritrattata mille volte da Varani. Poi chiede scusa, per quello che può. E dice la frase più incredibile: soffre lei, di più, ma soffro anche io. E cerco di essere un buon padre per mia figlia, lavoro e faccio il bravo. Occhi lucidi, empatia, compassione. La conduttrice gli fa domande del tipo: lei come pensa di riprendersi il suo cielo dopo la morte dell’anima? È incredibile che con un processo in corso - Varani è stato condannato a 20 anni di reclusione e tra pochi mesi inizierà l’esame della Cassazione - si dia la possibilità a un imputato di rendere pubblica la sua versione dei fatti, perdipiù con un rischio altissimo dì strumentalizzazione della vicenda, che è stata resa come una fiction, con tanto dì commento musicale e immagini di copertura sui titoli di coda. Ho posto la questione in commissione Vigilanza Rai alla Camera chiedendo, con i colleghi Anzaldi e Peluffo, di non trasmettere l’intervista. La Rai è andata avanti, nonostante i dubbi sollevati pubblicamente dalla Procura. Non può un uomo condannato in secondo grado per l’aggressione con l’acido di una giovane andare in tv a raccontare la sua storia "di amore, ossessione e passione", come è scritto nel testo che lanciava il programma. Varani si è sempre rifiutato di rispondere alte domande dei giudici. Ai posto di rendere una doverosa testimonianza alla legge ha invece preferito la scenografia, te luci di una telecamera, le domande incalzanti di una giornalista die sembra sottoporlo a una seduta psicanalitica con una leggera vena assolutoria. Tutti felici dello scoop presentato con queste parole: "Varani non ha mai parlato, non ha mai spiegato come l’amore per Lucia possa essersi trasformato in rabbia, in vendetta. Lo fa per la prima volta con Franca Leosini che scende con Luca Varani nell’ossessione di quella storia, in cui sesso e passione travolgono morbosamente due giovani vite, alla fine, vittime entrambe, di una maledetta storia". Vitti me entrambe? Perché non lo lasciamo giudicare alla legge chi è la vittima in questa storia? Perché la televisione pubblica sente la necessità di interferire con la giustizia, con il delicato equilibrio di una vicenda i cui contorni devono ancora essere chiariti? E soprattutto: qual è il servizio pubblico in questa storia? Televisione: Lucia Annibali, come la vittima diventa imputata in Tv di Claudia Sarritzu globalist.it, 6 febbraio 2016 Questa è la Rai di cui ci si deve vergognare, fatta di professionisti che non hanno a cuore la dignità e il senso di pudore, che per l’audience calpestano le ferite delle vittime. Ancora una volta l’audience ha assecondato la morbosità dei telespettatori. Il servizio pubblico è passato sopra al dolore di una vittima, che per tutta l’esistenza porterà ferite non rimarginabili. Stiamo parlando di Lucia Annibali, una donna a cui un uomo ha deciso di cancellare il volto. L’ha privata del suo sorriso, delle sue espressioni, della propria unicità. Le ha rubato la parola amore che da ora in poi pronuncerà con sospetta. Ha spaccato lo specchio che ognuno di noi guarda per ritrovare se stesso, le proprie malinconie e gioie, il proprio passato. Purtroppo viviamo in un Paese che guarda programmi che consentono agli imputati di fare il processo alla vittima, ma per fortuna esiste l’altra metà dell’Italia che si indigna e si dissocia da tanto squallore. Lucia Annibali porta i segni della violenza sul suo viso, l’acido non dà scampo al colpevole. Non fa dimenticare. Non ci sono due verità in questa storia "la verità è una sola e non può essere messa in discussione" -ha ragione Lucia- da nessun programma tv investigativo. La difesa della donna, anch’ella avvocato, considera l’intervista televisiva- anche se autorizzata con un provvedimento- "illegittima" perché un imputato non ancora sottoposto a giudizio definitivo può rendere "dichiarazioni, ma al direttore del carcere, non alla Rai". Ma questo è il paese dei processi mediatici. Il procuratore della Repubblica di Pesaro Manfredi Palumbo ieri sera non ha visto l’intervista di Luca Varani a "Storie maledette", ma da stamani è tempestato di "decine di messaggi di persone indignate, direi disgustate" dalle parole dell’avvocato pesarese. Varani non è un violento qualsiasi, è un uomo istruito, non un ubriacone degradato, che assoldò due sicari albanesi per far sfregiare con l’acido la sua ex ragazza, Lucia, la stessa che ieri è andata a cena fuori per non dover inciampare in un programma inopportuno che l’avrebbero spezzata per la seconda volta. Una volta completati gli accertamenti sulle circostanze che hanno consentito alle telecamere di Raitre di entrare nel carcere di Castrogno, la procura di Pesaro, ha assicurato Palumbo, "trasmetterà gli atti alla procura di Teramo, perché faccia le sue valutazioni". Secondo il pm, e secondo anche il buonsenso e il rispetto della dignità umana, l’autorizzazione all’intervista configura infatti "una violazione dell’art. 123 del