Stati generali dell’esecuzione penale, i volontari chiedono maggiore coinvolgimento Redattore Sociale, 5 febbraio 2016 Dopo la conclusione del lavoro dei Tavoli di studio, la Conferenza nazionale volontariato giustizia scrive al ministro Orlando chiedendo di avere accesso ai documenti definitivi e di essere coinvolti nel dibattito che si dovrà ora aprire nella società. Favero: poco spazio politico al volontariato. I volontari che operano all’interno e all’esterno del carcere e che si riconoscono nella Conferenza nazionale volontariato giustizia, scrivono al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ai componenti Comitato scientifico degli "Stati generali dell’esecuzione penale" e al coordinatore per chiedere di essere coinvolti "nel dibattito che si dovrebbe aprire nella società sui temi della giustizia, del carcere e del reinserimento", a conclusione della prima fase dei lavori degli esperti. L’organismo raccoglie più di 200 esperti provenienti dal mondo accademico, dalla magistratura, dal mondo forense, della cooperazione internazionale, del volontariato e dagli ambienti penitenziari; 18 i tavoli tematici, ognuno con un proprio coordinatore, che hanno concluso di recente la propria attività dopo mesi di ricerche, comparazioni con modelli e sistemi europei, sondaggi e questionari, rivolti sia alla popolazione detenuta che agli operatori degli istituti. Voluta dal ministro Orlando dopo la condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, l’iniziativa è stata varata a maggio ed ha lo scopo di ridisegnare la mappa dell’esecuzione penale italiana. I rapporti di medio termine degli Stati generali sono stati pubblicati sul sito del ministero ma è intorno ai risultati finali di questo lavoro che si concentra la richiesta della Conferenza, che rappresenta enti, associazioni e gruppi impegnati in esperienze di volontariato penitenziario. In una lettera aperta al ministro la Conferenza chiede di poter avere accesso al più presto ai documenti definitivi prodotti dai Tavoli di lavoro e di essere parte attiva nel momento in cui il dibattito sul futuro del carcere si sposta dal tavolo degli esperti alla società. "I lavori dei tavoli svolto agli Stati generali è pronto e contengono molte cose interessanti, un vero cambio culturale - spiega la presidente Ornella Favero, che fa parte di uno dei tavoli - Il problema è che è tutto fermo: abbiamo chiesto ripetutamente di mandarci i report finali che dovevano essere diffusi immediatamente dopo la chiusura dei lavori, cioè a fine dicembre, ma ancora non circolano. Abbiamo aspettato, fatto richiesta al comitato scientifico che attendeva il via libera del Ministro, che evidentemente non è ancora arrivato. Il problema è che i tempi sono stretti perché c’è in ballo la legge delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario. Ci piacerebbe poter diffondere questi materiali, portando il dibattito - come voleva il ministro - dentro la società: d’altra parte questo è un ruolo chiave del volontariato". "La Conferenza - si legge infatti nella lettera diffusa dalla Conferenza - ha apprezzato da subito la voglia di innovare e produrre una svolta culturale nell’esecuzione penale, che ha caratterizzato la sua scelta di indire gli Stati Generali, e ha però anche espresso fin dall’inizio il suo dissenso sulle modalità con cui il Volontariato era stato coinvolto all’interno dei 18 Tavoli. Ma nello stesso tempo, a lavori quasi conclusi, ritenevamo e riteniamo più importante dare il nostro apporto a questa seconda fase, di diffusione dei risultati dei Tavoli, di approfondimento e discussione all’interno della società, piuttosto che restare attaccati alla nostra insoddisfazione". Un’insoddisfazione tutta legata al ruolo del volontariato nella prima fase dei lavori negli Stati generali. "Dall’inizio abbiamo lamentato il fatto che il coinvolgimento del volontariato è stato "individuale". Io stessa - precisa Favero - ho partecipato a un tavolo come Ristretti Orizzonti e non come Conferenza nazionale volontariato e giustizia. Lo stesso è valso per i molti volontari nei tavoli. Il problema è che si esalta il ruolo del volontariato ma gli si dà poco spazio politico. La Conferenza è nata proprio per superare questo grosso limite, coordinare il volontariato e dargli più peso". Tuttavia chiarisce la presidente della Conferenza "anche se questo coinvolgimento non c’è stato, siamo disponibili adesso, per diffondere appunto i materiali, favorendo dibattito, ma non possiamo farlo se non vengono prima resi pubblici". "Lei sa bene, per averlo sottolineato più volte, che molte delle attuali opportunità (ancora troppo limitate) di occupare il tempo della pena in modo sensato e di costruire dei percorsi di reinserimento guidati e sostenuti sul territorio si devono ai volontari impegnati nelle carceri e nell’area penale esterna, volontari che si riconoscono nella Conferenza Nazionale - si legge ancora nel testo - È per questo che le chiediamo di essere realmente coinvolti nel dibattito che si dovrebbe aprire nella società sui temi della Giustizia, del carcere e del reinserimento, e di esserlo a partire dalla possibilità di leggere finalmente le relazioni conclusive degli Stati Generali, di discuterne e di portare il confronto su questi temi nelle carceri stesse e nella società". La Conferenza pensa ad esempio al progetto "A scuola di libertà", iniziativa grazie alla quale le associazioni ogni anno incontrano in carcere e nelle scuole migliaia di studenti e promuovono un lavoro di sensibilizzazione sulle pene e sul carcere nelle università, nei quartieri, nelle parrocchie. "Ci auguriamo che questo appello possa essere da Lei accolto - conclude l’appello - e che possa essere dato ascolto al più grande coordinamento che opera in questo campo a livello nazionale, superando la poca chiarezza che c’è stata nella fase iniziale dei lavori degli Stati Generali". Stati generali dell’esecuzione penale: il diritto all’affettività (seconda parte) di Barbara Alessandrini L’Opinione, 5 febbraio 2016 Territorializzazione, permessi, colloqui, telefonate e corrispondenza, diritti dei minori. Di "come assicurarli e migliorarne l’effettività (in molti casi assente) si è occupato il tavolo dedicato all’esercizio dell’affettività del detenuto e coordinato da Rita Bernardini nel corso del semestre degli Stati generali sull’esecuzione penale voluto dal ministro Andrea Orlando. Non è necessario invocare il pessimismo della ragione per considerare alto il rischio che sotto le spinte populistiche la confusione tra garantismo ed impunità finisca per fiaccare e minare il tentativo di riconoscere nell’esercizio dell’affettività un diritto fondamentale. A distanza di quarant’anni dalla riforma penitenziaria migliorare la fisionomia del carcere resta uno sforzo titanico in un Paese in cui opinione pubblica e politica sono tuttora ancorate a spinte giustizialiste e repressive, incoraggiate dagli episodi di cronaca amplificati dai media, e all’esigenza di individuare presidi simbolici di sicurezza collettiva. Un humus che "ingabbia" il carcere trasformandolo in un luogo altro rispetto al consesso civile destinato alla mera punizione e all’esercizio della vendetta. E rende ostico far attecchire nell’opinione pubblica la consapevolezza della necessità che chi è ristretto abbia diritto ad espiare la propria pena in condizioni umane favorevoli al proprio ripensamento e reinserimento sociale. Sarebbe opportuno pretendere l’impegno degli organi di informazione di parlare delle ricadute positive che un’esecuzione penale umana e "responsabilizzante" ha sul piano della sicurezza. Come testimoniato da molti studi statistici e criminologici, la percentuale di recidiva cala con l’espiazione non carceraria della pena o una detenzione rispettosa della dignità e non "infantilizzante" e salta agli occhi la relazione virtuosa in Francia e Germania tra la scarsa indulgenza dell’informazione sulla cronaca nera, il ricorso a misure alternative o comunque rispettose della dignità umana e l’incidenza minima della recidiva mentre in Italia il 58 per cento delle notizie riguardano la criminalità, il carcere finisce per essere "duro" per tutti e vi è scarso ricorso a misure alternative. Sfidando apertamente questo clima culturale il moloch delle esigenze securitarie il tavolo sull’affettività ha elaborato proposte ed orientamenti senza mai discostarsi dal dettato costituzionale né dalla cornice giurisprudenziale europea e richiamando lo stesso ordinamento penitenziario che, ad esempio, sul principio di territorializzazione, prevede che la pena debba essere scontata più vicino possibile alla famiglia e che possa indicare il luogo di trasferimento. L’opposto di quanto avviene con gli attuali continui trasferimenti, ingiustificabili se non per far quadrare la mera contabilità di rapporto tra spazio e numero della popolazione carceraria. Attualmente i detenuti che si trovano in istituti lontano dalle famiglie sono il 33 per cento. Spesso gli spostamenti per le famiglie comportano costi o sono impediti dalla presenza di disabili con ovvio sradicamento (anche linguistico) del detenuto dal proprio territorio, dal racconto della vita familiare, dal personale di sorveglianza oltre che da psicologi e assistenti sociali e volontari che ne seguono il percorso di ripensamento individuale e riprogettazione. Territorialità significa anche impedire la perdita di ruolo dei detenuti a danno soprattutto de i minori e delle donne che vengono amputate della loro centralità nella famiglia e favorire il reinserimento del detenuto. Dunque ove impossibile il rientro negli istituti di appartenenza, peraltro giustificati dalla deflazione, si propone il collegamento audio e video con tecnologia digitale e che i detenuti lontani 300 chilometri dalla famiglia siano assegnati un mese in un istituto della propria regione. Sul capitolo permessi si propone, riagganciandosi a proposte già avanzate in giurisprudenza e ad alcuni ddl passati, di aggiungere ai permessi premio e per eventi familiari di particolari gravità il requisito di "particolare rilevanza" consentendo la presenza nei momenti importanti della vita dei figli e durante le festività, a tutela delle relazioni con i minori. Prevista anche la possibilità di aggiungere agli eventi familiari rilevanti quelli di "rilevanza trattamentale" per i condannati che ne beneficerebbero per il percorso rieducativo ma preclusi e per detenuti ostativi. Riconosciuto quello all’affettività come diritto fondamentale, si è pensato di introdurre una fattispecie nuova, il "permesso di affettività", di durata e cadenza da definire per garantire le relazioni affettive anche intime e sessuali. L’intenzione è di comprendere anche alcuni condannati all’ergastolo dopo l’espiazione di almeno cinque anni e a quelli sotto articolo 4 ter e quater dell’Op, solo dopo l’espiazione di un terzo della pena e sotto il vincolo della valutazione della condotta. L’orientamento del tavolo anche su questo punto qualificante è ancorato ad alcuni cardini della dottrina costituzionale (sentenza della Consulta del 2012 e del 1999) e a raccomandazioni del parlamento europeo (2006) approvate dal Cdm del consiglio d’Europa. Intimità fuori dal carcere ma anche dentro, attraverso l’inserimento nell’Op del nuovo istituto giuridico della "visita" (che si aggiungerebbe a quelli visivi, alla presenza di altri detenuti e con la sorveglianza del personale di sicurezza), da svolgere in apposite unità abitative per consentire l’intimità senza controllo visivo o auditivo (un minimo di quattro ore a visita ogni due mesi). L’ostacolo principale non sarà tanto, come confermato dai questionari inviati agli istituti carcerari, la carenza di disponibilità di spazi interni ma quanto questa misura, sperimentata in altri paesi, si trasformerà in un macigno lanciato nelle ansiogene acque del populismo penale. Infine, sul fronte corrispondenza viene richiesto l’ampliamento del servizio di posta elettronica già in uso in alcune carceri e l’equiparazione del collegamento Skype alle chiamate telefoniche, oltre a venti minuti del tempo a telefonata con possibilità di frazionare le chiamate nella settimana con schede prepagate. Infine la richiesta di eliminare il diverso numero di colloqui e telefonate a detenuti, imputati e condannati ex 4 bis. Una discriminazione in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione, con l’impianto dell’Op e con le regole penitenziarie europee fissate nel 2006 estranea al mantenimento dell’ordine e della sicurezza. Depenalizzazione, da domani cancellati i reati "minori" di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 febbraio 2016 Diventa operativa da domani l’intera manovra sulla depenalizzazione. E il massimario della Cassazione, all’interno di una densa analisi dei due decreti legislativi in cui prende corpo l’intervento, ne mette in luce alcuni snodi problematici. Circa una quarantina i reati coinvolti, con un impatto in termini di minori carichi di lavoro per le procure e i tribunali ancora difficile da valutare, ma che comunque potrà essere significativo. Intanto dalla Corte di cassazione l’Ufficio del massimario penale ricorda gli effetti paradossali cui potrebbe dare vita l’intreccio di depenalizzazione e tenuità del fatto. Due interventi che puntano a ridurre l’area penale, evitando di dare seguito alle condotte di nullo allarme sociale, ma che si prestano a criticità per la coesistenza tra il fatto ritenuto non più di interesse penale, ma sanzionato sul piano amministrativo, e quello in astratto più grave e ancora oggetto di una tipizzazione penale, ma non più punito se ritenuto inoffensivo. L’effetto che in concreto può presentarsi, osserva il massimario, è che il soggetto, autore di un determinato fatto, adesso oggetto di depenalizzazione, se prima di quest’ultima poteva beneficare della causa di non punibilità, adesso rimane colpito da una sanzione amministrativa di carattere afflittivo. Uno dei cardini è rappresentato dalla esclusione da rilevanza penale dei reati sanzionati con la sola pena pecuniaria, con la conservazione però di peso penale della fattispecie aggravata quando punita con la detenzione. In quest’ultimo caso, allora, le ipotesi aggravate sono da considerare fattispecie autonome proprio per il venire meno della natura penale di quella base. Tuttavia, una volta risolta, per effetto della espressa qualificazione normativa, la questione della natura delle "nuove" fattispecie, il passaggio da elemento circostanziale ad elemento costitutivo del reato, osserva il massimario, può incidere: sul regime di imputazione, passando da quello stabilito dall’articolo 59 commi 1 e 2 Codice penale (tendenziale necessità almeno della colpa, se si tratta di aggravanti; tendenziale sufficienza della loro oggettiva presenza, se si tratta di attenuanti), a quello dell’articolo 42 comma 2 (per i quali è di regola necessario il dolo, salva espressa previsione della colpa); sul luogo e sul tempo del reato, e dunque sulla individuazione del momento di consumazione e del dies a quo, nella prescrizione; sul regime di contestazione all’imputato, diverso da quello previsto per gli elementi costitutivi; sulla disciplina del concorso di persone nel reato. Altro elemento sottolineato dall’ufficio del Massimario è la disciplina della fattispecie aggravata fondata sulla reiterazione dell’illecito depenalizzato. Il decreto legislativo n. 7 prevede che quando i reati trasformati in illeciti amministrativi prevedono ipotesi aggravate fondate sulla recidiva ed escluse dalla depenalizzazione, per recidi deve essere intesa la reiterazione dell’illecito depenalizzato. Formulazione però che al Massimario non appare del tutto immune da dubbi di costituzionalità "per effetto della costruzione di un reato il cui elemento oggettivo consiste, nella sostanza, in un mero illecito amministrativo, sia pure ripetuto". Dubbi che potrebbero essere superati solo nel segno di una nozione più fluida e sostanziale della natura penale di una disposizione, alla luce di quanto elaborato sia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sia dalla Corte di giustizia europea. Inoltre andrà valutato perimetro e natura della reiterazione per capire se deve valere il riferimento alla nozione di reiterazione introdotta nel 1981 dalla legge 689, per la quale la reiterazione scatta quando nei 5 anni successivi alla commissione di una violazione amministrativa, lo stesso soggetto commette una violazione della stessa