Codice di procedura penale, e dell’art. 18 dell’Ordinamento penitenziario". "Un imputato processato solo fino al secondo grado di giudizio - ha spiegato - può rilasciare dichiarazioni per motivi di giustizia al direttore dell’istituto di pena, che è tenuto a trascriverle in un apposito registro. Sono dichiarazioni che hanno lo stesso valore di quelle rese al giudice; non può essere la tv a sostituirsi al direttore del carcere. Qui invece si è permesso a una persona ancora in attesa del pronunciamento della Cassazione di fare grancassa", per di più "in una trasmissione del servizio pubblico". Senza contare, ha incalzato il procuratore, che "il processo è un istituto a garanzia dell’imputato: Varani non ha mai parlato in aula, e va a parlare in televisione!". Palumbo preferisce non entrare nel merito di possibili sviluppi processuali per le nuove dichiarazioni di Varani, che ha detto fra l’altro di essersi reso conto già prima del 16 aprile 2013 che i due albanesi ingaggiati per danneggiare l’auto di Lucia con l’acido avrebbero potuto fare qualcosa di più grave, ma non li ha fermati. Il legale è stato condannato a 20 anni di reclusione con il rito abbreviato, e "gli atti sono già in Cassazione". A noi invece, testimoni nostro malgrado di un altro scivolone della Rai, capace di disgustare chiunque abbia un briciolo di etica, resta da capire chi ha permesso che una emittente a cui siamo costretti (dopo la Riforma ancora di più) a pagare il canone, desse credito a un uomo che, in primo grado e in appello, è stato condannato per essere il mandante di un’aggressione orrida. Ancora vorremmo sapere cosa ne pensa l’Ordine dei giornalisti? Se a sua difesa citerà la libertà di informazione in modo inopportuno? Quando si riforma la Rai si pensa sempre al consiglio di amministrazione mai ai danni che certa informazione può fare ai telespettatori. Si licenziano dirigenti che sbagliano il countdown di Capodanno e si invitano uomini violenti. Teatro: caso Cucchi, voci in scena di Maria Teresa Surianello Il Manifesto, 6 febbraio 2016 La compagnia "Margine operativo" presenta "Presunta morte naturale", intorno all’omicidio e alla travagliata vicenda processuale. Lo avevano presentato davanti a Ilaria Cucchi, lo scorso ottobre, nel loro festival, Attraversamenti Multipli, questo pezzo di cronaca nera teatralizzata, emblema della mala gestione di indagini giudiziarie e mancati processi a carico di rappresentanti dello Stato. E qualche giorno fa "Presunta morte naturale", un dramma pubblico lo hanno riallestito negli spazi autogestiti del Nuovo Cinema Palazzo, per una data secca tanto piena spettatori, quanto spersa nel mare magnum delle serate romane. Certo non nuovo a questo genere di teatro indagatore del presente e di denuncia, Margine Operativo vive con grande orgoglio la sua appartenenza all’attivismo politico, che gli argina i compromessi e gli permette una totale libertà di scelte tematiche e di percorsi creativi. Questa volta poi Alessandra Ferraro e Pako Graziani - le due anime del gruppo romano - ripropongono la storia di Stefano Cucchi, fermato con alcune dosi di stupefacenti, proprio nei giorni in cui si parla della riapertura delle indagini e della discussa pubblicazione sul profilo Facebook di Ilaria della foto in costume - modello Big Gim - di uno dei presunti autori del pestaggio, avvenuto subito dopo l’arresto. Si ricorderà quanto sia stata travagliata la vicenda processuale per la morte il 22 ottobre del 2009 di questo giovane, infarcita di atteggiamenti omertosi se non addirittura di testimonianze mendaci nel tentativo - per ora riuscito - di scagionare chi si è macchiato di gravissime colpe indossando la divisa dei Carabinieri. Da questi atti processuali attingono Ferraro e Graziani per la drammaturgia dello spettacolo, affidando a un solo attore la molteplicità delle voci in scena, accompagnate da una superba selezione musicale. Così Tiziano Panici entra e esce dal corpo martoriato di Stefano, si fa anatomo-patologo, generale dell’arma o amico, si immobilizza davanti a una lettera o si affanna in dimostrazioni atletiche da caserma, quasi a contrapporre la fragilità del corpo della vittima con la spavalda vitalità dei suoi carnefici, carabinieri, guardie penitenziarie, medici. E lasciando, in neanche un’ora di spettacolo che l’esposizione dei fatti e la loro incongruenza, arrivi al suo naturale risultato. Questa volontà di non aggiungere nulla al già conosciuto e liberare i fatti nudi e crudi sul palcoscenico crea un’algida atmosfera, una distanza dalla storia che modera l’indignazione. Uno spettacolo adattissimo alle scuole. Libri: "Storia dell’Italia mafiosa". di Isaia Sales di Valentino Parlato Il Manifesto, 6 febbraio 2016 Il libro di Isaia Sales, "Storia dell’Italia mafiosa" (Rubbettino, pp. 444, euro 19,50), è di grande interesse e dovrebbe suscitare un serio dibattito sullo stato di salute del nostro paese. Mafia e corruzione sono un male esterno che ogni tanto ci colpisce oppure la mafia è intrinseca alla nostra storia, come già fa intendere il titolo del libro e come è puntualmente confermata nelle più di 440 pagine del libro e da ben 44 pagine di rinvii ad altri studi e documenti. E non va dimenticato che Sales è stato un importante dirigente del Pci e autore di altri apprezzati libri sul nostro Mezzogiorno. In sostanza la mafia è intrinseca alla vita sociale e politica non solo del Mezzogiorno, da dove avrebbe preso origine con i nomi di mafia, camorra e ‘ndrangheta, ma di tutto il paese. E la sua presenza non si limita alle elezioni, specie amministrative, nelle quali ci sono anche candidati mafiosi. Adesso con la crisi dei partiti, il potere mafioso è fortemente in crescita: la mafia si intreccia con la politica e quando questa (come attualmente) è debole quasi la sostituisce. Quando tramonta la presenza degli interessi generali, anche tra loro opposti, si apre un grande spazio per gli interessi particolari e vale ricordare che il particolare nella storia d’Italia ha pesato e pesa ancora. Vediamo tutti nei paesi dove abitiamo, come, in tempo di elezioni, i candidati spesso più che cercare il consenso del popolo, cercano quello dei boss locali. Tutto questo si svolge sotto i nostri occhi, ma ci scandalizza sempre meno e col procedere dell’attuale stagione diventa, ai nostri occhi, sempre più normale. Nelle fasi calde della politica e della cultura la mafia si indebolisce e, quasi a dirci che la vera lotta alla mafia non si fa tanto con la polizia, ma con la forza degli ideali, quando prevale il convincimento che possiamo migliorare la nostra vita e quella degli altri, quando ci sono speranze (quelle che mancano in questa fase storica). Insomma il punto sul quale Sales insiste (e che io assolutamente condivido) è che la mafia (che Sales fa coincidere con la storia d’Italia) non è riducibile a pura criminalità, ha radici nella situazione sociale, politica e culturale del territorio nel quale cresce e io do grande importanza al ruolo delle speranze (tutto il contrario del detto: chi di speranze vive, disperato muore) che hanno mosso grandi movimenti di crescita culturale, sociale e politica. Fuori di questa impostazione non si capirebbe niente della mafia, ridurla a fatto puramente delinquenziale non ci farebbe capire niente. "La storia delle mafie - scrive Sales - è in sostanza il disvelamento della funzione debole dello Stato italiano nell’impatto con un territorio che avrebbe avuto bisogno, per liberarsi delle forme violente prestatuali, di un diverso radicamento dello Stato e della rottura radicale con quelle classi dirigenti alleate della mafia. Perciò la storia della mafia mette a nudo la qualità storica dell’agire politico, a Roma e a Milano, non solo a Palermo, a Napoli o a Reggio Calabria". Insomma, forse esagero, ma l’insegnamento di Sales è: se vuoi capire la storia d’Italia, studia un po’ la mafia che è anche una banalità del nostro paese come ci dice la provocatoria illustrazione di copertina, un domestico gattino che sul domestico pavimento di casa giocherella con un revolver. Egitto, in moto la macchina dell’oblio di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 6 febbraio 2016 Fonti di polizia in Egitto hanno riferito di due arresti legati al caso Regeni. Una nota degli inquirenti ha escluso che l’omicidio Regeni abbia riferimenti "terroristici o politici" ma "si tratterebbe di un atto criminale". Oggi alle 13 la salma arriverà a Roma. Vogliamo la piena verità sulla scomparsa di Giulio Regeni. Le autorità egiziane hanno già messo in moto la macchina dell’oblio sulla tragica vicenda del dottorando italiano, trovato morto al Cairo nel quartiere di 6 ottobre mercoledì scorso. Sono bastate le prime ricostruzioni del Capo dipartimento per le indagini generali del governatorato di Giza, Khaled Shalaby, per giustificare le ricostruzioni che hanno legittimato la pista dell’incidente stradale. Le rivelazioni che erano emerse da una prima indagine sul corpo del dottorando friulano, effettuate dal procuratore Ahmad Nagi nell’obitorio Zeinum di Sayeda Zeinab, nel centro del Cairo, avevano fatto emergere particolari inquietanti. La stampa locale ha fatto riferimento ad un "corpo bruciato" a cui si erano aggiunte le atroci rivelazioni su segni di tortura e maltrattamenti. Questo quadro fa pensare senza dubbio ad un coinvolgimento della polizia nel fermo, scomparsa e uccisione di Giulio. Un team di investigatori italiani seguirà le indagine al Cairo per stabilire la verità sul caso. Gli investigatori hanno fatto sapere che sarà effettuato un esame tossicologico sul corpo del giovane. Il pm Sergio Colaiocco aveva ipotizzato il reato di omicidio volontario e avviato una rogatoria internazionale per avere dalle autorità egiziane copia degli atti compiuti dal momento del ritrovamento della salma. Ma qui si impongono domande necessarie che sarà