indole. E ancora interrogativi sono sollevati sul potere del giudice penale di escludere la reiterazione, se messo di fronte a un secondo illecito amministrativo, riconducibile, nel suo giudizio, a una programmazione unitaria con un primo illecito già accertato e sanzionato. Così "nel silenzio legislativo, potrebbero dunque sorgere conflitti interpretativi sulla sussistenza di una matrice unitaria ed omogenea delle violazioni (...) difficilmente potendosi ipotizzare, peraltro, che il giudice penale sia privato, in omaggio ad un dato meramente formale quale quello del precedente accertamento amministrativo, del potere/dovere di verificare l’esistenza stessa di un illecito amministrativo "reiterato". "Questa antimafia non funziona più". Intervista con Orlando, ministro della Giustizia di Claudio Cerasa Il Foglio, 5 febbraio 2016 "L’affollamento delle carceri? Emergenza finita. Csm? Riforma in arrivo. La legge sulle intercettazioni? Entro la primavera. E su Md e il referendum". "Direttore, scusi, ma il suo era davvero un pezzo parecchio stronzo". Due giorni fa questo giornale ha dedicato al ministro Andrea Orlando un articolo in prima pagina per spiegare le ragioni per cui il discorso pronunciato qualche giorno fa a Palermo durante l’inaugurazione dell’Anno giudiziario da molti punti di vista era debole e inutilmente ottimista rispetto al futuro del mondo della giustizia italiano. Il Foglio ha contestato a Orlando la scelta di affermare, con troppo ottimismo, che in Italia "non vi è più una questione giustizia che ricapitoli in maniera quasi paradigmatica il senso della crisi che il paese attraversa" e ha notato che sul piano della riforma del processo penale da molti punti di vista la vera rivoluzione non è quella che si sta materializzando in Parlamento ma è quella che si sta manifestando attraverso l’ascesa di una classe dirigente alternativa nel mondo della magistratura che ha portato alla ribalta, con il sostegno del Csm, una serie di magistrati controcorrente come il procuratore capo di Palermo, Lo Voi e la presidente della Corte d’appello di Firenze, Cassano. Lo Voi, nel corso dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario, ha denunciato con severità il mondo dei professionisti dell’antimafia, notando che in questi anni "c’è stata una certa rincorsa all’attribuzione del carattere di antimafia, all’auto-attribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di antimafiosità. Rincorsa che è servita anche a tentare di crearsi aree di intoccabilità, o magari a riscuotere consensi, a guadagnare posizioni, anche a fare affari e a bollare come inaccettabili eventuali dissensi o opinioni diverse…". Cassano, da parte sua, ha notato che nel mondo della magistratura vi sono "improprie forme di supplenza da parte degli organi di informazione mediante la celebrazione di pseudo processi mediatici che determinano un’impropria sovrapposizione tra la realtà e la dimensione virtuale, producendo un’innegabile assuefazione emotiva con conseguente annullamento di ogni forma di pietas (…) e calpestando la presunzione costituzionale di non colpevolezza e creando dei veri e propri mostri mediatici, vanificando il principio di pari dignità di ogni persona, solennemente affermato dall’articolo due della Costituzione". Possiamo dire davvero che il ministro Orlando sia in sintonia con questa nuova generazione di magistrati che ha cominciato a muoversi contro il pensiero unico manettaro? "Non userei quest’espressione ma le posso dire che mi ritrovo da molti punti di vista con le affermazioni della dottoressa Cassano e del dottor Lo Voi. Secondo lei è un caso che il ministro della Giustizia abbia scelto Palermo come sede per fare il suo punto sull’Anno giudiziario? Le rispondo io: certo che non è un caso. Vede: ho ascoltato con attenzione l’intervento di Lo Voi e sono convinto a tal punto che in Italia vi sia un problema urgente legato alla lotta alla mafia da aver convocato da qui a pochi mesi gli stati generali dell’antimafia non solo per fare un punto sullo stato della lotta contro la mafia ma anche per mettere a fuoco i molti problemi che stanno emergendo nell’antimafia, come ha già iniziato a fare la Commissione parlamentare. Alla luce di quello che è successo negli ultimi tempi, penso per esempio allo scandalo molto grave relativo alla gestione dei beni confiscati alla mafia, non faccio fatica a dire che per troppo tempo si è scelto, soprattutto a sinistra, di coprirci gli occhi di fronte a una sacralizzazione francamente fuori misura di alcuni ruoli. Per dirla in altri termini, l’assenza della politica ha creato un vuoto che la stessa politica ha accettato che fosse riempito dalla società civile e quel cortocircuito oggi lo stiamo toccando con mano. Per questo dico che è arrivato il momento per fare una riflessione critica sugli strumenti creati in questi anni per contrastare la mafia. L’Italia è all’avanguardia su questo campo e il mondo studia la bravura delle nostre forze dell’ordine e della nostra magistratura. Ma a maggior ragione è bene evitare che ci sia qualcuno che se ne approfitti. E proprio per questo la politica deve attrezzarsi per far che si che non si ripetano casi come quelli contestati alla dottoressa Saguto (l’ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, indagata per corruzione, abuso d’ufficio e riciclaggio dalla procura di Caltanissetta, ndr)". Sulle parole ci siamo, ministro, ma come può pensare che non vi sia più una questione giustizia in un paese in cui vi è una corrente della magistratura importante, come Md, che si schiera in un referendum? Come può pensare che non vi sia una questione giustizia importante in un paese che vive sotto la dittatura delle intercettazioni? Come può pensare che non vi sia una questione giustizia in un paese che crea ogni giorno orrendi mostri mediatici? "Il modo in cui lei usa le mie parole mi sembra fuorviante. Quando dico che non c’è più una questione giustizia non intendo affermare che non esistano più problemi legati alla giustizia ma intendo ribadire un concetto che mi sembra centrale: oggi non viviamo più all’interno di uno scontro senza confini tra politica e magistratura e in virtù di questo nuovo clima è possibile far emergere anche all’interno della magistratura delle voci diverse con le quali non faccio fatica a riconoscermi. Questo pone le condizioni per affrontare meglio quei nodi". Un paese in cui vi è una corrente della magistratura che si schiera contro il governo è un paese in cui vi è un clima migliore nei rapporti tra politica e magistratura? "Ho sempre sostenuto, e lo ribadisco oggi, che le correnti della magistratura, almeno nella loro funzione originale, sono un antidoto contro la sclerotizzazione della stessa magistratura e del nostro sistema giudiziario. E avere magistrati su posizioni diverse mi sembra sia un elemento di ricchezza del nostro sistema giudiziario. Magistratura democratica ha sempre partecipato al dibattito sull’assetto costituzionale. E questo ha dato respiro a quello interno alla magistratura. Si può discutere sulle forme in cui questa partecipazione avviene ma non mi soffermerei su questo. E dato che lei mi rimprovera di parlare molto e di agire poco le vorrei dire che sono i numeri che le danno torto". Non c’è più un’emergenza giustizia, ministro Orlando? "Capisco la sua provocazione, ma su molti aspetti l’emergenza non c’è più. Le cito due casi. Il primo riguarda il tema della custodia cautelare, a proposito di ingranaggi che rendono possibile il processo mediatico, il secondo riguarda il sovraffollamento carcerario. So che quando ci sono buone notizie i giornali tendono spesso a fischiettare ma le buone notizie ci sono e credo sia giusto metterle in rilievo. Primo punto: nel giro di due anni siamo passati dall’avere 11.500 persone in attesa di primo giudizio, in custodia cautelare, all’avere circa 8.500 persone in attesa di giudizio. Sono numeri che si possono ancora migliorare ma sono numeri che si spiegano grazie a una serie di riforme che governo e Parlamento hanno fatto in materia di custodia cautelare. Secondo punto: nel 2012, a fronte di una capienza carceraria pari a circa 47 mila unità, vi era una popolazione carceraria che ammontava a circa 65 mila unità. Quattro anni dopo, una capienza leggermente superiore, pari a circa 50 mila unità, siamo arrivati ad avere 52 mila detenuti, abbiamo portato da 20 mila a 40 mila le pene eseguite all’esterno del carcere, e l’emergenza non c’è più, anche se c’è ancora molto da lavorare sulle modalità dell’esecuzione della pena e sulla finalità riabilitativa. Io non sono mai stato contrario ideologicamente all’idea dell’indulto ma se si parlava di indulto per questioni legate al sovraffollamento oggi possiamo dire che quel tema non esiste più". Nel corso del suo ragionamento, il ministro Orlando ricorda anche che "entro la primavera verrà approvato anche dal Senato, dopo essere stato già votato alla Camera, il ddl sulla riforma del processo penale ed entro pochi mesi avremo anche una buona legge sulle intercettazioni (la delega sarà in mano al governo, ndr) che impedirà la pubblicazione di conversazioni irrilevanti ai fini dell’indagine e riguardanti persone completamente estranee attraverso una selezione del materiale relativo alle intercettazioni". A Orlando ribattiamo che una grande riforma del processo penale non può considerarsi tale senza che ci si occupi di separazione delle carriere, di obbligatorietà dell’azione penale e di riforma del Csm e su questo punto il ministro ribatte argomentando così: "Non sono al ministero per riformare la magistratura, sono al ministero per riformare la giustizia, e vorrei continuare su questa strada. Anticipo la sua obiezione: non volete riformare la magistratura per paura della magistratura. Ma le ribatto senza problemi: questo governo non ha paura di cercare un equilibrio nel funzionamento della magistratura e questo governo non a caso è quello che ha deciso, dopo vent’anni, di firmare una legge importante che si chiama responsabilità civile dei magistrati. E anche sul Csm". Sul Csm cosa? "Le posso anticipare che tra una decina di giorni il ministero avrà pronta una sua bozza di riforma e in questa riforma non ci sarà solo una nuova legge elettorale per il Consiglio superiore della magistratura ma ci sarà una riforma della sezione disciplinare. Il modello che abbiamo conosciuto finora non funziona per una ragione semplice: se il plenum del Csm nomina Tizio in una procura come potrà quello stesso plenum esprimersi con libertà qualora Tizio, nominato dal plenum, compia un atto per il quale deve essere giudicato dal punto di vista disciplinare? La chiave migliore e più ragionevole è che vi siano sezioni separati e non sovrapponibili e che chi si occupa di disciplinare faccia solo quello". Uno step successivo rispetto alla riforma sulla responsabilità civile? "Terrei separate le due questioni ma non c’è dubbio che sia nell’interesse di un paese che vuole avere un sistema della giustizia credibile che chi ha sbagliato, anche nel mondo della magistratura, ne paghi le conseguenze. Aggiungo, per altro, che il disciplinare del Csm funziona concretamente già oggi". Nel febbraio dello scorso anno, il 24, il Parlamento approvava la legge sulla responsabilità civile e il Foglio chiede al ministro se a dodici mesi di distanza esiste un qualche dato per inquadrare il funzionamento della legge. "Numeri precisi e dettagliati ancora non ci sono. Abbiamo delle stime. Nel giro di un anno i procedimenti avviati nel merito sono alcune decine, si aggirano attorno alle trenta unità. Non c’è stata, come temeva l’Anm, un’ondata di procedimenti ma certamente ce ne sono stati di più in un anno rispetto ai sette casi accertati nei 26 anni in cui è stata in vigore la vecchia legge che disciplinava la vecchia responsabilità civile". Non ci ha ancora risposto se secondo lei l’Italia è vittima ancora di una dittatura chiamata processo mediatico. "Non c’è dubbio che questa barbarie esista, e sono il primo a denunciarla da anni, ma è un problema che riguarda più il giornalismo che la magistratura. Spesso mi si chiede perché non lavorare a un provvedimento che possa costringere i media a concedere a chi è stato assolto in un processo uno spazio congruo con quello avuto quando quella stessa persona era sotto processo ma questa scelta, che sarebbe sacrosanta, riguarda più la deontologia di un giornalista che il legislatore e spero che su questo punto qualcosa cambi nei prossimi anni. Ho sempre paura che dicano cosa scrivere sul giornale. Quanto a noi, condivido l’appello della dottoressa Cassano quando dice che la celebrazione del dibattimento a distanza di molto tempo dal fatto commesso produce un’alterazione della fisionomia complessiva del processo, attribuendo un’impropria centralità alla fase delle indagini preliminari. Questo governo è al lavoro sulla riduzione dei tempi del processo e la riforma che verrà presto approvata al Senato ci darà una mano per agire con fermezza anche in questa direzione". La nostra conversazione con il ministro della Giustizia si è quasi conclusa ma prima di congedarci, approfittando del ruolo politico importante che Orlando ha conquistato all’interno del partito, poniamo al ministro alcune domande flash. Milano: per chi voterà Orlando? "Non faccio endorsement, non do indicazioni di voto, posso solo dire che conosco Francesca Balzani e che la sua è un’ottima candidatura". Pd: ha paura ancora che il suo partito possa aggiungere una "n" dopo la lettera "d" e diventare un partito della nazione? "Non ho paura che il Pd possa guardare a un elettorato moderato e sono contro la descrizione della sinistra come una forza politica antropologicamente superiore alle altre. Sono sciocchezze, queste. Per quanto mi riguarda ho solo paura a immaginare un partito che rivendichi un monopolio che coincide con la dimensione statale e con l’istituzione di governo. Un partito barracuda che si mangia tutto è un’anomalia destinata ad avere le gambe fragili". Pd, ancora: crede che funzioni l’esperienza di un politico che è contemporaneamente segretario del partito e presidente del Consiglio? "Non ci vedo nulla di strano, avviene così in gran parte d’Europa e anzi penso che sia un punto di forza del nostro partito avere un segretario che governa il paese. È importante però che il partito non sia sacrificato in questo binomio". Infine, il referendum: crede anche lei che ci sia la possibilità, come teme il presidente della Repubblica, di andare al voto anticipato, nel 2017, in caso di successo al referendum costituzionale? "Non conosco il pensiero del presidente Mattarella a questo proposito. Renzi ha sempre smentito quest’ipotesi e credo alle sue parole. Per onestà però bisogna dire che non si può prevedere quello che accadrà dopo il referendum e che comunque andranno le cose sarebbe surreale non farsi delle domande sulla scenario che emergerà all’indomani del voto sulla riforma Boschi". A presto, grazie. Giustizia, svolta per l’economia di Carlo Federico Grosso La Stampa, 5 febbraio 2016 La giustizia deve fornire risposte rapide a cittadini ed imprese, deve offrire risposte certe, deve ispirare fiducia risolvendo i problemi anziché crearne. Sembrerebbero luoghi comuni. Eppure, nonostante che si parli da anni di riforma della giustizia, che il processo civile sia stato più volte riformato e la legislazione ed il processo penale siano stati a loro volta in parte rivoluzionati, il risultato è sempre stato lo stesso: i processi continuano ad essere i più lunghi d’Europa, l’incertezza delle leggi continua a consentire risposte giudiziarie diverse in casi simili, molte volte i giudici creano problemi piuttosto che risolverli. Sarebbe dunque il caso che governo e Parlamento si decidano ad affrontare a tutto campo il tema giustizia, fornendo finalmente al Paese una legislazione complessiva in grado di assicurare tempi ragionevoli degli iter processuali e ragionevole certezza delle leggi e delle decisioni giudiziali. Dovrebbe trattarsi, soprattutto, di una scommessa prioritaria per un governo che, almeno a parole, ha fatto del rinnovamento e della modernizzazione la sua bandiera. Una giustizia rapida, efficiente e certa risponde alle esigenze di tutti i cittadini. Qual è il cittadino che, vantando un credito, non ha interesse a che un giudice in pochi mesi risolva il suo problema? Qual è il cittadino che, avendo il diritto ad essere pagato per un lavoro, non ha interesse a che un giudice gli assicuri rapidamente il pagamento? Qual è il cittadino che, essendo stato illegittimamente licenziato, non ha interesse ad avere un giudice che lo reintegri immediatamente nel posto di lavoro? Una giustizia rapida e certa è, per altro verso, condizione imprescindibile per un buon funzionamento del sistema economico. Il tema è di fondamentale importanza. Noi tutti abbiamo interesse a che gli imprenditori italiani non spostino le loro aziende all’estero e che operatori economici stranieri investano in Italia. Eppure, troppe volte abbiamo sentito di imprenditori dissuasi dal venire in Italia a causa, fra l’altro, della peculiarità del funzionamento della giustizia italiana e della opacità di certe norme operanti nel Paese. Le ragioni sono evidenti. Chi opera sul terreno dell’imprenditoria è vincolato dalle leggi del mercato; non può essere sottoposto a costi aggiuntivi rispetto a quelli inerenti alla produzione; se trova un Paese in cui i costi aggiuntivi sono minori, sceglierà per forza quel Paese. Ebbene, una giustizia mal funzionante rappresenta un costo aggiuntivo che può diventare insopportabile od indurre comunque a non investire od a fuggire all’estero. Per rendersi conto dell’importanza della questione sono sufficienti alcuni esempi. Se non vi è certezza nell’adempimento dei contratti ed in caso di violazione non vi è una ragionevole aspettativa di ottenere rapida soddisfazione da parte di un giudice civile, il danno è evidente. Se in materia di appalti pubblici la legge favorisce i ricorsi ed il giudice amministrativo non è in grado di decidere definitivamente sulla controversia in tempi rapidi, i danni per l’impresa che ha vinto la gara possono essere dirompenti. Se la legislazione penale consente atti di sequestro finalizzati alla confisca fin dalle prime battute di un procedimento, ed i giudici abusano di questa possibilità, i costi aggiuntivi per l’impresa e l’economia possono diventare insopportabili: somme ingenti sono sottratte agli investimenti ed all’attività produttiva, in attesa della conclusione di un processo che durerà verosimilmente per anni e che, magari, si chiuderà con un’assoluzione. Un vero assurdo. Che dire, d’altronde, di un sistema generalizzato di corruzione non adeguatamente disincentivato e represso, che incide inesorabilmente su costi di produzione e concorrenza? Ed allora possiamo sperare che, terminata la fin troppo lunga discussione sulle unioni civili, governo e Parlamento si decidano finalmente ad affrontare a tutto campo il tema di una giustizia ragionevole e funzionante, fondamentale non soltanto per i diritti dei cittadini, ma, ancor prima, per il Pil del Paese? Se si vuole modernizzare il Paese ed allinearlo ai migliori Paesi europei, e, imboccando questa strada, aiutare l’economia, non sembrano d’altronde più sufficienti riforme tecniche di settore più o meno ampie come quelle fino ad ora abbozzate. Sarebbe necessaria una riforma complessiva di tutti i settori di giustizia - civile, penale ed amministrativa - in grado di assicurare una autentica rivoluzione culturale nel modo di pensare e fare giustizia. L’ex Procuratore Generale di Napoli Galgano: "ridurre l’età imputabile a 14 anni" di Viviana Lanza Il Mattino, 5 febbraio 2016 "È una tesi che avanzo da tempo i ragazzi diversi da quelli del 1930. Sono stato l’unico a proporre ripetutamente la misura della riduzione dell’età imputabile a 14 anni, perché gli adolescenti di oggi non sono gli stessi del passato. Il sedicenne di oggi non è quello che rubava le mele nel 1930 ma compra e vende sostanze stupefacenti, sa usare la pistola e la porta con sé quando esce, ha l’amante, guida senza patente e senza assicurazione tanto cosa gli possono fare se investe e uccide un padre di famiglia, cosa gli succede?". Vincenzo Galgano ha indossato la toga per più di cinquant’anni e ha guidato la Procura generale di Napoli in anni non sempre facili, di inchieste complesse e delicatissime. È stato fra i primi magistrati a Napoli a sottolineare l’importanza dell’abbassamento dell’età punibile per contrastare il fenomeno della delinquenza minorile, guardando più avanti di altri e prevedendo, in tempi meno sospetti di quelli attuali, il dilagare della criminalità tra fasce sempre più giovani. "Ho parlato al vento in questo paese infelice che è l’Italia". Come mai finora non è stata attuata questa misura e la proposta è rimasta soltanto un’idea? Che idea si è fatto? "Ho un ragionevole sospetto". Quale? "Il sistema ordinamentale della giustizia minorile è un baraccone con specializzata che tende a conservare questo grosso apparato che non sembra produrre grandi benefici. C’è una forma di inerzia". Eppure quello della criminalità minorile è un fenomeno che preoccupa. "I problemi della criminalità minorile sono gravissimi e trascurarli è segno di opacità e ridotta attenzione alla tutela dei cittadini che caratterizza la giustizia di questo paese. In Italia purtroppo c’è ancora troppa indifferenza verso i cittadini che inermi devono subire aggressioni e spoliazioni di ogni tipo: di essi nessuno si preoccupa. Il problema dei nostri politici sembra essere quello di evitare che si vada in galera, per cui accade anche che assassini con le mani grondanti di sangue se ne stiano a casa loro anche dopo una condanna di merito". Intanto la delinquenza a Napoli ha un volto sempre più giovane. A Forcella c’è un clan di boss giovanissimi e killer quasi bambini e nel resto della città ci sono le baby-gang. "Lo ribadisco, l’adolescente di oggi non è lo stesso del 1930. Oggi è il criminale violento che fa parte di bande al servizio della camorra, che compie rapine a mano annata, prende a sassate un autobus o spacca la testa a chi gli sembra di meritarlo. E non lo dico io, è il dato che viene fuori dalla cronaca di ogni giorno. Ma le sembra normale che i cittadini di Scampia debbano rinunciare agli autobus di sera perché ci sono bande di ragazzini che si divertono a prenderli a sassate. Le sembra giusto che un autista di autobus debba rischiare di essere colpito alla testa da un sasso mentre svolge il suo turno di lavoro? E tutto questo senza poter intervenire penalmente perché questi ragazzi sono giovanissimi". Ma abbassando l’età punibile cosa accadrebbe? "Accadrebbe che anche i criminali più giovani saranno costretti a rispondere di ciò che fanno andando incontro a condanne che però devono essere efficaci e certe. Inutile il recupero con l’affido alla famiglia perché anche le famiglie sono spesso ambienti che non aiutano affatto, in cui il ragazzo vive come un ospite con esempi di genitori o fratelli che non sono educativi". Pene esemplari, dunque? "Sono per una giustizia certa. Inutile emettere condanne che non servono, con pene sospese a cui seguono sonore pernacchie. Occorrono condanne che abbiano un significato, che diano, a chi le subisce, una situazione di sofferenza che generi pentimento, autocontrollo, consapevolezza dell’errore che si è commesso, dell’azione compiuta, del male causato. Altrimenti si favorisce l’educazione all’impunità che questi ragazzi coltivano anche da più grandi". Repressione, condanne certe ma anche più istruzione, più servizi, più presenza dello Stato. "Certamente. È importante puntare sulla formazione e sull’educazione. Bisogna intervenire prima che i bambini diventino adolescenti e prendano strade sbagliate. I ragazzi devono essere amati dai loro insegnanti e la scuola deve recuperare il suo ruolo e i suoi compiti: oggi è un disastro. E non va trascurato lo studio di materie come la storia e l’educazione civica. Senza cultura il paese va a rotoli". Il Ministro dell’Interno Alfano: l’età punibile può essere abbassata La Stampa, 5 febbraio 2016 L’età punibile può essere abbassata. Lo ritiene il ministro dell’Interno Angelino Alfano, ieri a Napoli per presiedere una riunione del comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza convocata dopo l’escalation di omicidi sul territorio. Il capoluogo campano, a fronte di un calo dell’indice di delittuosità anche con una diminuzione di furti e rapine, segna nel 2015 un primato negativo: quello del più alto numero di omicidi in tutto il Paese. Ora a Napoli bisogna "lavorare per far tacere le pistole" ha detto Alfano al termine della riunione in prefettura servita a programmare nuove strategie ed a fare il punto sulle attività di contrasto svolte a partire da agosto scorso quando, sempre da Napoli, fu deciso l’invio di più uomini destinati sia alle investigazioni per fronteggiare i clan sia per la sicurezza pubblica. Bisogna evitare che "questo sangue interrompa il riscatto della nostra città. E per fare questo occorre la collaborazione di tutti", ha detto il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris. Nel capoluogo campano "c’è una squadra Stato che funziona", ha ricordato Alfano. Sul fronte dei controlli, il ministro ha assicurato che entro la prossima estate, nel Napoletano, saranno attive tutte le telecamere previste dai programmi di videosorveglianza. E a queste si aggiungeranno anche quelle preventivate da un intervento della Regione Campania: è stata programmata l’installazione di altri cinquanta "occhi" elettronici soprattutto a beneficio dei percorsi turistici del centro storico di Napoli ogni giorno affollati da migliaia di turisti. Controlli che - ha garantito il presidente della Giunta regionale della Campania, Vincenzo De Luca - potrebbero essere estesi, su richiesta della Prefettura di Napoli, anche ad altri quindici comuni dell’hinterland considerati a maggiore rischio. L’investimento richiesto è di circa un milione e trecentomila euro. Io, Lucia, fuori a cena. E in tv c’è l’uomo che mi fece sfregiare di Lucia Annibali Corriere della Sera, 5 febbraio 2016 Sapevo da settimane dell’intervista ma non ho mai preso in considerazione la possibilità di guardarla. I miei genitori lo hanno fatto, capisco e rispetto la loro scelta. Il giorno in cui l’imputato Varani chiese attenzione per fare le sue dichiarazioni spontanee ai giudici, io sono uscita dall’aula del tribunale. Allo stesso modo stavolta sono uscita di casa mentre parlava in tv. Perché io c’ero mentre vivevo nel terrore, ed ero lì le volte in cui sarei potuta morire. La verità è sempre una sola e non posso accettare che si provi a metterla in discussione. Non ho bisogno che qualcuno mi racconti com’è andata o che mi spieghi che cosa ho provato in quei momenti. Soltanto io sono autorizzata a farlo. La scelta dei miei genitori - Ho sperato fino all’ultimo che anche i miei genitori scegliessero di non ascoltare, che scegliessero di non aggiungere dolore al dolore. Ma loro sono genitori e io, da figlia, ho capito e rispettato la loro decisione di guardare l’intervista. Che, a ben vedere, a qualcosa è servita anche a me: il gran giro di telefonate ricevute da chi mi chiedeva "vedrai la tv?" mi ha permesso di risentire persone che non sentivo da mesi e che non finirò mai di ringraziare. La verità processuale - Ringrazio ancora una volta ad uno ad uno tutti gli inquirenti - i carabinieri la polizia giudiziaria, i magistrati - che con dedizione assoluta si sono presi cura del mio caso e il cui impegno ha permesso di stabilire una verità processuale che, in uno Stato di diritto, è l’unica che conta. E di certo non può essere riscritta a piacimento fuori da un’aula giudiziaria né da un imputato già condannato due volte né da una trasmissione televisiva. E ringrazio anche i rappresentanti delle istituzioni e tutte le persone che hanno preso posizione per me, accanto a me, in questi anni dimostrandomi ed esprimendo vicinanza e solidarietà. La loro è la voce della società civile che grida forte e chiaro il proprio sdegno nei confronti di chi attenta alla libertà e alla vita altrui. Il male non avrà il sopravvento - Lascio che siano gli altri a dare spettacolo di sé e del mio dolore. Io di quello spettacolo non voglio nemmeno una particina da spettatrice. Non mi interessa. La sola cosa che mi interessa, mentre va in scena tutto questo, è continuare a resistere. Esercitare il mio diritto di donna a vivere in piena libertà e autonomia. Avere l’orgoglio di mostrare i segni che porto sulla mia pelle perché sono fiera di essere quello che sono. Ho scelto la vita fin dal primo istante, non consentirò al male di avere il sopravvento, e non ci sarà persona o trasmissione che potrà buttarmi giù, non permetterò a nessuno di compromettere la mia serenità. Non risponderò a nessuna domanda né voglio più parlarne. Questo è tutto ciò che ho da dire su questa vicenda, che mi sento di definire uno dei tanti effetti collaterali dell’essere vittima di un reato. Luca Varani e gli altri, tutte quelle maledette polemiche su "Storie Maledette" giornalettismo.com, 5 febbraio 2016 Da Luca Varani al mostro del Circeo Angelo Izzo: i "mostri" della nera italiana sono passati tutti (o quasi) sotto le sue grinfie, spesso sollevando dibattiti. Luca Varani a Storie Maledette è solo l’ultimo dei casi spinosi che Franca Leosini, conduttrice da sempre della trasmissione Storie Maledette, ha affrontato. Le sue domande e la sua personale firma sulle storie di nera Fanno parlare del programma da sempre, Non solo per l’intervista a Rudy Guede o per quella su Luca Varani. Storie Maledette è destinato a superare il mitico Telefono Giallo di Corrado Augias. I "mostri" della nera italiana sono passati tutti o quasi sotto le sue grinfie, spesso scatenando polemiche. Dopo la polemica da parte della Procura di Pesaro che ha parlato apertamente di scorrettezze da parte della Rai basta fare un salto indietro per ripercorrere tutte le edizioni di Storie Maledette. Ne è un esempio Pino Pelosi che dichiarò in trasmissione, nel 1994, la sua innocenza sull’omicidio di Pierpaolo Pasolini. "La conferma viene dagli atti del processo", dichiarò al tempo Leosini. "Solo adesso molte incongruenze, molte assurdità, trovano spiegazione. Credo che Pelosi con queste ultime dichiarazioni abbia veramente riscritto una pagina fondamentale di questo mistero". Era l’ottobre del 1998 quando Franca Leosini decise di intervistare Angelo Izzo. Un confronto con uno dei tre autori del "massacro del Circeo" che nel 1975 (assieme ad Andrea Ghira e Giovanni Guido) sottoposero a ore di violenza la diciassettenne Donatella Colasanti e l’amica Rosaria Lopez. Nel dicembre del 2004 Izzo ottenne la semilibertà dal penitenziario di Campobasso per andare a lavorare in una cooperativa del posto. E uccise nuovamente: Maria Carmela e Valentina Maiorano, moglie e figlia quindicenne di Giovanni Maiorano, un detenuto che Izzo aveva conosciuto in carcere. Disse di no a Pacciani ma Franca Leosini è quella che intervistò Fabio Savi, "quello della Uno bianca". "Il patto - ha spiegato recentemente Leosini a Il Fatto Quotidiano - è darsi. Loro si concedono e io scavo dentro alla ricerca del buio. Per chi ha creato tanta sofferenza agli altri, non è mai un viaggio senza dolore". Delle lettere che mi aveva spedito, Savi mi descriveva le sue notti insonni, il tormento divorante per quel che aveva fatto. Ci furono momenti duri, a iniziare da quello in cui gli mostrai la foto di suo padre Giuliano, suicida con massicce dosi di Tavor proprio all’interno di un modello di macchina identico a quello della banda. Alla fine di quella conversazione mi resi conto che mi aveva rivelato molte più cose di quante non ne avesse messe a verbale durante il processo. Abbassò la testa: ‘Su di me sono state scritte molte inesattezzè Stavolta però, davanti al caso di Luca Varani ha alzato la voce la procura: "La Tv di Stato offre le sue telecamere a un imputato che non ha mai risposto alle domande nei due gradi di giudizio ed anzi ha più volte tentato di inquinare le prove. E ora, col processo ancora aperto perché deve ancora celebrarsi l’udienza in Corte di Cassazione, si raccolgono in tv le sue dichiarazioni che potrebbero avere anzi avranno sicuramente valenza processuale". Cosentino: "in carcere trattato peggio di un boss, non voterei più l’inasprimento del 41bis" casertace.net, 5 febbraio 2016 Lo ha dichiarato stamattina rispondendo in tribunale, nel processo a suo carico, alle domande dell’avvocato difensore. "Il 41 bis è inumano, e oggi, dopo aver conosciuto in prima persona la situazione delle prigioni italiane, non voterei mai più a favore del suo inasprimento come feci alcuni anni fa su proposta dell’allora Ministro della Giustizia Angelino Alfano. Ho cambiato idea". Lo ha affermato l’ ex sottosegretario del Pdl Nicola Cosentino rispondendo