importante demandare all’equipe di medici che effettueranno l’autopsia italiana una volta che la salma sarà in Italia oggi alle 13. Per esempio, quando è stato ucciso Giulio? Subito dopo la scomparsa o qualche giorno dopo? Già questo potrebbe dare un’indicazione più precisa sulle cause della morte. A quel punto bisognerebbe capire se i tagli sul corpo sono i segni di una detenzione prolungata. E quindi come è morto Giulio? Alcune ricostruzioni hanno parlato di un violento colpo alla testa. Anche queste sono prove compatibili con le molestie che centinaia di persone comuni subiscono quotidianamente nelle carceri egiziane. E poi ovviamente la domanda più importante è chi ha ucciso Giulio e perché lo ha fatto? Non ci sono legami certi tra la ricerca sul sindacalismo indipendente e le cause della scomparsa. Eppure poche ore dopo la diffusione della notizia della sua sparizione, il quotidiano filo-governativo al-Ahram aveva già diffuso un identikit del giovane e degli ambienti che frequentava. Fonti di polizia in Egitto hanno riferito di due arresti legati al caso Regeni. Una nota degli inquirenti ha escluso che l’omicidio Regeni abbia riferimenti "terroristici o politici" ma "si tratterebbe di un atto criminale". Anche la pista della rapina finita male o dell’atto di criminalità comune sembrano un’offesa grave per la memoria di Giulio. La data del 25 gennaio è già di per sé un elemento chiaro che rende evidente la pista dell’arresto. Il dispiegamento di forze dell’ordine e la tensione era alle stelle a causa delle possibili manifestazioni. E poi Giulio, solo perché straniero, era già passibile di fermi della polizia. Lo spiega bene su Twitter l’attivista Mona Seif, moglie di Alaa Abdel Fattah, socialista in prigione per le sue campagne contro i processi militari civili e il suo impegno anti-regime, più volte intervistato dal manifesto. "Se siete stranieri per favore non venite in Egitto. Almeno non adesso. Finché non saremo capaci di darvi un minimo di sicurezza e un trattamento adeguato da parte della popolazione e delle autorità", ha scritto Mona (v. a pagina 3 il testo integrale dell’appello). L’attivista fa riferimento proprio al clima di xenofobia instillato negli egiziani e che sarebbe alla base degli interventi sommari della polizia. Un primo piccolo funerale egiziano si è svolto al Cairo prima della partenza della salma. È possibile che si tenga una veglia funebre a Roma nelle prossime ore. Anche i social network si sono mobilitati per una dimostrazione di solidarietà nei confronti di Giulio Regeni chiedendo a compagni e amici di portare dei fiori ai cancelli dell’ambasciata egiziana a Roma in segno di solidarietà con il giovane. Il noto fumettista Carlos Latuff ha voluto ricordare Giulio rappresentandolo abbandonato in una pozza di sangue, assieme ad altri corpi esanimi, in un veicolo della polizia egiziana: "Un’altra vittima del regime di terrore di al-Sisi". Il dolore e gli avvoltoi di Norma Rangeri Il Manifesto, 6 febbraio 2016 Tutto il manifesto in questo momento è accanto alla famiglia di Giulio Regeni, per condividere con i genitori il dolore di chi ha perso un figlio nel modo più crudele e violento. Un ragazzo che li rendeva orgogliosi perché studiava e univa l’impegno civile al suo lavoro di ricercatore. Una giovane persona curiosa del mondo, attenta ai problemi sociali di un paese dove il dissenso non solo non viene tollerato ma è selvaggiamente represso con il carcere, le sparizioni, le uccisioni. Della sua profonda passione e della forte partecipazione alle vicende di quel paese è del resto piena testimonianza l’articolo che ieri abbiamo pubblicato sul nostro sito, e poi sul giornale. È il racconto, preciso e appassionato, di un’assemblea sindacale. Giulio spiega la difficoltà dei lavoratori del settore pubblico, la mancanza di democrazia nell’organizzazione del sindacato egiziano, e la fatica di opporsi al programma di privatizzazioni iniziato ai tempi di Mubarak in un paese ormai martoriato dalla repressione feroce di un regime sanguinario. Nel suo reportage si approfondisce l’analisi sociale e se ne ricava il giudizio politico, con la consapevolezza che tutto, libertà, lavoro e diritti, viene oggi giustificato, in quel paese, dalla guerra al terrorismo. E forse, leggendolo, la polemica nata attorno all’affrettata diffida scritta a nome della famiglia, potrà stemperarsi e trovare nella concitazione di quelle ore terribili, la sua unica, comprensibile spiegazione. Ma nulla, purtroppo, può sfamare gli avvoltoi che hanno infierito in queste ore su Giulio Regeni. Quegli avvoltoi che vivono nella Rete e che lo hanno arruolato nei servizi segreti italiani coprendo la sua vita di fango, come a giustificare la sua morte. Purtroppo a questi bassifondi dell’informazione siamo abituati perché, come abbiamo scritto, siamo un giornale di frontiera che ha già vissuto sulle sue povere ma robuste spalle altri drammi e tragedie, sempre