nell’aula del tribunale di Santa Maria Capua Vetere alle domande del suo legale Agostino De Caro. Cosentino, imputato per concorso esterno in associazione camorristica e detenuto nel carcere di Terni, già nella scorsa udienza, criticò il trattamento carcerario cui è stato sottoposto, in particolare quando era nel carcere di Secondigliano, a Napoli, dove è rimasto da marzo 2013 ad aprile 2015 con un intervallo di sei mesi. "Sono stato trattato peggio di un boss", disse, ricordando di non aver potuto incontrare la moglie per oltre 10 mesi. L’ incontro con la moglie è poi avvenuto solo qualche giorno fa, dopo che alla moglie dell’ex politico, condannata per corruzione di una guardia penitenziaria, è stato revocato l’obbligo di dimora a Caserta. Mafia Capitale, quell’avvocato che offende la verità di Luigi Vicinanza L’Espresso, 5 febbraio 2016 Il legale di Massimo Carminati ha deriso in aula il nostro giornalista Lirio Abbate. Perché ha svelato gli intrighi di Mafia Capitale C’è un avvocato, a Roma, che gioca con le parole. Si diverte a storpiare il nome di battesimo del nostro Lirio Abbate. Espediente da alunno di scuola elementare - chi non ha avuto un compagno di classe così - pronto ad affibbiare un nomignolo sfottente agli amici e innanzitutto ai nemici. Ragazzate da ricordare con nostalgia. Non c’è invece nulla di goliardico nelle parole di Giosuè Bruno Naso, difensore del nero Massimo Carminati nel processo in corso per Mafia Capitale. Da settimane il penalista della terra di mezzo sta applicando nelle aule di tribunale - non nei corridoi di una scuola frequentata da bulletti dalla lingua lunga - pubblicamente dunque, una lucida strategia tendente a screditare la persona del giornalista de "l’Espresso", il primo ad aver raccontato nomi, clan, affari e interessi delle organizzazioni mafiose presenti a Roma. "De-Lirio", così l’avvocato Naso chiama continuamente il nostro Lirio, dal 2007 costretto a vivere sotto scorta per le minacce subite prima in Sicilia e recentemente anche a Roma. Abbate ha una grave colpa agli occhi di Carminati e di Fasciani, altro cliente di Naso. Ha diagnosticato, come i lettori di questo giornale sanno, una malattia strisciante, di cui nessuno voleva rendersi conto. È suo il servizio di copertina del dicembre 2012, "I quattro re di Roma", nel quale ha svelato l’identità di Carminati, il fascista alleato con il "compagno" Buzzi; dello stesso Fasciani, boss di Ostia dove il Municipio è stato sciolto per infiltrazioni mafiose; di Casamonica, quello del funerale pacchiano della scorsa estate; e di Senese sospettato di essere un terminale della camorra napoletana nella capitale. Un lavoro giornalistico svolto consumando le suole delle scarpe, battendo le strade peggio frequentate della nostra malridotta capitale. Con un anticipo di ben due anni rispetto all’inchiesta giudiziaria e ai primi arresti. L’avvocato Naso non insinua, no. Accusa apertamente Lirio Abbate di operare in combutta con il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone. Delegittima il ruolo di giornalista che sa cercare verità scomode e nascoste. Lo riduce a figurante al servizio di chissà quali teoremi montati dai magistrati inquirenti. Insomma se la mafia a Roma non esiste - e per il difensore degli imputati di mafia l’insussistenza è questione ontologica - chi esplora la realtà lo fa per ni oscuri. Siamo davanti a un surreale ribaltamento delle posizioni. Sul banco degli accusati finisce il giornalista che ha avuto il coraggio di scrivere. Se ci trovassimo in Sicilia, in Calabria o in Campania, le uniche terre in cui - secondo una concezione geografica del malaffare - si può celebrare un processo ai mafiosi, ci sarebbe di che preoccuparsi. Molto. Siamo a Roma invece e tutto ciò può passare come la spiritosaggine di un esuberante legale? Difendere i propri assistiti è legittimo; offendere la reputazione altrui è reato. Da tempo "L’Espresso" evidenzia il deficit culturale del mondo delle professioni e delle istituzioni territoriali nel far fronte alla "colonizzazione" avviata da tempo dalle organizzazioni criminali fuori dai propri conni storici. Nonostante l’evidenza dei fatti, va per la maggiore la rassicurante interpretazione di una mafia connata nel recinto domestico. Lo spiega in modo chiaro nel suo ultimo libro, "Storia dell’Italia mafiosa", Isaia Sales, profondo analista del fenomeno: "Il ritardo con cui il Centro-Nord ha reagito al radicamento sul proprio territorio delle mafie è dovuto essenzialmente a un errore di valutazione storica e a un errore politico" scrive Sales. "La definizione delle mafie come fenomeni di arretratezza economica e civile è alla base dell’evidente sottovalutazione del radicamento mafioso nel cuore produttivo dell’economia italiana". Errore di valutazione storica ed errore politico. Per questi motivi è ancor più inquietante sentire certe parole in un’aula di giustizia. Non feriscono solo chi ne è bersaglio, ma l’intelligenza di molti. Non alligna il delirio nella comunità de "l’Espresso", ma la consapevolezza di fare un’informazione onesta, puntuale, senza timori reverenziali né padrini di qualsiasi tipo. Mafia Capitale, se la difesa diventa minaccia di Giovanni Tizian L’Espresso, 5 febbraio 2016 Allusioni, velate minacce, offese. E, quel che è peggio, l’indicazione di un bersaglio da zittire. Forse da colpire. Tutto questo non succede nei segreti covi dove le mafie, tutte le mafie, decidono strategie e progettano sporchi affari, ma in un’aula di tribunale, sotto gli occhi di giudici, avvocati, giornalisti e pubblico. Nel processo "mafia Capitale", che si sta svolgendo a Roma, si assiste, nel silenzio pressoché generale, salvo qualche lodevole eccezione - il primo a scriverne è stato Attilio Bolzoni su "Repubblica" - agli stessi rituali e alle stesse prassi che vengono attribuite agli imputati. Come se un certo linguaggio, certe abitudini, potessero impunemente avere corso persino laddove si amministra la giustizia. Una tesi detta nell’aula bunker di Rebibbia, ripetuta in altri dibattimenti, perché il messaggio arrivi forte e chiaro alle orecchie che devono intendere. E nessuno che fermi lo scempio etico e istituzionale, indegno di una democrazia che dovrebbe basarsi su certezze: l’autorevolezza di un processo, la necessità di una stampa libera. La tesi è quella dell’avvocato Giosuè Naso, avvocato di Massimo Carminati, uno dei re di Roma, accusato di essere il boss di mafia Capitale. Naso, storico difensore della destra romana, ha trasformato le udienze in un suo personale show farcito di offese e calunnie, anche contro il nostro giornalista Lirio Abbate. "Colpevole" di aver raccontato con due anni di anticipo quello che i magistrati hanno poi scoperto sull’esistenza di una cupola nella città eterna. La scorsa settimana, davanti alla corte d’appello di Roma nel processo al clan Fasciani di Ostia, ha reiterato il suo teorema: "Lirio Abbate che causalmente è di Palermo, che casualmente ha lavorato a Palermo quando c’era Pignatone (il procuratore capo di Roma, ndr), che causalmente frequenta ambienti frequentati da Pignatone, altrettanto casualmente pubblica un articolo nel quale richiama l’esistenza di un dominio criminale su Roma dei quattro re di Roma. Perché non hanno dato a De-Lirio Abbate il premio Pulitzer?". Davanti a tanta impudenza, nessuna reazione dei suoi colleghi, salvo qualche rara eccezione che vedremo. E scarne note anche nelle cronache giudiziarie. Come se fosse lecito adombrare il sospetto di una congiura ordita da un procuratore e un giornalista, indicare lo stesso giornalista con termini spregiativi per additarlo al pubblico ludibrio. E lasciare pure intendere che conosce gli spostamenti del giornalista e del procuratore e le persone che frequentano: un modo per ammonirlo a non fare il suo mestiere, altrimenti... Qui non si vuole mettere in dubbio il sacrosanto diritto di un avvocato di svolgere la sua difesa. Qui si vuole tutelare, con Lirio Abbate, il diritto-dovere dell’informazione, la necessità per i cronisti di svolgere serenamente il loro mestiere senza temere "ritorsioni" purtroppo diventate abituali. Abbate vive sotto scorta da anni per le sue inchieste svolte con rigore a Palermo, a Roma e non solo. Fino a diventare un simbolo per chi non vuole abbassare la testa davanti a un potere occulto che domina larghe fette del Paese, non solo al sud, anche al Nord. Gli attacchi nei suoi confronti sono dapprima passati sotto silenzio. Come se vigesse un tacito patto di non divulgazione di una pratica aberrante. Fortunatamente però, tra i penalisti qualcuno comincia a prendere le distanze da Naso. È il caso di Luca Petrucci, difensore di Luca Odevaine: "La mia solidarietà a Lirio Abbate. Ho stima dell’avvocato Naso per l’impegno che mette nelle sue difese. Queste sue parole, però, sono pericolose. Non si può lasciare un uomo solo, non è giusto mettere alla gogna un giornalista che vive sotto scorta, minacciato dalla mafia". Una presa di posizione che ha creato una spaccatura nei collegi difensivi di mafia Capitale. Petrucci, a quanto risulta, è stato criticato dai colleghi che difendono gli altri imputati. Ma con lui si è schierato Giulio Vasaturo, parte civile per l’associazione Libera: "Mi associo alle parole dell’avvocato Petrucci. Si tratta di difendere il lavoro di un giornalista che vive sotto scorta per il suo impegno contro la criminalità organizzata". Ma c’è dell’altro e potrebbe portare il legale di Carminati davanti a un consiglio di disciplina. Il presidente dell’Ordine degli avvocati di Roma, Mauro Vaglio, in una intervista al "Sole 24Ore" on line, ha detto: "È molto probabile che il consiglio di disciplina analizzi il caso". Vaglio ha appreso dell’atteggiamento di Naso dal "Sole", nessun avvocato aveva segnalato il comportamento poco consono della toga. Vaglio avrebbe pure dovuto sapere che nell’udienza del 15 dicembre Naso si è scagliato contro i suoi colleghi, parlando durante il suo intervento di "pierinismo della classe forense", aggiungendo inoltre che nel processo a mafia Capitale ci sono molti avvocati "quaquaraquà". Le udienze stanno riservando molte sorprese durante le deposizioni degli investigatori. Rispondendo alle domande dell’avvocato di Carminati, un capitano dei carabinieri ha svelato l’esistenza di intercettazioni ambientali che no a poche settimane fa non erano state rese note. L’ufficiale ha ricostruito la conversazione fra Carminati il "Cecato" ed un uomo non identificato da cui emerge come il capo di mafia Capitale avesse preso di mira Abbate per fargliela pagare. "Ieri sono andato a casa a cercare questo Abbate... ma dove cazzo sta questo Abbate che mi sta cercando... tutte le mattine vengo qui a cercare Abbate". Carminati sembra ossessionato dal giornalista de "l’Espresso", lo vuole trovare a tutti i costi. Fra le intercettazioni già note si era appreso di come Carminati urlasse la sua rabbia e dicesse di voler "fratturare la faccia ad Abbate" appena lo avrebbe incontrato. E non si dava pace per ciò che aveva scritto sul nostro settimanale, sostenendo che "quelle cose non gliele hanno dette le guardie", ma confermandole. L’intercettazione svelata in aula fa emergere un altro fatto inquietante, raccontato dallo stesso "Cecato", e cioè che Carminati era stato sotto casa di Abbate. L’associazione Ossigeno per l’informazione è intervenuta insieme alla Federazione della stampa e all’Ordine dei giornalisti a tutela di Abbate. Insieme hanno rivolto un appello al Presidente del Tribunale di Roma, al Procuratore della Repubblica, al Presidente dell’Ordine degli avvocati affinché "adoperino la loro autorevole influenza per impedire che all’interno dei processi si delegittimi il difficile compito di questo valoroso giornalista e degli altri che, come lui, forniscono ai cittadini elementi di conoscenza su fatti di evidente interesse pubblico. Invitiamo le parti processuali a rispettare e tutelare questi giornalisti e tutti coloro che, come loro, cercano la verità e diffondono informazioni nell’interesse dei cittadini". Mafia Capitale: avvocati contro giornalisti, un’attenta riflessione di Mauro Anetrini L’Opinione, 5 febbraio 2016 È qualche tempo che tra la Camera Penale di Roma ed i giornalisti della Capitale, Ordine compreso, non corre non buon sangue. I primo contrasti si erano manifestati alle battute iniziali del dibattimento del processo chiamato "Mafia Capitale" e, dopo un breve periodo sotto traccia, sono riaffiorati nei giorni scorsi. Occasione di questa nuova (e non ultima) acuzie, secondo quanto si è capito, sono state alcune frasi pronunciate da un difensore nel corso di una discussione in favore di uno degli imputati del processo Mafia Capitale (ma in altra causa) e la pronta reazione di un giornalista, che ha voluto leggervi un intento minatorio. Quello che sta accadendo non è cosa di poco momento e merita un’attenta riflessione. Intanto, i protagonisti - tutti - si appellano alla rilevanza costituzionale della funzione svolta: il giornalista rivendica il diritto di informare liberamente, mentre l’avvocato si aggrappa alla inviolabilità del diritto di difesa garantito dalla Costituzione. Inviolabilità che - ci vuole poco a capirlo - è tale solo se il difensore ha facoltà di esprimersi con assoluta libertà e in assenza di qualsivoglia condizionamento. Io sto con l’avvocato e non per partito preso. Come ho appena detto, il diritto di difesa è inviolabile. La nostra Costituzione utilizza questo aggettivo in pochissime occasioni, riferendosi, guarda caso, ai diritti fondamentali della persona, ma non alla libertà di espressione del pensiero, dalla quale discende la libertà di stampa. Ciò non significa, naturalmente, che il diritto protetto dall’articolo 21 della Carta Fondamentale non concerna interessi primari di un sistema democratico e che possa subire legittime contrazioni. Tutt’altro. Significa, però, che i diritti della persona, libertà, segretezza delle comunicazioni, difesa - per citarne alcuni - valgono di più e, qualora si ponesse l’alternativa, dovrebbero anche (pre)valere. Non basta. Il giornalista, che svolge una funzione essenziale per gli assetti democratici del Paese, ha il compito di informare correttamente, rispettando, come ogni cittadino, i canoni stabiliti in relazione al diritto di cronaca e di critica. Se viola quei parametri, risponde di diffamazione. L’avvocato no: può spingersi anche al limite del penalmente rilevante senza subirne le conseguenze, alla sola condizione che le sue affermazioni siano connesse alla difesa della parte che rappresenta. Non occorre molto a capire, dunque, da quale parte sta la ragione e per quale motivo ogni censura alle parole di un avvocato nello svolgimento della sua funzione rappresenta un intollerabile attacco allo stesso diritto di difesa. La Camera Penale di Roma si riunirà nei prossimi giorni per manifestare sostegno al collega e riaffermare quello che ho appena sinteticamente riassunto. La ragione sta con noi, perché la Costituzione e le Convenzioni internazionali stanno dalla nostra parte. Un processo giusto è tale quando l’avvocato è libero e può dire al giudice quello che ritiene necessario per proteggere il suo assistito, che ha affidato alle sue mani, e non a quelle della stampa, il prezioso bene della libertà. Lunga vita alla Camera penale di Roma. Firenze: il Provveditore alle carceri Cantone "a Sollicciano obiettivo 2 persone per cella" ilsitodifirenze.it, 5 febbraio 2016 A Sollicciano "l’obiettivo è stabilizzarsi sui 650 detenuti, così da garantire due persone per cella". L’asticella la fissa Carmelo Cantone, provveditore delle carceri toscane, nel corso dell’audizione in commissione salute e politiche sociali del Comune di Firenze. All’inizio del 2014 la popolazione carceraria dell’istituto si attestava "di poco sopra le 1.000 presenze. Dalla fine dello stesso anno e nel 2015 siamo scesi a 690-700 presenze". "Oggi, siamo sotto i 690 detenuti. L’idea però - sottolinea - è quella di trasferire una trentina di presenze, cioè il numero utile per assicurare 2 persone a stanza", in pratica "nei 12 metri quadrati di ogni cella". Livorno: il caso di Pianosa, si investe su un carcere che non c’è di Fabrizio Ciuffini (Segretario Generale Fnc-Cisl) tenews.it, 5 febbraio 2016 La denuncia del sindacato sulle criticità del sistema penitenziario in Toscana. Assistiamo ad interventi di esponenti politici e della società civile che sul tema "carceri" ogni giorno rilasciano interviste e/o annunciano futuri interessamenti, per migliorare la difficilissima situazione che invece, questo sì ogni giorno, gli Operatori Penitenziari affrontano, primi tra Tutti la Polizia Penitenziaria. Carceri che hanno necessità di grandi interventi strutturali, spesso per ripristinare almeno idonee condizioni igienico-sanitarie, oltre che quelle necessarie ad assicurare che gli Istituti Penitenziari mantengano giusti standard di sicurezza per la collettività, per i Cittadini e per gli Operatori. Spesso - molto frequentemente - i primi ad operare in condizioni di scarsa sicurezza sono proprio i Poliziotti Penitenziari, pesantemente sotto dimensionati nei numeri degli Addetti che invece sono previsti dallo Stato (in Toscana continuano a mancare oltre 700 unità). E poi ci sono le contraddizioni che si vivono nella gestione del sistema penitenziario, anche inteso come bene pubblico, come spesa della pubblica amministrazione e quindi di Tutti Noi. L’ultima in ordine di tempo riguarda, ancora una volta, l’attività sull’Isola di Pianosa. Nonostante il carcere è chiuso dal 1998 e che quindi - ufficialmente - il carcere lì non esiste, lo Stato ha portato lì un gruppo di detenuti in regime di art. 21 (sono quei detenuti che sono ammessi al lavoro all’esterno del carcere ma che la sera, una volta terminato il lavoro, dovrebbero rientrare in carcere perché rimangono detenuti a tutti gli effetti di legge) che di fatto vivono su Pianosa, in ambienti gestiti dall’Amministrazione Penitenziaria, che lì utilizza Personale in forma stabile, con mezzi e strumenti, sostenendo spese di mantenimento di ogni attività che viene fatta "figurare" come quella di un carcere dove invece - il carcere - non c’è ! Paradosso dei paradossi è che può godere di più garanzie, nei collegamenti in entrata e uscita l’isola di Pianosa, dove il carcere per lo Stato non esiste, che l’isola di Gorgona (unica vera isola carcere ancora rimasta nell’arcipelago toscano) che resta anche in questo periodo spesso isolata. Infatti a Gorgona nessuno, a partire dallo Stato, passando per la Regione e arrivando al Comune di Livorno, assicura pari dignità ai Cittadini che su questa Isola devono espiare una pena o invece, come nel caso del Personale, lavorarci. Abbiamo da tempo fatto un esposto anche alla magistratura contabile affinché qualcuno si decida a spiegare, almeno a loro, come è possibile spendere denaro pubblico per un carcere chiuso che ufficialmente non esiste, tagliando su ogni tipo di spesa per gli altri invece aperti, che restano spesso in condizioni gravissime, con lesioni di diritti verso chi ci lavora e chi ci deve espiare una condanna. Ecco questo ci fa pensare che il confine tra controllori e condannati è sempre più labile. Non ultima la questione dell’Opg, ufficialmente chiuso per la passerella mediatica di taluni politici, ma sostanzialmente aperto con ogni peso, sia in termini di responsabilità che di dignità, sul Personale che ancora assicura un essenziale presidio per la sicurezza sociale e l’assistenza a questi "particolari" autori di reati. Cosenza: Uepe in crisi, protestano gli assistenti sociali di Emilio Enzo Quintieri (Radicali Italiani) Ristretti Orizzonti, 5 febbraio 2016 Non è solo il radicale Emilio Quintieri ed il Senatore Francesco Molinari a lamentare la disastrosa situazione in cui versa, ormai da tempo, l’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna di Cosenza. Nei giorni scorsi, dopo le ripetute segnalazioni rimaste senza esito e dopo aver letto la recente Interrogazione Parlamentare presentata al Ministro della Giustizia On. Andrea Orlando, i tre Funzionari di Servizio Sociale in servizio all’Uepe di Cosenza, Adriana De Linna, Silvana Puleo e Maria Cristina Di Forti, hanno lamentato nuovamente la grave situazione in cui sono costretti a lavorare. "Preso atto che, allo stato, non sono state ipotizzate azioni per risanare lo stato di carenza di personale di Servizio Sociale che, in questa sede, contro un organico previsto in 22 unità, vede operativi 3 Funzionari, di cui uno in regime lavorativo part time e destinatario di Legge 104/92, per un carico di lavoro di oltre 900 casi" - scrivono gli Assistenti Sociali - e "rilevato che il perdurare, ormai ultradecennale, del costante ed elevatissimo stress derivante dal carico di lavoro, umanamente e professionalmente improponibile, e dalle responsabilità connesse, sta determinando inevitabili ricadute sugli utenti del Servizio, sugli Operatori Sociali e sulle Autorità Giudiziarie" ed infine "rilevato che l’eccessiva richiesta da parte dell’utenza, che non può oggettivamente essere evasa, potrebbe determinare anche delle azioni imprevedibili da parte della stessa", hanno ritenuto opportuno di dichiarare "di non essere più in grado di garantire lo svolgimento dei compiti istituzionali in modo professionalmente adeguato, essendo gravati da un eccessivo carico di lavoro, con il rischio di pregiudizio nei confronti dell’utente, dell’ente stesso, nonché della propria salute psico-fisica. Declinano, pertanto, ogni responsabilità, di qualsiasi natura, in relazione ad eventuali conseguenze imputabili all’agire di professionisti che continuano a lavorare in una situazione di emergenza, che incide anche sulle capacità cognitive, non potendo più far fronte a tale situazione". Tali dichiarazioni sono state formalizzate per iscritto ed inviate a numerose Autorità dello Stato nazionali, territoriali e locali, al Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro ed al Magistrato di Sorveglianza di Cosenza, ai Tribunali di Cosenza, Paola e Castrovillari, alle Direzioni degli Istituti Penitenziari di Cosenza, Castrovillari, Paola e Rossano, al Presidente Nazionale dell’Ordine Professionale degli Assistenti Sociali, al Presidente dell’Ordine Professionale degli Assistenti Sociali della Calabria ed alle Organizzazioni Sindacali. Immediatamente, anche la Rappresentanza Sindacale Unitaria (Rsu) dell’Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna di Cosenza si è associata alla nota sottoscritta dai Funzionari di Servizio Sociale "relativa alla gravissima situazione di sottorganico e di sovraccarico di lavoro, sottolineando la necessità che venga risolta con urgenza stanti le grosse difficoltà ormai non più sostenibili dal personale interessato". Qualche giorno fa, con il Senatore Molinari abbiamo effettuato una visita ispettiva all’Uepe di Cosenza, riferisce l’ex membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani Emilio Quintieri, ed abbiamo constatato che negli Uffici, a parte il personale amministrativo ed il Direttore, non c’era nessuno oltre alle centinaia di fascicoli collocati in ogni posto. Al momento della visita vi erano solo le 3 Assistenti Sociali, due delle quali prossime alla pensione, con un carico di lavoro giornaliero di 802 casi : 274 assegnati alla Delinna, 216 alla Di Forti e 304 alla Puleo. Altri 6 casi risultavano affidati ad altri Funzionari. Nell’anno 2015 l’Ufficio ha gestito 2081 casi e 914 solo nello scorso mese di gennaio. È da tre anni, invece, che gli Assistenti Sociali non riescono a metter piede in un Istituto Penitenziario della Provincia di Cosenza ed a farne le spese sono i detenuti i quali, pur avendone diritto, non riescono ad ottenere i benefici premiali e le misure alternative alla detenzione. Ed infatti, puntualmente, in ogni ispezione che facciamo, sono tanti quelli che si lamentano di tale incredibile situazione. Il Senatore Molinari, tramite il Sindacato Ispettivo Parlamentare, ha chiesto al Governo Renzi di assicurare, in tempi brevi, la copertura dei posti di Assistente Sociale previsti dalla pianta organica attualmente vacanti e ci auguriamo - conclude il radicale Quintieri - che tutto ciò avvenga con la massima urgenza. Catanzaro: interrogazione al Governo sull’Istituto Penale per Minori "Silvio Paternostro" catanzaroinforma.it, 5 febbraio 2016 Nei giorni scorsi il Senatore della Repubblica Francesco Molinari (Gruppo Misto), Presidente dell’Associazione Calabria Terra Libera, ha presentato una circostanziata interrogazione al Governo Renzi a cui è stato delegato a rispondere il Ministro della Giustizia On. Andrea Orlando sulle problematiche emerse all’esito della visita ispettiva effettuata lo scorso 7 gennaio unitamente ad Emilio Quintieri e Valentina Moretti, esponenti dei Radicali Italiani ed a Shyama Bokkory, Presidente dell’Associazione Alone Cosenza Onlus ed Assistente Volontario Penitenziario. In particolare, il Senatore Molinari, nell’Interrogazione a risposta scritta n. 4-05197 rivolta ai Ministri della Giustizia, della Salute, del Lavoro e delle Politiche Sociali, dopo aver raccontato la situazione riscontrata nelle strutture giudiziarie minorili di Catanzaro, ha sollevato alcune questioni importanti chiedendo di avere delucidazioni dal Governo. L’atto di Sindacato Ispettivo è stato sottoscritto anche dai colleghi Senatori Giuseppe Vacciano, Alessandra Bencini, Ivana Simeoni, Cristina De Pietro, Maria Mussini, Maurizio Romani, Laura Bignami e Fabrizio Bocchino. Per quanto riguarda l’Istituto Penale per Minori "Silvio Paternostro" di Catanzaro, è stato evidenziata la mancata risposta all’istanza di trasferimento definitivo o di proroga del distacco della Educatrice Arianna Mazza, Funzionario della professionalità giuridico pedagogica in forza alla Casa Circondariale "Ugo Caridi" di Catanzaro Siano. A tal proposito è stato chiesto ai Ministri di conoscere quale sia lo stato del relativo procedimento amministrativo e nell’eventualità che questo si sia concluso in maniera negativa quali siano le ragioni che non hanno consentito l’accoglimento dell’istanza. Infine, sempre relativamente al carcere minorile, è stata sollecitata la concessione della possibilità data ai detenuti ristretti negli Istituti Penitenziari per adulti, di far utilizzare il computer ed internet ai detenuti per motivi di formazione e/o di studio nonché l’uso di skype per facilitare i rapporti degli stessi con i propri familiari. Una delle criticità venute fuori dall’ispezione e denunciata dal Senatore Molinari è costituita dall’assenza in tutta la Regione Calabria di Comunità Psichiatriche Minorili, cioè di strutture residenziali terapeutico - riabilitative ed educative per minori, con gravi disturbi del comportamento correlati a patologie psichiatriche dell’età evolutiva o con problemi di dipendenze patologiche, necessarie per garantire al minore/adolescente accolto, un trattamento terapeutico riabilitativo personalizzato e definito all’interno di un progetto individuale. La Regione Calabria, qualche tempo fa, prese accordi ben precisi con il Centro per la Giustizia Minorile della Calabria e della Basilicata di Catanzaro per istituire una delle predette Comunità ma, poi, come spesso accade, tali accordi non sono stati rispettati, violando la normativa vigente, che impone alle Regioni di attivarsi per garantire, nel rispetto delle esigenze di sicurezza, la tutela della salute dei detenuti, anche di quelli minorenni. Sarebbe indispensabile ed urgente - scrivono i Senatori della Repubblica - che venga istituita in Calabria una Comunità Psichiatrica Minorile visto che, attualmente, ogni ragazzo deve essere mandato fuori Regione con un costo di circa 200 euro al giorno per l’Azienda Sanitaria Provinciale competente per il luogo di residenza del soggetto. In merito il Governo dovrà chiarire se e quali iniziative ed eventualmente entro quali tempi, intenda intraprendere per favorire l’istituzione delle Comunità Psichiatriche Minorili in Calabria al fin di tutelare la salute dei minori sottoposti a provvedimenti penali, visto anche il ruolo giocato dal Governo sul commissariamento del comparto sanitario della Regione Calabria. Pistoia: detenuti operai in carcere, apprezzamento del Garante regionale Franco Corleone quinewspistoia.it, 5 febbraio 2016 Apprezzamento del garante regionale Franco Corleone in visita al penitenziario di Pistoia dove sono in corso i lavori per i danni del vento. La struttura pistoiese ospita al momento 21 detenuti, 8 dei quali in carcere per detenzione e spaccio di stupefacenti, 6 per rapina, 4 per furto e 3 per ricettazione. Il garante regionale dei detenuti Franco Corleone li ha incontrati stamattina. "In questa fase, troviamo un cantiere - ha detto Corleone - in cui gli operai sono tutti carcerati che, non solo stanno lavorando al ripristino della struttura, pesantemente danneggiata dal maltempo lo scorso anno, ma stanno anche apportando migliorie soprattutto nei locali dei servizi igienici e nelle celle". Una volta completati i lavori entro la fine dell’estate, ha precisato Corleone, la capienza del carcere pistoiese "sarà di 66 persone più 10 posti per semiliberi". Alcune novità arriveranno già dal questo mese, entro la fine del quale "è in programma "la riapertura delle stanze adibite al transito dei nuovi giunti, al momento inviati a Prato o a Lucca". Per il garante si tratta di un "buon progetto" che prevede l’annessione al carcere di una struttura dei frati Cappuccini per "garantire più spazio e ospitare 20 persone in stato di semilibertà, di detenzione alternativa o per progetti di accoglienza". Il carcere di Pistoia ha anche siglato con il Comune un protocollo per l’impiego di alcuni detenuti in lavori di pubblica utilità. Unica criticità segnalata "il ritardo nella concessione di alcuni permessi". Firenze: intesa con il Coni, sport in carcere per favorire il reinserimento dei detenuti 055firenze.it, 5 febbraio 2016 Siglato un protocollo tra Coni e Ministero della Giustizia. Tra i vari percorsi di reinserimento per i carcerati, si pensa anche allo sport. È avvenuto l’incontro tra il presidente alle Politiche Sociali e della Salute - Servizi sociali e Sanità, Nicola Armentato con il provveditore regionale Carmelo Cantone e il garante per i detenuti Eros Cruccolini. Al centro dell’incontro è stato il tema di Sollicciano, come migliorare e implementare gli standard di qualità. Sono stati ipotizzati percorsi formativi per facilitare il reinserimento nel mondo del lavoro dei detenuti. Partendo dal protocollo esistente tra Coni e Ministero di Grazia e Giustizia si punta a coinvolgere le Federazioni sportive a mettere in piedi corsi per istruttori sportivi così da poter poi dare la possibilità di ottenere un brevetto che può diventare un’opportunità di lavoro quando il detenuto avrà terminato di scontare la pena detentiva. Il progetto rugby in carcere vede il coinvolgimento del Firenze Rugby. "Mi auguro che possa diventare realtà a breve e permettere così alla neonata squadra composta da detenuti di poter partecipare ad un campionato ufficiale della federazione italiana rugby - ha spiegato il Provveditore Cantone. Se così sarà - ha concluso Nicola Armentano (Pd) - avremo portato a termine un’esperienza innovativa che ci ha visto coinvolti nel sostenerla sia come commissione che come Pd". Napoli: progetto "Keramos-Liberi dentro", mostra-mercato delle opere dei detenuti Ansa, 5 febbraio 2016 Manufatti, creazioni in argilla e creta dei detenuti, in mostra nel Consiglio regionale della Campania. È il risultato del progetto "Keramos-Liberi dentro", promosso dalle coprente Quadrifoglio e La mansarda destinato a 16 detenuti del carcere di Poggioreale. Oggi, gli oggetti realizzati sono stati messi in mostra e, volendo, è anche possibile acquistarli. "Una sfida che abbiamo davanti come istituzioni - ha detto Rosa D’Amelio, presidente del Consiglio regionale della Campania - è fare in modo che il carcere non sia solo una pena da scontare, ma che abbia una sua funzione riabilitativa per reinserire i detenuti nella società una volta fuori di prigione". Con questo progetto, i detenuti imparano un mestiere e acquisiscono competenze che possono spendere sul mercato del lavoro una volta scontata la pena. "In tanti hanno scoperto di avere una straordinaria manualità", ha fatto sapere D’Amelio, per la quale occorre che "tutti capiscano che, se ci impegniamo a finanziare progetti di inclusione sociale, a vincere sono lo Stato e tutte le istituzioni democratiche". Samuele Ciambriello, presidente dell’associazione La Mansarda, ha spiegato che il corso di ceramica non è l’unico organizzato per i detenuti. "Lo scorso anno ne è stato organizzato uno di pasticceria - ha affermato - e accanto ai corsi per imparare un mestiere, ci sono quelli ludico-ricreativi come per esempio la film terapia o la lettura di libri in gruppo". "Alle persone che entrano in carcere - ha sottolineato - va tolta la libertà, non