e solo legate all’impegno politico e giornalistico, al dovere di testimoniare. E così è stato anche nella terribile vicenda di questo ragazzo che aveva appena iniziato a scrivere per noi perché considerava "un piacere poter pubblicare sul manifesto", considerandolo "il giornale di riferimento in Italia", come scriveva nelle mail. Oggi il suo corpo viene restituito al nostro paese. E mentre cominciano a emergere particolari sulle torture subite, il dittatore egiziano si mostra cortese e comprensivo verso il governo italiano messo nel grave imbarazzo di ritrovarsi il cadavere di un giovane italiano mentre discute di affari con il nostro ministro dello Sviluppo economico. L’incidente va archiviato, magari con la punizione esemplare di qualche poliziotto (si parla di due arresti). Uno di quelli indicati da Mona Seif, nota attivista dei diritti umani, autrice di un appello agli stranieri di non recarsi in questo momento nel suo paese dove "qualsiasi poliziotto di qualsiasi grado si sente in diritto di detenere e magari torturare chiunque cammini per strada". Il caso Regeni va dunque risolto il più rapidamente possibile, così da riprendere presto le normali, anzi, le privilegiate, relazioni tra l’Egitto e l’Italia. Un punto fermo della nostra politica internazionale, una corsia preferenziale sullo scacchiere mediorientale, specialmente in vista di probabili, ravvicinati interventi militari in Libia, con il dittatore Al-Sisi schierato dalla parte giusta. Si chiama real-politik. Giulio Regeni, la seconda morte di Alain Gresh (Direttore del giornale online OrientXXI.info) Il Manifesto, 6 febbraio 2016 Il corpo di Giulio Regeni, giovane studente residente al Cairo per un dottorato di ricerca, è stato ritrovato in Egitto. Le autorità, come se volessero coprire la verità, hanno fornito versioni contrastanti sulla sua morte. Il procuratore ha dichiarato che il corpo recava tracce di torture, mentre il ministero dell’interno ha sostenuto che era morto per un incidente d’auto. In Egitto, è spesso impossibile conoscere la verità e le autorità pretendono ancora che l’aereo russo che s’è schiantato in Sinai il 31 ottobre sia rimasto vittima di un guasto tecnico e non di un attentato terroristico. Menzogne che hanno spinto Mosca a interrompere da allora tutti i voli verso l’Egitto, nonostante le eccellenti relazioni che legano Abdel Fattah al-Sisi al presidente Vladimir Putin. Regeni è scomparso il 25 gennaio, data del quinto anniversario della rivolta in Egitto. Seguiva da vicino gli avvenimenti successivi al colpo di Stato del 3 luglio 2013, e aveva anche inviato qualche articolo sotto pseudonimo per il manifesto. Quel giorno, il paese era in stato d’assedio, tanta era la paura delle autorità di vedere nuovamente la popolazione scendere in piazza. Regeni è incappato in un controllo casuale? È rimasto vittima degli squadroni della morte che fanno scomparire i militanti egiziani? È ancora troppo presto per dirlo, ma la sua morte ricorda all’Italia e all’Europa che ci sono ancora migliaia di prigionieri politici in Egitto, che la tortura è pratica quotidiana, che la polizia può agire in totale impunità, che si è tornati a una repressione ancora più brutale che ai tempi di Hosni Mubarak. Una morte che torna a porre la questione della cooperazione tra Roma, Bruxelles e il Cairo. In uno strano comunicato della presidenza egiziana, che ha dato conto di una conversazione tra al-Sisi e Matteo Renzi, c’era un breve accenno alle condoglianze, ma l’essenziale riguardava la cooperazione tra i due paesi e la necessità di svilupparla. L’Italia si accinge a voltare la pagina Regeni e ad ammazzare una seconda volta lo studente calcolando la sua scomparsa tra i costi e i ricavi in nome della realpolitik? Renzi è stato uno dei primi dirigenti europei (insieme a François Hollande) a ricevere al-Sisi dopo il suo colpo di Stato, del 3 luglio. Ha salutato il "partenariato strategico" tra l’Italia e l’Egitto. Nel 2015, ha affermato che il presidente al-Sisi era "un grande dirigente" e che l’Egitto "sarà salvato solo dalla leadership di al-Sisi" del quale si è dichiarato "fiero di essere amico". Più che mai, mentre si avvertono nuovi venti di guerra in Libia, e mentre la formazione del governo d’unità nazionale libico non sembra avere altro obiettivo che quello di giustificare un intervento internazionale, occorre interrogarsi. Cosa andranno a fare la Francia, l’Italia, l’Unione europea in questo paese a fianco dell’Egitto? L’esperienza degli interventi stranieri come quello contro l’Iraq nel 2003 fino a quello in Libia nel 2011 hanno avuto come conseguenze solo quelle di rafforzare i gruppi più radicali della regione, di aggravarne il caos. E pensiamo davvero che sia collaborando con il presidente al-Sisi che si stabilirà un ordine più giusto in Libia? Francia: stato d’emergenza nell’aula vuota di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 6 febbraio 2016 