la dignità. Queste sono piccole iniziative ma sono importanti per il recupero e la risocializzazione dei detenuti". "Il segnale che lanciamo è che queste persone, seppure hanno sbagliato, possono acquisire competenze - ha evidenziato Lidia Ronghi, presidente della Cooperativa Quadrifoglio - C’è grande richiesta da parte di queste persone che vogliono riabilitarsi, non soltanto scontando la pena, ma anche cercando di recuperare il loro essere sociale". Padova: lo scrittore Lucio Simonato incontra i detenuti per parlare di immigrazione Giornale di Vicenza, 5 febbraio 2016 Lo scrittore piovenese Lucio Simonato incontra i detenuti del carcere di Padova per parlare di immigrazione. Mercoledì l’autore del volume "Con i loro occhi con la loro voce", con il supporto della cooperativa Altra Città, ha incontrato alcuni detenuti della casa di reclusione e di quella circondariale per leggere le testimonianze di profughi raccolte nel suo libro. "Varcare la soglie del carcere, notare il clima di controlli e passaggi da compiere, consegnare telefono, portafoglio e oggetti personali, attraversare i corridoi, guardare dalle finestre e vedere sbarre ovunque, sono situazioni che colpirebbero chiunque- spiega Simonato. Il dramma del carcere era reso ancor più pesante per la concorrenza di elementi come tipi diversi di detenzioni, colpevoli, innocenti, reati gravi e reati lievi, varietà sociale e culturale dei detenuti, limitatezza degli spazi e mancanza di privacy. Parlare dei temi del mio libro in una delle strutture penitenziarie più grandi del triveneto non è stato facile, ma nonostante ciò le persone che ho incontrato erano attente, partecipi e, alla fine dell’incontro, mi hanno ringraziato: è stata un’esperienza forte che ricorderò a lungo". Viterbo: oggi pomeriggio le sorelle Sabatini suoneranno per i detenuti di Mammagialla tusciaweb.eu, 5 febbraio 2016 Venerdì 5 febbraio alle 15 a Viterbo nel teatro della casa circondariale Mammagialla le sorelle musiciste e terziarie francescane Daniela e Raffaella Sabatini, rispettivamente pianista e violinista, terranno un concerto per i detenuti intitolato "Per un tempo di misericordia". Il concerto si svolge nell’ambito del festival internazionale per il Giubileo della misericordia "Iubilaeum misericordia in musica" fondato e diretto dalle stesse sorelle Sabatini, internazionalmente note per la loro peculiare missione artistica che da sempre le vede unire la loro brillante ed intensa attività musicale incentrata sulla musica sacra e religiosa al loro impegno sociale ed umanitario, e presenterà un programma esteso dal sec. XVII ad oggi con composizioni di varie epoche e stili incentrate sul tema della misericordia e della speranza oltre a numerose prime esecuzioni mondiali di composizioni di Daniela Sabatini fra cui "Il nome di Dio è Misericordia" e "Laudato sì", ispirate al recente libro ed all’ Enciclica di Papa Francesco, e "Visitare i carcerati" tratto da "Beati i misericordiosi - Le 14 opere di misericordia". La sospensione di Schengen sarebbe dirompente per la crescita Ue di Michele Pignatelli Il Sole 24 Ore, 5 febbraio 2016 "Una più ampia sospensione di Schengen e di misure che mettono in pericolo le conquiste del mercato interno potrebbero potenzialmente avere un impatto dirompente sulla crescita economica. Qualsiasi ricaduta inattesa della crisi in Grecia potrebbe pesare maggiormente sulle decisioni di investimento e quindi sulla crescita economica". Il rapporto sulle previsioni d’inverno della Commissione europea dedica un intero capitolo ai rischi al ribasso per l’Eurozona, e al primo punto analizza la dibattuta questione Schengen. Nell’introduzione, firmata da Marco Buti, Direttore generale dei servizi Ecfin della Commissione, si osserva che "l’economia europea fin qui è stata capace di resistere ad un ambiente esterno meno favorevole". "Ciò nonostante - scrive Buti - i rischi di ribasso derivanti dell’economia globale e dai mercati finanziari globali sono grandi e numerosi". "Dal lato domestico l’estensione di favorevoli condizioni (il riferimento è alla riduzione dei costi dell’energia, ndr) ha creato possibilità di crescita nel breve termine, ma sono cresciute anche le sfide legate alla politica ed i rischi di ribasso". E tali rischi di peggioramento "includono le reazioni politiche alle minacce dell’immigrazione e alla sicurezza, che potrebbero mettere ulteriore pressione sul sistema Schengen, così come fanno le incertezze sull’ulteriore messa in atto delle riforme necessarie da lungo tempo". L’impatto economico dei migranti - Ma è lo stesso Buti, sempre nella introduzione dal lui firmata, a sottolineare che "l’arrivo di un numero senza precedenti di migranti" nel territorio dell’Ue ha prodotto un "sorprendente rialzo" della spesa pubblica. Contro la distruzione di Schengen si è espresso anche il Commissario per gli Affari Economici e finanziari Pierre Moscovici, che ha detto: "Le regole sulla libera circolazione in Europa fissate dall’accordo di Schengen vanno riformate, ma distruggere Schengen sarebbe un errore politico ed economico". E ha aggiunto: "Se Schengen viene messa a rischio, il costo per l’economia sarà molto alto". Moscovici ha aggiunto: "Non abbiamo nuove cifre sull’impatto economico dell’arrivo dei migranti in Europa, resta perciò valida l’analisi contenuta nelle previsioni d’autunno. La Commissione sta lottando per salvare Schengen in quanto la sua fine sarebbe anche un grande errore economico. Le spese per i rifugiati, anche se fanno aumentare il deficit, hanno un effetto espansionistico perché sostengono la crescita nei Paesi". Il Commissario è anche tronato sulla questione della Grecia. "Non mischiamo i due processi, quello sui migranti e quello sul programma di assistenza finanziaria in Grecia, anche se riguardano lo stesso stato membro e la stessa Ue". E ha sottolineato che "il programma di assistenza finanziaria in corso ha la sua logica, non è Schengen né gli hotspot". La revisione da parte delle istituzioni della ex Troika è in corso ad Atene e l’obiettivo è concluderla il prima possibile, ha detto ancora Moscovici. L’Occidente non resti a guardare. Gli impegni e i rischi in Siria e in Libia di Francesco Venturini Corriere della Sera, 5 febbraio 2016 Dietro le parole roboanti e gli aiuti che arrivano sempre in ritardo, gli sforzi diplomatici non riescono a nascondere l’impotenza dell’Occidente nella lotta all’Isis. La Siria e la Libia, a noi drammaticamente vicine per le tragedie che vi si svolgono e per i flussi migratori che producono, sono i laboratori di una controffensiva che con qualche ipocrisia la comunità internazionale prevede vincente. Ebbene, cosa ne è stato degli sforzi compiuti, e cosa ne sarà? I negoziati di pace sulla Siria, formalmente soltanto "sospesi" mercoledì sera a Ginevra, si sono rivelati lo specchio fedele di una catastrofe strategica e umanitaria che i miliardi promessi ieri a Londra purtroppo non cambieranno. La delegazione degli anti Assad chiedeva per trattare una tregua d’armi, e Assad, aiutato dalle bombe di Putin, ha risposto sferrando una offensiva militare nella martoriata regione di Aleppo. Gli americani sempre meno influenti hanno visto cadere nel vuoto i loro appelli. L’Arabia Saudita e la Turchia hanno manovrato le loro pedine contro l’Iran e la Russia. Ankara ha imposto un veto sulla presenza dei curdi siriani che pure sono essenziali nella lotta all’Isis. Alla fine nel disastro ginevrino hanno vinto proprio l’Isis e Assad, che meglio di tutti possono sfruttare le divisioni altrui. E la Libia, a 400 chilometri dalle nostre coste? Se la situazione in Siria è disperante e annuncia nuove ondate di profughi diretti in Europa, il braccio di ferro libico è per noi ancor più minaccioso. Gli americani sono stati i primi ad ammettere che l’Isis ha raddoppiato in Libia le sue forze portandole a 5/6 mila uomini, e John Kerry ha escluso che gli Usa possano assistere passivamente "alla nascita di un finto Califfato che punta a impadronirsi di miliardi di petrodollari". Le indiscrezioni su pezzi grossi dell’Isis che sarebbero fuggiti dalla Siria per rifugiarsi a Sirte, poi, sono frutto di un abbaglio: l’Isis ora punta anche sulla Libia, e vi manda chi è utile al suo disegno. Come fermare allora questi tagliagole che la vicinanza induce talvolta a minacciare Roma? Esiste un progetto, al quale l’Italia ha molto contribuito. Si spera che lunedì o martedì un nuovo governo unitario venga presentato all’approvazione del Parlamento di Tobruk (la prima compagine è stata bocciata). E si spera che stavolta ce la faccia. Anche perché nei giorni scorsi è sceso in campo un mediatore segreto, il presidente egiziano al-Sisi, che ha convocato al Cairo il suo protetto generale Haftar e gli ha imposto di incontrare il premier in pectore Fayez al-Sarraj. Cosa che Haftar ha subito fatto. Basterà? Anche i parlamentari fedeli al generale ascolteranno gli autorevoli consigli di al-Sisi? Ipotizziamo di sì. Resterà da insediare il governo unitario a Tripoli, cioè a casa di quei gruppi islamisti che hanno già promesso battaglia contro "l’esecutivo voluto dagli stranieri". Difficile. Ma il premier al-Sarraj potrebbe allora, in conformità alle risoluzioni dell’Onu, chiedere aiuto. E qui le speranze diventano temerarietà. Consideriamo il caso dell’Italia: noi forniremmo assistenza logistica, addestramento militare, sorveglianza di luoghi strategici, operazioni navali. Un intervento a metà, insomma, in appoggio a forze libiche che sarebbero invece pronte a combattere (contro l’Isis ma non soltanto, perché le inimicizie tra milizie e tribù non sparirebbero come per incanto). Se andrà così, potremo dire agli stessi libici di esserci mossi su loro richiesta malgrado la base molto ristretta del nuovo governo. Con gli alleati inglesi, francesi e americani aiuteremo le milizie amiche, come quella di Misurata, a distruggere i capisaldi dell’Isis. Scacceremo il fantasma del 2011, getteremo le basi di una cooperazione a lungo termine con una Libia stabilizzata. E potremo finalmente suonare le trombe della vittoria. Ma quanto è realistico, questo scenario? In Libia i confini tra "buoni" e "cattivi" sono molto labili, sarà arduo per gli occidentali limitarsi ad appoggiare combattenti libici. Più probabile è una ripetizione contro l’Isis del "modello Ramadi", con aerei e truppe speciali a sostegno di reparti locali formalmente incaricati di comandare le operazioni. La corsa contro il tempo è ormai partita, e non durerà più di poche settimane. È vero, correremo il rischio di volgere contro gli occidentali il nazionalismo libico, l’Isis tuonerà contro i "crociati", tenterà di fare nuove reclute e ci riuscirà. Ma davanti al nemico assoluto bisogna scegliere. E il rischio di cadere nella trappola mediatica dell’Isis è di gran lunga inferiore a quello di vederlo crescere e prosperare, grondante di sangue, davanti a casa nostra. Forse l’Occidente sta per porre un limite alla sua impotenza. Egitto: la verità per Giulio Regeni di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 5 febbraio 2016 Omicidio al Cairo. Giulio Regeni è morto in un modo atroce. Troppe lacune e contraddizioni nelle indagini al Cairo. La pista dell’arresto da parte della polizia nell’anniversario di Tahrir è la più probabile. Secondo le prime indiscrezioni, sul corpo trovati lividi, ferite da taglio e ustioni. Scontro tra la procura e la polizia del Cairo. Giulio Regeni è morto nel modo più atroce possibile. Una morte lenta mentre le ferite sul suo corpo richiamano i segni della tortura. Il cadavere è stato rinvenuto semi-nudo in un fosso della periferia del Cairo. L’autopsia avrebbe confermato ferite prodotte da oggetti taglienti, quindi non compatibili con le prime ricostruzioni della polizia. Le autorità egiziane continuano a considerare come valide le piste della rapina finita male e dell’incidente stradale. Al Cairo i tassi di criminalità sono bassissimi, e sebbene siano aumentati nella fase seguente alle rivolte del 2011, si è tornati alla calma con la retorica della stabilità che ha legittimato il golpe militare del 2013. In secondo luogo, Giulio non aveva una vettura. Gli articoli sul "manifesto" - La pista dell’arresto sommario da parte della polizia resta la più plausibile per varie ragioni e qui ricostruiamo punto per punto gli elementi che corroborano questa ipotesi. Giulio ha proposto articoli sui movimenti sindacali indipendenti al manifesto. L’ultimo articolo che trovate nell’edizione in edicola (e dalle 10 sul sito) racconta con un’efficacia unica quel poco che è rimasto del sindacalismo indipendente in Egitto. Giulio aveva preso parte alle riunioni dei lavoratori che si sono tenute negli ultimi mesi al Cairo e ne aveva seguito le dinamiche da attento studioso. Nelle comunicazioni che abbiamo avuto negli ultimi mesi trapelava però un certo timore di apparire in prima persona come firma di un articolo sui movimenti alternativi in un contesto di totale repressione che sta attraversando il paese. Non ci sono state riferite minacce precise o episodi di intimidazione ma un clima generale che rende meno semplice anche la scrittura di una corrispondenza. Troppi punti oscuri - Sono decine i giornalisti e studiosi stranieri a essere stati arrestati ed espulsi dall’Egitto negli ultimi mesi. A validare questi timori c’è la testimonianza di Anne Alexander, stimata docente dell’Università di Cambridge, che ha confermato in un’intervista al Guardian di aver fornito a Giulio contatti e numeri di attivisti egiziani, vicini ai movimenti operai. La seconda prova che rende plausibile la pista dell’arresto della polizia viene dalla testimonianza di una giornalista egiziana che ha visto la polizia arrestare uno straniero alla fermata della metropolitana Giza. Secondo le testimonianze di alcuni suoi amici, quella sera Giulio stava per arrivare da casa sua ad una festa di compleanno nei pressi del mercato di Bab el-Louk. La deviazione potrebbe essere avvenuta alla fermata Mohammed Naguib in direzione Giza. La data cruciale del 25 gennaio - Alle porte dell’Università del Cairo si era tenuto un sit-in di protesta nel 2013 e si sarebbero potute svolgere manifestazioni contro il colpo di stato militare anche in occasione del quinto anniversario dalle proteste di piazza. Le contestazioni non si sono poi verificate. È plausibile che Giulio si fosse fermato in uno di questi luoghi prima di raggiungere gli amici e qui potrebbe essere stato notato e arrestato dalla polizia. La sicurezza al Cairo era a livelli senza precedenti per le possibili proteste. Ed è proprio la data del 25 gennaio che più di ogni altra cosa avvalora la tesi dell’arresto sommario finito male. 600 desaparecidos in Egitto - In quelle ore 5 mila abitazioni sono state perquisite e decine sono stati gli arresti, soprattutto di islamisti. Non esiste invece un legame certo tra la sua ricerca dottorale e la scomparsa di Giulio. Potrebbe essersi trattato di un arresto e di una sparizione come tante che accadono al Cairo. Sono oltre 600 i desaparecidos nel regime militare di al-Sisi. Le autorità italiane dovrebbero chiedere che i fatti vengano accertati nella maniera più trasparente possibile. Questo non è affatto evidente per la controparte egiziana. In occasione dell’abbattimento dell’Airbus A321 nel Sinai, rivendicato da jihadisti di Isis, le autorità egiziane hanno fabbricato prove fasulle pur di non accreditare la pista della bomba a bordo, poi confermata dalla intelligence di mezzo mondo. Le stesse ricostruzioni fantasiose hanno riguardato decine di altri casi, a partire dall’incredibile sparatoria contro turisti messicani da parte degli stessi militari nel deserto di Bahareia. Le ombre dell’Italia - Certo resta l’amarezza che il perno della politica estera di Matteo Renzi sia stato e continui a essere l’asse con il generale al-Sisi. La notizia del ritrovamento del cadavere di Giulio è arrivata nel bel mezzo di un meeting economico guidato dal ministro dello Sviluppo, Federica Guidi, immediatamente rientrata in Italia. Ma Renzi ha sempre citato al-Sisi come il modello di lotta al terrorismo in Medio oriente e sarà forse anche pronto ad appoggiare un possibile intervento in Libia che con ogni possibilità potrebbe avere l’esercito egiziano a guidarlo. Egitto: morte di Giulio Regeni, spunta la pista del delitto politico di Carlo Bonini La Repubblica, 5 febbraio 2016 Improbabile che gli autori appartengano alla criminalità comune o al terrorismo islamico: il 25 si parlò