Valls presenta all’Assemblea la riforma di fronte a un’Assemblea mezza vuota. Il governo vuole la costituzionalizzazione dello stato d’emergenza e della privazione della nazionalità per i terroristi. Ma il percorso potrebbe arenarsi prima della fine, tra polemiche a sinistra e divisioni a destra. Duflot evoca Vichy. Parla lo storico Benjamin Stora: non ci sono più strumenti di integrazione. Intervista allo storico Benjamin Stora: "Si saldano una storia nazionale antica, un’angoscia verso i migranti che dura dal XIX secolo e l’angoscia nuova di un paese che sa di non essere più una grande potenza". La revisione costituzionale è arrivata all’Assemblea nazionale, il voto dei deputati - dall’esito incerto - è previsto per mercoledì 10. Manuel Valls ha presentato ieri mattina i termini della riforma della Costituzione proposta dal governo, in due articoli: lo stato d’emergenza sarà inserito nella Carta e i responsabili di "crimini o reati contro la vita della nazione" potranno venire privati della nazionalità, su decisione del giudice. Paradossalmente, il primo ministro ha parlato di fronte a un’Assemblea quasi vuota - non più di 150 deputati su 577 - malgrado le polemiche delle ultime sei settimane, le dimissioni della ministra della Giustizia Christiane Taubira e le profonde divisioni che si sono manifestate, non solo a sinistra ma anche a destra. Tanto che il governo non ha nessuna certezza di poter portare a termine questa riforma eminentemente simbolica, che per passare deve venire approvata dai tre quinti del Congresso (Assemblea e Senato riuniti), su un testo passato precedentemente in termini identici nelle due camere. In via di principio, questa procedura può durare all’infinito o, molto più probabilmente, insabbiarsi sotto il peso degli emendamenti. La costituzionalizzazione dello stato d’emergenza è meno controversa, nelle intenzioni di Valls, che ha ripreso la tesi dello storico Pierre Rosanvallon, l’inserimento nella Carta ne "subordina l’applicazione al diritto" (propone la possibilità di dichiarare lo stato d’emergenza per 4 mesi, rinnovabili). Solleva invece una forte resistenza la costituzionalizzazione della privazione di nazionalità per i condannati per terrorismo. Ieri, in aula la Verde Cécile Duflot ha evocato Vichy e "l’utilizzazione massiccia" che ne aveva fatto questo regime. Per evitare lo scoglio della punizione riservata solo ai bi-nazionali, Valls ha precisato che la misura riguarderà tutti i terroristi, "qualunque sia l’origine della loro appartenenza alla nazione". Ma un decreto di applicazione dovrà chiarire come farà la Francia ad evitare di creare degli apolidi, situazione esclusa dalle convenzioni internazionali del dopo-guerra (Duflot ha ricordato le riflessioni di Hannah Arendt su questo tema). La tensione è estrema. Il dibattito sulla privazione della nazionalità solleva in termini drammatici la questione dell’identità, diventata una vera e propria ossessione in Francia in questo periodo, caratterizzato dalla crescita elettorale del Fronte nazionale. Per capire le origini di questo irrigidimento identitario, chiediamo allo storico Benjamin Stora, grande specialista della storia d’Algeria e del colonialismo, professore a Paris XIII e presidente del Museo nazionale di storia dell’immigrazione (che ha appena pubblicato con lo scrittore Alexis Jenni, Les Mémoires dangereuses, ed. Albin Michel), quali sono le radici di questa ossessione. "Si trovano nella storia francese e nel processo migratorio - dice Stora. La Francia è il paese che ha avuto le maggiori ondate migratorie, dal XIX secolo. Italiani, polacchi, spagnoli, portoghesi, poi persone provenienti dalle ex colonie, dal Maghreb, dall’Africa sub-sahariana: in Francia milioni di persone sono discendenti di immigrati. Fino ad un certo punto, c’è stata la sensazione che le differenti ondate potessero integrarsi in una narrazione nazionale continua. Ma oggi è diffusa l’idea che questa narrazione sia bloccata. Che le ultime ondate non riescano a integrarsi. A causa dell’islam, il rapporto all’alterità diventa radicale, sembra insormontabile". "C’è così una congiunzione - prosegue lo storico - tra una storia nazionale antica, tra una vecchia angoscia verso l’immigrazione che dura dal XIX secolo e un’angoscia nuova, nella misura in cui la Francia ha il sentimento di non essere più una grande potenza, in relazione all’impero coloniale. A torto o a ragione, si diffonde l’idea di declino, aggravata dalla crisi, della disoccupazione ecc. Gli altri paesi europei non hanno vissuto questo, non hanno un’analoga storia di immigrazione. Ma la Francia non ha voluto assumere la propria storia migratoria, anche se deve in parte la sua potenza proprio ad essa. Si è così accumulato un ritardo, di 3, 4, 5 generazioni". Assistiamo a una concorrenza delle memorie, che aggrava le tensioni? "Sì, prima, le diverse memorie, sotto la narrazione nazionale unificata, si manifestavano