dell’arresto di un giovane straniero. I sospetti su servizi e squadroni della morte. Non esiste in realtà alcun mistero su come sia stato assassinato Giulio Regeni. La cortina di bugie con cui il ministero dell’Interno e le autorità di polizia egiziane tentano per 24 ore di dissimulare la verità, per occultare o comunque confondere il movente dell’omicidio, non regge. Non regge alla prova delle prime, inconfutabili circostanze di fatto che è possibile fissare in questa storia. Interpellate da "Repubblica", tre diverse e qualificate fonti (diplomatiche, investigative e di intelligence) descrivono le condizioni del cadavere del ragazzo (trasferito ieri sera nella morgue dell’Umberto I, l’ospedale italiano al Cairo) con un medesimo aggettivo: "Indicibili ". Evidenti i segni di tortura sul corpo. Ustioni di sigaretta, la mutilazione di un orecchio, incisioni da taglio, ecchimosi profonde e diffuse. Esattamente come riferito nell’immediatezza del ritrovamento del cadavere dai magistrati della Procura di Giza, Hosam Nassar e Ahmed Nagi, frettolosamente e goffamente smentiti dal generale Khaled Shalabi, capo del dipartimento di indagini di polizia giudiziaria, e dal portavoce del ministero dell’Interno, nel tentativo di accreditare un’inverosimile confusione tra le tracce lasciate da una morte tanto "lenta" quanto atroce con quelle di un incidente stradale. C’è di più. Giulio Regeni - proseguono le fonti di Repubblica - non solo è stato vittima di uno scempio, ma, come apparso evidente a chi ha potuto constatare lo stato di decomposizione del cadavere, è morto non molto tempo dopo essere stato sequestrato (il 25 gennaio non lontano da piazza Tahir). "Diversi giorni prima del 3 febbraio", quando il corpo è stato ritrovato sul ciglio della strada che collega il Cairo ad Alessandria. Chi ha ucciso Giulio, dunque, ha avuto ad un certo punto fretta di liberarsi del cadavere. E lo ha fatto con una goffa messa in scena. Abbandonandolo nudo dalla cintola in giù, per poter accreditare prima un "delitto a sfondo sessuale" (questo il tenore delle prime informazioni trasmesse dalla polizia egiziana alle nostre autorità nella notte di mercoledì), quindi la pista della criminalità comune e, infine, la storia di cartapesta dell’incidente stradale. L’ultima corrispondenza. Sapere come è stato ucciso Giulio Regeni non equivale a indovinare chi lo ha ucciso. Ma certo offre un indizio robusto che consente di escludere con ragionevole certezza sia la matrice terroristica (la morte rituale islamista dell’infedele non prevede cadaveri abbandonati clandestinamente e, soprattutto, ai boia islamisti l’osservanza coranica vieta il fumo e lo strumento di tortura dei mozziconi di sigaretta) che quella della criminalità comune, nelle cui leggi universali è scritto che ci si manifesti per avere un riscatto del proprio ostaggio. E dunque, a meno di non voler accreditare il gesto di uno psicopatico di cui non c’è traccia nella vita e nelle relazioni intrecciate da Giulio al Cairo, resta una sola altra possibile mano. Quella mossa dal movente "politico". Che trova un primo, significativo riscontro. Nell’ultima mail inviata il 9 gennaio al quotidiano il Manifesto, con cui aveva cominciato a collaborare con pseudonimo scrivendo un articolo a doppia firma pubblicato nel dicembre scorso, Giulio si raccomandava e confessava la sua paura. "Se decidete di mettere il mio nuovo articolo, mettetelo con lo pseudonimo, perché sono preoccupato". Preoccupato, evidentemente, della pressione che aveva cominciato ad avvertire sui contatti egiziani con cui lavorava alla sua tesi in economia. Ma anche della pressione sull’ambiente dei professori e dei ricercatori dell’American University (che frequentava) i cui cellulari, da ieri, sono rimasti significativamente muti alle chiamate dalla redazione del Manifesto. Polizia, servizi e paramilitari. La paura confessata per mail da Giulio, non appare insomma neutra. Né lo sono il luogo e la data della sua scomparsa (il 25 gennaio, quinto anniversario della rivolta di piazza Tahir), in coincidenza con una serie di retate condotte dal regime di Al Sisi sugli oppositori. Il che porterebbe la ricerca degli assassini dritta agli apparati di sicurezza del Paese. La Polizia e il famigerato Mukhabarat, il Servizio segreto. Non fosse altro perché almeno due testimonianze raccolte al Cairo riferirebbero di un giovane occidentale arrestato nel centro della città proprio quel 25 gennaio di cui non c’è traccia nelle carceri cittadine. Si obietta che se davvero Giulio fosse stato eliminato da Polizia o Servizi, nessuno ne avrebbe fatto ritrovare il corpo. A maggior ragione in quelle condizioni. Ma, a ben vedere, l’argomento non è in grado di smontare l’ipotesi della mano e del movente politici. Come spiega una nostra qualificata fonte di intelligence "in Egitto, la situazione degli apparati di sicurezza è, diciamo così, fluida". Non è da escludere, insomma, che Giulio sia finito nelle mani di qualche squadrone della morte o, comunque, di qualche unità paramilitare o di polizia che, probabilmente, non ha neppure capito chi aveva fermato e nelle cui mani non ha resistito alle torture. Un fatto è certo. Con l’arrivo oggi al Cairo di un team di investigatori italiani (militari del Ros dei carabinieri e dello Sco della Polizia) il tempo per gli egiziani di trovare dei "colpevoli" plausibili per l’omicidio di Giulio si accorcia. E non sarà facile. A maggior ragione se i suoi assassini dovessero avere argomenti "convincenti" con il regime di Al Sisi per non essere consegnati alla giustizia italiana. Egitto: dopo il golpe del 2013 uno stato di polizia di Giuseppe Acconcia Il Manifesto, 5 febbraio 2016 L’Egitto è un regime militare e uno stato di polizia in seguito al colpo di stato del 3 luglio 2013 che ha portato al potere l’ex generale Abdel Fattah al-Sisi. Da quel momento il principale partito di opposizione, Libertà e giustizia, braccio politico dei Fratelli musulmani, è stato messo fuori legge. Sono state approvate leggi anti-proteste e anti-terrorismo. Sono migliaia i prigionieri politici e i casi di torture in carcere. Dopo la farsa delle elezioni parlamentari che hanno consegnato tutti i seggi ai militari, il clima di repressione politica si è ancor più aggravato. Ieri l’avvocato e attivista Gamal Eid è stato arrestato all’aeroporto del Cairo mentre stava per salire sul suo volo. Tra gli arrestati delle ultime ore, figura anche il fumettista Islam Gawish, poi rilasciato, che aveva pubblicato disegni critici verso il regime. È stato arrestato anche l’attivista socialista più volte intervistato dal manifesto, Taher Mokhtar. Sono ancora in prigione i compagni Mahiennour el-Masry e Ismail Alexandrani. L’attivista comunista è in prigione per aver assaltato, secondo il giudici, una stazione di polizia al tempo della presidenza Morsi. Lo studioso Alexandrani, vicino al candidato comunista alle presidenziali del 2012, Khaled Ali, è stato invece arrestato per le sue ricerche nel Sinai. Nei giorni di manifestazioni e scontri più intensi, sono stati sempre gli stranieri nell’occhio del ciclone. Negli ultimi mesi, un sentimento di diffusa xenofobia ha spinto decine di giornalisti e studiosi a lasciare il paese. Molti sono i casi di espulsioni all’arrivo in aeroporto o notizie di persone direttamente prelevate dalle loro abitazioni. Il caso più grave riguardò un giovane insegnante canadese, Andrew Pochter, che nell’estate del 2013 venne ucciso durante una manifestazione ad Alessandria d’Egitto. Anche i turisti sono diventati obiettivo facile dei gruppi jihadisti nel Sinai che più volte hanno attaccato pullman di stranieri. L’episodio più grave è costato la vita di 224 persone, imbarcate sul volo Airbus A-321 della russa Metrojet. Ormai siamo entrati in una fase di repressione ancora più incisiva rispetto ai mesi seguenti al golpe del 2013. Il nuovo parlamento, controllato per la quasi totalità dalla lista elettorale "Per l’amore dell’Egitto", è entrato in piene funzioni lo scorso 11 gennaio. Addirittura l’ex presidente ad interim, Adly Mansour, ha potuto liberamente criticare nella prima sessione delle Camere la Costituzione per i riferimenti che contiene alle rivolte del 2011. Una dura legislazione contro i simboli della Fratellanza musulmana e del movimento 6 aprile è stata approvata mentre tutti i decreti legislativi, voluti dall’ex generale, sono stati confermati dal parlamento ad eccezione della contestata legge sul pubblico impiego. Al-Sisi ha assunto una posizione aggressiva in politica estera ben distinta dagli obiettivi del neo-nasserismo a cui inizialmente diceva di ispirava. L’Egitto si è appiattito sulle posizioni israeliane nell’operazione Margine protettivo di fatto prolungando il conflitto per settimane. Ha poi attaccato lo Yemen al fianco dell’Arabia Saudita, di fatto contribuendo a destabilizzare il paese. Ha assunto il controllo di metà della Libia con il suo uomo forte, Khalifa Haftar. Il golpe in Egitto è una delle cause dell’ascesa dello Stato islamico nella regione. Se l’alternativa dell’islamismo politico è sembrata impraticabile per l’associazione che al-Sisi ha promosso tra Fratellanza musulmana e terrorismo, i jihadisti hanno avuto vita facile dove lo stato è apparso più debole, come nel Sinai, oppure sono stati riattivati i legami tra estremisti ed intelligence militare per attivare attacchi ad orologeria nei momenti cruciali delle rivolte. Non solo, questo atteggiamento ha azzerato il potenziale rivoluzionario dei movimenti, trasformando le contestazioni, soprattutto proletarie e dal basso, intercettandole e disattivandole. Questo ha avuto effetti devastanti in tutti i paesi della regione a partire dalla Tunisia, ma anche in Siria e Libia. Gli Stati uniti non hanno mosso un dito per difendere gli islamisti di Morsi e neppure hanno congelato gli aiuti militari al Cairo, come inizialmente promesso. Mosca e Parigi hanno convalidato l’ascesa del generale, subendo i più gravi attentati terroristici della loro storia recente. Siria: nel corso del conflitto oltre 260.000 morti e quasi cinque milioni di profughi in fuga Askanews, 5 febbraio 2016 Oltre 260.000 morti, oltre la metà della popolazione costretta alla fuga e un paese in rovine: questo il bilancio di massimo dei cinque anni di conflitto stilato dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani. Secondo l’osservatorio, nel dettaglio, al 31 dicembre 2015 i morti sarebbero 260.758 morti, di cui almeno 76.000 civili. Tra le vittime, almeno 13.000 persone hanno perso la vita in seguito a torture ricevute nelle carceri del regime mentre altro bersaglio della violenza sono state le infrastrutture sanitarie con almeno 177 ospedali distrutti e oltre 700 operatori sanitari uccisi. Sui 23 milioni di abitanti di prima del conflitto, oltre la metà (13 milioni e mezzo) ha dovuto lasciare la sua abitazione e al momento circa 486.700 persone vivono in località sotto assedio da parte delle forze regolari o dei ribelli. Con la guerra 4,7 milioni di siriani hanno dovuto lasciare il paese (la maggior parte è accolta in Turchia ove si trovano al momento tra i due e i due milioni e mezzo di profughi siriani, segue il Libano con un milione e duecentomila rifugiati). Pesantissime anche le conseguenze sull’economia, col settore industriale letteralmente paralizzato dal conflitto e una caduta delle esportazioni pari al 90%. Pesanti anche le perdite dirette e indirette sul fronte petrolifero con 58 miliardi di perdite. Siria: si raccolgono soldi ma non si ferma la guerra di Chiara Cruciati Il Manifesto, 5 febbraio 2016 Siria. Il mondo regala all’Onu 10 miliardi di dollari per i rifugiati siriani e i paesi mediorientali che li ospitano. Ma il conflitto si moltiplica e le condizioni di vita per i profughi peggiorano: la storia di Ruqban. Ginevra è fallita, seppure l’Onu tenti un’arrampicata sugli specchi camuffando lo stop chiamandolo "pausa temporanea" di tre settimane. Le accuse che ieri rimbalzavano da un fronte all’altro ne sono la dimostrazione: Francia, Usa e Turchia tacciano l’asse Mosca-Damasco di aver "silurato gli sforzi di pace" proseguendo con la controffensiva su Aleppo. "Il continuo assalto del regime siriano, sostenuto dai raid russi, contro le aree controllate dalle opposizioni - ha detto il segretario di Stato Usa Kerry - ha chiaramente mostrato l’intenzione di cercare una soluzione militare invece che politica". La Russia ha espresso dispiacere per la sospensione, ma insistito sul proseguimento dei bombardamenti contro Isis e al-Nusra. Ma soprattutto lancia accuse al vetriolo alla Turchia: ci sono "prove ragionevoli", tra cui l’incremento di truppe e infrastrutture militari al confine - ha detto il portavoce dell’esercito russo - dell’intenzione di Ankara di compiere "azioni di terra in territorio siriano". Se così fosse sarebbe diretto al nord della Siria, dove il nemico turco - i kurdi di Rojava - si sta allargando finendo per controllare buona parte della frontiera turco-siriana. Insomma, la guerra non tace ma si moltiplica. E con la guerra si moltiplicano i rifugiati siriani sparpagliati in Medio Oriente, in campi male attrezzati, spesso abbandonati a se stessi. Un esempio? Ruqban, campo di profughi siriani in Giordania, al confine con la Siria, una striscia considerata terra di nessuno e lontana 120 km dal primo villaggio abitato. Ci vivono 19mila profughi. La pioggia incessante ha peggiorato condizioni già pessime, mentre l’epatite si diffonde rapidamente. In ogni tenda vivono fino a cinque famiglie, 30-40 persone, una promiscuità che spiana la strada ai contagi. A raccontare la storia di Ruqban è il giornalista David Hearst su Middle East Eye: "Tra 70 e 100 rifugiati sono morti nelle ultime due settimane a causa della tempesta invernale - gli dice un cooperante, anonimo - Muoiono per le ferite di guerra, le malattie. Per malnutrizione, freddo, assenza di servizi sanitari". "I cani hanno una vita migliore", gli fa eco Zainab Zubaidi della White Hands Society for Social Development, organizzazione attiva nel campo profughi insieme a poche altre. C’è la Croce Rossa e piccole associazioni giordane, nulla di più. È difficile entrare, come accade per altri campi nel resto del paese: a controllarli sono i servizi segreti giordani. Ruqban non è il solo campo in cui le condizioni di vita hanno scavalcato il limite della decenza. In Iraq, Libano, Turchia, milioni di siriani sono schiacciati da fame, freddo, assenza di diritti. È il Medio Oriente a farsi carico di chi scappa dalla Siria, 5 milioni di persone accolte con difficoltà dai vicini. Li accolgono quasi costretti, molti - come il Libano - non li vogliono perché li considerano motivo di ulteriore destabilizzazione e perché costano troppo. Ieri re Abdallah di Giordania lo ha detto chiaramente: "Siamo vicini al punto di rottura". Il suo paese ospita 630mila rifugiati siriani (anche se stime governative parlano di 1.27 milioni), molti residenti nei campi, altri in appartamenti nelle grandi città, molto più spesso in garage o per strada. Sopravvivono con i coupon dell’Onu, 40 euro al mese che non sono abbastanza: i capi famiglia cercano lavori a giornata, con salari molto più bassi della media. Per Stati che aprono controvoglia i confini, c’è un’Europa che li chiude. Che paga 3 miliardi di euro al governo di Ankara perché si tenga i rifugiati e che organizza conferenze internazionali per raccogliere il denaro necessario a confinarli in Medio Oriente. Ieri Londra è stata il palcoscenico dell’elemosina mondiale, la conferenza "Support Syria". Alla fine l’Onu ha raccolto 10 miliardi, uno in più di quelli chiesti: l’Italia ha promesso 400 milioni in tre anni, la Germania 2.3 miliardi, la Gran Bretagna 3,3 entro il 2020, la Ue 3 miliardi tra 2016 e 2017 e gli Usa uno. Andranno alle agenzie delle Nazioni Unite e ai paesi mediorientali ospitanti perché migliorino le condizioni di vita dei rifugiati. Se la vita migliora, non scapperanno in Europa. Il governo giordano, alle prese con una seria crisi economica, ha già risposto: per 1.6 miliardi potrebbe dare lavoro a 150mila siriani, attraverso la creazione di 5 zone industriali "speciali" che godano di tariffe più basse per l’export in Europa. Ci si scambia favori, si fanno affari. Diversa la posizione del Libano (che ospita oltre un milione di rifugiati, su una popolazione di 4) che non intende aprire il mercato del lavoro ai siriani per timore di tensioni con i libanesi, alle prese con un tasso di disoccupazione vicino al 13%. Ma la questione siriana resta politica: se non si porrà fine alla guerra, i profughi non potranno che aumentare. La repressione degli intellettuali in Iran di Domenico Letizia L’Opinione, 5 febbraio 2016 La diplomazia italiana rafforza l’amicizia con il Paese sciita aprendo allo scambio e alla progettualità economica. Ma la situazione dei diritti umani è variata con la nuova presidenza Rouhani? No, anzi, le violazioni dei diritti fondamentali e civili sembrano aggravarsi con l’avvicinarsi delle elezioni parlamentari di febbraio 2016, come denuncia la Ong "Nessuno tocchi Caino". Il regime iraniano processa e arresta, innanzitutto, gli uomini di cultura in dissidenza con le autorità governative. Numerosi poeti, registi, artisti, e giornalisti sono vittime della legge islamica e della repressione politica iraniana. Anche il 2016 inizia all’insegna di tale "terrore politico". Già nella seconda metà del 2015, il regime teocratico aveva condannato ad una lunga pena detentiva, accompagnata da punizione consistente in 99 frustate, una coppia di poeti accusati di "propaganda contro lo stato" e "insulto alle divinità". Si tratta di Fatemeh Ekhtesari e del marito Mehdi Mousavi, già arrestati nel 2013, poco dopo l’insediamento del presidente Rouhani. Gli accordi sul nucleare hanno illuso le diplomazie occidentali che una qualche forma di cambiamento potesse svilupparsi nel Paese, invece, sembra che la situazione stia notevolmente degenerando. Karin Deutsh Karlekar, direttrice del Freedom of the Press Index che ogni anno rileva il grado di libertà di stampa in tutti i Paesi del mondo, ha commentato: "La gente probabilmente pensava che con gli accordi nucleari ci sarebbe stata una apertura da parte del regime. Ritengo invece che il sistema giudiziario iraniano stia cercando di arrestare, di far capire che questa apertura non ci sarà". Tale visione sembra confermare l’attualità del regime nei confronti degli intellettuali e uomini di cultura del Paese. Il noto poeta Mohamadreza Haj Rostambegioo è stato rilasciato dal carcere di Karaj dopo il pagamento di una cauzione. Già arrestato varie volte nel corso degli ultimi sei anni. Il poeta è stato rilasciato il 20 dicembre 2015, ma già nel 2009 e nel 2012 fu condannato al carcere e al pagamento di multe per "oltraggio al sacro" poiché aveva distribuito compact disc con le sue poesie e altre poesie vietate dal regime. Nota a parte dell’opinione pubblica occidentale è la vicenda del regista curdo iraniano Keywan Karimi (nella foto). Nell’ottobre 2015 è stato condannato a sei anni di carcere e 223 frustate per aver offeso le istituzioni sacre dell’Iran. La condanna di Karimi potrebbe essere il frutto delle pressioni che l’ala più conservatrice del clero iraniano sta facendo sul presidente Rouhani affinché blocchi nel Paese la diffusione dell’"oltraggiosa cultura occidentale". Il caso di Karimi è particolarmente ingarbugliato poiché anche l’Università di Teheran ha sostenuto sempre i suoi lavori, lavori per i quali è stato condannato. Altro caso è quello della poetessa iraniana Hila Sedighi, che nella nottata del 7 Gennaio 2016 è stata tratta in arresto all’aeroporto "Imam Khomeini" di Teheran, al ritorno da un viaggio negli Emirati Arabi, dove da alcuni anni vive con il marito. Hila Sedighi, oltre ad essere una artista molto nota, è anche una attivista per i diritti umani e politici in Iran. Durante le elezioni del 2009, Hila aveva sostenuto il candidato presidenziale Hossein Mousavi, ma la rielezione di Ahmadinejad scatenò le famose manifestazioni note come "l’Onda Verde" represse nel sangue. Anche il musicista Mehdi Rajaban e il fratello regista e fotografo Hossein Rajaban sono stati condannati congiuntamente a sei anni di carcere e ad una multa di 200 milioni di rial per "oltraggio al sacro" e "propaganda contro lo stato". I due artisti sono stati condannati poiché "accusati di incoraggiare indifferenza religiosa promuovendo musica underground". I musicisti in Iran necessitano di una autorizzazione per tenere concerti e pubblicare album e video musicali. Il controllo istituzionale è rigoroso e solo alcuni generi musicali ricevono la licenza per la pubblicazione. Anche quando viene concessa la licenza, non vi è alcuna garanzia che i concerti possano tranquillamente svolgersi. Altresì la stampa non filo-governativa è soggetta a restrizioni e repressione. Il giornalista riformista iraniano Isa Saharkhiz, in arresto dal 2 novembre 2015, il 7 gennaio 2016 ha ricominciato uno sciopero della fame. Saharkhiz chiede di essere portato di fronte ad un giudice. Il giornalista iraniano insieme ad altri due colleghi sono sotto inchiesta per "offesa alla guida suprema" e "propaganda contro il regime". Nonostante le accuse e l’arresto i giornalisti non sono stati ancora formalmente incriminati. Saharkhiz era già finito nel mirino della repressione iraniana nel 2009. Secondo l’organizzazione per la libertà di stampa Reporter senza frontiere le autorità vogliono intimidire i media e i giornalisti con arresti preventivi a meno di due mesi dalle elezioni parlamentari. Stando a quanto riportato, Farad Pourmoradi, giornalista che lavora per testate locali come Kermanshah Post e Navai Vaghat, nella provincia di Kermanshah, è stato arrestato nella sua casa lo scorso 4 gennaio dopo essere stato individuato da agenti in borghese. La sua famiglia ancora non è a conoscenza delle motivazioni per cui è stato arrestato e non sa in quale luogo è detenuto. L’Organizzazione Iran Human Rights ricorda anche la chiusura, lo scorso 3 gennaio, del quotidiano riformista Bahar. Stando a quanto riferito dall’agenzia di informazione filogovernativa Mizan, il quotidiano sarebbe stato chiuso per "propaganda contro il regime" e per i suoi articoli che "danneggiano le basi della Repubblica Islamica". Il quotidiano è stato chiuso numerose volte dalla sua prima uscita, nel 2000. Nel 2013 fu il primo giornale messo al bando sotto la presidenza di Hassan Rouhani. Gli uomini di cultura perseguitati sotto Ahmadinejad ricevono lo stesso trattamento con Rouhani. L’opinione pubblica e la stampa hanno il doveroso compito di rendere nota la sistematica violazione dei diritti umani e politici che le autorità iraniane esercitano nei confronti del proprio popolo. Mauritania: l’Onu denuncia la mancata applicazione delle leggi contro la tortura Nova, 5 febbraio 2016 L’inviato speciale delle Nazioni Unite in Mauritania, Juan Ernest Mendez, ha accusato il governo mauritano di non applicare le leggi contro la tortura. Lo riferisce l’emittente francese "Rfi", secondo cui le norme contro la tortura e i trattamenti degradanti approvate lo scorso settembre dal parlamento mauritano non sarebbero applicate dalle autorità. "Esiste un gap tra la normativa e la sua applicazione sul terreno", ha detto l’inviato Onu, il quale ha tuttavia riconosciuto che "il governo mauritano fa sforzi significativi per adattare la legislazione agli standard internazionali". È importante, ha aggiunto Mendez, che "le nuove norme applicate quattro mesi fa vengano applicate il più presto possibile. I procuratori devono accertare che le confessioni non siano state estorte con la tortura". L’inviato Onu ha inoltre denunciato il trattamento riservato ai detenuti. "Nelle prigioni che abbiamo visitato i detenuti vivono in condizioni non dignitose", ha dichiarato Mendez. Medio Oriente: ergastolo a minore israeliano che bruciò ragazzino palestinese Adnkronos, 5 febbraio 2016 Sono stati condannati uno all’ergastolo e l’altro a 21 anni di carcere due minori israeliani che nel luglio 2014 rapirono un adolescente palestinese, Abu Khdeir, che fu poi picchiato e dato alle fiamme. Il terzo imputato, Yosef Ben David, maggiorenne all’epoca dei fatti, è considerato il principale responsabile, ma per la sua condanna si è in attesa di una perizia psichiatrica. La famiglia di Abu Khdeir ha protestato contro la sentenza, scrive il sito Ynetnews, chiedendo l’ergastolo per entrambi i minorenni. Khdeir, 16 anni, fu rapito in un quartiere di Gerusalemme est dai tre israeliani, che lo presero a caso come atto di vendetta per il rapimento e l’uccisione di tre adolescenti israeliani che aveva sconvolto il paese pochi giorni prima. Brutalmente picchiato, fu poi dato alle fiamme in un boschetto vicino Gerusalemme, in una vicenda che provocò ulteriore choc. La sua famiglia promette ora di ricorrere in appello. E il padre ha aggiunto che dovrebbero demolire anche le case degli imputati, come accade per i palestinesi responsabili di attacchi terroristici. Arabia Saudita: carcere per autore tweet che chiede liberazione detenuti per terrorismo Nova, 5 febbraio 2016 Un cittadino saudita accusato di aver inviato Tweet per chiedere la liberazione dei detenuti imprigionati per reati di "terrorismo", è stato condannato a 10 anni di carcere dal tribunale di Riad. Un tribunale specializzato in reati di terrorismo ha riconosciuto l’uomo colpevole di utilizzare più account Twitter per "invitare a protestare per la liberazione di alcuni detenuti accusati di terrorismo". Il condannato ha inoltre partecipato a una manifestazione per chiedere la liberazione di un prigioniero davanti alla casa di quest’ultimo. Nella giornata di ieri un etiope e un saudita, condannati per omicidio, sono stati decapitati in Arabia Saudita, secondo un comunicato del ministero dell’Interno. Si tratta dell’etiope Khater Dolly Koggi, giustiziato a Riad, e del saudita M’saed al-Shahrani, giustiziato ad Abha. Le due esecuzioni portano a 58 il numero delle persone giustiziate in Arabia Saudita dall’inizio del 2016. Gran Bretagna: l’Onu si schiera con Julian Assange, illegale la detenzione del giornalista di Leonardo Clausi Il Manifesto, 5 febbraio 2016 Quei trenta metri quadrati di Ecuador a Londra restano tutto il suolo libero che a Julian Assange è dato calpestare. Anche ora che ha ottenuto il sostegno ufficiale dell’Onu, il fondatore di Wikileaks resterà nella piccola sede dell’ambasciata del paese latinoamericano dove si è autorecluso da tre anni per sfuggire a un mandato di cattura europeo che dalla Gran Bretagna rischierebbe di condurlo dritto dritto negli Stati uniti via Svezia. Vi resta perché, nonostante la commissione Onu sulla detenzione arbitraria denominata Un Working Group on Arbitrary Detention (Unwgad) con sede a Ginevra e alla quale Assange si era appellato, abbia stabilito che la detenzione dell’attivista australiano sia stata del tutto, appunto, arbitraria, questo verdetto non è giuridicamente vincolante. Le autorità britanniche cercherebbero dunque di arrestarlo lo stesso qualora lui decidesse di uscire dall’ambasciata ecuadoriana, posta non senza ironia a poche centinaia di metri da quella Standa per l’1% che sono i grandi magazzini Harrods, a Knightsbridge, e dove si era rifugiato per chiedere asilo politico all’Ecuador. Londra è di certo seccata: ha speso 15 milioni di euro per sorvegliare costantemente la sede diplomatica di Quito dove si era rifugiato Assange; e dopo averla sospesa, lo scorso ottobre, ha continuato una vigilanza a scartamento ridotto. Scotland Yard ha confermato che, se cercherà di lasciare l’appartamento, il fondatore di Wikileaks sarà certamente arrestato, mentre una dichiarazione del ministero degli Esteri puntualizza come Assange non sia affatto detenuto, bensì abbia scelto deliberatamente di non lasciare l’ambasciata per sfuggire all’arresto e all’estradizione in Svezia, dove da sei anni intendono interrogarlo su accuse di stupro mossegli da due cittadine svedesi. Alla vigilia della pubblicazione del rapporto della commissione Onu - è stato inviato a Londra e Stoccolma lo scorso 22 gennaio e sarà pubblicato venerdì - l’attivista aveva annunciato che si sarebbe lasciato arrestare uscendo dalla sede diplomatica entro mezzogiorno se il gruppo di lavoro Onu, al quale si era rivolto nel 2014 denunciando il costo fisiologico del vivere senza luce solare e aria fresca per un periodo così prolungato, si fosse pronunciato contro di lui. Ma anche che, in caso contrario, si aspettava di vedersi restituire il passaporto e di poter lasciare indisturbato l’ambasciata. Pur non vincolante, il peso morale della commissione Onu sarà difficile da ignorare: fondata nel 1991, si è pronunciata contro altri casi di violazione di diritti umani di alto profilo in Arabia Sudita, Iran e altri paesi deficitari quanto a diritti umani, tra cui la detenzione dell’attivista politica di Myanmar Aung San Suu Kyi. Che si pronunci contro due democrazie liberali europee come Svezia e Gran Bretagna è di per sé abbastanza eccezionale. Va aggiunto che sia Londra, sia Stoccolma hanno fornito alla commissione tutta le rispettive documentazioni del caso. Sul capo del fondatore di Wikileaks, segnato dalla carenza acuta di vitamina D, dall’agosto del 2010 pende un mandato d’arresto da parte della giustizia svedese. Non solo fu spiccato in prossimità della pubblicazione dei ben noti cablogrammi diplomatico-militari americani sulla guerra in Afghanistan, l’apertura di un vaso di Pandora che provocò un putiferio: le autorità svedesi hanno sempre insistito a non volerlo interrogare a Londra bensì a Stoccolma. Assange, convinto che la Svezia abbia agito su pressione di Washington e che il tutto sia una macchinazione per estradarlo doppiamente, processarlo e fargli fare una fine analoga a quella di Chelsea (già Bradley) Manning, si è ben guardato dall’accettare. John Pilger, giornalista, attivista, connazionale e amico dell’attivista australiano, ha detto ai microfoni della Bbc e di Itv che, pur non dovendovisi attenere giuridicamente, Londra Stoccolma e Washington dovranno ascoltare attentamente il verdetto di quella che a tutti gli effetti è una corte internazionale di giustizia e porre finalmente fine alla "farsesca" detenzione di Julian Assange. È tuttavia probabile che la sua permanenza coatta negli asfittici uffici diplomatici ecuadoriani nella capitale britannica in quello che è un perfetto e inquietante limbo diplomatico continuerà ancora, forse a lungo. Repubblica Ceca: rientrano oggi i cittadini sequestrati in Libano, Fajad ancora detenuto Nova, 5 febbraio 2016 Rientrerà oggi in Repubblica Ceca l’aereo governativo giunto in Libano per riportare a casa i 5 cittadini cechi, rilasciati martedì scorso dopo un sequestro durato 6 mesi. Il cittadino libanese in stato d’arresto Ali Fajad è invece ancora Praga sotto custodia delle forze dell’ordine. Secondo informazioni diffuse dalla stampa ceca e libanese i 5 faranno ritorno in Repubblica Ceca oggi in serata per permettere alle autorità libanesi di concludere gli accertamenti condotti nei loro confronti. Le notizie sono state confermate dal ministro degli Esteri ceco, Lubomir Zaoralek. Il legale di Fajad ha inoltre confermato che il suo assistito è ancora detenuto presso il carcere di Pankrac, a Praga, e ha aggiunto di non disporre di informazioni circa un eventuale rilascio. Le autorità hanno rifiutato di commentare le speculazioni dei media sul possibile scambio tra Fajad e i 5, anche se Zaoralek ha ribadito che Praga non è disposta a trattare con terroristi. Le indagini sul rapimento da parte delle autorità ceca sono ancora in corso e condotte dall’Unità per la lotta alla criminalità organizzata (Uooz). Robert Slachta, dirigente di Uooz, è volato a Beirut per discutere con le forze dell’ordine locali. Anche i servizi segreti libanesi hanno confermato di effettuare accertamenti analoghi. "L’indagine della polizia non permette di avere un quadro dettagliato dell’intera questione, al momento non posso rilasciare dichiarazioni" ha dichiarato il primo ministro Bohuslav Sobotka. Nel frattempo, la stampa ceca sta considerando possibili ripercussioni del caso Fajad tra Repubblica Ceca e Stati Uniti. Fajad infatti, condannato per cooperazione a terrorismo internazionale, avrebbe dovuto essere estradato negli Usa. Washington ha mostrato grande interesse per Fajad in merito ai suoi coinvolgimenti nell’ambito del narcotraffico e contrabbando di armi. "In realtà non riesco a immaginare che la parte ceca non abbia informato gli Usa circa lo scambio di Fajad con i 5 rapiti. Soprattutto dopo che gli Stati Uniti hanno concesso l’estradizione in Repubblica Ceca di Kevin Dahlgren, una mossa inaudita da parte loro", ha commentato ieri lo specialista di sicurezza ed ex membro dei servizi segreti cechi Andor Sandor. Secondo le supposizioni di Sandor il rilascio di Fajad potrebbe causare una reazione negativa degli Stati Uniti.