solo nello spazio privato. Oggi, invece, con la mondializzazione, le memorie private non bastano più e si manifestano nello spazio pubblico, crescono le rivendicazioni relative all’origine e alla multi-appartenenza. Ma per la Francia, che si era basata sul principio dell’assimilazione, è una nozione nuova". La frattura comunitaria ha preso il sopravvento su quella sociale perché non ci sono più strumenti forti per esprimerla, come i partiti o i sindacati? "Partiti, sindacati, movimenti associativi sono in crisi, sono crollati e non sono più strumenti per la costruzione di una narrazione comune. Si chiede alla scuola di sostituirsi alla valenza politica, ma la scuola non può fare tutto, integrazione e formazione. Appare così in primo piano la frattura etnica. Si dà il caso che queste persone appartengano anche alle classi sociali più povere, ma mancano gli strumenti di integrazione. In mancanza di strumenti di protesta sociale, la frattura si esprime in termini etnici, religiosi". Il Papa in Messico tra detenuti, nativi e migranti di Denise Faticante La Presse, 6 febbraio 2016 Per Jorge Mario Bergoglio sarà la terza visita in Messico e ovviamente la prima da Pontefice. Ancora una volta con gli ultimi. Il 12 febbraio Papa Francesco andrà in Messico dove incontrerà in Chapas i nativi, i detenuti, le famiglie delle vittime dei narcos e celebrerà messa vicino alle rete che divide il Messico con gli Sati Uniti. Per Jorge Mario Bergoglio sarà la terza visita in Messico e ovviamente la prima da Pontefice, che seguirà le cinque compiute da Giovanni Paolo II e quella più recente di Benedetto XVI. Ad affiancare il Papa saranno, fra gli altri, il cardinale Pietro Parolin segretario di Stato vaticano. Francesco volerà all’andata con un aereo Alitalia che lo porterà prima da Roma all’Avana e poi dalla capitale cubana a Città del Messico, mentre al ritorno in Italia volerà con un aereo della linea Aero Mexico. Saranno cinque le papamobili che userà il Pontefice nei suoi viaggi nelle diverse città, con diversi spostamenti anche in elicottero. "Nessuna preoccupazione per la sicurezza -assicura padre Federico Lombardi portavoce del Vaticano- tutti in Messico vogliono bene al Papa e nessuno intende minacciarlo. I problemi di violenza che purtroppo sono presenti nel Paese riguardano questioni interne messicane, che nulla hanno a che vedere con la visita apostolica di Papa Francesco". Le tappe più importanti del viaggio sono: il 15 febbraio, quando Bergoglio sarà in Chapas e in particolare San Cristóbal de Las Casas, al sud del paese. Qui celebra messa nel centro sportivo municipale, messa che avrà canti e letture nelle tre lingue indigene locali, e alle 13 pranzerà "con rappresentanti di indigeni" e con il seguito papale. Il 17, invece, il pontefice andrà a Ciudad Juarez. Verrà celebrata messa nell’area fieristica su di un palco che si trova ad appena 80 metri dalla frontiera con gli Stati Uniti, segnata da una rete metallica, luogo di tentato transito di migliaia di migranti verso gli Usa. E mentre la maggior parte dei fedeli (si stima almeno 200 mila persone) assisterà alla messa nell’area della fiera, quindi in territorio messicano, ce ne saranno altri 50 mila circa che la seguiranno dall’altra parte della rete, dal versante Usa, nel territorio di El Paso. Nell’avvicinarsi al luogo della messa, giungendovi in "papamobile" aperta, il Pontefice passerà accanto al confine, salutando le persone al di là della rete. Sarà quindi una messa, nelle intenzioni di Bergoglio, celebrata praticamente sulla frontiera, visibile da entrambe le parti. Anche ai fedeli oltre il confine verrà distribuita la comunione. Stati Uniti: il Pentagono pubblica le foto delle torture sui detenuti dell’era Bush Askanews, 6 febbraio 2016 Obbligato da un tribunale dopo una battaglia legale di non profit. Il Pentagono è stato costretto a pubblicare circa 200 foto di detenuti vittime di torture e abusi nelle carceri statunitensi in Iraq, Afghanistan e (forse) Guantánamo. Si tratta dell’esito di una battaglia legale che dura da più di dieci anni. È dall’ottobre del 2003 infatti che l’associazione American Civil Liberties Union lotta per la pubblicazione delle foto delle torture attuate nelle prigioni americane in Medio Oriente nel corso dell’era Bush. E per quanto si dica felice di questa vittoria, l’associazione ha comunque annunciato di voler proseguire nella sua battaglia per la divulgazione di altre 1.800 immagini, che il Pentagono si ostina a mantenere segrete. Già a novembre scorso, il segretario alla Difesa, Ashton Carter, aveva aperto la strada alla pubblicazione di 198 fotografie, dopo che due dei suoi predecessori, Leon Panetta e Robert Gates, si erano rifiutati di divulgarle. Ciononostante l’American Liberties Civil Union aveva criticato quel rilascio come "insufficiente e arbitrario", attaccando apertamente l’amministrazione Obama. D’altronde, i rapporti tra l’associazione e il 44esimo presidente non sono mai stati idilliaci. Soprattutto da quando, nel maggio del 2009, l’attuale commander in chief vietò che le foto compromettenti dei torturati venissero pubblicate, per evitare di provocare sentimenti anti-americani. Pochi mesi dopo il Congresso approvò il Protected National Security Documents Act. Il provvedimento consentiva la distruzione delle foto dei torturati durante l’era Bush, a meno che il segretario alla Difesa non fosse in grado di garantire che la loro eventuale divulgazione non comportasse pericoli per le truppe americane. Nel 2014, la svolta. Una sentenza federale obbligò il Pentagono a individuare le immagini dannose per la sicurezza nazionale, attraverso adeguate motivazioni. Secondo il giudice, non tutte le foto avrebbero difatti costituito un pericolo per gli Stati Uniti, contraddicendo platealmente quanto sostenuto dai due precedenti segretari alla Difesa, Gates e Panetta, appunti. Ma la battaglia legale continua. Il 19 febbraio, la prossima udienza. Il gruppo ha citato il caso di Eric Garner, l’afroamericano morto per soffocamento a New York dopo che un poliziotto lo aveva atterrato con la presa al collo. Il video circolò molto sui social media e diede il via a proteste in tutti gli Stati Uniti. "Crediamo che le foto, quando vengono pubblicate, possano avere la capacità di fare lo stesso nei casi di abusi contro i detenuti, e credo che anche il Pentagono lo sappia", ha detto al Guardian Alex Abdo, avvocato della non profit. Medio Oriente: libertà per il giornalista palestinese Mohammed al Qeeq di Raffaella Del Deo (Associazione Oltre il Mare Onlus) Brescia Oggi, 6 febbraio 2016 Il giornalista palestinese Mohammed al Qeeq è in gravissime condizioni di salute perché ha avuto il coraggio - un dovere etico, ha sottolineato a sua moglie prima di entrare in coma, senza il rispetto del quale non avrebbe potuto perdonarsi per tutta la vita un diverso modo di fare giornalismo - di denunciare ai media la repressione che il suo popolo è costretto a subire da decenni per mano della macchina repressiva e brutale dello Stato di Israele, che lo ha arrestato il 21 novembre scorso per incitamento a media. Mohammed al - Qeeq, 33 anni, è in sciopero della fame dal 25 novembre per protestare contro le torture cui è stato sottoposto e contro la sua detenzione amministrativa. Reporter per il canale tv Al-Majd e padre di due figli, è uno dei 19 giornalisti palestinesi tra i 660 detenuti senza accusa né processo. La detenzione amministrativa consente di incarcerare i palestinesi che vivono sotto occupazione militare fino a sei mesi, rinnovabili a tempo indeterminato. Secondo il diritto internazionale, la detenzione amministrativa è consentita solo in circostanze eccezionali e la comunità internazionale e le organizzazioni per i diritti umani ne condannano l’uso eccessivo da parte israeliana. Al-Qeeq dopo l’arresto è stato portato al carcere di al-Jalame, nel nord della Cisgiordania - noto come uno dei peggiori centri di detenzione - dove è stato interrogato per 25 giorni, fino a 15 ore al giorno, legato a una sedia e con gli occhi bendati, costretto a subire torture fisiche e psicologiche. La famiglia ha chiesto i permessi per fargli visita attraverso la Croce Rossa, ma le richieste sono state tutte respinte. In una dichiarazione pubblica rilasciata attraverso il suo avvocato Al-Qeeq ha detto che "i giornalisti palestinesi sono sempre stati in prima linea e stanno vivendo la detenzione forzata e abusiva perché sono la voce della coscienza umana esponendo i crimini e le pratiche oppressive dell’occupazione israeliana contro il popolo palestinese. I giornalisti palestinesi, tra cui il sottoscritto, stanno pagando il pedaggio di una politica israeliana razzista". Lo sciopero della fame per i palestinesi è una battaglia molto importante. E la famiglia lo appoggia pienamente, e comprende il suo punto di vista: "Non ci piace la fame e non ci piace la morte, ma diventa una questione di dignità, e questa è la storia di ogni palestinese". Al-Qeeq ha firmato un documento in cui rifiuta qualsiasi trattamento medico. In condizioni critiche, è incatenato al suo letto d’ospedale. Ha scritto le sue volontà, chiedendo di vedere la moglie e i figli e di essere sepolto nella tomba di sua madre, se dovesse morire. Un bollettino medico denuncia uno stato di salute si è fortemente deteriorato e la perdita della capacità di parlare. Ci rivolgiamo al Ministero degli Esteri affinché eserciti l’autorità che gli compete per denunciare le violazioni dei diritti del popolo palestinese e perché si adoperi per il sostegno alla liberazione di Mohammed Al-Qeeq. Ci appelliamo anche ai colleghi giornalisti affinché diano risalto alla sua situazione e a quella dei numerosi detenuti politici e in detenzione amministrativa, rispettando il dovere etico che deve contraddistinguere la categoria e per il quale Mohammed sta rischiando la vita.